Alcune pagine

Transcript

Alcune pagine
QUADERNI DI INDOASIATICA
PRALAYA
LA FINE DEI TEMPI NELLE TRADIZIONI
D’ORIENTE E D’OCCIDENTE
A cura di Stefano Beggiora
VAIS
QUADERNI DI INDOASIATICA
A cura della VAIS
Venetian Academy of Indian Studies – Accademia Veneta di Studi Indiani
Direttore della Collana
Gian Giuseppe Filippi, Università Ca’ Foscari Venezia
Comitato scientifico
Ester Bianchi, Università degli Studi di Perugia
Thomas Dähnhardt, Università Ca’ Foscari Venezia
Fabrizio Ferrari, Chester University
Subrata Mitra, Heidelberg Universität
Angelo Scarabel, Università Ca’ Foscari Venezia
Fabian Sanders, Università Ca’ Foscari Venezia
Collaborazione editoriale
Chiara Stival
Ideazione e realizzazione grafica
Silvia Stival
© VAIS
c/o Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea, Università Ca’ Foscari, Venezia.
www.vais.it
È vietato riprodurre contributi, informazioni e immagini, completamente o in parte. Se interessati
contattare la segreteria VAIS.
Gli autori sono responsabili del contenuto dei loro contributi.
© 2014 NOVALOGOS EDIZIONI
[email protected]
www. novalogos.it
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-97339-34-2
INDICE
PRALAYA LA FINE DEI TEMPI NELLE TRADIZIONI D’ORIENTE E D’OCCIDENTE
Stefano Beggiora
Prefazione
9
Gian Giuseppe Filippi
La dottrina metafisica hindū sulla fine e i suoi fraintendimenti
19
Monia Marchetto
Congiunzioni cosmiche di fine ciclo nei testi di tradizione hindū
39
Guido Zanderigo
Dal Kalkin all'estinzione dei mondi: dei molti inizi e delle molte fini
55
Giovanni Torcinovich
La dissoluzione dell’universo e la Liberazione:
Brahmāṇḍamahāpurāṇa, III, 1-113
79
Stefano Beggiora
Apocalypse now: il cuore di tenebra dell’India tribale
101
Ester Bianchi
La fine dei tempi nel Buddhismo cinese medievale:
declino del dharma, avvento di Maitreya e salvezza degli eletti
in Faxian e in altre fonti coeve
137
Angelo Scarabel
Intorno ad alcuni versetti coranici sulla fine dei tempi
151
Thomas Dähnhardt
Morte, caos, distruzione e resurrezione: i segni dell’Ora
nelle principali fonti della Tradizione islamica
171
Pietro Mander
Sulla questione dell’assenza dei cicli cosmici
nella documentazione cuneiforme
199
Emanuele M. Ciampini
Fine dei tempi o nuovo inizio?
La percezione egizia dei limiti del creato
223
Salvatore Giuseppe Sorisi
La fine del mondo o la fine di un mondo?
Escatologie a confronto: le religioni occidentali e le dottrine
orientali dei cicli cosmici
245
Patrizia Tedesco Busetto
Prometeo: un mito di passaggio d’età
279
Boghos Levon Zekiyan
Le tensioni nell’evoluzione della società umana
e il compimento dell’Eschaton
nella visione storica di Movsēs Chorenatsi
309
Gian Luca Tenuti
“Tempi che non tornan più”: apocalittica e spiritualità
nel messianismo russo
325
Piero Capelli
Idee ebraiche della fine nella tarda antichità
351
Marco Giardini
Fondamenti dottrinali della profezia dell’ultimo imperatore
379
Luca Bragaja
Dante apocalittico?
Le figure del Tempo nella Commedia
403
Lorenzo Gobbi
Il Millenarismo
437
Ulrike Kindl
La fine del tempo e nessuna promessa: il funesto mito germanico
451
Enrico Comba
La fine di un mondo: politica e cosmologia nella Ghost Dance
degli Indiani delle Pianure
475
Autori
497
PREFAZIONE
F
in da tempo immemorabile, tutte le grandi culture della terra
hanno concepito l’idea, trasmessa poi di generazione in generazione attraverso tradizioni che potevano essere scritte od
orali, di un compimento, di una conclusione dall’epoca attuale: ‘l’età
del ferro’, ‘l’era oscura’, ‘il kali yuga’, ovvero il periodo caratterizzato
dalla presente umanità. Partendo dal presupposto che il ciclo umano
aveva avuto un suo inizio, celebrato nei miti cosmogonici, nelle leggende delle tribù, nella memoria di ciascuna comunità umana, la
concezione stessa del tempo che ne consegue comportava – e comporta ancor oggi presso le civiltà viventi – anche la necessità di una
fine. Comunque sia concepita questa conclusione, come compimento
dei tempi, come fine di un mondo, come un diluvio di fiamme e di
piogge, come una guerra finale con la ricomparsa degli eroi del passato o sotto altre forme, essa è descritta alla stregua d’un drammatico avvenimento, una vera e propria punizione collettiva, la purga
dell’umanità da cui solamente i giusti alla fine saranno risparmiati e
traghettati verso un nuovo mondo purificato. Tuttavia l’inquietante
successione di segni dei tempi che anticipano la catastrofe finale
possono essere correttamente interpretati solamente dai giusti o dagli spiriti eletti. Viceversa, tutte le storture e anomalie sono considerate in forma rovesciata e positiva da coloro che non saranno in grado di trascendere le barriere dello spazio e del tempo, facendosi così
QUADERNI DI INDOASIATICA, [9-18]
STEFANO BEGGIORA
complici dell’ignoranza e della violenza personificate che scateneranno la Fine.
In Occidente, l’idea della fine del mondo è avvertita forse in maniera più drammatica in quanto il tempo stesso è percepito come insistere lungo una linea retta: dal principio, o cosmogonia, si sviluppa
insistendo lungo una direzione specifica, che consiste in ciò che i
Greci chiamavano eschaton, “fine”. In Oriente il tempo è un concetto
ciclico, ricorsivo, meglio ancora spiraliforme, la fine di un’epoca è il
preludio di una successiva. Tuttavia, a sua volta, la sequenza delle
dissoluzioni (i pralaya del mondo indiano) prelude alla fine di un intero ciclo maggiore (il mahāpralaya).
All’alba del terzo millennio, siamo dunque consapevoli di trovarci
ancora una volta in un’epoca di grande insicurezza, caratterizzata
ormai da uno stato di crisi pressoché permanente. Dopo l’effimero
compiacimento circa la caduta del comunismo sovietico, il dramma
dell’epoca presente sta nel non aver trovato soluzione alle storture
intrinseche del capitalismo, avvallando un sistema globale che ha
condotto a enormi squilibri, nonché i mercati alla crisi economica
totale. È evidente che anche molti dei paesi del Terzo Mondo, coloro
che soffrirono il colonialismo, molti di quelli che ancora oggi incensano la loro posizione ‘non-allineata’, all’alba del nuovo millennio
non sono tuttavia riusciti ad indicare una concreta alternativa. In un
momento in cui ‘la crisi della democrazia’ suona ai nostri orecchi
quasi alla stregua di un refrain ormai abusato, i confini politici creati
in un secolo di guerre e conflitti, anche religiosi, si sgretolano pressoché ovunque. In questo angoscioso periodo di sbandamento culturale e di sconvolgimenti etnici e sociali si sente spesso parlare della
fine del mondo, di catastrofi, di declino dell’umanità. In quella che
per molti è un’epoca di vuotezza intellettuale – forse prima in occidente che in oriente, ma la tendenza è globale – molti movimenti
new age e le numerose pseudo-religioni si sono impadronite di questo
argomento dando adito alle più disparate paure millenaristiche. Per
questi gruppi la descrizione di un cataclisma cosmico in questo caso
è spesso tracciata come una dolce transizione verso un mondo migliore. In esso tutta l’umanità si trasferirebbe per godere, in una rinnovellata età dell’oro, i risultati positivi di non si sa quali meriti. Del
resto la propensione di molti singoli è quella fuggire da un mondo
10
PREFAZIONE
divenuto incomprensibile e incontrollabile, pertanto alcuni trovano
vacuo rifugio in un bizzarro assortimento di credenze la cui forza risiede proprio nella loro intrinseca irrazionalità.
Molte tradizioni hanno infine descritto la comparsa di un nuovo continente, la discesa della città celeste sulla terra, l’inizio d’una nuova generazione dedita alla ricerca della saggezza e della pace, la trasmutazione del vecchio uomo in un essere angelicato e l’avvio di una nuova
civiltà a diretto contatto con i voleri di Dio e con la frequentazione degli déi-angeli-spiriti, a riparo dalla menzogna e dall’egoismo.
Se lasciamo in sospeso per un attimo la constatazione – sicuramente fondata e che avremo modo di sviscerare nel presente libro – che
l’ansia escatologica si faccia maggiormente presente nei momenti di
crisi del sociale, ebbene, quello che ci pare il nocciolo della questione
è che in ogni caso con la fine del mondo le diverse tradizioni hanno affrontato l’interrogativo che più d’ogni altro attanaglia l’uomo cercando di offrire, ciascuna secondo il proprio ambito dottrinale, la
prospettiva ultima e più elevata al senso della vita.
È sull’onda di queste considerazioni che la Venetian Academy of Indian Studies (VAIS) si è proposta di organizzare un convegno1 per
stimolare un confronto e un approfondimento comparato tra le dottrine che riguardano la fine dei tempi e il rinnovamento del mondo
come descritte dalle maggiori tradizioni e religioni. Tuttavia il presente volume non costituisce quella che di consueto è la pubblicazione degli atti dell’evento passato, ma si tratta di un prodotto assolutamente nuovo, frutto di questi mesi di studio, di scambio costante
di prospettive e suggestioni, durante quello che per noi è stato una
sorta di laboratorio di ininterrotto dibattito. Se è vero che abbiamo
perso per strada qualcuno dei vecchi partecipanti, degli amici e colleghi assorbiti in progetti accademici nazionali e internazionali, è
anche vero che l’idea del presente progetto ha coagulato attorno a sé
1
Convegno Nazionale “Estinzione del mondo o chiusura d’un ciclo? La fine dei
tempi nelle tradizioni d’Oriente e d’Occidente”, Chiostro di San Fermo, Verona,
14–16 Giugno 2013, in collaborazione con: Museo Diocesano d’Arte S. Fermo Maggiore, Istituto Superiore di Scienze Religiose di Verona, Dipartimento di Studi
sull’Asia e sull’Africa Mediterranea (DSAAM) – Università Ca’ Foscari di Venezia;
con il patrocinio del Comune di Verona.
11
STEFANO BEGGIORA
l’interesse e l’apporto nuovo di esperti, docenti e ricercatori che
hanno voluto partecipare con il loro contributo.
È dunque in modo tradizionale che vogliamo presentare di seguito
il lavoro di questo nuovo team e gli argomenti che saranno trattati
nel presente volume, senza tuttavia voler anticipare nulla dei contenuti di quella che possiamo assicurare sarà un’avvincente lettura.
L’ordine degli temi non segue un iter cronologico o ancora meramente alfabetico, ma si è scelto di inanellare le ricerche dei vari autori
intessendo una trama tematica, che seguendo il filo del logico discorso, si muova attraverso le culture e le aree geografiche di pertinenza
dei nostri esperti: dalle tradizioni hindū del Subcontinente indiano,
alla Cina e il buddhismo, dal mondo islamico, ai documenti antichi
dell’area mesopotamica e dell’Egitto, fino a giungere alle tradizioni
d’Occidente, a partire dalla cultura greca fino all’escatologia dei monoteismi cristiano ed ebraico, passando attraverso l’Armenia e la
Russia, e ancora i cicli mitologici nordici e germanici, concludendo
infine con le tradizioni degli indiani d’America.
