Emma Bernini Roberta Rota

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Emma Bernini Roberta Rota
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E. Bernini R. Rota
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dalla Preistoria
al Trecento
ISBN 978-88-421-0882-5
2
dal Quattrocento
al Seicento
ISBN 978-88-421-0909-9
3
dal Settecento
a oggi
ISBN 978-88-421-0910-5
In copertina: Fernando Botero, La casa, part., 1995, Collezione privata
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Colori compositi
Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte (o
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Euro 22,00 (i.i.)
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Roberta Rota
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arti figurative
architettura
3. dal Settecento a oggi
beni culturali
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Il tempo, lo spazio
3. IL SECONDO
OTTOCENTO
Nel corso della seconda metà
dell’Ottocento, periodo di grandi
cambiamenti sociali, economici e
culturali, i principali centri artistici si
spostarono in Francia, in Inghilterra
e in Germania, mentre l’Italia,
escluso l’ambito letterario nel quale
dimostrò capacità di rinnovamento,
rimase in disparte, frammentata in
diverse realtà locali.
In Francia, tra il 1860 e il 1870,
nacque l’Impressionismo, vera e
propria apertura alla ricerca
artistica moderna; dal 1880 si
assistette invece al diversificarsi dei
linguaggi. Alcuni pittori della nuova
generazione mirarono ad andare
oltre l’esperienza impressionista e,
nel tentativo di misurarsi con le
recenti scoperte nel campo
dell’ottica e della percezione visiva,
diedero vita a una nuova stagione
artistica e a nuove correnti come il
Neoimpressionismo e il Puntinismo.
Nel 1886, anno che segnò anche
l’ultima mostra collettiva degli
Impressionisti, sorse ufficialmente
in Francia un’interessante scuola
poetica, letteraria e artistica: il
Simbolismo.
Tutti questi diversi movimenti,
accomunati fra loro dalla
sperimentazione di nuovi linguaggi
e tecniche, furono, fra la fine del
secolo e l’inizio del successivo, un
punto di riferimento imprescindibile
per la nascita delle avanguardie.
Il predominio che la Francia aveva
conquistato in campo artistico
spinse molti artisti italiani a
trasferirsi a Parigi, ritenuta il polo
culturale più adatto all’evoluzione
della loro arte. In patria, di contro,
l’unico movimento di rilievo fu
quello dei Macchiaioli, che si
sviluppò a Firenze intorno al 1855.
3.1 James Tissot, «Silenzio! (Il concerto)», particolare, 1875 ca., olio su tela,
Manchester, Manchester Art Gallery
LINEA
DELTEMPO
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1851
Prima Esposizione
Universale
a Londra
1872
Monet dipinge
«Impressione,
levar del sole»
1874
Prima mostra
degli Impressionisti
a Parigi
1883-85
Seurat dipinge
«Una domenica
pomeriggio all'isola
della Grande Jatte»
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1886
«Manifesto del
Simbolismo»
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1889
Costruzione della
Tour Eiffel a Parigi
1891
I divisionisti
presentano
le opere alla Triennale
di Milano
1892
Monet inizia
la serie
delle Cattedrali
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3.2 Jean-Frédéric Bazille, «La
toilette», particolare, 1870, olio su tela,
Montpellier, Musée Fabre
3.3 Vincent Van Gogh, «Père Tanguy»,
particolare, 1887, olio su tela, Parigi,
Musée Rodin
3.4 Pierre-Auguste Renoir, «Donna in
un giardino», particolare, 1868, olio su
tela, Basilea, Kunstmuseum
diventarono oggetto
dell’attenzione dei pittori che non
esitarono a dipingere dal vivo,
sistemandosi con i loro cavalletti
sui marciapiedi o nei ristoranti.
L’Impressionismo ebbe però vita
breve: già verso il 1880 i dissensi
all’interno del gruppo ne
pregiudicarono la compattezza e
l’unità di intenti. Negli ultimi
decenni del secolo si assistette a
una diversificazione dei percorsi
individuali che si succedettero e si
intrecciarono evidenziando ora un
atteggiamento di tipo soggettivo,
teso a scoprire la dimensione più
intima dell’esperienza, ora una
posizione più razionale,
finalizzata all’indagine della realtà
e dei meccanismi della visione.
A conclusione del secolo si impose
per profondità e per complessità
speculativa la ricerca di Cézanne
che aprì di fatto al Novecento e
agli esordi del Cubismo.
innovazioni. Le loro opere, in cui
la rappresentazione delle figure e
dei soggetti avviene secondo le
convenzioni riconosciute e i
canoni del gusto, attrassero il
pubblico e lo conquistarono.
Notorietà e onori toccarono a
questi artisti, che ritrassero temi
storici, mitologici o allegorici con
una tecnica sapiente, con
chiaroscuri modulati, con attente
ricostruzioni degli abiti dei
personaggi e degli oggetti che li
circondavano.
La produzione di questi maestri
francesi della seconda metà del
secolo è stata denominata
pompier, per collegarla ad
espressioni dispregiative quali
«fatua pompa», oppure alle figure
nude di David, che indossavano
elmi con pennacchi
scherzosamente accostati a quelli
dei vigili del fuoco.
Introduzione
3. Il secondo Ottocento
Cinquant’anni
di cambiamenti radicali
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La seconda metà dell’Ottocento è
caratterizzata da un succedersi
estremamente complesso di
proposte, di idee e di correnti.
In pittura, dove si raggiunsero i
risultati più innovativi, si
affiancarono espressioni che
avevano come tema la realtà ed
altre che percorrevano le vie del
sogno o indagavano la
dimensione emotiva.
Tra le più significative è
l’Impressionismo – i cui artisti si
presentarono per la prima volta al
pubblico nel 1874 –, che aprì la
strada alla ricerca artistica
moderna e i cui risultati e
procedimenti non poterono essere
ignorati da nessuno, nemmeno da
coloro che lo rifiutarono.
Gli impressionisti si dedicarono
allo studio dei rapporti tra i colori,
affrontarono il problema della
percezione e con una tecnica
rapida si proposero di rendere
l’«impressione» della realtà. La
rappresentazione della vita
moderna fu perciò uno dei temi
prediletti dal gruppo e
l’immagine della città, oltre al
paesaggio, trovò, per la prima
volta nella storia della
figurazione, interpreti entusiasti e
affascinati. Le strade di Parigi, i
caffè, i teatri, i giardini
Il Salon des Refusés
La pittura accademica
Parallelamente alle correnti finora
descritte, persisteva in Europa e in
Francia uno stile più tradizionale.
Oggi la critica è propensa a
conferire maggiore importanza
agli artisti aderenti a questa
tendenza, non fosse altro che per
essere stati termine di confronto
in una stagione così esuberante di
Nel 1863 ben quattromila opere di
giovani pittori furono rifiutate
dalla giuria che selezionava i
dipinti da esporre al Salon di
Parigi. Courbet e Manet, indignati
dall’implacabile verdetto che aveva
escluso i loro lavori, presentarono,
con molti altri artisti, una petizione
al ministro delle Belle Arti.
L’imperatore Napoleone III,
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3.6 Gustave Caillebotte, «Sul Ponte
d’Europa», particolare, 1876-77, olio su
tela, Fort Worth, Texas, Kimbell Art
Museum
3.7 Gustave Moreau, «Sansone e
Dalila», particolare, 1882 ca.,
acquerello, Parigi, Musée du Louvre,
Cabinet des Dessins
informato del gran numero di
istanze esposte dai pittori esclusi e
colpito dagli articoli infuriati di
alcuni giornalisti contro
l’atteggiamento del Salon, decise,
contro il parere della sua cerchia,
di aprire nuove sale per ospitare le
opere dei cosiddetti «rifiutati».
Nacque così il Salon des Refusés.
