DE FILIPPI, TI ODIO
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DE FILIPPI, TI ODIO
DE FILIPPI, TI ODIO La rivoluzione? Si fa anche chiudendo il Grande Fratello... di Carmine Castoro E ravamo rimasti alle giornate afose di luglio e agosto allietate, si fa per dire, solo dai film di Totò e Peppino (usurati più dal riciclo che dalla vetustà delle pellicole), dalle schegge bianconere del Dadaumpa e dalle repliche infinite dei serial di maggior successo della stagione appena trascorsa. In pratica, idee in fuga, palinsesti incartapecoriti e produzioni nuove bloccate per quell’insana associazione, stabilita ai piani alti delle tv nazionali, fra solleone e sospensione di ogni diritto all’intrattenimento e a un dignitoso livello di informazione e approfondimento della cronaca spalmati sulle 24 ore. Con questo Natale, dopo le avvisaglie degli anni passati, si è arrivati a un nuovo gigantesco buco nero nelle normali esigenze di giornalismo e spettacolo. Una valanga, neanche tanto bianca e nevosa, di cartoni animati, musical d’antan, capolavori strappalacrime, evergreen di celluloide che di verde hanno ormai solo la bile di chi li guarda per l’ennesima volta fingendo pure di commuoversi. Paccottiglia da fondo di magazzino, tentacolare offerta ricandeggiata e intinta nell’acido cloridrico della noia più nauseabonda che ha visto protagonisti, a tutte e sottolineiamo “tutte” le ore del giorno per almeno due settimane fra la Vigilia e Capodanno, eroi del Bene, principesse sulfuree, animaletti antropizzati, cani con un cuore grande così, personaggi magici, favole un tanto al chilo, vite di santi e apparizioni miracolose, sentimentalismi da cineteca Lumière il cui unico lato positivo è quello di farci amareggiare ancora di più su quegli uomini e quei cittadini che fummo e più non siamo. E così, in un vero e proprio tsunami di orsetti simpati- 34 ci, sirenette degli abissi, Santa Klaus al minimo sindacale, zannebianche, pocahontas e classici di Disney a go-go, l’unica zattera di sopravvivenza tele-salottiera è stata qualche thriller della collezione Agatha Christie lustrato come l’argenteria della nonna, e un’avventura poliziesca copiata qua e là dai contenitori ben più vasti e aggiornati dei canali satellitari. A questa lava di facili stupori e cartoline ingiallite, vanno aggiunte anche le stucchevoli interviste da Mille e una notte di Signorini nel Kalispera pre-San Silvestro dedicate a Mara Venier e alla coppia Costanzo-De Filippi, immortalata, l’una, come una regina del palcoscenico che ricorda biografia e carriera (ma senza la sua superbalconata da procaciona veneziana sarebbe stata vera gloria?), gli altri due, come statue di cera nel salotto di una casa dove pascola un bassottino e raccontano che festa faranno il 31 notte, sul genere “benediciamo i poveracci che ci guardano dall’alto della nostra pantofolaia ricchezza”. La deduzione che viene naturale? Il piccolo schermo nelle vacanze dicembrine ha voluto a tutti i costi insistere su una iperrealtà che suona ancora più indigesta e umiliante se paragonata a ciò che ancora non ci dicono sulla crisi e i tracolli socio-economici galoppanti di un’intera nazione. Insomma, una autentica debacle della creatività, del rispetto dell’utente e del bisogno di un linguaggio tutt’altro che esotico, ameno e vaniloquiante vista la difficile congiuntura che stiamo vivendo. La controprova, però – se ancora ce ne fos- se bisogno -, che la televisione, molto più di quanto si sia indotti comunemente a credere, produce filtri, diaframmi, cornici di lettura (o di colpevole oblìo) del reale, sposta soglie di attenzione, convoglia emozioni, disattiva criticità, diluisce paure, riscrive lentamente ma inesorabilmente i vocabolari collettivi attraverso i quali siamo più o meno disposti all’indignazione, alla sollevazione o non piuttosto a comodi surrogati ottici, a panacee morali e cerebrali. La televisione certamente non indottrina, non comanda, non detta, non impone, ma con altrettanta certezza presiede costantemente a una sottile opera di adulterazione e gestione dei nostri corredi più profondi, orienta lo sguardo interiore, stabilisce tempi e modi, offre orizzonti, costruisce paesaggi dell’anima, ci dilata o ci restringe come persone in base a mere esigenze di consumo, di attesa, di distrazione, di parcheggio e compostaggio umano. Insomma, è sempre più irresponsabilmente tele-visionaria e agiografica, ponendosi come l’unione perversa di miseria e ipnosi. Per questo le oscenità dei reality inseguono le retoriche e il copia-incolla dei tig- 12 gennaio 2012 LE TRE MADRI * Se l’osceno non va inteso più come la scena a viso aperto dove campeggia qualcosa tradizionalmente classificata come “pornografica”, cioè riprovevole o scandalosa per il comune senso del pudore, sarà più facile tracciarne una metafora come di rivoli che affluiscono a una fogna, a un tombino, che tutto raccoglie, contiene e “nasconde”. Un collettore di acque (morali) non