Il nostro incredibile viaggio incomincia dunque in India con Gian
Giuseppe Filippi che, dopo una breve introduzione sulle tematiche
generali della raccolta, illustra la concezione tradizionale del tempo
nel mondo hindū. Le ere cosmiche, gli yuga, i manvantara e i kalpa, si
susseguono, alternandosi a periodici pralaya, momenti di dissoluzione, incessantemente lungo la voluta a spirale della concatenazione
temporale; un processo ciclico, ma mai uguale a sé stesso, laddove
solo il saggio è in grado di uscire dal tempo attraverso un cammino di
conoscenza. Prendendo le mosse dalla teoria dei cicli cosmici, Monia
Marchetto entra nel vivo dell’argomento analizzando sulla base di
un’accurata analisi di fonti letterarie classiche, la dinamica della fine
del ciclo, il kali yuga, l’epoca oscura, il rovesciamento dell’ordine. Ed
è descritto non solo un mondo di violenza, ma d’ignoranza e decadenza; la caratteristica della fine dei tempi è il capovolgimento dei
costumi: l’abbandono di tutto ciò che è sacro in favore, non tanto del
profano, ma diremmo addirittura di tutto ciò che è anti-sacro.
L’articolo è corredato nella sua conclusione da alcune considerazioni
di ordine astronomico e astrologico del capitano Manuel Martin HoeHoefer,
fer studioso di jyotiṣa, ovvero la scienza tradizionale indiana che
esplora appunto il cosmo e le sue dinamiche astrali. Illuminante una
12
PREFAZIONE
serie di considerazioni sul calcolo della precessione degli equinozi,
già introdotta nel capitolo d’apertura, ovvero il lento movimento di
orientamento dell’asse di rotazione terrestre rispetto al ‘cielo delle
stelle fisse’; molte popolazioni antiche risulta che fossero a conoscenza di questo ciclico movimento e riuscissero a calcolarlo con una
buona approssimazione da cui, come si vedrà in seguito, l’idea tutto
sommato comune del reiterarsi dei cicli cosmici. Giunti dunque al
culmine della manifestazione ciclica degli yuga, Guido Zanderigo ci
conduce attraverso una panoramica di riferimenti letterari (in particolare il Kalki Purāṇa) sulle tracce della figura del Kalkin, l’avatāra definitivo, il ‘distruttore dell’ignoranza’, il Rājā di Śambhala, ovvero la
discesa del divino destinata a chiudere il ciclo temporale nella battaglia cosmica finale. Nel seguente articolo invece si prende in esame un
passo specifico tratto ugualmente dal corpus purāṇico, la letteratura di
commentario che, indipendentemente dalla data di composizione, si
sforza in India di sistematizzare la tradizione sacra dell’induismo.
Gianni Torcinovich seleziona all’interno del Brahmāṇḍamahāpurāṇa –
il celebre purāṇa maggiore che illustra la manifestazione dell’universo
e del suo divenire dall’Uovo cosmico di Brahma che giace sull’oceano
primordiale – il capitolo terzo detto della ‘dissoluzione dell’universo’, di
cui si propone una traduzione pressoché integrale arricchita da una serie di note e commenti dell’autore, che pone particolare accento sulla
dottrina della dissoluzione in termini macrocosmici e microcosmici. La
lunga sezione dedicata all’India si conclude infine con il nostro personale
contributo più orientato verso la storia contemporanea e l’antropologia.
Il saggio del prefatore si propone di esplorare le idee della fine del tempo
e del suo rinnovamento presso le tradizioni sciamaniche degli ādivāsī,
ovvero gli aborigeni d’India. Qui s’osserva però che l’idea tradizionale della fine è sottoposta ormai al rischio della fine oggettiva di queste culture dimenticate. La modernità, ma soprattutto lo sfruttamento indiscriminato del territorio e le dinamiche della globalizzazione
hanno portato anche nel cuore dell’India tribale aspri conflitti e una
guerra poco nota, ma dai risvolti inquietanti e destabilizzanti per
l’intero Subcontinente.
Assieme a Ester Bianchi ci spostiamo dunque verso la Cina: idealmente seguiremo le tracce di Faxian, il celebre monaco pellegrino
del V secolo, che instancabile si recò dalla Cina all’India e viceversa
13
STEFANO BEGGIORA
per visitare i luoghi del Buddha, ma soprattutto per recuperare le sacre scritture del canone buddhista che attraverso le traduzioni cinesi
diffonderanno il dharma al di fuori del Subcontinente. L’autrice ci
propone quindi una visione della fine del ciclo temporale secondo
testi cinesi medievali, in Faxian e altre fonti coeve, alla cui traduzione
ha molto lavorato in questi ultimi anni. L’avvento del Buddha dell’era
futura, Maitreya, che equivale al Kalkin della tradizione hindū, pur nel
contesto fosco e catastrofico dell’estinzione del dharma segnerà la salvezza del popolo degli eletti.
La tradizione islamica è rappresentata da un paio di contributi
complementari, opera di Angelo Scarabel e Thomas Dähnhardt,
Dähnhardt che
giustappunto s’incastrano l’uno nell’altro come un perfetto ingranaggio teoretico. Nel primo troviamo un orientamento decisamente
dottrinale, Scarabel introduce alcuni commentari a versetti coranici
suddividendo fra tradizione essoterica islamica e ambito inziatico,
proponendo circa la fine dei tempi un’accattivante chiave di lettura
e analogie nel simbolismo esoterico che si ritrovano in correnti diverse e contigue il mondo musulmano. Il saggio di Dähnhardt invece illustra i diversi e terrificanti aspetti dei segni dell’avvicinarsi dell’Ora fino agli eventi del compiersi dei tempi: l’avvento dell’Impostore (alDajjāl), l’Anticristo della tradizione islamica – oltre che l’apparizione
di Gog e Magog e il ritorno di Gesù figlio di Maria – la battaglia finale,
il caos e la distruzione, ma anche la salvezza dei giusti nel giudizio
finale. In un’epoca in cui anche nell’islam si moltiplicano i molti movimenti messianici e millenaristi, le numerose fonti e gli ḥadīṯ proposti sono analizzati nell’ottica di fare chiarezza su di un tema che ha
enorme importanza nella tradizione musulmana.
Contiguamente, quantomeno per ambito geografico, il nostro viaggio continua con Pietro Mander che facendo cronologicamente un
passo indietro ci conduce nell’antica Babilonia. Per quanto Berosso,
sacerdote di Bel Marduk e astronomo babilonese in epoca tarda avesse evocato la fine del mondo a seguito dell’allineamento dei pianeti
attraverso una terribile tempesta di fuoco, l’autore intende esplorare
le fonti più antiche della documentazione cuneiforme alla ricerca di
una dottrina dei cicli cosmici e della loro potenziale fine, tanto attraverso l’interpretazione del simbolismo mitologico assiro-babilonese,
quanto in chiave più puramente metafisica. Passando poi da bacino a
14
PREFAZIONE
bacino fluviale, che furono la culla delle prime civiltà umane, scendendo idealmente lungo il corso del Nilo, assieme a Emanuele CiamCiampini giungiamo alle sabbie dell’antico Egitto. La dimensione del deserto, del caos esterno che si contrappone all’ordine faraonico della
civiltà, del tempio e della regalità, disegna la cosmologia di questa
antica terra. Ciampini ci descrive la dimensione dello spazio e del
tempo all’epoca dei faraoni, attraverso la traduzione di colofoni e
manoscritti su papiro. Le connotazioni apocalittiche d’epoca tarda si
sfumano vieppiù in epoca alessandrina in cui la nuova era sarà salutata come il ripristino di un nuovo ordine.
Pietra miliare, è il caso di dirlo, della nostra raccolta è il contributo
di Salvatore Giuseppe Sorisi,
Sorisi che con il suo confronto fra religioni
occidentali e dottrine orientali costituisce la chiave di volta fra la
prima e la seconda parte del libro. Sorisi suddivide le escatologie occidentali dei monteismi – ebraismo, cristianesimo e islam – dalla tradizione orfico-pitagorica e platonica che per le visioni e simbolismo spaziale e temporale sembra accostarsi alle dottrine hindū. Di grande interesse il tema del confronto fra la ‘resurrezione di luce’ e la cosiddetta
‘resurrezione della carne’, interpretata come una semplificazione essoterica di più antiche dottrine d’Oriente, concezione nota ai mistici e
a una certa patristica orientale e poi venuta meno a seguito della disputa con la teologia. Molti altri aspetti interessanti alla luce di un
confronto fra le dottrine hindū e la cultura greca classica sono evidenziati da Patrizia Tedesco Busetto che propone un saggio veramente
ricco di rimandi e affinità simboliche costruite attorno alla figura di
Prometeo. Il titano che sfidò gli dei, che donò all’umanità il dono maligno del fuoco (ma che permise loro “di aprire gli occhi e di vedere”),
incatenato alla rupe inclina con il suo peso l’asse del mondo, proiettando il suo supplizio nel ciclo temporale cosmico della precessione
equinoziale che, come abbiamo visto più sopra, sta alla base di molte
concezioni cosmologiche ed escatologiche nelle culture dell’uomo.
Boghos Levon Zekiyan presenta invece una riflessione colta sull’opera
di Movsēs Chorenatsi uno degli autori più discussi e dibattuti della
letteratura dell’Armenia, ma contemporaneamente considerato il
padre della sua storiografia. Il concetto di escatologia nella sua accezione di fine, ma anche con le sue dinamiche di rinnovamento, con la
sua potenzialità implicita di rinascita è qui applicato alla Storia e in
15
STEFANO BEGGIORA
particolare alla storia del popolo armeno: dalla divisione del Regno
d’Armenia che prelude a una fine già chiaramente annunciata,
all’idea del suo rinascimento culturale (la creazione dell’alfabeto e di
una grande cultura letteraria). Qui Zekiyan ci propone una riflessione
sui temi di ethnos, nazione ed altri fenomeni sociali in relazione alla
loro effettiva sacralità e ai condizionamenti religiosi. Dall’Armenia
passiamo velocemente alla Russia, dove Gian Luca
Luca Tenuti dipinge un
ambiente spirituale dal carattere profondamente messianico. Tale
messianismo, così come emerge dai molti riferimenti alla letteratura,
sarebbe un attributo implicito nel dualismo della popolazione, da cui
l’inclinazione apocalittica stessa risulta uno degli estremi in cui si lacera l’anima russa. Del resto il millenarismo fa parte delle tendenze
religiose che si incentrano sulla fine, dunque la “ricerca dei tempi
che non tornano più” è la ricerca presso lo stesso “substrato etnico”
di restituire valore alla prospettiva escatologica, che anche la chiesa
ortodossa aveva relegato ormai ad un indefinito futuro. Interessantissima la digressione sui movimenti e le sette locali, quali i Christovovery (Credenti di Cristo) e i Chlysty (Flagellanti), praticanti il culto di
una religiosità di natura estatica.
Il saggio successivo ci porta assieme a Piero Capelli ad esplorare alcuni risvolti dell’apocalittica nella grande tradizione ebraica. Prima
di addentrarsi nella ricca messe di citazioni tratte dalle numerose
traduzioni che l’autore ha eseguito dalle fonti bibliche, pseudepigrafiche e rabbiniche, una breve introduzione ci ricorda come l’apocalittica
affianchi la cosmologia e l’escatologia tradizionale facendosi categoria del pensiero umano nell’epoca in cui si verifichino crisi istituzionali e sociali o, come già sottolineato da vari altri autori, quella tradizione sia andata perduta. Segue in tale senso una panoramica attenta della letteratura ebraica dal periodo della dominazione persiana, di quello ellenistico e romano, alla religiosità della diaspora, alle
moltissime fonti del periodo di formazione dell’ebraismo rabbinico.
Restando in tema biblico, si ritorna in ambito cristiano con Marco
Giardini che ci illustra un enigmatico passo della seconda lettera ai Tessalonicesi in cui si fa riferimento a una misteriosa entità, detta catéchon
che sarà chiamata a trattenere l’abominio apocalittico. Questo sarà destinato ad essere infine rimosso per lasciare che s’avveri la manifestazione ultima della fine dei tempi, attraverso l’avvento dell’Anticristo e la
16
PREFAZIONE
realizzazione la del mysterium iniquitatis. Attraverso un indagine fra le
interpretazioni della patristica, i testi canonici e una certa letteratura
extra-biblica Giardini interpreta l’antica profezia dell’Ultimo Imperatore attraverso l’escatologia cristiana medievale.