Il 15 maggio del 1863, quasi
settemila persone presenziarono
all’inaugurazione. Tra le tele
esposte figurava anche «La
colazione sull’erba» di Manet, che
– insieme alle opere di Courbet e
di Whistler in particolare – suscitò
un grande scandalo. La critica si
scatenò (gli organi di stampa
parlarono di «Salon dei vinti e dei
proscritti») e gli spiriti benpensanti
s’indignarono rumorosamente.
Ciononostante, fu un’iniziativa
importantissima, sia per
l’opportunità offerta ad artisti
«non accademici» di esporre le
loro opere, sia perché, dopo quella
esperienza, l’imperatore si convinse
ad approvare la riforma di certe
regole antiquate e, soprattutto, a
sollecitare la riorganizzazione,
sebbene ancora parziale,
dell’Accademia di Belle Arti.
rinnovamento, la cultura
figurativa italiana verso la metà
del secolo denuncia fiacchezza e
perdita di riferimenti.
Frammentata in tante realtà locali
riuscì a dar vita a un unico
movimento di rilievo a livello
nazionale, quello dei Macchiaioli,
che si definì intorno al 1856 a
Firenze. I pittori del gruppo, che
si riunivano al Caffè
Michelangelo, sostenevano la
necessità di dipingere solamente
per macchie, ossia per colori e
per toni, in modo da ottenere gli
effetti del vero.
A differenza degli Impressionisti,
però, che utilizzeranno pennellate
veloci per rendere la mutevolezza
della luce e la fugacità della
visione, i Macchiaioli si servirono
della macchia per semplificare le
visione tradizionale e dare
consistenza e peso alle cose.
Nacque così una pittura sintetica
di grande interesse, significativa
non solo per gli esiti del gruppo
ma anche per il valore degli artisti
che parteciparono al movimento.
vari paesi, i suoi prodotti si
offrirono agli occhi degli europei
nelle grandi esposizioni
internazionali. La moda del
«giapponesismo» si affermò in
Francia; Manet collezionava
stampe, altri pittori dipingevano
ventagli in stile giapponese,
compagne e coniugi venivano
ritratte con costumi orientali,
amici e parenti erano
rappresentati sullo sfondo di
opere grafiche giapponesi. Ma
non si trattava solo di curiosità
per nuovi soggetti esotici. Per gli
Impressionisti, ad esempio, l’arte
giapponese contribuì allo
sviluppo delle loro idee
compositive e formali o
confermò le loro scelte: da quei
lavori essi trassero l’angolazione
originale e non convenzionale,
l’assenza della prospettiva
monofocale impostasi in
Occidente a partire dal
Rinascimento, l’uso di far
sfuggire le figure dal bordo della
tela, la subordinazione del
particolare all’insieme, l’uso
libero delle macchie di colore.
Anche Van Gogh, Gauguin,
Toulouse-Lautrec amarono le
stampe giapponesi, che
analizzarono con passione e da
cui ricavarono la sinteticità del
tratto e l’impianto essenziale
della composizione.
La situazione in Italia
Contrariamente alla letteratura,
che mostra capacità di
Il «giapponesismo»
nell’arte europea
dell’Ottocento
Dal 1853, quando il Giappone
venne costretto a firmare una
serie di trattati commerciali con
Introduzione
3.5 Claude Monet, «Spiaggia di
Trouville», particolare, 1870, olio su
tela, Londra, National Gallery
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3.8 Friedrich Hitzig, disegno
prospettico del Mercato coperto
di Berlino, 1865-68
Tecniche
costruttive
3. Il secondo Ottocento
Nuovi edifici
per nuove necessità
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L’architettura del secondo Ottocento, caratterizzata principalmente da quella che viene definita
«l’architettura del ferro», è segnata dai cambiamenti tecnici, sociali
e culturali connessi con la rivoluzione industriale, che già aveva
determinato forti mutamenti nel
metodo e nelle forme del costruire. L’uso sempre più diffuso delle
macchine, la maggiore velocità
nella produzione dei materiali, la
possibilità di rendere sempre più
rapidi i processi tecnici portano a
una produzione architettonica ricca e variata che comprende nuove
tipologie di edifici rispondenti alle
esigenze di un mondo che crede
nel progresso e guarda con ottimismo al futuro. Ovunque ponti,
mercati, gallerie, ferrovie, padiglioni espositivi [3.8-12] arricchiscono il paesaggio urbano e connotano i territori.
La tendenza ad applicare princìpi
scientifici, già evidente nell’architettura del periodo precedente, si
acuisce e, dunque, criteri rigorosi
e sistematici diventano la base in-
3.9 Gustave-Alexandre Eiffel,
Il viadotto di Garabit sulla Truyère,
1880-84, Francia
scindibile di una progettazione
complessa e articolata. Calcoli e
sperimentazioni precedono la
realizzazione delle strutture; allo
scopo di fornire conoscenze tecniche approfondite a chi avrebbe
avuto la funzione di progettare le
opere e dirigere i lavori, alla fine
del XVIII secolo era nata a Parigi
l’École Polytechnique, destinata a
dare una formazione matematica
e scientifica ai tecnici dell’esercito
e a quelli delle opere pubbliche.
Studi ancora più approfonditi venivano compiuti presso le Scuole
di applicazione o nell’École des
Ponts et Chaussées, pensata per
gli ingegneri che avrebbero dovuto occuparsi di strade, ponti, ferrovie. Gli ingegneri, dunque, diventano protagonisti di un nuovo
settore della produzione architettonica e il loro talento spesso supera quello degli architetti impegnati nella progettazione di opere
che ricalcano pedissequamente i
modelli del passato. Mentre gli ingegneri creano forme idonee alle
necessità del vivere moderno, gli
architetti costruiscono gli edifici
del potere – chiese, teatri, abitazioni per la borghesia – creando
anche una nuova tipologia edilizia, quella delle banche. In alcuni
casi si assiste a singolari collaborazioni tra architetti e ingegneri:
nella realizzazione di alcuni edifici, come stazioni, macelli, mercati
o padiglioni, agli architetti viene
assegnato il disegno delle parti
che si affacciano sulle piazze e
sulle strade, quindi facciate o involucri murari, mentre agli ingegneri viene commissionato il progetto dell’organizzazione interna
dello spazio e l’ideazione della
struttura portante dell’edificio.
Materiali e metodi
di costruzione
Le nuove tipologie edilizie testimoniano un nuovo modo di concepire gli edifici e gli impianti, fino ad allora pensati come strutture permanenti, progettate per durare nel tempo in un contesto preciso. Questi ora appaiono sempre
più funzionali a soddisfare speci-
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3.12 Hendrich Petrus Berlage, Borsa di
Amsterdam, 1896-1903, interno
3.10 Richard Turner, Decimus Burton, Palm House, Kew Gardens, 1848,
Londra
3.11 Johann Wilhelm Schwedler, Progetto
per gasometro dell’Imperial Continental
Gas Association, 1888-93, Berlino
Il ferro e l’acciaio
Dei nuovi materiali il ferro e, dal
1860, l’acciaio, rendono possibili
coperture di una portata eccezionale ed edifici di una altezza e di
una libertà di tracciato quali l’architettura aveva raramente conosciuto.
L’abbinamento di ferro, o acciaio, e
vetro permette di costruire strutture che consentono alla luce di
penetrare attraverso i tetti e i muri
perimetrali in tutta la loro estensione e di inondare così gli interni.
Negli Stati Uniti si impiegano travi di ferro nella costruzione di
grandi magazzini e già verso il
1860 non si maschera più la struttura portante con muri massicci,
bensì la si lascia scoperta e si chiu-
dono con vetrate gli spazi fra un
elemento e l’altro in modo che la
facciata risulti per buona parte
aperta: è una invenzione audace
che non solo cambia il modo di costruire, ma caratterizza anche la
forma dell’edificio.