sorgive. L’osceno in questa maniera non si salva da una forma di disprezzo ex quo - come di un bene non condiviso, un valore intaccato, un patto leso, una lealtà sviata - ma, anzi, si rifrange in molteplici manifestazioni, più o meno evidenziabili allo sguardo mediamente attento, di questo stesso sviamento, occultamento, seppellimento, deturpamento. L’osceno è la logica applicata al travisamento, la gestione del fraintendimento, l’oculatezza del tradire, la bontà cinica, il calcolo abbellito, l’affidabilità come strumento di offesa, l’immagine come ritocco e restaurazione: ovvero tutte quelle cerniere estetiche dove il malevolo, il finto, l’inautentico diventano organizzazione di consenso e virginale affresco di sé. È l’incantevole abisso. Della parola, dello stare, dell’apparire. Maria De Filippi incarna perfettamente alcune sembianze “oscene” fra le più pericolose, sposate con l’oleografia del suo corpo, della sua gestualità, della sua potenza professionale. E non a caso ho voluto usare il termine di madre, come di colei che nella santità evidente (ma presunta) è al di sopra di ogni sospetto: una semidivinità laica, virginale, sempre incolpevole, garante di quel tocco “magico” che, da solo, basta a recuperare il senso di un’esistenza. Sono “retoriche perverse” - secondo la felice etichetta del libro bellissimo di Guido Zingari Oscenità interiori. Verità ambigue e retoriche perverse -, ed è pertanto utile sottolinearne in lei le cornici massime. (L’idea delle “Madri” è stata presa da una notissima trilogia di film di Dario Argento - Suspiria, Inferno e La terza madre - dove si elabora il mito di tre streghe che dominano gli eventi globali con le loro arti terrifiche: mater suspiriorum, mater tenebrarum, mater lacrimarum). 1) Madre del silenzio e dell’omertà. Maria De Filippi non interferisce granché con l’andamento dei dialoghi e dei conflitti in studio, soprattutto quando questi si creano, e soprattutto a Uomini e Donne. Resta zittita, rattrappita sul gradino da dove conduce, osserva i duelli a distanza, lo straripare di questo o di questa su quello o su quella, gli improperi, gli accenni di rissa, le infamie e i veti incrociati. Ma lascia correre. Qui il messaggio è di proporre il flusso naturale della vita, le sue forme più spontanee, seppur irregolari e quasi becere, senza sovrastrutture e giudizi, senza personalismi e artificiosità di costrutto. Un inno alla verità, alla realtà senza ostruzioni, così come viene. Ma il tessuto della trasmissione è innegabile: l’avvicinamento di certe persone, la valorizzazione a scacchiera di alcuni di loro, l’istigazione degli opinionisti, il lasciar correre certe affermazioni e l’ossificazione di altre, il togliere o mettere il velo su alcuni fatti oggettivi, l’andar per “partiti” e per “partiti presi” fra chi potrebbe avvicinarsi di più alla “verità” dei sentimenti e chi, a furor di popolo, è falso dalla testa ai piedi, sono già architettura e canovaccio, testo e pattern redazionale. Dunque, la revoca del proprio io di fronte al fiume della verbosità e delle emozioni gira in cerchio con la prestidigitazione del concetto e dell’escamotage televisivo che riappaiono proprio là dove l’eruzione della “vita” pretende di essere senza censure, senza effigi, senza ritegno. 2) Madre del candore e dell’ambiguità. Maria De Filippi spessissimo non sa, non si rende conto, la redazione non gliel’ha detto, è arrivata poco fa, ignora certe mode, certe voluttà, non è informata su talune cose in cui sguazza la gran parte del genere umano, soprattutto chi ha di fronte in studio, sembra imbarazzata e a disagio, chiede supporto agli autori dietro le telecamere, pretende aggiornamenti in tempo reale dagli assistenti su mail arrivate, telefonate, retroscena che, al contrario, dovrebbe, come ogni buon conduttore, avere ben chiari nella mente, per non dire ben scritti nella cartellina. Qui il messaggio è di essere una fra i tanti, una cittadina comune, una non particolarmente dotata culturalmente, e nemmeno molto esperta e scafata nella vita, una ingenua, alla stregua di tutti, donna della strada, al massimo un gradino sopra la fornaia o la fioraia sotto casa. Questo rende il suo appeal generalista, democratico, abbordabile, materno, qualunquista. La televisione, in fondo – ci dice fra le righe -, non è quell’iperuranio che immaginano tutti, la si fa con mestiere, pure per fortuna – come me, sembra suggerirci -, con l’umiltà e il sacrificio di chi attiva una puleggia in fabbrica o di chi fa panini in 35 gì, il caos acustico dell’infotainment da primetime si sposa a un pubblicitario diffuso, le fiabe e i misticismi sotto l’albero fanno il paio con la santificazione in diretta dei vip che ce l’hanno fatta e predicano le gioie di un successo costruito sulla demenza e l’alienazione altrui. Miguel Gotor su Repubblica di qualche giorno fa, nell’analizzare i burroni delle nuove “barbarie” finanziarie, poneva l’accento sulla «forbice tra i garantiti e