Luca Bragaja invece ci conduce attraverso una disamina densa, affascinante e sicuramente alquanto complessa dei segni della fine dei
tempi nell’opera di Dante. Riconoscendo da un lato che non esistano
immagini esplicite della ‘fine’ nella Commedia, ma di una sorta di maturazione dello spirito, di fruttificazione del tempo stesso, di un rinnovellarsi dell’eterno che ci attende, Bragaja si muove fra simbolismo (la Bestia, l’albero cosmico, la ruota del cielo), articolate numerologie e ‘vere profezie’. Queste immagini della Commedia quindi richiamano – attraverso un perfetto meccanismo che sembra contenerla
tutta – la letteratura sacra e la tradizione esegetica, che schiude implicitamente il finale compiersi del Tempo.
Lorenzo Gobbi nel suo saggio osserva come la storia cristiana è stata spesso costellata da movimenti di carattere millenaristico, chiliastico ed escatologico. Dopo una panoramica storica che muove dalla
distinzione fra escatologia in senso teologico e millenarismo di tipo
apocalittico, si dimostra come quest’ultimo a più riprese sopito abbia
avuto la forza di riemergere in chiave critica nei confronti del cattolicesimo. Un atteggiamento cauto, ma a tratti anche ambiguo è quello della Chiesa nei confronti della nuove sette, delle innumerevoli
apparizioni mariane, che sono espressione del riemergere del millenarismo nel mondo contemporaneo, espressione dell’inquietudine
del presente, desiderio di protagonismo dei singoli nel divenire di
una società oggi in evidente crisi.
Con gli ultimi due articoli cambiamo decisamente panorama, puntando verso culti che definiremmo ‘primordiali’. In questi ambiti
sembrerebbe che l’escatolgia strictu sensu svolgesse un ruolo minore
in quanto generalmente basata sulla nozione di un rinnovo ciclico a
breve termine, laddove aspettative messianiche sono spesso frutto di
influenze cristiane, occidentali o ancora culti di crisi come abbiamo
visto più sopra. Tuttavia non bisogna generalizzare in quanto il simbolismo espresso presenta risvolti inaspettati.
Secondo la mitologia germanica, narrata nell’Edda e nella Volöspá, il
termine dei tempi è indissolubilmente legato alla distruzione finale,
17
STEFANO BEGGIORA
un universale cataclisma chiamato Ragnarök, il ‘Crepuscolo degli Dei’.
Durante quest’evento vi sarà un successione d’inverni terribili accompagnati da una generale corruzione dei costumi, che più che essere il motivo della catastrofe finale ne saranno gli ineluttabili segni
precursori. Il lupo Fenris inghiottirà il sole, il cielo si spaccherà in due
e il sacro albero Yggdrasill, l’asse del mondo, sarà scosso, gli dei
s’affronteranno in battaglia e il fuoco inghiottirà tutto. Ulrike Kindl
Kindl ci
conduce attraverso i simboli di questa visione terribile costruendo
un’arguta riflessione: la possibilità che tale destino totale sia seguito
da un nuovo inizio non è qui che una vaga indicazione, da leggersi
forse come un ascendente di origine cristiana o ancor peggio di un
inganno atroce il cui segreto è custodito nei versi del mito germanico.
Infine l’ultimo saggio della raccolta è una ricostruzione appassionata e struggente, condotta con un rigore che definiremmo al contempo storico e antropologico da Enrico Comba,
Comba dell’avvento della Ghost
Dance tra gli indiani d’America, per la precisione tra le tribù Lakota.
La “Danza degli Spiriti” appariva come una visione escatologica di
origine settaria che l’uomo bianco faticava a comprendere poiché
esprimeva il tentativo di resistenza di un popolo sconfitto. La fine del
mondo era da intendersi qual fine dell’uomo bianco e il ritorno dei
morti – uomini e animali, cioè antenati e bisonti – simboleggiava il
ritorno di un ordine che l’intolleranza e la repressione statunitense
aveva contribuito ad estinguere. Ricollegandosi in un certo senso
all’articolo sugli ādivāsī d’India, Comba ci ricorda come per molti popoli della nostra era la ‘fine dei tempi’ sia già irrevocabilmente giunta relegando quelle culture al silenzio della storia. In altri casi la lotta
per la sopravvivenza è ancora in corso e molte popolazioni indigene,
ciascuna attraverso la propria ‘Danza degli Spettri’, gridano al mondo la propria identità e desiderio di rinascita.
Stefano Beggiora
18
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE E I SUOI FRAINTENDIMENTI
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
L
o scopo principale di questo volume è stato quello di mettere a
punto una corretta concezione su ciò che volgarmente si suole
definire ‘fine del mondo’ o ‘fine dei tempi.’ Si è anche voluto
così reagire in qualche modo alla grande pubblicità che i media mondiali hanno voluto prestare alla pretesa profezia del calendario maya,
pseudo profezia che i mesoamericanisti di tutto il mondo hanno confutato sul nascere. Naturalmente quegli specialisti sono rimasti inascoltati, mentre venivano offerti vasti spazi soprattutto televisivi alle
elucubrazioni grottesche di perfetti sconosciuti che sostenevano esser il 21 dicembre 2012 la data prevista per la fine del vecchio mondo
e l’inizio di uno nuovo. Da parte nostra la scelta dell’argomento non
è stata motivata affatto dal banale scetticismo nei confronti del sacro, tipico di quel manipolo di scienziati che la televisione ha selezionato con i suoi discutibili strumenti basati sull’audience, e che
c’impone quotidianamente, ma spinti dal desiderio di esporre le interessanti dottrine elaborate dalle diverse tradizioni e civiltà. Si avrà
così modo di verificare che queste dottrine, esposte generalmente in
forma mitica e simbolica, ben lungi da rappresentare visioni ‘apocalittiche’1 dettate dalla superstizione, come certa divulgazione scienti1
Poniamo tra virgolette l’aggettivo apocalittico per sottolineare l’uso impreciso che
d’ordinario se ne fa nel linguaggio parlato. Apocalisse non signfica affatto “fine dei
QUADERNI DI INDOASIATICA, [19-38]
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
fica diffonde, trattano invece l’argomento della fine con un’obiettività e un rigore sorprendenti.
La fine dei tempi è contemplata presso tutte le tradizioni, religioni
e civiltà della nostra umanità, correlata da complesse dottrine sulla
natura del tempo tra loro anche piuttosto differenziate, dovendosene affrontarne lo studio dall’interno delle loro categorie gnoseologiche: tuttavia ciò che sbalordisce è la universale convergenza su quelli
che con bella espressione evangelica si definiscono i segni dei tempi. A
questo fine abbiamo voluto far confluire in questo volume i contributi degli specialisti italiani di tradizioni, religioni e civiltà, per
esprimere la loro scienza sull’argomento. Naturalmente, considerati
i fini primari della nostra Accademia Veneta di Studi Indiani e la
straordinaria abbondanza e complessità di riferimenti su questo argomento che si riscontrano nei testi sacri dell’India, l’apporto degli
indologi è stato considerato particolarmente fondamentale.
Prima di addentrarci nei rarefatti ambiti della concezione temporale dell’Induismo, e rimanendo ancora un po’ nel generale, ci si lasci
riflettere sull’attitudine di estrema cautela, di segreto e di reticenza
che i sacerdoti o, in ogni caso, i detentori della conoscenza, hanno
mostrato nel trattare questo argomento, considerato pericoloso per
la curiosità morbosa e per l’attrazione verso il proibito da parte del
mondo profano. Tale attrazione, oltre a indurre le masse a vivere in
un clima di apprensione, d’insicurezza e, talora, persino di terrore,
fomenta fanatismi, sollecita tensioni sociali, ingenera una chiara tendenza al settarismo e, di perciò stesso, spinge alla fuga dall’ortodossia.
Per evitare che chi non abbia sufficienti forze discriminative possa
trovare la sua patologica ragione di vivere nella ricerca di segni dei
tempi e nella divulgazione sconsiderata di ciò che considera verità
evidenti, il sacerdozio ha ammantato la dottrina della fine dei tempi
di simboli di difficile interpretazione, costruendone attorno un labirinto di narrazioni oscure, complicando la simbologia numerica in
modo da scoraggiare i profani ad attribuire una datazione precisa
per gli ultimi avvenimenti. Precauzione quanto mai lodevole e netempi”, bensì rivelazione: perciò nell’uso quotidiano risulta evidente la forzatura di
significato del suo derivato aggettivale.
20
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
cessaria, considerando che anche l’evento grottescamente fallito e
datato al 21 dicembre 2012, come d’altronde altri innumerevoli casi
consimili, è nato, si è accresciuto a dismisura ed è scoppiato come
bubbone in ambienti che nulla hanno a che fare con le religioni tradizionali dell’umanità. Il ‘brodo di coltivazione’ di questi allarmismi
va ricercato in ambienti appartenenti alle tante pseudo religioni, sette, movimenti parascientifici e organizzazioni per la difesa della natura, all’ufologia, alla new age,2 le cui manovre sull’opinione pubblica
godono di potenti coperture certamente non disinteressate, spesso
agendo con l’appoggio di potentissime organizzazioni sovranazionali
di dubbiosa utilità. Tale rete, che ben ha operato anche nel caso che
ci ha offerto l’opportunità d’intervenire, imponendosi sulle prime
2
Alla new age e al movimento acquariano, da cui essa è stata prodotta, si deve il dilagare della credenza che il passaggio dall’era dei Pesci a quella dell’Acquario, che
si sta verificando nel periodo in cui viviamo, rappresenti un dolce trapasso tra un
ciclo e un altro, in alternativa quella fine dei tempi terribilmente descritta dalle
tradizioni antiche. Questa concezione laica della fine, pur basandosi sui dati
d’origine tradizionale della precessione degli equinozi, descrive la fine come un
passaggio indolore a un rinnovato Eden, in cui tutti gli umani, spesso condotti da
falsi guru o da avatāra autoproclamatisi tali, si trasferiscono senza passare attraverso la barriera della morte e indipendentemente dai loro meriti e colpe. Vi è un
chiaro collegamento fra questa concezione di pensiero debole con l’evoluzionismo, con le utopie malthusiane e con il mito del progresso. La differenza tra questa
prospettiva e quella pseudoreligiosa tipica di certe sette chiliastiche d’ispirazione
moralistica giudaico-cristiana, consiste proprio nel fatto che queste ultime sottolineano l’aspetto punitivo della fine; e, proprio considerando che il millenarismo non
è un fenomeno religioso, bensì pseudoreligioso, e quindi portato a confondere lo spirituale con il politico, la visione della fine che esso diffonde è spesso fondato sulla
minaccia di una futura guerra mondiale che verrà a purgare l’umanità dei suoi peccati. Se gli avvenimenti bellici paventati fossero tanto evidenti a tutti, sarebbe incomprensibile l’affermazione per cui “potrebbero essere ingannati persino gli eletti,
se ciò fosse possibile” (S. Matteo, XXIV, 24). La lotta che è prevista per la fine del ciclo dovrà dunque essere lo scontro definitivo tra i difensori della verità e i fautori
della menzogna, piuttosto che un conflitto armato, nucleare o meno, com’è banalmente sostenuto dai profani. In fin dei conti tra le teorie millenaristiche laiche e
quelle pseudo religiose è ben difficile stabilire una linea di demarcazione precisa, ed
entrambi, pur essendo state generate in Occidente, ormai si stanno diffondendo senza riparo in tutto il mondo, influenzando spesso pesantemente ambienti tradizionali
e religiosi che dovrebbero farne da barriera.
21
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
pagine per mesi e mesi in tutto il mondo senza il minimo ritegno e
senso del ridicolo, ha spesso intimidito quelle medesime istituzioni
preposte alla difesa delle dottrine tradizionali. C’è ancora da aggiungere inoltre che i diversi fondamentalismi e integralismi, che al
giorno d’oggi condizionano la vita pubblica di molti paesi, si nutrono
proprio di questi timori. E non mi riferisco solamente ai casi ben noti
degli Stati Uniti e d’Israele, ma anche alla Russia con le recenti affermazioni del suo premier Medvedev, all’Iran di Ahmedinejad e al
Nuovo-Confucianesimo new age, confezionato dal Partito comunista
cinese per la sua espansione imperialista del terzo millennio. Questo
sia detto per far capire l’estensione e il potere che queste tendenze
hanno raggiunto nei decenni ultimi.