Queste realizzazioni sono una dimostrazione di come le nuove tecnologie costruttive contribuiscano
a delineare una nuova architettura
in cui la struttura stessa e il rapporto tra i vari elementi che la compongono possano definire forme
compiute anche esteticamente.
Gli obiettivi estetici non sono più
l’unico punto di partenza per l’architetto; i nuovi edifici provano
che è possibile fare architettura
sfruttando ingegnosamente i soli
elementi strutturali.
tecnichecostruttive
fiche esigenze legate a un momento ben definito: si pensi ai casi limite dei padiglioni destinati a
ospitare i prodotti dell’industria
per le grandi esposizioni universali, «smontati», abbandonati o
destinati ad altra funzione dopo il
loro utilizzo. La modernità impone criteri nuovi all’arte del costruire: è necessario lavorare in
fretta con materiali poco costosi o,
meglio, utilizzare al massimo il
potenziale dei materiali. Anche
quelli tradizionali come il legno, la
pietra, i laterizi sono adoperati
con maggiore cognizione di causa
grazie alla conoscenza dei limiti di
resistenza dei materiali stessi e allo sviluppo e alla diffusione della
scienza delle costruzioni; migliorano pure le attrezzature di cantiere e trovano largo impiego le
macchine edilizie.
Ma, a seguito dei progressi dell’industria, a caratterizzare e rendere possibili le nuove strutture
sono soprattutto alcuni materiali
nuovi o già noti ma solo ora disponibili in grandi quantità a
prezzi contenuti: il cemento, la
ghisa, il ferro, l’acciaio e il vetro.
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3.13 Honoré Daumier, «Nadar innalza
3.14 Pierre-Auguste Renoir, «Le
la fotografia al livello dell’arte», dalla
rivista illustrata Le Boulevard, 1862,
litografia, Boston, Museum of Fine Arts
chapeau émpinglé», Tavola II, 1898,
cromolitografia, 60 x 48,9 cm, New
York, The Museum of Modern Art
Tecniche
artistiche
3. Il secondo Ottocento
La litografia
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La litografia (dal greco lithos = pietra e ghraphé = scrittura) è una tecnica di stampa in piano che utilizza una matrice di pietra, e che, a
differenza delle precedenti tecniche di incisione, è ottenuta con
un disegno riprodotto fedelmente,
senza danneggiare l’originale o alterare la qualità della stampa. La
stampa litografica si basa sul semplice principio, noto fin dall’antichità, di reciproca repulsione fra
acqua e sostanze grasse. Fu nel
1798 che il commediografo tedesco Aloïs Senefelder (1771-1834),
sfruttando questo principio, mise
a punto una tecnica adatta alla
stampa utilizzando la cosiddetta
«pietra di Solnhofen», una particolare pietra calcarea dalla struttura granulare molto regolare.
Il procedimento inizia con la levigatura della lastra di pietra calcarea, compatta e omogenea per evitare fratture sotto la pressione del
torchio. Il grado di levigatura di-
pende dagli effetti che si vogliono conseguire e dagli strumenti
utilizzati per disegnare. Poi si traccia il disegno con sostanze grasse
che,opportunamente bagnate poco prima della stampa, respingeranno l’acqua. L’acqua sarà invece trattenuta nelle parti della pietra non disegnate, ossia non coperte da sostanze grasse.Passando
quindi l’inchiostro sulla pietra così trattata, questo viene respinto
dalle parti inumidite e trattenuto
dalle parti grasse. Gli strumenti
utilizzati dai litografi (la matita litografica, il gessetto litografico o
l’inchiostro litografico),quindi,non
incidono la matrice, ma vi lasciano
solo un segno grafico.
Infine, durante la stampa effettuata con il torchio litografico, l’inchiostro depositatosi sulle parti disegnate della matrice si trasferisce
sulla carta.A ogni tiratura, la pietra
deve essere inumidita e inchiostrata e al disegno si possono in seguito apportare aggiunte e fare
correzioni. La litografia permette
anche di stampare a colori, preparando tante matrici, quanti sono i
colori richiesti dal disegno; in questo caso si parla di cromolitografia.
Quando, dopo una serie di prove,
si ritiene che la messa a punto sia
stata raggiunta, l’artista usa apporre sull’immagine definitiva il
3.15 Henri de Toulouse-Lautrec,
«Divan Japonais», particolare, 1893,
cromolitografia, Collezione privata
bon à tirer (visto si stampi) e ogni
foglio della tiratura viene confrontato con esso e quelli non perfettamente corrispondenti vengono
scartati. L’artista firma poi i fogli
che vengono numerati in base alla
quantità di stampe realizzate: se
ne sono state realizzate cento copie la numerazione sarà 1/100,
2/100 ecc.; la qualità non cambia
perché ogni foglio deve essere
identico al bon à tirer. I fogli che sono stati usati prima del bon à tirer
sono chiamati «prove di stampa»,
mentre se, a tiratura ultimata,
avanzano fogli di buona qualità,
questi possono essere firmati come «prova d’artista» oppure come
hors commerce abbreviato in h.c.
Inventata casualmente, per la sua
praticità e semplicità, la litografia
ebbe subito un grande successo e
la prima e maggior eco fu nel campo delle edizioni musicali grazie
alla rapidità e alla precisione con
cui le partiture potevano essere riprodotte. Ben presto furono gli artisti a interessarsi al procedimento, che offriva numerosi vantaggi:
la litografia era più semplice rispetto alle precedenti tecniche di
incisione,si poteva incidere un numero di copie molto superiore ri-
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3.17 Chaise-longue n. 9702, 1883-84,
3.18 Divanetto n. 2, 1888,
prodotta dalla Gebrüder Thonet
prodotta dalla Gebrüder Thonet
3.16 Michael Thonet, Sedia n. 14,
1859, prodotta dalla Gebrüder Thonet
L’arte di curvare il legno:
i mobili Thonet
Nel 1851, l’Esposizione Universale di Londra decretò il successo
montaggio dei vari pezzi e la rifinitura finale.
Parallelamente, Michael Thonet
cercò di semplificare e razionalizzare i processi produttivi adoperando componenti standard in
contesti diversi. Nacque così nel
1859 il famoso modello numero 14
[3.16], il cui successo è attestato
dai 50 mila esemplari venduti nei
settant’anni seguenti.Si trattava di
una semplice sedia composta di
sole sei parti assemblate con dieci
viti e dadi: i piedi posteriori e lo
schienale in un unico pezzo, e la
seduta, rotonda, impagliata.
I modelli e le altre sedute che seguirono [3.17-18] si caratterizzarono per una linea dinamica e avvolgente che, trent’anni più tardi, diventò tipica dell’Art Nouveau con
la definizione «colpo di frusta».
Fin dal 1853 Thonet aveva costituito la ditta Gebrüder Thonet che si
sviluppò rapidamente aprendo diversi stabilimenti e uffici vendita in
tutta Europa. Nel 1869, allo scadere dei brevetti ufficiali sulla curvatura a vapore del legno, quando la
concorrenza iniziò a copiare l’idea,
Thonet decise di firmare la propria produzione applicando un’etichetta di carta o una marchiatura
a fuoco su ogni pezzo prodotto per
attestarne l'autenticità.
Due anni dopo, il geniale falegname, che era divenuto uno dei più
importanti industriali austriaci,
morì a settantacinque anni; la sua
attività fu portata avanti dal figlio
August e ancora oggi i mobili
Thonet sono venduti in milioni di
esemplari.
tecnicheartistiche
spetto all’acquaforte ed era inoltre
possibile stampare a colori.
Fin dai primi decenni dell’Ottocento, grandi artisti come Goya,
Géricault, Delacroix, impiegarono
la nuova tecnica per esplorarne le
possibilità espressive raggiungendo risultati straordinari. Verso la
metà del secolo cominciarono a
comparire le prime riviste illustrate con le litografie di caricaturisti e
di pittori più o meno famosi; Honoré Daumier, ad esempio, se ne
servì per diffondere la sua feroce
satira politica, la sua «pittura sociale», nonché la sua lettura dei
cambiamenti in atto nella società
del tempo [3.13].