gli smarriti, i protetti e i sopravviventi, i cittadini e le non-persone». Esattamente quello che ci rifiutiamo di vedere nella produzione televisiva della realtà dove chi lussureggia in potere mediatico, strilli e belletti, si interfaccia con i “paria” della postmodernità che sprofondano nella povertà e nella disoccupazio- salumeria dalla mattina alla sera, o con la distrazione di chi partecipa a una riunione di condominio dove solo lo sforzo comune salva da tubature rotte e davanzali che gocciolano. Il look suffraga tutto questo: jeans, tshirt, pupazzetti colorati sul petto delle maglie, giacchini un po’ da nonna, e la sera, quando la mise elegante è di rigore, le sue gote sembrano quasi tingersi di rosso per l’obbligo a fare la “gran signora” che non vuole affatto essere. Quanto di questo carismatico volontarismo organizzativo, che rasenta l’irrazionalità più totale, non è figlio di un populismo che spaccia per “vita” e “realtà” i loro languori e sussurri, le loro sozzure pilotate e soprattutto quel minimalismo mediocratico di tutti quelli che pasteggiano (o vorrebbero da emeriti sconosciuti) con la televisione, presentatrice inclusa che si spaccia per vicina di casa? 3) Madre della salvezza e della potestà. Maria De Filippi è rappresentata negli spot dei suoi programmi (musichette-peana incluse), e si autorappresenta lei stessa, come una che può intervenire in nome del bene, che se ha dà, alle cui sagge influenze ci si può appellare, una benefattrice, un’entità tele-provvidenziale, una che valorizza il talento dei ragazzi, e nessuno lo fa, una che ha creato tanto lavoro per le giovani generazioni, e nessuno lo fa, una che si occupa del dolore delle famiglie e di tanti casi singoli disperati, e nessuno lo fa, una che avvicina cuori infranti e solitari in nome dell’amore e dei vecchi sentimenti perduti, e nessuno lo fa. Qui il messaggio è solidaristico, irenistico, filantropico, una tv a misura d’uomo, che tutela e protegge, segnala e assicura un passaggio di pubblicità o vetrina a chicchessia; l’immagine come obolo caritatevole che non si nega a nessuno, come medicamento per i caduti delle trincee della vita che, nelle retrovie delle battaglie più aspre, trovano l’indefessa infermiera che li assiste e guarisce dall’anonimato. Questo permette alla De Filippi di spadroneggiare con le matasse più intime, con i gorghi più profondi e con le vicende più inclassificabili dell’animo umano per farne non solo materia incandescente di una spesso inutile e inconcludente sovraesposizione, quanto di un ripristino violento e immediato, quasi un colpo di frusta, del suo governo assoluto sul disegno delle faccende pseudoemotive proposte, non appena il gioco, lasciato in libertà, stia sfuggendo a ogni controllo e a ogni minimo barlume di rispecchiamento morale da parte di chi guarda. Va bene il mercatino ortofrutticolo delle chiacchiere e delle dicerìe, vanno bene lo schiamazzo e la barbarie dialettica, vanno bene le bave alla bocca per argomenti che non meriterebbero cinque secondi di discussione, ma un minimo di giustizia deve pur arrivare ogni 36 ne e sono messi solo nella condizione di sognare un casting ad Amici e di curiosare fra le suppellettili di casa Costanzo. La rivoluzione certamente si fa ancora nelle fabbriche e nelle università, ma anche chiudendo anticipatamente il Grande Fratello.● tanto. All’improvviso, richiesta di un parere (il famoso “chiediamolo a Maria”, “l’ho detto a Maria”, “Maria, ma lo/la vedi come si comporta…?” e piagnistei facendo), o di fronte ad una seriale evidenza di malafede da parte di alcuni protagonisti, quando il tessuto è sfibrato, abusato, sfruttato al massimo in termini di audience, allora finalmente la De Filippi interviene con parole forti e dosate, con toni vibranti, subito tutti sono dalla sua parte, e il mar Rosso si richiude sotto la paternale da antico testamento che lancia sugli astanti. Perché sarà pure vero che Maria è un angelo caduto dal cielo delle parabole satellitari, ma il caro vecchio feudalesimo di chi deve signoreggiare per far quadrare i conti ammette solo sanzioni e spesso poche regole. Zingari in due passi fulminanti del suo libello, raro per finezza lessicale e spessore teoretico, dice: “Nella sua intimità ermetica, l’oscenità interiore si risolve in una tragica beffa architettata ai danni degli altri e ai fini della loro espropriazione totale. Quel lato ermetico sono in realtà segreti o enigmi senza dignità. Astuzie di ladri di anime. La parodia peggiore di una filosofia occulta”. E poco oltre: “Secondo un copione già redatto, si assegna così all’omertà il prestigio della più alta discrezione, alla delazione quello di un parere assennato, all’opportunismo quello di un’elegante riservatezza o all’ossequio servile quello di una lezione di civismo”. *capitolo inedito tratto da Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo (Caratteri Mobili, euro 15) di Carmine Castoro, in tutte le librerie da metà gennaio.