Trasferiamo ora la nostra attenzione all’India. Non a quella delle
istituzioni ufficiali, che si dichiara secularist3 e palesemente agnostica, fortemente avversa all’Induismo ancestrale e compromessa con
ogni falso guru, sostenitrice di qualsiasi pseudo religione e pseudo
iniziazione4 per usarle come strumento di distruzione sistematica del
patrimonio sapienziale hindū. Ci si richiama dunque in questa sede
alle dottrine autenticamente tradizionali, quelle che sono state e ancora sono condivise e praticate dalla stragrande maggioranza degli
abitanti del Subcontinente, senza soluzione di continuità negli ultimi
quattromila anni, se non di più. Per rendere con chiarezza qual è il
pensiero dell’Induismo in proposito, faremo uso del metodo utilizzato dalla saggezza indiana, ossia impostando le argomentazioni partendo dalla concezione metafisica del tempo,5 per poi trarne le con3
4
5
L’inglese secularist si può correttamente tradurre con laico. Nel 1286 Giovanni
Balbi nel suo Catholicon così definiva il termine laicus: “Idiota, hoc est extraneus a
scientia litterarum”.
Da qualche decennio è invalso l’uso del termine ambiguo di Neoinduismo per definire l’insieme di queste falsificazioni: esse si riconoscono per la totale assenza di
una trasmissione regolare da maestro a discepolo, guruśiṣyaparamparā, vera garante dell’autenticità della tradizione. Inoltre queste nuove sette si organizzano in
Trusts o Missions, quasi a ostentare la loro struttura ricalcata su modelli finanziari e
proselitistici di ambito anglosassone.
A differenza dello spazio che può essere misurato direttamente, il tempo è calcolato indirettamente per mezzo del movimento di un corpo nello spazio. Da ciò ne
deriva che il tempo è una condizione che caratterizza l’esistenza corporea. In que-
22
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
seguenze cosmologiche. Certo, in apparenza l’argomentazione a favore della necessità della fine potrebbe essere facilmente dimostrabile sostenendo l’asserzione evidente per cui tutto ciò che ha un inizio deve aver consequenzialmente anche una sua conclusione. Tuttavia le cose non sono affatto così semplici e per poter andare a fondo dell’argomento sarà necessario comprendere qual è la concezione
del tempo come si trova nei testi sacri dell’India e, in maniera particolare, nella ṣrūti.
*
*
*
La Śaṅkhayana Āraṇyaka6 afferma che “il Tempo (kāla) unifica lo sviluppo (gati, pravritti), l’inviluppo (nivritti) e la stasi (sthiti)”. Questo
antico testo definisce il tempo come una condizione sintetica, che
unifica in una unicità d’esistenza il passato, descritto qui come uno
sviluppo pregresso di possibilità di manifestazione già attuate; il futuro, considerato ancora in inviluppo, ossia come l’insieme delle possibilità ancora in potenza; e il presente, qui descritto come un attimo
di pausa, di equilibrio, tra le due tendenze complementari e, almeno
in apparenza, opposte del passato e del futuro. Si potrà notare fin
d’ora che l’idea del triplice tempo soggiacente al testo citato è immaginabile come quella di un volumen, uno di quei libri dell’antichità,
che si consultava svolgendolo nella parte non ancora letta e riavvolgendolo nella parte già consultata, mentre la pagina di lettura attuale rimaneva spiegata e ferma a metà tra i due rotoli, l’uno ancora
inviluppato e l’altro già riavvolto. Un passato, dunque, considerato
come una forza avvolgente, un futuro ancora ignoto e avviluppato in
6
sta discussione ci atterremo a questa concezione di tempo, tralasciando altre categorie di durata, avadhi, come per esempio quella che si sperimenta nello stato di
sogno o in altri ancora, in cui la sua misurazione è resa soggettiva per l’assenza
della modalità corporea a cui riferirsi.
ŚĀ, VII. Ed. cr. parziale, pubblicata da A. B. Keith in appendice al suo The Aitareya
Āraṇyaka, New Delhi, Master Pbls., 1981 (I ed. London, 1909), p. 311. Curiosamente
Keith altrove aveva tradotto così: “Il tempo unisce il movimento, l’arresto e la pausa”. T.d.A. Cfr. A. B. Keith (ed.), The Śāṅkhāyana Āranyaka, London, 1908, p. 49.
23
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
se stesso con, nel bel mezzo, il presente attuale nello stato di sviluppo. Già questa idea primordiale ci comunica un andamento spiraliforme della concezione indiana di tempo su cui ritorneremo nel prosieguo. Ciò si ritrova nei testi puranici nella forma mitologica di Śiva
Traykāleśvara, Signore del triplice tempo, che corrisponde all’epiteto ben più noto di Mahākāla attribuito al medesimo dio, ovvero il
Grande Tempo. È ben noto che i tre segni orizzontali che adornano la
fronte divina rappresentano appunto il passato, il presente e il futuro: segni fatti di cenere, in quanto il triplice tempo è incenerito
ogniqualvolta l’occhio frontale dell’eternità si schiude.
Ritornando all’Āraṇyaka citato, dovremo giustificare meglio la ragione per la quale il presente vi sia definito stasi, sthiti. Questa concezione corrisponde all’osservazione della natura per la quale si può
affermare che il “Sole a mezzodì si arresta per un attimo che corrisponde alla metà di un battito di ciglia [nimeṣārdham]”,7 prima di cominciare a declinare verso il meriggio e il tramonto. Lo stesso è stato
affermato di quei due giorni dell’anno in cui il sole smette di alzarsi o
di calare sull’orizzonte al mezzodì, giorni che in latino suonano solstitia, ovvero le soste del sole. È molto interessante che il termine solstizio in sanscrito sia traducibile con due termini tra loro complementari per significato: ayanānta, ovvero la fine dei percorsi del sole;
oppure ayansandhi, punto d’unione dei percorsi solari. “Essendo andato a Nord per sei mesi, esso si ferma finché non declina verso Sud
[…] Essendo andato verso Sud per sei mesi, esso si ferma finché non
s’innalza verso Nord”.8 Questo fenomeno dell’arresto solare è così
spiegato da Coomaraswamy: “Se consideriamo una pietra lanciata in
aria verticalmente, quanto tempo rimane ‘sospesa’ prima di cominciare a cadere? La risposta dipende dal fatto che il lancio verticale di
un corpo che prima si alza per poi cadere non è null’altro che il limite di una traiettoria che, in realtà, è curva. Quando un corpo è lanciato verso l’alto e in avanti allo stesso tempo, anch’esso si alza per poi
tornare a cadere, ma la sua traiettoria è una curva regolare, e in que7
8
Mahābhārata, Pune, B. O. R. I., 1919-1966, XIII, 96, 6. T.d.A.
E. R. Sreekrishna Sarma (ed.), Kauṣitaki Brāhmaṇa, Wiesbaden, F. Steiner, 1968, XIX,
3. T.d.A.
24
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
sto caso non immaginiamo affatto che possa fermarsi e rimanere
immobile nel punto più alto della curva per un tempo minimo. La
medesima cosa accade nel caso di un lancio in verticale: non c’è tempo reale per quanto breve nel quale quel corpo rimanga sospeso, ma
solamente un punto senza durata nel quale il movimento ascendente
e quello discendente, cioè il passato e il futuro, coincidono”.9 Questa
punto di coincidentia oppositorum si esprime in sanscrito con il sostantivo saṃhitā,10 che talora può essere tradotto con unione, se considerato da un punto di vista sintetico e conoscitivo (jñānī), o come composizione, se riferito a una visione analitica e scientifica (vaidya).
Nella prima prospettiva la Śaṅkhhayana Āraṇyaka così s’esprime:
[del tempo si dice che] “il passato (bhūtaṃ) è la sua forma anteriore,
il futuro (bhavyaṃ) è la sua forma posteriore, e il presente (bhavat) è
la sua unione (saṃhitā)”.11 Con ciò s’intende che “se due forze applicate nel medesimo punto hanno la stessa intensità e la stessa direzione, ma in senso contrario, esse si equilibrano, […] basti notare che
tutte le forze naturali, e non soltanto le forze meccaniche […] ma anche le forze d’ordine sottile […] sono o attrattive o repulsive. […] È
facile comprendere che in un ambiente primitivamente omogeneo, a
ogni compressione esercitata su un punto corrisponderà necessariamente una espansione equivalente in un altro punto e inversamente, di modo che si dovrà sempre concepire correlativamente due
centri di forze di cui l’uno non può esistere senza l’altro […] Quando
non si produce né compressione né dilatazione, questo rapporto è
forzatamente uguale all’unità […]; perché due forze agenti su di un
punto siano in equilibrio è necessario che la loro risultante abbia per
coefficiente l’unità”.12 Se dunque il presente è il punto d’unione,
9
A. K. Coomaraswamy, El tiempo y la eternidad, Madrid, Taurus, 1980, p. 25, n. 8 (I ed.
“Time and Eternity”, Artibus Asiae Supplement 8, Ascona, 1947). T.d.A.
10
Sinonimi di saṃhitā sono anche saṃdhi, unione, congiunzione e quiete, termine
usato prevalentemente in grammatica, vyākaraṇa; e saṃdhyā, unione, crepuscolo,
cardine. Non è un caso che i crepuscoli solari considerati nell’astronomia, jiotiṣ,
siano tre: l’alba, il mezzodì, il tramonto.
11
Ciò vale anche per i tempi della coniugazione verbale.
12
R. Guénon, Les principes du calcul infinitésimal, Paris, Gallimard, 1946, VIII ed., pp.
106-107. T.d.A.
25
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
saṃhitā, tra passato e futuro, esso apparirà al nostro intelletto (buddhi)
come una unità in equilibrio tra i due vettori, e per questo l’attimo
fuggente, la metà d’un battito di ciglia, nimeṣārdham,13 per usare il
linguaggio sanscrito, ci risulta l’unico tempo attuale, sospeso, come
la pietra lanciata in verticale, tra un passato che è già stato in atto,
ma che è presentemente esaurito, e un futuro ancora in potenza e
come tale ignoto. L’altro punto di vista, quello analitico, messo in
opera per mezzo della ragione (manas), considera il presente come la
risultante di una tensione tra due forze opposte e quindi parzialmente partecipe del passato e già proiettato nel futuro. Questa prospettiva tende a considerare il presente come privo di estensione e lo rapporta allo zero che nell’algebra separa la sequenza dei numeri positivi da quelli negativi. In realtà lo zero della sequenza algebrica
s’applica esclusivamente alle quantità continue, per cui esso non può
mai essere inteso come un puro nulla. Infatti il flusso temporale non
ammette alcuna interruzione come, analogamente, nello spazio esteso il vuoto deve essere considerato come una pura impossibilità. Il
presente, per quanto istantaneo e fuggevole, deve quindi essere considerato reale, a dimostrazione che l’approccio sintetico attuato
dall’intelletto è veritiero, mentre quello analitico operato dalla mente è ingannevole. Infatti, considerando che il passato è rappresentato
dall’insieme trascorso degli attimi presenti che ci hanno preceduto e
che il futuro è l’insieme degli attimi presenti che ancora non si sono
rivelati, ci si renderà conto che il punto di vista analitico sarà incapace di avere una percezione compiuta di ciò che è il Tempo. O, meglio ancora, chi procede analiticamente non avrà la capacità di sottrarsi ai condizionamenti temporali, prigioniero com’è di un flusso in
continuo mutamento,14 esattamente come chi muovendosi nello spazio non potrà in alcun modo raggiungere i limiti dello stesso.
13
Un battito completo di ciglia, nimiṣa, rappresenterebbe un ciclo temporale intero.
Invece qui si ha in vista la metà di questo ciclo temporale, per quanto breve lo si
possa considerare, ossia il punto intermedio tra di due semicicli, il luogo della
coincidentia oppositorum.