Anche gli Impressionisti [3.14] si
interessarono alla litografia, ma fu
con Henri de Toulouse-Lautrec
che la tecnica conobbe un vero e
proprio salto di qualità grazie anche al nuovo ambito di applicazione, quello dei manifesti pubblicitari (affiches in francese). L’artista parigino produsse uno dei
suoi manifesti più noti nel 1893
per un locale di Montmartre: nel
«Divan Japonais» [3.15] la figura
femminile in primo piano, la cantante Jane Avril, ricorda, nella sagoma scura interamente campita
in nero, l’incisività e l’eleganza
della grafica giapponese.
internazionale delle sedie e delle
poltrone in legno curvato disegnate e prodotte da Michael Thonet (1796-1871) e del suo sistema
di lavorazione, frutto di una lunga
ricerca e di un’idea geniale.
Nato a Boppard, in Prussia, ancora molto giovane Michael Thonet
aveva aperto una piccola falegnameria specializzata nella realizzazione di particolari decorativi destinati a essere sovrapposti a mobili tradizionali. Questi elementi
curvilinei venivano ricavati a intaglio oppure piegando sottili strisce di legno ammorbidite in acqua
e colla bollente e pressate in apposite forme; ma poiché i risultati
erano spesso insoddisfacenti a
causa dell’instabilità dei collanti,
Thonet decise di eliminare la colla e utilizzare unicamente legno
stagionato.
Per molti anni egli sperimentò diversi metodi finché riuscì a mettere a punto un sistema a vapore
che gli consentì di curvare il legno
di faggio e di impiegarlo nella costruzione di seggiole e poltrone.
Il procedimento per la curvatura
del legno prevedeva la permanenza di lunghe aste tornite in
ambienti saturi di vapore acqueo
fino a che fossero completamente
impregnate e quindi morbide come rami freschi ricchi di linfa. Poi,
ancora umide, venivano curvate
in forme apposite di ghisa e poste
in speciali essiccatoi per eliminare
l’acqua. La fase successiva prevedeva una lavorazione semi-manuale per sistemare i vari spessori
che non erano mai costanti, il
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3.66 Daniele Ranzoni, «Giovinetta in bianco», 1887, olio su
tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna
Capitolo3.13
LA PITTURA ITALIANA
3.67 Tranquillo Cremona, «High Life», 1877, acquerello su
carta, 50,5 x 35 cm, Milano, Galleria d’Arte Moderna
Intorno al 1860 si sviluppò il movimento della Scapigliatura milanese, che riuniva poeti, pittori e scultori accomunati dal desiderio di opporsi alla cultura dominante, troppo rigidamente accademica.
Tra i pittori scapigliati, Tranquillo Cremona (18371878) rivela un grande interesse per lo studio della
luce e del colore come mezzo di espressione
della realtà. L’elemento più caratteristico della sua
pittura consiste nell’annullamento della linea di
contorno e nel dissolvimento delle figure nello spazio circostante.
In «High Life» [3.67] i soggetti paiono quasi confondersi con l’ambiente naturale, risultando pressoché illeggibili. Alcune macchie di colore purissimo,
dalle tonalità fredde e brillanti, alternandosi ad un
morbido chiaroscuro, suggeriscono le forme di tre
fanciulle, intente a conversare con una quarta figura
femminile, comodamente sistemata su una sedia da
giardino. Nella scena, Cremona abbandona ogni preoccupazione di fedeltà al dato reale a favore di un’im-
magine in cui la pennellata sfatta e luminosa, i vapori colorati e iridescenti attuano un’atmosfera di grande sensibilità emotiva.
La sperimentazione sui problemi della luce e del colore caratterizza anche la pittura di Daniele Ranzoni
(1843-1889). Le sue opere hanno però un tono più intimo, che corrisponde alla personalità dell’artista, uomo dal carattere schivo e introverso.
Il ritratto di «Giovinetta in bianco» [3.66], compiuto nel 1887, raffigura una fanciulla dal volto minuto e
dai lineamenti delicati, con un severo abito bianco,
abbellito da un monile d’oro e da un cappello del medesimo colore della veste.
Volta di tre quarti, ella guarda verso destra con uno
sguardo assorto, la bocca appena corrucciata. L’immagine risulta rarefatta; la gamma coloristica quasi
monòcroma del dipinto, giocata su sottili variazioni
tonali tra l’azzurro pallido e il grigio argento, tende a
confondere la figura con lo sfondo. Il dipinto, che
rende con evidenza l’espressione decisa del personaggio, fu realizzato nel periodo in cui l’artista, preda di cupe crisi depressive che lo costrinsero anche a
un ricovero in ospedale psichiatrico, si dedicava sporadicamente alla pittura.
3. Il secondo Ottocento
Tranquillo Cremona
e Daniele Ranzoni
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3.69 Giovanni Boldini, «Ritratto di Gertrude Elizabeth
Blood, Lady Colin Campbell», 1897 ca., olio su tela, 1,82 x 1,17
m, Londra, National Portrait Gallery
3.68 Giuseppe De Nittis, «In tribuna», 1881, olio su tela,
196 x 106 cm, Roma, Galleria d’Arte Moderna
3.13 La pittura italiana
Nella seconda metà dell’Ottocento, numerosi
pittori italiani scelsero di
recarsi a Parigi alla ricerca di nuove e più moderne esperienze.
Tra di essi, Giuseppe De
Nittis (1846-1884) compì il suo primo viaggio in Francia nel 1867 (cfr. pp. 135 sgg.).
Entrato a far parte della cerchia di artisti italiani che
ruotavano intorno al celebre mercante Goupil,cominciò a frequentare i principali esponenti dell’Impressionismo, partecipando su invito di Degas alla loro
prima mostra (cfr. p. 98).
La ricerca pittorica di De Nittis rivela l’interesse per i
temi tratti dalla vita quotidana, che illustrano i divertimenti e i ritrovi mondani della società parigina
[3.68], con i suoi protagonisti eleganti e raffinati e la
sua atmosfera vivace e movimentata, un mondo di cui
egli si sentiva pienamente partecipe.
Un percorso in parte simile a quello di De Nittis caratterizza anche l’avventura parigina di Giovanni Boldini (1842-1931), che ricevette i primi insegnamenti artistici dal padre a Ferrara, dove era nato.
Artisti italiani a Parigi:
Giuseppe De Nittis,
Giovanni Boldini,
Federico
Zandomeneghi
Nel 1862 il giovane Boldini si trasferì a Firenze, dove si
iscrisse all’Accademia di Belle Arti e conobbe il gruppo di artisti macchiaioli che frequentavano il Caffè Michelangelo. Questa esperienza ebbe un ruolo importante nella maturazione dell’artista, consentendogli
di sviluppare un linguaggio personale, caratterizzato
da uno stile veloce, libero da ogni accademismo.
Nel 1867, quando compì il suo primo viaggio a Parigi
per visitare l’Esposizione Universale, Boldini conobbe
Degas, con cui instaurò un rapporto di profonda amicizia, come pure con Manet e Sisley. Ritornato in Italia,
grazie alla conoscenza dei più illustri rappresentanti
della colonia inglese a Firenze, egli partì per Londra
(1870), dove il contatto con la tradizione pittorica settecentesca, in particolare quella dei grandi ritrattisti, influenzò in maniera determinante la sua produzione.
Di poco successiva al suo rientro da Londra fu la decisione di Boldini di trasferirsi definitivamente a Parigi
dove, proprio come De Nittis, egli iniziò a lavorare per
il mercante Goupil.