14
Queste considerazioni danno tutta la misura della limitatezza intellettuale del
metodo storico applicato.
26
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
A questo punto ci si potrà rendere conto come attraverso una visione sintetica, il presente rappresenti davvero il punto unico, quello
della stasi, sthiti, che unisce ed equilibra passato e futuro. Per chi è in
grado di concepire il presente in questo modo, il presente diventa
davvero il centro del tempo. Ogni attimo presente è dunque virtualmente il giusto tempo, definito per il macrocosmo come “pienezza
dei tempi”, e, per il microcosmo, come il “mezzo del cammin di nostra vita”.15 Quest’attimo fuggente che il saggio coglie come stasi tra
passato e futuro fa sì che il sole per lui permanga stabilmente fisso al
centro del cielo, allorché il tempo dei profani continua a spingere
l’astro a declinare e a tramontare.16 Infatti per il saggio “quello non è
il sole che tutti gli uomini vedono, ma quel Sole che solo pochi conoscono per mezzo dell’intelletto”.17 Così il sole “[…] una volta che si sia
alzato allo Zenith non ritornerà a spuntare e a tramontare, ma rimarrà (sthātri) al centro […] Per colui che conosce questo insegnamento divino si fa giorno per sempre (sakṛt)”.18 Per la medesima ragione il sole rimane in verticale sopra il bodhisattva finché rimane in
meditazione,19 e nella nota narrazione biblica di Giosuè.20 È questo
l’attimo dell’illuminazione, che permette, a chi conosce ciò, di uscire
dalla concatenazione temporale e di raggiungere l’eternità. Per questa ragione il sole rappresenta una porta, sūryadvāra, sbarrata ai profani, ma pronta ad aprirsi ai conoscitori dei misteri divini.21 Nella
medesima ottica il dominio che si trova al di là e al di sopra del sole è
15
Così si distingue samaya, il giusto tempo, da kāla, il tempo che scorre.
Questo stato spirituale non deve essere affatto considerato soggettivo: “Bisogna
raggiungere la pace per saper conoscere il passato, il futuro e il presente d’ogni
cosa”. T.d.A. Chāñdogya Upaniṣad, III, 14, 1, in J. L. Śāstri (ed.), Upaniṣatsaṃ-grahaḥ,
Dilli, Motilala Banārasīdāsa, 1970.
17
Atharva Veda, X. 8. 14, in Kṣemakaraṇadāsa Trivedi (ed.), Atharvavedabhāṣyaṃ, Prayag, Nirmitaṃ Pr., 1912. T.d.A.
18
ChU, III, 11, 1-3, in J. L. Śāstri (ed.), cit.
19
Jātaka, I. 58, in E. B. Cowell (ed.), Jātaka, Cambridge, Cambridge Un. Press, 1901, I vol.
20
Giosuè, X, 13.
21
“Per colui che conosce questa, in verità, è la porta del cosmo; essa rimane chiusa
per l’ignorante”. ChU, cit., VIII, 6, 5, in J. L. Śāstri (ed.), cit.
16
27
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
definito il luogo, loka, dell’immortalità, amṛta, mentre tutto ciò che è
inferiore alla sfera solare è il mondo sottoposto alla morte, mṛtyu.22
Ritornando all’attimo presente usato dal saggio come uscita dal cosmo, si dovrà aggiungere che, se da un punto di vista interiore diventa permanente, da un altro punto di vista esso si presenta come un
accadimento folgorante: “Come nel macrocosmo quando la folgore
lampeggia [si fa appena in tempo] a esclamare «Ā!» e a chiudere gli
occhi, così nel microcosmo l’intuizione appare alla mente istantaneamente come un’immagine”.23 Naturalmente questo istante, che
colui che è stato iniziato alla conoscenza sa cogliere al volo, rappresenta per quella persona la vera e propria fine del mondo, poiché da
quel momento costui non sarà più soggetto a corruzione e generazione, ma, libero da ogni condizionamento, conoscendo il Brahman
s’immergerà in Brahman.24 Ora, a questo proposito, la Maitry Upaniṣad precisa che : “Ci sono due ‘forme’ di Brahman: il tempo (kāla) e
l’eternità (akāla). L’eternità indivisibile (akālākalā) è anteriore al
tempo; il tempo divisibile (kālakalā) è successivo al sole”.25 Ecco dunque che la śrūti distingue una Divinità suprema eterna, da una sua
ipostasi che è il Tempo inteso come divenire cosmico. Ma, a proposito della relazione tra queste due “forme” di Brahman la medesima
upaniṣad afferma che “quando tutto è distrutto, solo Esso permane e,
procedendo dall’etere, rimanifesta questo mondo per mezzo della
meditazione […] costui che come fuoco è nel cuore [microcosmicamente] e nel sole [macrocosmicamente] è l’Unico. Chi conosce que-
22
Da questo punto di vista la concezione aristotelica espressa nel De generatione e
corruptione, per la quale solamente il mondo sublunare sarebbe caratterizzato dalla
trasformazione, appare limitata al solo dominio individuale. Nella prospettiva hindū,
invece, ogni trasformazione appartiene necessariamente alla manifestazione cosmica
nella sua integralità (saṃsāra).
23
Kena Upaniṣad, IV, 4-5, in J. L. Śāstri (ed.), cit. Sull’istantaneità della percezione visiva v. G. G. Filippi, “I principi delle arti tradizionali dell’India e le loro applicazioni”, in M. Marchetto (a cura di), India: arte oltre le forme, Quaderni di Indoasiatica,
San Marino, Il Cerchio, 2013, pp. 15-23.
24
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, IV, 4, 6, in J. L. Śāstri (ed.), cit.
25
Maitry Upaniṣad, VI, 15, in J. L. Śāstri (ed.), cit. T.d.A. Ciò conferma che il mondo
subsolare è sottoposto alla divisibilità e al mutamento.
28
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
sto ottiene realmente l’unione con l’Unico”.26 Da questa affermazione
scritturale derivano alcune considerazioni di fondamentale importanza per la comprensione della dottrina hindū che riguarda il tempo: per prima cosa che “dall’interno di questo mondo non si può
concepirne il limite, né il suo principio, né la sua fine”.27 Da questo
punto di vista dunque il tempo non ha mai inizio e non ha mai fine:
ciò significa che come muovendosi nello spazio non si può raggiungere alcun limite spaziale dello stesso, così nemmeno muovendosi
nella successione temporale è possibile raggiungerne la fine; e, anche
qualora fosse possibile retrocedere cronologicamente, nemmeno in
questo caso sarebbe raggiungibile l’inizio. Perciò, afferma Śaṃkara:
“[…] è razionalmente sostenibile che la natura dell’esistenza sia priva
d’inizio”.28 Si faccia ben attenzione che qui stiamo trattando non
dell’Infinito e dell’Eterno, che sono fuori delle condizioni di spazio e
tempo, ma di indefinitezze spazio-temporali. Queste indefinitezze
sono caratteristiche delle quantità continue, la cui estensione deve
essere riconosciuta come uno sviluppo indefinito: nel caso della condizione temporale, ciò di cui stiamo ora trattando in modo particolare, tale indefinitezza sarà chiamata perpetuità, cirakāla, o perennità,
saṅtāna. Detto in altri termini non è nel tempo divisibile, kālakalā, che
si può trovare l’inizio della perpetuità, bensì nell’eternità indivisa,
akālākalā, l’unico infinito, ananta. Questa è la ragione per cui Dio crea
in Principio, prima della nascita del tempo, come attesta il primo
verso della Genesi, Bereshit bara Elohim; nel tempo divisibile, nello sviluppo dei sei giorni, Dio ordina, fa, produce, plasma, nomina, separa.
Lo stesso si riscontra nel Veda: “Allora non c’era il Non-essere né
l’Essere […] In origine tenebre nascondevano le tenebre e questo
universo non era che caos indifferenziato. Allora, nel principio sorse
la Volontà [di manifestazione], seme primigenio e germe divino […]
Allora un limite fu stabilito da parte a parte [per separare il non26
Ibid., VI, 17.
Vāsudeva Lakṣmaṇa Śāstrī Paṇśīkar (ed.), Śrīmadbhagavad Gītā, Bombay, Nirṇaya
Sāgar Press, 1936, XV, 3. T.d.A.
28
Anantakṛṣṇa Śāstrī (ed.), Brahmasūtra Śāṃkara Bhāṣya, Bombay, Nirṇaya Sāgar
Press, 1938, II, 1, 36. T.d.A.
27
29
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
manifestato, avyakta, dal manifestato, vyakta]. Lo slancio spontaneo [di
manifestare] dilagò verso il basso [sotto il limite] e il sacrificio del Sé
[con cui la Divinità suprema apparentemente rinuncia alla sua unicità]
si stabilì in alto. Chi sa la verità, chi qui oserà proclamare da dove sia
nata, da dove provenga questa manifestazione [fenomenica]?”29
La manifestazione universale dunque si dipana nel tempo divisibile,
seguendo le leggi della progressiva differenziazione. Ma in questa
prospettiva di tempo divisibile, in luogo di passato, presente e futuro, si adotterà allora una triade corrispondente, ovvero si parlerà di
manifestazione iniziale, sṛṣṭi, di continuità esistenziale, sthiti, e di
dissoluzione finale, saṃhāra. “Dal tempo si manifestano gli esseri, nel
corso del tempo essi si sviluppano e nel tempo si esauriscono”.30 Utilizzando l’analogia tra macrocosmo e microcosmo, si potrà dire di un
singolo essere che esso viene al mondo dotato di tutte le potenzialità
vitali; queste potenzialità diventeranno attuali progressivamente nel
corso della vita. Quando tutte le potenzialità saranno attualizzate
non ci sarà più alcuna ragione per continuare a vivere:31 il ciclo vitale
sarà concluso e necessariamente quest’essere morirà. Lo stesso avviene per i mondi, per i cicli, per l’intera esistenza universale. In precedenza, quando esaminavamo il caso di colui che ha ottenuto la conoscenza, di colui che sa identificare nel presente il riflesso
dell’Eternità, di colui che di questo attimo fa la sua porta d’uscita dal
cosmo, abbiamo evidenziato in particolar modo la legge di continuità
che mantiene costante e ininterrotto il flusso della creazione.32 Abbiamo sottolineato che il presente è il punto d’equilibrio tra passato
e futuro, che salda così il tempo in un’unica realtà omogenea. Ma
questa è soltanto una faccia della questione.
29
Hīrānanda Mūlarāja Śāstrī (ed.) Ṛg Veda Saṃhitā, Lahore, Mufid-I-῾Am Press, 1903,
X, 129, 1-6. T.d.A. Il che ritorna a dire che è impossibile identificare l’origine del
tempo rimanendo all’interno della manifestazione temporale.
30
MaiU, VI, 14, in J. L. Śāstri (ed.), cit.
31
Il passaggio dalla potenza all’atto realizza l’esaurimento delle potenzialità.
32
“Colui che ha realizzato il Brahman sa di essere lui stesso Brahman e che la sua
natura non può mai essere l’agente e lo sperimentatore nel triplice tempo”.
Mahādeva Cimaṇājī Āpaṭe (ed.), BU Bhāṣyāvārtikaṃ, Puna, Anandāśrāma Pr., 1915,
IV, 1, 13. T.d.A.
30
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
Infatti anche nel fluire di una modalità continua può prodursi una
discontinuità. Se per esempio si esercita una forza di eguale consistenza ai due capi di una corda, la parte centrale della corda sarà
quel punto in cui le forze contrapposte si neutralizzano reciprocamente.33 Tuttavia “se si aumenta la forza in modo continuo, anche la
tensione crescerà dapprima in modo continuo, ma arriverà un momento in cui si produrrà la rottura, e allora s’avrà all’improvviso e in
un certo senso istantaneamente, un effetto di tutt’altra natura del
precedente, il che comporta evidentemente una discontinuità.”,34 E
la corda si spezzerà nel punto di minor resistenza. Questo punto è il
luogo in cui avviene la fine del mondo, la conclusione del ciclo temporale. Ed è ciò che riguarda la stragrande maggioranza degli esseri,
dato che i conoscitori (jñāni) che se ne sottraggono sono una esigua
minoranza, per i quali si può affermare che “molti sono i chiamati,
pochi gli eletti”.35
A proposito dell’apparente contraddizione tra quanto asserito dalla
legge della continuità e il caso della discontinuità appena riferito,
Śaṃkara afferma che: “[…] non c’è una contraddizione. Se al momento della grande dissoluzione (mahāpralaya) avviene una discontinuità
nel continuum delle azioni già messe in moto, si può sostenere che esseri divini, come l’embrione cosmico Hiraṇyagarbha [che dà origine a
un singolo mondo],36 con la grazia di Dio, possano garantire una continuità con le azioni operate in un precedente ciclo cosmico”.37 Il
grande maestro di advaita vedānta propone a questo proposito una
comparazione illuminante: “Quando qualcuno s’addormenta e poi si
33
Non diremo che le due forze s’annullano, in quanto esse non scompaiono né
s’azzerano, ma permangono esistenti in una tensione equilibrata.