Il grande successo internazionale di Boldini giunse
con i ritratti, da cui emerge uno spaccato preciso dell’alta società parigina di fine secolo, di quella élite
esclusiva che trascorreva il proprio tempo fra teatri,divertimenti mondani e conversazioni salottiere.
Nel ritratto di Lady Colin Campbell [3.69], la donna,
in un elegante abito nero, siede su un divano, rivolgendo allo spettatore uno sguardo intenso e leggermente ammiccante. La sua posa è scomposta e la ma-
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3.70 Giovanni
Boldini, «Ritratto
di Mademoiselle
Lanthelme»,
1907, olio su
tela, 227 x 118
cm, Roma,
Galleria
Nazionale d’Arte
Moderna
3.71 Federico
3. Il secondo Ottocento
Zandomeneghi,
«Al caffè», 1884,
olio su tela, 65 x
55 cm, Mantova,
Palazzo Te,
Museo Civico
134
no sinistra gioca tra i capelli,accentuando l’impressione di istantaneità dell’immagine. La gamma cromatica è ridotta ad una raffinata variazione di toni di colore grigio, dal nero profondo dell’abito alla tinta perlacea della spalliera del divano, su cui risaltano per contrasto il candore della pelle,il rosso della bocca e le due
rose, unico elemento decorativo dell’abito.
La pennellata del pittore con gli anni si fa sempre più
rapida e nervosa, si dispone sulla tela con un impasto
molto irregolare, talvolta sottile, in altre parti più denso e materico, in modo da rendere con maggiore efficacia il dinamismo della composizione, senza rinunciare alla caratterizzazione psicologica del personaggio [3.70].
Un altro artista che da Parigi non farà più ritorno in Italia è il veneziano Federico Zandomeneghi (18411917). Avviato alla carriera artistica dal padre Pietro,
scultore, abbandonò gli studi presso l’Accademia di
Venezia per seguire i propri ideali politici: nel 1860
partecipò infatti allo sbarco delle truppe garibaldine in
Sicilia.
Non potendo più rientrare in patria, Zandomeneghi si
trasferì a Firenze. La conoscenza delle ricerche condotte dagli artisti macchiaioli influenzò profondamente la sua pittura, che si indirizzò verso una più diretta rappresentazione del reale, senza rinunciare
completamente all’uso del chiaroscuro e del disegno.
Nel 1874 l’artista si recò a Parigi per un breve soggiorno; affascinato dal vivace e moderno clima culturale
della capitale francese decise di stabilirvisi definitivamente. Proprio in quell’anno si tenne la prima mo-
stra degli Impressionisti; Zandomeneghi non ne rimase tuttavia particolarmente colpito, più interessato alle opere di Courbet, di Corot, e dei rappresentanti della scuola di Barbizon. Solo successivamente, a
partire dal 1879, Zandomeneghi si accostò al linguaggio impressionista, nel quale intravide la possibilità di compiere nuove sperimentazioni sul colore.
Legato da affettuosa amicizia con tutti i pittori del
gruppo, egli iniziò ad esporre insieme a loro, lavorando per il mercante d’arte Durand-Ruel. Ne condivise, inoltre, anche le scelte tematiche: i soggetti dei
suoi dipinti comprendono per lo più vedute di piazze e di movimentate strade cittadine, con i suoi palazzi, i locali notturni e i caffè, luogo di incontro di
tutto il bel mondo parigino.
Un’immagine particolarmente rappresentativa di
questo ambiente frivolo e vivace è il quadro «Al caffè»
[3.71], in cui una signora della borghesia, col cappellino a veletta, è seduta ad un tavolino con accanto un
uomo, del quale si intravede soltanto un braccio; alle
spalle della donna un altro avventore è intento a bere.
Zandomeneghi utilizza nel dipinto un taglio particolarmente scorciato che ravvicina l’immagine rendendola più immediata; una composizone che risente
particolarmente dello stile di Degas e di ToulouseLautrec.
La tecnica coloristica risulta invece diversa da quella
dei colleghi francesi; egli costruisce la forma attraverso una serie di pennellate striate e filamentose, più
legate alla sua formazione veneziana che alle novità
impressioniste.
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3.72 Il Palazzo della Marra che ospita
info utili
la Pinacoteca G. De Nittis, Barletta
> itinerario3
LA PINACOTECA
GIUSEPPE DE NITTIS
A BARLETTA
re alla città natale del pittore la raccolta così gelosamente custodita.
Fu così che nel 1914 la città di Barletta entrò in possesso della collezione, composta da 146 quadri e 65
fra disegni e incisioni varie, oltre ai
libri e all’epistolario dell’artista.
Una prima sistemazione fu trovata
nel 1926 in una scuola elementare,
seguita qualche anno dopo dalle
sale di Palazzo San Domenico, sede
presto chiusa perchè inadeguata e
pericolante. Seguirono anni di abbandono. Solo nel 1992, restaurato
il Castello di Barletta, si approfittò
dell’occasione per rimettere in mostra le opere del maestro, dando
avvio a un processo di rivalutazione
che rese evidente la necessità di
trovare alla collezione una degna
sede, individuata poi nel Palazzo
della Marra.
Edificato alla metà del Cinquecento,
e arricchito di elementi decorativi
nel Settecento, il prestigioso Palazzo della Marra era entrato a far parte del demanio statale nel 1958 ed
era andato incontro a un lento degrado. Decisa la sua nuova destinazione nei primi anni del 2000, l’edificio è stato sottoposto a lavori di restauro e a un’opportuna rifunzionalizzazione museografica. Finalmente nel 2006, ritornato al suo antico
splendore, il palazzo è stato aperto
al pubblico nelle vesti di museo,
rendendo finalmente fruibile l’intera Pinacoteca Giuseppe De Nittis.
iuseppe De Nittis nacque a Barletta nel 1846. Morti prematuramente i genitori, si trasferì con i fratelli presso i nonni a Napoli dove,
segnato da una precoce vocazione
per la pittura, frequentò l’Istituto di
Belle Arti, dal quale fu espulso dopo solo due anni per l’insofferenza
espressa nei confronti degli insegnamenti accademici.
Nella città partenopea, dal 1863 al
1866, insieme con altri pittori coi
quali condivideva la ricerca per stilemi capaci di riprodurre la realtà in un
modo immediato, fondò la «Scuola
di Resina», nota anche come la «Repubblica di Portici». Fu questo un
periodo segnato dal contatto diretto
con la natura, durante il quale imparò a tradurre sulla tela le atmosfere
e a creare immagini vibranti.
Dopo i primi riconoscimenti a Napoli – due suoi piccoli dipinti furono
acquistati per conto di Vittorio
Emanuele II –, De Nittis partì nel
1866 per Firenze dove incontrò il
gruppo dei Macchiaioli. Al 1867 risale il primo viaggio a Parigi, la città dove andrà a vivere e che decreterà il suo successo. Nella capitale
francese, infatti, l’artista si dedicò a
«far della figura», a ritrarre luoghi
di ritrovo, salotti e ambienti cittadini, con una maestria che presto lo
imporrà all’attenzione della critica
e del pubblico. Al Salon del 1872,
un suo dipinto «La strada da Brindisi a Barletta», lo rese di colpo cele-
G
La Pinacoteca Giuseppe
De Nittis a Barletta
a Pinacoteca De Nittis a Barletta raccoglie una cospicua raccolta di opere pittoriche e grafiche del
maestro barlettano, giunta nella
città pugliese per espressa volontà
testamentaria della vedova De Nittis, Léontine Gruvelle.
Léontine, per far fronte alla difficile
situazione economica in cui si ritrovò dopo la prematura morte del
marito (dovuta alle spese sostenute per la casa in rue de Viète, nel
lussuoso quartiere parigino di
Monceau), vendette molte opere di
proprietà del pittore eseguite da
importanti artisti suoi contemporanei (Degas, Manet e altri), ma conservò l’intera produzione del marito che si trovava nel suo atelier al
momento della sua morte.
Convinta sostenitrice dell’abilità di
De Nittis, acclamato in vita ma presto dimenticato dal pubblico e dalla critica, Léontine decise di affida-
L
L’itinerario consigliato richiede poco
più di un’ora.
La Pinacoteca ospita spesso mostre
temporanee che attirano molti
visitatori; se quindi si intende
portare un gruppo nei giorni festivi,
quando sicuramente l’affluenza è
maggiore, è consigliabile la
prenotazione.
Naturalmente si suggerisce di
visitare tutta la raccolta barlettana di
De Nittis in quanto questa ha il
pregio di presentare tutte insieme
opere molto significative del
maestro.
on line:
http://www.pinacotecadenittis.it/
pinacoteca.html
>3
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bre; al Salon del 1873, «Che freddo», immagine deliziosa di eleganti signore che passeggiano in uno
spoglio paesaggio invernale, ebbe
un successo «strepitoso».
Nel 1869 sposò Léontine Gruvelle,
donna intelligente e ambiziosa, con
la quale anni più tardi acquistò una
casa nel quartiere di Monceau a Parigi, un quartiere elegante dove
abitavano altri artisti facoltosi, facendone subito un luogo di incontro per la buona società.
Nel 1874 si recò per la prima volta a
Londra, dove soggiornò tante altre
volte, alla ricerca di nuovi motivi di
ispirazione e per ampliare il suo
mercato. I suoi viaggi furono frequenti, toccando sempre la mai dimenticata Italia, Napoli in particolar modo.
Famoso, ammirato, richiesto, il maestro italiano divenne un personaggio di primo piano sulla scena parigina; a soli trentotto anni, colpito da
congestione celebrale, morì improvvisamente: era il 18 agosto 1884. Era
stato un impareggiabile interprete
della società parigina che aveva documentato con mano briosa e leggera, ma anche un paesaggista sensibile attento alle luci e alle forme.
’itinerario intende documentare
da un lato le ricerche relative all’atmosfera creata da un paesaggio, da una scena all’aperto o da
un interno, dall’altro quelle dedicate alla vita moderna che l’artista
seppe descrivere con grande abilità. Il percorso presenta inoltre diverse opere legate agli affetti domestici.
Alcune opere scelte sono state realizzate a pastello per documentare la maestria con la quale De Nittis seppe gestire questa tecnica
anche in dipinti di grandi dimensioni.
L
3. Il secondo Ottocento
>3
> «Passa il treno»
136
Il tema del paesaggio – affrontato
per la prima volta negli anni napoletani, quando ancora giovane De
Nittis aveva abbandonato l’accademia per dipingere en plein air, a diretto contatto con la natura intatta
della Campania e della Puglia – subì una lenta evoluzione seguendo
gli sviluppi artistici e le scelte stilistiche dell’artista, mantenendo però sempre vivo quell’interesse per
le atmosfere che caratterizza tutte
le sue opere.
Quando era ormai un pittore affermato, lontano dai paesaggi che
avevano caratterizzato le tele giovanili, lo stesso De Nittis scrisse nel
suo Taccuino: «L’atmosfera io la conosco bene e l’ho dipinta tante volte. Conosco tutti i segreti dell’aria e
del cielo nella loro intima natura.
Oh, il cielo! Ne ho dipinti di quadri!
Cieli, cieli soltanto, e belle nubi. La
natura, io le sono vicino! L’amo!
Quante gioie mi ha dato!».
In «Passa il treno» [3.73], eseguito a olio fra il 1878 e l’anno seguente, la diagonale di vapore creata da
3.73 Giuseppe De Nittis, «Passa il treno», 1878-79, olio su tela, 67,5 x 130,5 cm
un treno appena passato, che si intravede in lontananza a sinistra, attraversa tutta la tela, mentre la linea dell’orizzonte, marcata dall’incontro del grigio-blu plumbeo del
cielo con il verde-bruno della terra,
divide il quadro in senso orizzontale. A destra «escono» dal fumo due
stecchite betulle, mentre a sinistra
due piccole figure femminili lavora-
no curve nel campo, quasi indifferenti al passaggio della locomotiva.
De Nittis sembra soffermarsi sulla
nuova fisionomia che la strada ferrata imprime al paesaggio naturale,
ma, proprio grazie all’espediente
della lunga scia di vapore, pare anche voler in qualche modo rappresentare il movimento e la velocità
del nuovo mezzo di locomozione.
appare capace di convertire una
veduta di città in atmosfera: le nubi in primo piano, pesanti, minacciose, sembrano diradarsi per dare
spazio a un cielo coperto ma luminoso su cui si stagliano gli edifici
della città.
Il ponte attraversa la tela con un
>«Studio
per Westminster Bridge»
Nello studio per la tela «Westminster Bridge» [3.74], realizzato a
Londra nel 1878 durante uno dei
suoi soggiorni, l’arte di De Nittis
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moto curvilineo leggermente diagonale, fungendo da divisorio fra
l’acqua e il profilo dei monumenti.
Il quadro dimostra la felicità di tocco di De Nittis e la sua capacità di ritrarre il tema in modo sintetico con
pennellate veloci e sciolte. In questa tela la suggestione dell’ora, della stagione, del momento producono un paesaggio quasi tumultuoso
per il zig-zag delle pennellate: tracce animate che assorbono brandelli di luci e di ombre dal cielo nuvoloso.
74 Giuseppe De Nittis, Studio per
«Westminster Bridge», 1878, olio su
tela, 80 x 134 cm
3.76 Giuseppe De Nittis, «Giornata
d’inverno (Ritratto della signora De
Nittis)», 1882, pastello, 155 x 95 cm
>Due ritratti
di Léontine De Nittis
di una finestra aperta su un paesaggio innevato, la signora De Nittis è colta in un momento di pensoso riposo. Davanti a lei, sul tavolo
tondo, il vassoio con una tazza di
porcellana giapponese, segno dell’amore dell’artista per gli oggetti e
i lavori nipponici di cui era un appassionato collezionista.
Definito dagli estimatori di De Nittis
«una sinfonia in bianco», il dipinto
>3
3.75 Giuseppe De Nittis, «Figura di
donna», 1880, olio su tela, 73 x 39 cm
incanta per la capacità del pittore di
coniugare e interpretare questo colore. I bianchi del paesaggio, quelli
della veste, sino alle sfumature perlacee del viso e delle mani, assumono mille modulazioni connotando questa vibrante scena d’interno:
uno squarcio di vita moderna in cui
all’eleganza della figura e dell’ambiente si unisce la dimensione sentimentale e domestica.
La Pinacoteca Giuseppe
De Nittis a Barletta
Léontine Gruvelle, la signora De
Nittis, fu tra le modelle preferite dal
pittore. È lei la figura ritratta nel dipinto a olio intitolato semplicemente «Figura di donna» realizzato nel
1880 [3.75]. La donna, molto elegante nell’aderente e lunga giacca
nera accostata a una cangiante
gonna azzurra, sembra guardare lo
spettatore, mentre con gesto grazioso tiene l’ombrellino dietro la
schiena. L’atteggiamento immediato, come colto da un obiettivo fotografico, ricorda l’arte di Degas, amico di De Nittis.
La silhouette di Léontine si evidenzia sul fondo chiaro e luminoso, in
cui si notano evidenti riferimenti alle carte da parati giapponesi. La
stesura pittorica, a pennellate dense e brevi, descrive l’abbigliamento
senza definizioni accademiche, con
una freschezza straordinaria. Solo
il volto di Léontine è realizzato con
una grande attenzione alla fisionomia e allo sguardo; i lineamenti evidenziati dalla cornice del morbido
cappello nero, e dalla giacca con il
collo che sale fino al mento, svelano il carattere deciso della donna e
la sua delicata bellezza.