34
R. Guénon, cit., p. 73.
35
S. Matteo, XXII, 14.
36
Quando l’aspetto manifestante di Dio, Brahmā, dà inizio a un mondo, Egli lo genera
deponendo un uovo, brahmāṇḍa, sulla superficie delle acque primordiali, che rappresentano la pura potenzialità. Il Dio stesso prende poi dimora al centro dell’uovo come
embrione d’oro, Hiraṇyagarbha, reggendo così dall’interno lo sviluppo di quel mondo
che comincerà a entrare in divenire allo schiudersi del guscio.
37
BSŚBh, cit., I, 3, 30. A proposito di prosieguo sottile del karman, vedasi la dottrina
dell’apūrva: G. G. Filippi, Post mortem et Libération d’après Shaṅkarācārya, Milano,
Archè, 1976.
31
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
risveglia, dal suo modo d’agire si deduce che non c’è alcuna discontinuità tra questo stato di veglia e quello precedente; lo stesso dicasi
per il flusso del divenire, di cui si è detto che è privo d’inizio, anche
se si sa che avverrà sia la grande dissoluzione, mahāpralaya, sia la rimanifestazione del mondo”.38 Sul medesimo argomento la Kauṣitaki
Upaniṣad afferma: “Quando colui che dorme non sogna, allora egli è
un tutt’uno [ekībhūta] con questo spirito vitale [il Sé]. La parola con
tutte le voci, viene riassorbita in lui; così anche la vista assieme a tutte le forme e colori; e l’udito assieme a tutti i suoni; e la mente con
tutti i pensieri si riassorbe in lui. Quando invece si risveglia, come
scintille sprigionate in tutte le direzioni da un fuoco che avvampa, le
facoltà individuali fuoriescono dal Sé penetrando gli organi che corrispondono alle loro funzioni; dai prāṇa sono oggettivati gli elementi
e gli elementi realizzano il mondo esterno”.39 Abbiamo così stabilito
che proprio perché il tempo è divisibile, kālakalā,40 in esso si producono episodi di discontinuità accidentale, pur mantenendosi una
continuità sostanziale, krama.
Come s’è già accennato, lo spazio è misurabile direttamente per
mezzo di un metro di misura scelto a piacere tra i componenti interni allo spazio stesso, sia esso lineare, superficiale, volumetrico e altro
38
Ibid.
KauU, III, 3, in J. L. Śāstri (ed.), cit.. Secondo la Māṇḍukya Upaniṣad (cit., I. 5,) l’uomo
in stato di sonno profondo, suṣupti sthāna, è in uno stato di sintesi conoscitiva,
prajñānaghana, fatta di beatitudine, ānandamaya. In questo stato egli sperimenta la
dissoluzione, apīti. Ma, poiché la coscienza individuale non ha consapevolezza
dello stato in cui il ‘suo’ Sé si è ritratto, essa si trova in una condizione tāmasa (ibid.
I. 6. 12-15). Per questa ragione lo stato di sonno profondo corrisponde esattamente
alla reintegrazione in modo passivo con cui il cosmo è riassorbito nel Brahman
alla fine di un kalpa, allorché avviene il mahāpralaya, la grande dissoluzione di cui
si è appena fatta menzione.
40
Il termine è la composizione del sostantivo kāla, tempo e del termine kalā, divisione.
Nei testi dell’Induismo si gioca ripetutamente sull’accostamento delle due parole che
alludono contemporaneamente sia alla continuità temporale sia sulla sua divisibilità.
Che kāla e kalā poi derivino da due radici etimologiche differenti può preoccupare
solamente la compiaciuta erudizione dei sanscritisti, senza che questa loro osservazione apporti alcun chiarimento alla comprensione della dottrina, che rimane loro
preclusa nonostante la quotidiana consultazione dei testi.
39
32
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
ancora. Al contrario il tempo non può essere misurato direttamente,
ma solamente rapportandolo allo spazio. O, per meglio dire, non del
tempo si ha esperienza diretta, ma del movimento che è la risultante
dell’azione del tempo sullo spazio:41 si potrebbe anche aggiungere
che l’azione del tempo sullo spazio è in realtà una coercizione, grahaṇa:42 “[Rudra, Kāla] che stringe sempre l’universo, conoscendo tutto manifesta il tempo per mezzo delle sue qualità, egli, l’onnisciente,
dalla cui stretta si produce l’azione, karman”. 43 Ma, ritornando
all’osservazione che il tempo è riconoscibile per mezzo del movimento applicato allo spazio, diremo assieme a Īśvarakṛṣṇa: “Osservando che luna e stelle si spostano da un quadrante all’altro del cielo,
si deduce che luna e stelle si muovono”.44 Si noterà come il movimento così descritto sia circolare. Anche Patañjali afferma similmente: “Si chiama tempo, kāla, ciò per mezzo del quale si producono la
crescita e la decadenza nei corpi grossolani; quando [il tempo] si associa al movimento, allora è chiamato dì e notte [un’intera giornata].
Cos’è quel movimento? È il movimento del sole. Quando poi quel
movimento [del sole] si ripete per un certo numero di volte allora
abbiamo il mese e [poi] l’anno”.45 Il movimento di cui si tratta è la risultante dell’accentuata pressione esercitata dal tempo sullo spazio,
41
“Ciò che si misura realmente non è mai una durata, ma è lo spazio percorso
durante quella durata in un certo movimento di cui si conoscono le leggi”.
R. Guénon, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Paris, Gallimard, 1945,
p. 42. T.d.A.
42
Lo spazio come estensione in continua espansione è rappresentata da Viṣṇu, il cui
nome deriva dalla radice viṣ, espandere. Kāla (Śiva), il Chronos costrittore,
rappresenta dunque la forza che si oppone all’espansione spaziale. Queste forze
rimangono in equilibrio, sthiti, durante tutto il processo di sviluppo della
manifestazione, fino a quando la corda, che le due forze tra loro opposte hanno in
trazione, non si spezza. Per un’altra versione della stessa concezione si confronti
queste linee con il mito del samudramanthana, MBh, cit., Ādi P. XVII-XIX. La
dualità cosmica è anche rappresentata nelle saṃhitā vediche dai due principi
opposti Vṛtra, il pitone stritolatore che rappresenta il tempo, e Indra, la forza
d’espansione e sviluppo.
43
Śvetāśvatara Upaniṣad, VI, 2, in J. L. Śāstri (ed.), cit..
44
H. D. Sharma (ed.), The Sāṃkhya Kārikā, Pune, Oriental Book Agency, 1933, ś. 5. T.d.A.
45
Patañjali, Mahābhāṣya Pāṇini II Vārtika, II. 2. 5, in Sadasivendra Sarasvati (ed.),
Yogasūtravṛitti, Srirangam, Sri Vani Vilas Press, 1911. T.d.A.
33
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
e della resistenza che lo spazio contrappone al tempo. In questo modo il tempo esercita una accelerazione della sua velocità e questa accelerazione si risolve in una curva, anziché nel vettore rettilineo che
si formerebbe se la velocità del tempo rimanesse costante. Questa
teoria, accompagnata all’osservazione dell’andamento circolare del
tempo nei ritmi naturali, giorno, mese, stagione, anno, hanno indotto antichi ṛṣi dell’India a formulare la dottrina dei cicli cosmici. Acuti
osservatori del cielo, essi identificarono sette stelle polari precedenti
l’attuale, Dhruva, ricostruendo così il ciclo della precessione degli
equinozi, viṣuvāyana.46 Avevano notato che ogni 72 anni il punto vernale sullo zodiaco precedeva d’un giorno intero, e poiché l’anno, nella sua perfezione di angolo giro per loro era composto da 360 giorni,
arrivarono a calcolare l’intera precessione attribuendole la durata di
25920 anni. La precessione intera, i suoi multipli e sottomultipli,
formarono i numeri sacri 72, 108, 2160, 4320, che, seguiti da uno o
più zeri, divennero il cronometro per stabilire i grandi cicli e i sottocicli di cui si compone l’esistenza intera. Tramite questi numeri gli
antichi ṛṣi costruirono un vero e proprio labirinto numerico in cui i
profani si dovevano perdere senza mai trovare la possibilità di stabilire con certezza la data della fine. Stabilirono altresì una molteplicità di cicli, gli yuga, i mahāyuga, i manvantara, i kalpa, e altri ancora,
dotati di crepuscoli, saṃdhyā,47 e di notti, rātri,48 che ogni testo enu-
46
Si tratta dei veggenti che diversi millenni or sono trasmisero il Veda. Gli astronomi
indiani d’epoca classica o medievale, possessori d’una semplice scienza, vidyā, e
non della conoscenza integrale, jñāna, pare non abbiano voluto trattare della precessione, probabilmente per le implicazioni esoteriche dell’argomento.
47
Un altro specchietto per le allodole in questo contesto sono le saṃdhyā che alcuni
testi di smṛti aggiungono all’inizio e alla fine di ogni ciclo. Come abbiamo già visto
in realtà la saṃdhyā è istantanea, com’è ben dimostrato dal mito di Narasiṃha.
Anche la collocazione del nostro momento storico all’interno del kaliyuga ha il
preciso scopo di eludere l’attenzione dei curiosi. Infatti, nonostante alcuni testi
affermino che siamo ancora l’alba del kaliyuga, i segni dei tempi descritti nei Purāṇa
ritraggono con inequivocabile realismo l’attuale situazione del mondo, alcuni
dettagli della quale erano inimmaginabili soltanto poche decine d’anni or sono.
48
Si legge nei purāṇa che un kalpa è formato da un dì e da una notte di Brahmā. Ora,
si dà il caso che la notte sia esplicitamente identificata al naimittika pralaya o prati-
34
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
mera in modo diverso e contraddittorio, rendendo la matassa così
ingarbugliata ad arte da rendere pressoché impossibile trovarne il
bandolo, il capo di quel filo d’Arianna tanto agognato dai curiosi.
Quel ch’è certo è che i cicli temporali indiani devono essere considerati concatenati, ma ben distinti tra loro, secondo quell’alternanza
di continuità e discontinuità di cui abbiamo trattato; il che equivale a
negare qualsiasi somiglianza con la concezione tutta europea dell’eterno ritorno, com’è stata ipotizzata da certi stoici greci, da G. B. Vico, da Nietzsche, da Spengler e da Eliade, sebbene con punti di vista
tra loro divergenti, com’è, d’altra parte, nella natura stessa della filosofia occidentale.49 Nella prospettiva indiana, infatti, la fine di un ciclo è seguita dall’inizio di un altro ciclo con caratteristiche diverse,
con modalità e condizioni d’esistenza nuove, essendo ogni ciclo unico e irripetibile. Naturalmente la differenza tra un ciclo e un altro
aumenta quando si tratta di cicli di sempre maggiore ampiezza. Per
maggiore chiarezza mi riferirò a tre tipologie cicliche diverse, di magnitudo e portata differente. Si tratta di quelle tre categorie di cicli
che ogni sacrificatore vedico, ṛtvij, deve declamare, all’inizio del rituale che sta per intraprendere nella formula introduttiva, saṃkalpa.