Ancora Léontine è la modella del
pastello «Giornata d’inverno», del
1882 [3.76]. Seduta sullo sfondo
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>«Il salotto
della principessa Matilde»
3. Il secondo Ottocento
>3
Abile descrittore del bel mondo parigino, De Nittis dipinge nel 1883 «Il
salotto della principessa Matilde»
[3.77], figlia di Gerolamo Bonaparte e moglie (divorziata) del principe
russo Anatolio Demidoff. De Nittis e
sua moglie Léontine erano ospiti
abituali in questo esclusivo salotto,
nell’Hotel in rue de Berri, ultima residenza parigina della principessa e
ritrovo del mondo politico e culturale della capitale francese.
La descrizione che l’artista dà dell’ambiente corrisponde alle descrizioni letterarie dell’epoca: sedie e
poltroncine erano disposte in due
semicerchi a lato della padrona di
casa, che sedeva su un canapè dietro un tavolo rotondo. Ma il quadro
non si limita a descrivere la sontuosa sala dominata dai colori rosso e
oro né vuole essere un semplice
omaggio alla principessa: con un
taglio inconsueto, dalla tenda tirata, l’osservatore ha l’impressione
di assistere alla soirée.
L’anziana principessa, rappresentata nell’atto di conversare con un
138
signore, è relegata sul fondo seppure al centro del dipinto. Protagonisti della composizione sono la
donna di spalle che indossa un abito di pizzo nero e il grande mazzo di
fiori in primo piano; da qui parte lo
sguardo dell’osservatore-spettatore per aprirsi poi sulla scena in secondo piano.
Sul tavolo a destra, accanto alla signora di spalle, una serie di oggetti
compongono una delicata natura
>«Alle corse di Auteuil»
3.78 Giuseppe De Nittis, «Alle corse
di Auteuil - Sulla seggiola», 1883, olio
su tela, 107 x 55,5
Nel dipinto «Alla corse di Auteuil Sulla seggiola», realizzato nel 1883
[3.78], De Nittis ritrae uno fra i luoghi prediletti dalla ricca borghesia e
dalla nobiltà parigina ed è una replica del pannello sinistro del grande
trìttico a pastello intitolato «Le corse
di Auteuil», oggi conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Non si
conoscono le ragioni della replica,
forse commissionata oppure realizzata come memoria di un lavoro che,
esposto nel 1881 al Cercle des Mirlitons a Parigi, insieme a diciassette
pastelli, suscitò grande interesse.
L’aspetto più interessante del trìttico era l’uso della tecnica a pastello
nelle ampie dimensioni: «De Nittis
– scrisse lo storico dell’arte tedesco H. Tintelnot – eleva il pastello a
grande formato da museo e il tema
della società contemporanea alla
forma degli altari». Il dato più rilevante della versione barlettana, invece, è il cambio di tecnica: qui il
pastello è sostituito dall’olio, forse
perché l’artista voleva verificare i
possibili mutamenti d’effetto impiegando un diverso mezzo pittorico per lo stesso tema.
La composizione, sostanzialmente
uguale all’originale – qualche figura
è stata eliminata dallo sfondo, è stato accentuato lo sviluppo verticale
degli alberi, all’uomo in primo piano
è stato aggiunto un occhiale pincenez – presenta una coppia elegante
intenta a osservare le corse.
La descrizione degli abiti, precisa e
compiaciuta, definisce i tessuti, gli
ornamenti, ma non scade mai nella
resa puramente accademica: le forme vengono definite con le caratteristiche pennellate veloci e sintetiche.
3.77 Giuseppe De Nittis, «Il salotto
della principessa Matilde», 1883, olio
su tela, 74 x 92,5 cm
morta sul piano coperto dalla luminosa tovaglia.
De Nittis rivela anche in questa tela
di saper cogliere l’atmosfera di una
serata elegante sintetizzando le
forme con pennellate sciolte e morbide, frante e vibranti, e con un
«moderno» pulsare di ombre e luci.
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Anche le figure sul fondo sono tratteggiate con pochi tocchi leggeri per
consentire alla coppia centrale di
avere un netto rilievo in primo piano.
>Un «Autoritratto»
L’«Autoritratto» del 1883 [3.79],
tra i pochi eseguiti da De Nittis, ci
restituisce la sua figura all’interno
della sua ultima casa di rue de Viète a Parigi.
Il pittore, appoggiato a un caminetto sulla destra della composizione,
lascia spazio alla descrizione dell’ambiente: una prima stanza, in cui
egli stesso si trova, con il divano, il
tappeto, il tavolino e il lume, e, oltre le porte semiaperte, il salotto illuminato da una luce chiara.
La figura è composta da segni a pastello larghi e sintetici che non
escludono però la caratterizzazione dei tratti fisionomici. Alcune parti dell’immagine, i calzoni e le scarpe sembrano essere ancor più sinteticamente rappresentati o addirittura solo abbozzati; con gli stes-
Pagina 139
Risulta interessante anche l’aspetto
compositivo; dato il formato allungato – oltre un metro e mezzo l’altezza del pannello – per movimentare
l’impianto, De Nittis ha posto i personaggi ad altezze diverse, usando
l’espediente della sedia sulla quale
è salita la giovane signora.
3.79 Giuseppe De Nittis, «Autoritratto»,
1883, pastello, 114 x 88 cm
si segni, decisi, essenziali sono realizzati il tappeto e i mobili.
È ancora la luce che trasfigura questa rappresentazione domestica: si
accende sul volto del pittore e rischiara l’ambiente sul fondo messo
in rilievo anche dallo scuro delle
pareti e del divano che costituiscono una quinta cupa. I tratti colorati
descrivono il salotto che si intravede in modo più preciso delle forme
in primo piano: si sovrappongono,
sfumano, costruiscono le cose con
maggiore precisione come per volere riportare all’attenzione quello
spazio che la composizione ha relegato lontano.
L’uso magistrale del pastello permette all’artista di variare le consistenze, le luci e gli effetti coloristici
per comporre un dipinto non con-
venzionale dove la rappresentazione della figura si identifica con
l’ambiente costruito, ricercato e familiare allo stesso tempo.
>La «Colazione
3.80 Giuseppe De Nittis, «Colazione in giardino», 1884, olio su tela, 81 x 117 cm
lemento centrale della composizione, è luce pura che sostanzia la
stoffa, le posate, le porcellane, i vetri. Con vibrazioni e intensità diverse, la luce configura la «natura mor-
ta» composta sulla tovaglia conferendo alle cose una brillantezza e
una trasparenza di colori raramente eguagliata dall’artista nelle sue
opere.
La Pinacoteca Giuseppe
De Nittis a Barletta
Tra le ultime opere dell’artista, «Colazione in giardino» [3.80], dipinto nel 1884, è anche una delle sue
creazioni più alte.
Seduta al tavolo della colazione
con il figlio Jacques, Léontine gira
delicatamente il cucchiaio nella tazza mentre guarda le oche e le anatre che entrano ed escono dallo stagno. Immagine di silenziosa intimità domestica, l’opera è una superba riproduzione di effetti luminosi:
la delicata figura della donna viene investita da graduali sfumature
chiare, mentre una cresta luminosa
sottolinea il contorno della manica
della giacchetta scura del bambino. La luce, chiara e splendente, investe il prato dietro la quinta delle
fronde ombrose e scure dell’albero.
In primo piano la tavola coperta da
una tovaglia bianca, che risulta l’e-
>3
in giardino»
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info utili
La visita richiede almeno due ore. Se
si vuole visitare il Palazzo Reale e il
Parco, occorre un intero pomeriggio.
on line:
http://www.schoenbrunn.at/it/
3.112 Pianta degli edifici e dei
giardini di Schonbrunn
1. La Residenza Reale; 2. Zoo;
3. «Gloriette»; 4. La Serra delle Palme
> itinerario4
3. Il secondo Ottocento
>4
LA SERRA DELLE
PALME NEL PARCO
DI SCHÖNBRUNN
A VIENNA
156
a Serra delle Palme è dislocata
all’interno del Parco imperiale di
Schönbrunn, uno dei maggiori monumenti austriaci nonché una delle
mete più frequentate di Vienna.