Il ṛtvij dichiarerà d’intraprendere il sacrificio durante il kalpa del cinghiale bianco, nel manvantara del Manu Vaivasvata, nell’anno tale o
talaltro del kaliyuga.50 Non ci soffermeremo su questo argomento, sul
sandhi, che dir si voglia, e quindi rappresenti una rottura della continuità temporale. Da ciò si deduce che la notte di Brahmā, in realtà, è istantanea.
49
Sull’insostenibilità delle teorie dell’eterno ritorno, v. G. G. Filippi, “Prefazione”, in
Lara Sanjakdar, Mircea Eliade e la Tradizione, San Marino, il Cerchio, 2013, pp. IV-VII.
50
P. V. Kane, History of Dharmaśāstra, Poona, Bhandarkar Oriental Research Institute,
1994, vol. V, parte I, p. 644. Si noti che ogni satyayuga inizia sempre con la migrazione d’un Manu dal manvantara precedente; in questo modo il ciclo dei quattro
yuga coincide con il manvantara. Come si può notare anche le formule rituali tralasciano di menzionare il mahāyuga. Et pour cause: secondo i racconti purāṇici, quattro yuga formerebbero un mahāyuga, e mille mahāyuga formerebbero un kalpa. Tuttavia il kalpa è ovunque diviso in quattordici manvantara. Si può facilmente notare
che mille non è divisibile esattamente per quattordici, e ciò è in contrasto con la
precisione prestata sempre al tradizionale calcolo dei numeri ciclici. Il mahāyuga
dunque non è invocato ritualmente proprio perché la sua funzione è quella di
35
GIAN GIUSEPPE FILIPPI
quale gli altri contributi presenti in questo libro certamente porteranno maggiori chiarimenti e approfondimenti. Tuttavia mi preme
far notare che la fine di uno yuga, un laya, corrisponde necessariamente a un riassetto delle componenti corporee degli esseri e
dell’ambiente in cui vivono. La fine del manvantara, il pralaya, comporterà una riorganizzazione anche delle modalità psichiche e di
mentalità degli individui e del mondo che li ospita.51 Ciò equivale a
dire che anche le leggi dello scorrere del tempo subiranno alcune
modificazioni. D’altronde mentre lo spazio condiziona i corpi soltanto, il tempo condiziona anche la psiche: non per nulla il pensiero
sfugge allo spazio, mentre è sottoposto alla successione temporale.
Infine la conclusione del kalpa, il mahāpralaya, è propriamente il termine dell’itinerario terrestre dell’umanità e degli altri esseri dotati
di corpo e di psiche e corrisponde propriamente alla distruzione del
mondo in cui viviamo.52 Il che conduce alla evidente conclusione che
tutti gli altri cicli minori contenuti nel kalpa mantengono come scenario del loro sviluppo questo stesso nostro pianeta Terra, seppure
l’ambiente terrestre necessariamente si modifichi per adattarsi al
mutare delle condizioni dell’esistenza corporea.
Ma se volgiamo la nostra attenzione al passato, ci accorgeremo che
persino nel nostro medesimo kaliyuga in cui viviamo si sono verificati tanti cicli ancora più brevi, che potremmo definire cicli storici. Per
sumeri, etruschi, celti, mesoamericani, per portare soltanto qualche
esempio, il ciclo si è concluso definitivamente, e per noi è lecito af-
sviare l’attenzione dei curiosi da un segreto che deve rimanere appannaggio di chi
è iniziato al kalācakra.
51
Ben più dell’osservazione superficiale degli sconvolgimenti etnici e sociali e delle
calamità naturali, l’attenzione ai radicali cambiamenti di mentalità, ossia dei mutamenti delle modalità con cui la mente umana funziona e che poi s’esplicitano
nello stravolgimento dei costumi, è in grado d’indurre alla corretta interpretazione dei segni dei tempi.
52
Tuttavia qui non si risolve l’intera manifestazione universale, dato che i kalpa
stessi sono in numero illimitato. Talvolta il termine mahāpralaya è usato per
descrivere la fine di tutto l’insieme della successione di kalpa, ovvero il prakṛtapralaya. Tuttavia, in questo caso il termine è usato impropriamente, in quanto, in
quest’ordine di grandezza, il Tempo davvero non ha né inizio né fine.
36
LA DOTTRINA METAFISICA HINDŪ SULLA FINE
fermare che per loro la fine del loro mondo53 è già avvenuta. E mentre qui ci si preoccupa per la nostra civiltà profondamente malata,
dimentichiamo che in questo preciso momento in altre aree della
superficie terrestre si sta verificando il pralaya per boscimani, aborigeni, vanyajāti del Subcontinente indiano e per tante altre popolazioni dimenticate.
53
La parola mondo è termine ambiguo nelle lingue dell’Occidente, che di volta in
volta può significare il cosmo intero, il nostro pianeta e, in dimensioni ancor più
ridotte, la nostra tradizione, civiltà, modo di vivere e altro ancora; tutti concetti
che nelle lingue sacre d’oriente e d’occidente sono espresse da parole diverse tra
loro e precise nel significato. Nell’ultimo significato più ridotto di ‘mondo’ che abbiamo elencato si può lecitamente usare il termine al plurale. Così si potrà parlare
d’una pluralità di mondi: del mondo cristiano, del mondo indiano, del mondo moderno. In questo senso la fine che tutti sentono minacciosamente prossima, non
sarà la fine del Mondo, ma la fine di un mondo: questo per rispondere al quesito
posto dal titolo del volume. La fine del Mondo, come d’altronde la fine dei tempi,
avverrà per le diverse umanità a conclusione dell’esistenza di questa terra, con il
“solvet sæculum in favilla” del celanese Tomaso.
37
CONGIUNZIONI COSMICHE DI FINE CICLO NEI TESTI DI TRADIZIONE HINDŪ
MONIA MARCHETTO
I
riferimenti alla questione di fine ciclo sono presenti in numerose
opere; l’argomento è talvolta solamente accennato, talaltra è sviluppato in maniera dettagliata. In generale e in accordo con i
modi della cultura indiana, l’esposizione è chiara e precisa; tuttavia
talora è difficile comprendere l’esatta portata dei dati forniti dai testi. Prenderemo in rassegna alcuni fra gli scritti più significativi seguendo un percorso che intende basarsi sui diversi punti di vista
esposti dai testi stessi a cominciare da quello metafisico per arrivare
a quello cosmologico e in particolare alla visione microcosmica incentrata sull’individuo umano, punto di partenza di ogni indagine.
La dottrina metafisica, esposta principalmente nelle upaniṣad,1 allude in modo conciso al tema della dissoluzione. L’argomento è trattato soprattutto da un punto di vista escatologico; la fine riguarda sia
l’intero cosmo (il macrocosmo) sia il singolo essere (il microcosmo).
Per quanto concerne l’intero universo, esso è detto rientrare nel
Principio che lo ha manifestato, dal quale è fuoriuscito solo in modo
1
Le upaniṣad compongono il Veda assieme a saṃhitā, brāhmaṇa e āraṇyaka. In generale, il contenuto delle upaniṣad è dottrinale, quello delle saṃhitā è rituale; saṃhitā
e brāhmaṇa sono considerati la sezione del Veda legata al rito; upaniṣad e āraṇyaka
sono la parte del Veda legata alla dottrina. I brāhmaṇa sono testi esegetici; gli
āraṇyaka prevedono l’interiorizzazione dei riti vedici.
QUADERNI DI INDOASIATICA, [39-54]
MONIA MARCHETTO
illusorio, come illustra il paragone tradizionale con il sogno: dotato
di una sua realtà intrinseca, ancorché relativa rispetto a quella assoluta del sognatore, il sogno si dispiega rimanendo contenuto in colui
che lo produce. Lo stesso avviene per la moltitudine indefinita di esseri che popolano il cosmo. Dal punto di vista illusorio della manifestazione, un essere o un mondo nascono, si sviluppano e infine si
esauriscono. Il termine impiegato per definire il loro ritorno al Principio è saṃhāra il quale trova un suo correlativo in saṃsāra, vocabolo generalmente tradotto con ‘ruota delle rinascite’ a indicare l’incessante
trasmigrazione degli esseri. Secondo Māṇḍūkya Upaniṣad, I, 6 “Egli è il
Signore di tutto; Egli è l’onnisciente; Egli è l’ordinatore interno; Egli è
la matrice di tutto; Egli è [il luogo di] origine e dissoluzione di tutti
gli esseri”.2 Afferma Taittirīya Upaniṣad, III, 1 “[...] Ciò da cui questi esseri nascono, ciò attraverso cui, una volta nati, vivono e ciò verso cui
procedono e in cui [ri]entrano [dopo la dissoluzione], quello desidera
conoscere bene. Quello è il Brahman”.3
Secondo Br̥hadāraṇyaka Upaniṣad, I, 2, 1 “[...] all’inizio non vi era nulla. [Tutto] era coperto solo dalla morte [mr̥tyu], o dalla fame [aśanāyā]
perché la fame è morte [...]”.4 Śatapatha Brāhmaṇa, XI, 3, 3 afferma
che “Brahman [il Principio] affida gli esseri alla morte [...]”.5 La dottrina vedāntica considera, nei modi concisi che le sono propri, le
modalità di ritorno al Principio degli esseri e si sofferma sul loro destino postumo e sulle cause che lo determinano.6
La Bhagavad Gītā, un’opera che pur appartenendo al grande poema
epico Mahābhārata è considerata un’upaniṣad, aggiunge dei dettagli
alla questione del rientro nel Principio: “Tutti gli esseri, o figlio di
2
3
4
5
6
J. L. Śāstrī (ed.), Upaniṣatsamgraḥ, Delhi, Motīlāla Banārasīdāsa, 1998, p. 20. T.d.A.
Vedi anche P. Filippani-Ronconi (a cura di), Upaniṣad, Torino, Boringhieri, 1960 e C.
Della Casa (a cura di), Upaniṣad vediche, Torino, Utet, 1976.
J. L. Śāstrī, cit., p. 22. T.d.A.
Ibid, p. 95.
W. Caland (ed.), Śatapatha Brāhmaṇa in the Kāṇvīya Recension, Delhi, Motilal Banarsidass, 1998 (1st ed. Lahore, 1926), vol. II, p. 347.
I testi descrivono anche la dissoluzione del composto individuale che avviene
attraverso un processo di riavvolgimento degli elementi che lo costituiscono; si tratta
di un fenomeno comune a tutti gli esseri umani al momento della morte del corpo.
40
CONGIUNZIONI COSMICHE DI FINE CICLO
Kuntī, alla fine di un kalpa rientrano nella mia natura [prakr̥ti]; al
principio del ciclo successivo di nuovo io li emetto”.7 I kalpa sono gli
indefiniti cicli temporali secondo cui il cosmo si dispiega; ciascuno di
essi, da un punto di vista spaziale può essere considerato un loka,
termine etimologicamente vicino al latino locus, luogo quindi mondo.
Gli innumerevoli cicli massimi dell’universo (i kalpa) sono costituiti
da cicli minori chiamati manvantara i quali sono a loro volta suddivisi
in fasi chiamate mahāyuga e yuga. Il passaggio da alcuni cicli ai successivi è segnato da un diluvio e da un conseguente passaggio attraverso le acque; tale diluvio è al tempo stesso un fuoco che divora e
distrugge quanto non può passare attraverso le acque diluviali.8
La già citata Bhagavad Gītā menziona anch’essa un fuoco distruttore
quando descrive la forma universale della Divinità suprema (viśva rupa) così come apparve al guerriero Arjuna: “Al veder le tue bocche
dai terribili denti, simili al fuoco del tempo [kālānala], [della distruzione universale], le direzioni più non conosco [perdo il senso della
direzione] e non trovo più rifugio. Sii benevolo, o Signore degli dèi,
rifugio dei mondi”.9 Il testo prosegue: “Tu hai leccato via divorandole
da ogni parte tutte le umane stirpi con le tue fauci fiammeggianti. I
tuoi terribili raggi bruciano con il loro ardore tutto l’universo [jagat]
riempiendolo di esso”.10 E ancora: “Io [la Divinità suprema] sono il
Tempo [Kāla] che dà luogo alla distruzione del mondo [loka] [...]”.11
Il tema dei cicli cosmici e della loro dissoluzione è sviluppato dettagliatamente nei purāṇa;12 ci riferiamo qui, ai fini esplicativi, al solo
Bhāgavata Purāṇa (BhP, III, 11, 1-41) di cui esponiamo gli elementi più
7
Bhagavad Gītā (BhG), IX, 7. La citazione precedente e le successive relative alla BhG
sono state tratte da Bhagavad Gītā, traduzione e commento di I. Vecchiotti, Roma,
Ubaldini, 1964.
8
Uno dei più antichi passaggi testuali relativi al fuoco che distrugge l’universo
(saṃvartaka agni) è in Atharvaśikhā Upaniṣad, I, 1, 6 in una sezione dedicata al significato del monosillabo sacro oṃ. Questo fuoco è menzionato in numerosi purāna e
nei poemi epici.
9
BhG, XI, 25.
10
BhG, XI, 30.
11
BhG, XI, 32.
12
Per una trattazione sistematica delle divisioni del tempo secondo i purāṇa, vedi W. J.
Wilkins, Hindu Mythology, Vedic and Puranic, Calcutta, Thacker, Spink & Co., 1900, cap. X.
41
MONIA MARCHETTO
significativi.13 L’avvicendarsi delle epoche è definito ‘la forma temporale’ (kāla rūpa) della Divinità suprema. Le unità di misura temporali
che determinano il mondo, dalle minori alle maggiori, sono descritte
minuziosamente; la più importante è il giorno del dio Brahmā cioè il
periodo durante il quale un mondo nasce e si sviluppa; esso è formato da quattordici sottocicli, i manvantara, ognuno dei quali è retto da
un legislatore, un Manu. In ogni mondo, per analogia a quanto avviene in tutto il cosmo, agiscono tre tendenze: sattva cioè la conformità all’Essere che s’identifica alla luce intelligibile, alla conoscenza e rappresenta una tendenza ascendente; rajas che è l’impulso all’espansione;
tamas che è l’oscurità, l’inerzia assimilata all’ignoranza ed è rappresentata come una tendenza discendente. Durante i manvantara prevale la
tendenza sattvika di Brahmā per cui egli protegge l’universo manifestandosi come Manu. Alla fine di tutti i quattordici manvantara, in
Brahmā prevale tamas; egli ritrae allora in se stesso la propria potenza; ogni cosa si ritira in lui per effetto del Tempo (Kāla) ed egli è in
uno stato di quiete, di non attività. Inizia così la notte di Brahmā in
cui i tre mondi terrestre, atmosferico e celeste (bhūr, bhuvaḥ, svar)
sono consumati dal fuoco che esce dalle fauci di Saṅkarṣana.14 Bhr̥gu
e altri esseri che popolano il trimundio, perseguitati dal calore, fuggono da un mondo all’altro, dal Maharloka al Satyaloka.15 A causa
della dissoluzione in corso, gli oceani, spinti da terribili venti, inondano i tre mondi. Il mito racconta come sulle acque, sul serpente
Śeṣa giaccia il dio Viṣṇu in una condizione di sonno yogico, di inviluppo. In questo modo, uno dopo l’altro, si alternano giorni e notti e
trascorre l’intera vita di Brahmā, la prima metà della quale (parārdha) è già trascorsa mentre la seconda è in corso di svolgimento.
L’intero periodo dell’esistenza di Brahmā è considerato un battito di
13
Per una traduzione integrale vedi J. L. Shastri (ed.), The Bhāgavata Purāṇa, Delhi,
Motilal Banarsidass, 2002 (1st ed. 1978).
14
Saṅkarṣana significa ‘colui che tutto attrae’; è ritenuto un epiteto del serpente cosmico Śeṣa. Il fuoco in questione è la potenza stessa di Saṅkarṣana.
15
Bhūr, bhuvaḥ, svar, Maharloka, Janaloka, Tapoloka e Satyaloka sono i sette strati
superiori dell’uovo cosmico deposto da Brahmā, uovo da cui deriverà tutta la manifestazione. I mondi Jana, Tapa e Satya sono considerati permanenti; Maharloka
si svuota dei suoi abitanti alla fine del kalpa, ma sopravvive alla dissoluzione.
42
CONGIUNZIONI COSMICHE DI FINE CICLO
ciglia (nimeṣa) del Principio di manifestazione (Īśvara), dell’atma
dell’universo.
Altri testi classici quali un antico trattato sulla retta condotta degli
uomini, il Mānava Dharmaśāstra, e il poema epico Mahābhārata trattano
anch’essi di kalpa, manvantara e yuga. Il trattato espone l’argomento in
modo conciso, il poema epico in maniera più dettagliata soffermandosi
soprattutto sul tema degli yuga.
Il Mānava Dharmaśāstra16 descrive sinteticamente, in una sezione
concernente le misure di tempo, l’avvicendarsi dei cicli durante i
quali si svolge l’incessante trasmigrazione degli esseri da Brahmā –
riflesso della Divinità suprema nel suo aspetto manifestatore – fino ai
minerali. Quando Brahmā è desto, allora l’universo agisce, ma quando dorme anche il mondo giace addormentato e tutti gli esseri si dissolvono nel suo immenso corpo (Mānava Dharmaśāstra, MDh, I, 50-56).
Attraverso un alternarsi di veglia e di sonno, [l’Essere] immutabile fa
vivere e morire perpetuamente tutto l’insieme degli esseri mobili e
immobili (MDh, I, 57). Brahmā alla fine di un giorno e di una notte si
desta nuovamente emanando il manas, la mente, la quale spinta dal
desiderio di creare determina in modo dettagliato la manifestazione
di un mondo. Sul tema dei cicli, il testo sostiene che i manvantara sono
innumerevoli così come le creazioni (sargaḥ) e le distruzioni (saṃhāra)
del mondo; l’Essere supremo le compie ripetutamente come per gioco
(MDh, I, 80). Il Mānava Dharmaśāstra descrive la durata del giorno e
della notte di Brahmā e di ciascuna delle rispettive quattro ere cioè
satya, tretā, dvāpara e kali yuga. Il satya yuga è composto di 4000 anni
divini (un anno divino corrisponde a 360 anni umani); è preceduto e
seguito da un crepuscolo di altrettante centinaia di anni. Nel caso
delle altre ere, ugualmente precedute e seguite da un crepuscolo, le
migliaia e centinaia di anni sono successivamente diminuite di
un’unità. La somma degli anni che compongono i quattro yuga è di
12000 anni degli dèi. Mille anni divini compongono un giorno di
Brahmā, altrettanti anni la notte (MDh, I, 68-73). 12000 anni divini ri16
Per una traduzione critica del Mānava-Dharmaśāstra vedi P. Olivelle (ed.), Manu’s
Code of Law. A critical edition and translation of the Mānava-Dharmaśāstra, Oxford, Oxford University Press, 2005.
43
MONIA MARCHETTO
petuti 71 volte costituiscono un manvantara (MDh, I, 79). Nel corso di
ogni manvantara vige un principio che è l’adesione alla Verità, la conformità all’ordine universale; tale principio è chiamato dharma ed è
rappresentato dalla figura del toro, uno degli animali simbolici per
eccellenza della tradizione indiana. Il dharma va riducendosi con il
trascorre delle ere. Durante il satya yuga esso poggia su quattro zampe (pada) e regna la verità. Negli yuga successivi il dharma è via via
privato di un pada fino ad arrivare al kali yuga in cui il toro poggia su
una zampa sola. Nel primo yuga l’uomo vive per 400 anni; la virtù
principale è l’ascesi. In ciascuno degli altri yuga la durata della vita
diminuisce di un quarto; le virtù predominanti sono rispettivamente
la conoscenza, il sacrificio e, infine, la donazione (MDh, I. 81-86).17
Il poema epico Mahābhārata tratta l’argomento nel capitolo
CLXXXVII del suo libro Vana Parva in cui il grande eroe Yudhiṣṭhira si
rivolge al saggio Mārkaṇḍeya.18 Questi non è afflitto dalla vecchiaia e
dalla morte; essendo immortale, aveva potuto contemplare il dio
manifestatore Brahmā, il Grande Avo (sarvalokapitāmaḥ) al momento
della dissoluzione quando il mondo era privo di cielo, di dèi e antidèi,
quando non rimanevano né il sole, né il fuoco, né l’aria, né la luna,
non rimaneva nulla del cielo e della terra perché il mondo (loka) con
tutti i suoi elementi mobili e immobili era divenuto un vasto oceano
e Brahmā, Signore delle creature, riposava, in stato di sonno profondo. Il Vana Parva descrive la nuova manifestazione che segue quella
dissoluzione e si sofferma sulla durata degli yuga che la compongono.19 Si tratta di un’esposizione più precisa di quella fornita dal
Mānava Dharmaśāstra in quanto si precisa il numero degli anni divini
che è di 4000, 3000, 2000, 1000 e dei crepuscoli che è di 400, 300, 200,
17
L’argomento è trattato anche in vari purāṇa.
Per un traduzione integrale del testo vedi K. M. Ganguli (ed.), The Mahabharata of
Krishna-Dwaipayana Vyasa, translated into English prose by Pratap Chandra Ray,
Calcutta, Oriental Publishing Co, 1952-62, (1st ed. 1883-1896), 12 voll.
19
Vana Parva (31-39) menziona oltre alla distruzione di un mondo (loka) anche quella
dell’intero trimundio (triloka). Ad operarla sarà la Divinità suprema stessa sotto
forma di antakāla, il tempo della fine che dissolverà l’intero universo.
18
44
CONGIUNZIONI COSMICHE DI FINE CICLO
100.20 Secondo il Mahābhārata il ciclo completo di uno yuga è di 12000
anni ed è chiamato yuga (lo yuga per eccellenza); 1000 di questi cicli
costituiscono un giorno di Brahmā. Segue un’indagine minuziosa
della degenerazione in cui gli esseri umani incorrono e che indica
l’approssimarsi della fine del kali yuga prima che inizi una nuova età
dell’oro.21 Il poema riprende il tema delle quattro zampe su cui il toro
del dharma poggia nelle varie epoche e quindi ritorna sulla questione
che l’adharma aumenta con il passare del tempo. Introduce un elemento nuovo, quello della confusione tra le caste: non vi saranno più
distinzioni tra esse, una delle cause sarà il matrimonio misto; tutti
apparterranno a uno stesso ordine sociale, rovesciando così lo stato
naturale delle cose secondo cui ogni individuo esplica una determinata funzione in base alle sue caratteristiche individuali, elementi
questi che ne determinano la naturale appartenenza a un ambito sociale – la casta – piuttosto che a un altro. Vi sarà confusione sui ruoli
svolti dagli appartenenti alle varie caste; ad esempio i brāhmaṇa non
si dedicheranno più a compiere riti, praticare ascesi ed elargire donazioni, ma lo faranno gli kṣatrya e gli śūdra; i brāhmaṇa non faranno
sacrifici, non studieranno i testi sacri, i Veda, e si asterranno dal venerare le divinità, lo faranno in loro vece gli śūdra; i sacerdoti si ciberanno di ogni sorta di cibo; in generale gli uomini saranno incapaci
di ottenere la conoscenza e prevarranno l’ignoranza, l’ira, il desiderio, la falsità.
Altri elementi peculiari del kali yuga sono forniti da un testo medievale incentrato sulla devozione al dio Rāma, molto amato e diffuso ancor oggi in India, lo Śrīrāmacaritamānasa di Tulsīdāsa.22 Nella sezione Uttarakāṇḍa vi è un dialogo tra Garuḍa, l’aquila cavalcatura del
dio Viṣṇu, e Kākabhuśuṇḍi in cui quest’ultimo spiega come ha ottenuto un corpo da corvo e la condizione d’immortalità; egli è destina20
Il Bhāgavata Purāṇa, III, 11, 19-20, precisa che il crepuscolo iniziale si chiama saṃdhyā
e quello finale aṃśa.
21
Secondo i purāṇa sia il kalpa sia il manvantara iniziano con un satya yuga e finiscono
con un kali yuga.
22
Si tratta di un testo devozionale composto nel XVI sec. d. C. in lingua avadhī da
Gosvāmī Tulsīdāsa (1532-1623).
45