L’intero complesso di Schönbrunn,
che comprende la Reggia, residenza estiva degli Asburgo, e tutte le
strutture costruite nei secoli al suo
interno, è stato dichiarato Patrimonio culturale dell’Umanità dall’Unesco nel 1996.
Il grande parco è dominato dalla residenza reale voluta nel 1696 dall’imperatore Leopoldo I, che incari-
L
cò per la sua costruzione l’architetto Bernhard Fischer von Erlach, anche se il progetto venne completato solo a metà del XVIII secolo da
Nikolaus Pacassi.
Nei giardini, disegnati all’inizio del
Settecento da Jean Trechet, Francesco Stefano di Lorena, marito di
Maria Teresa d’Asburgo, fece costruire nel 1752 un giardino zoologico – il più antico al mondo che si
sia conservato – con padiglione ottagonale; nel 1775, nella collina
dietro il palazzo, fu realizzato un
porticato neoclassico (detto «Gloriette») da Ferdinand von Hohenberg. Tra il 1880 e il 1882 fu costruita poi la Serra delle Palme, mentre
nel 1904 venne realizzato l’ultimo
edificio voluto dalla casa imperiale,
la cosiddetta Serra della Meridiana,
anch’essa destinata a ospitare
piante esotiche
Obelischi, fontane, sculture, piscine e persino un labirinto rendono
vario e straordinariamente scenografico il parco che, benché progettato secondo schemi rigidamente
geometrici, si apre per svelare visioni mutevoli e sempre variate secondo una concezione tipicamente
barocca.
’itinerario focalizza l’attenzione
sulla grande Serra delle Palme,
uno degli edifici del suo genere più
belli al mondo, per testimoniare
l’abilità e la creatività degli architetti che nella seconda metà dell’Ottocento adoperarono il ferro e il
vetro per la costruzione di edifici
destinati a particolari funzioni.
Si consiglia di soffermarsi comunque davanti al Palazzo Reale, di
percorrere il labirinto e i viali del
grande parco.
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>La Serra delle Palme
3.113 Franz Xaver Segenschmid,
Serra delle Palme, 1880-82, Parco di
Schonbrunn, Vienna
3.114-115
Franz Xaver
Segenschmid,
Serra delle Palme,
particolari
glioramento della qualità del ferro
e dell’acciaio, ma anche un aumento della produzione di questi materiali e la conseguente riduzione dei
costi. A questi notevoli vantaggi occorre anche aggiungere l’estrema
flessibilità dei nuovi materiali, che
consentiva un suggestivo sviluppo
curvilineo dei profili e la resa di for-
me eleganti e dall’apparenza leggera. Nella stessa Serra delle Palme, per esempio, le linee concave e
convesse dei padiglioni laterali e di
quello centrale creano proporzioni
estremamente armoniose e conferiscono grande leggerezza a tutta la
struttura metallica, nonostante le
eccezionali dimensioni.
La Serra delle Palme nel Parco
di Schönbrunn a Vienna
La Serra delle Palme [3.113] , la cosiddetta Palmenhaus, fu costruita tra
il 1880 e il 1882 su progetto dell’architetto Franz Xaver Segenschmid
(1839-1888) per ospitare piante provenienti da tutto il mondo.
Lunga 113 metri, con un’altezza massima di 28 metri, è un’imponente
costruzione in ferro e vetro. Estremamente leggere, le lastre di vetro sono inserite nell’intelaiatura
flessibile della struttura metallica
[3.114-115] , e combaciano, come
una sottile membrana, con le curvature delle travi di ferro.
La costruzione è suddivisa in tre
parti collegate da corridoi: quella
centrale è la più alta (28 metri, appunto), mentre le laterali raggiungono un’altezza di circa 25 metri. I
tre ambienti costituiscono altrettante «zone climatiche» caratterizzate da diverse temperature garantite da un riscaldamento a vapore:
una serra fredda a nord, un clima
temperato nel padiglione centrale,
e una serra tropicale a sud.
Nel realizzare l’imponente struttura
della Serra delle Palme, i costruttori ebbero a disposizione nuove tecnologie all’avanguardia e materiali
ancora poco sfruttati in architettura
quali il ferro e il vetro. La «seconda
rivoluzione industriale», infatti, aveva consentito non solo un netto mi-
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3.116 Le demolizioni
per l’apertura di rue de
Rennes
3. Il secondo Ottocento
Capitolo3.18
LA CITTÀ
158
Nella seconda metà dell’Ottocento, lo sviluppo industriale e il rapido rinnovamento di alcuni settori economici, come, ad esempio, il settore commerciale e
quello finanziario, nonché della burocrazia statale,
resero necessari, nelle grandi città, interventi urbanistici spesso radicali.
L’esigenza di creare spazi abitativi per i ceti popolari,
l’introduzione dei mezzi di trasporto meccanico e
dell’elettricità imposero alle città nuovi assetti territoriali che, nella maggior parte dei casi, si caratterizzarono per la distribuzione delle zone residenziali intorno al nucleo storico e delle aree industriali nelle
periferie.
I mutamenti urbanistici più significativi riguardarono
Parigi,Vienna e Barcellona; gli interventi realizzati in
questi centri divennero modello di riferimento per
molte altre città.
La trasformazione di Parigi fu affidata da Napoleone
III al barone George-Eugène Haussmann (18091891), prefetto della città, e fu realizzata tra il 1851 e
il 1870.
Il piano regolatore [3.117] stabilì la costruzione di
strade larghe e rettilinee secondo uno schema a croce, la creazione di piazze e di ampi viali, i boulevards,
e la realizzazione del bois de Boulogne a ovest e del bois
de Vincennes a est, nonché l’edificazione di nuovi
quartieri periferici. Ovunque si demolì [3.116] e
ovunque si costruì alla ricerca di una regolarità razionale, facendo sì che gli edifici monumentali antichi o
moderni fossero collocati come fondali dei boulevards
3.117 Pianta dei lavori
di Haussmann a Parigi
e cercando di mantenere uniforme l’architettura delle facciate nelle piazze e nelle vie più importanti. Le
classi più povere continuarono a vivere ammassate
nei vecchi quartieri, mentre caserme per i soldati furono disseminate in punti strategici della città in modo da soffocare eventuali focolai di rivolta.
Vienna, invece, non subì sventramenti radicali come
Parigi: quando si decise di avviare un ambizioso progetto di espansione urbana, la commissione giudicatrice escluse la possibilità di accettare consistenti demolizioni. Nel 1857 l’imperatore Francesco Giuseppe ordinò l’abbattimento delle antiche fortificazioni
medievali che circondavano il nucleo storico; in realtà questa zona, un tempo utilizzata per le operazioni militari, si era già andata trasformando, dalla
fine del Settecento, in un luogo di ritrovo animato
da caffè e giardini. Nel 1859 fu indetto un concorso
per la sistemazione della zona anulare – il «Ring» –,
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3.118 Panoramica della città di
Vienna, litografia a colori, 1873,
Vienna, Historisches Museum der
Stadt
3.120 Il «Ring» di Vienna intorno
al centro storico, 1859-72
3.119 Ildefonso Cerdá y Suñer, Piano per l’ampliamento di Barcellona, 1859
torno al porto e ancora chiusa entro le mura, era collegata con il vicino borgo di Gracia attraverso un sistema viario a scacchiera. La regolarità della maglia
era spezzata da due ampie vie diagonali che confluivano in una grande piazza. Ancora oggi Barcellona
conserva molto del piano Cerdá, soprattutto nel settore compreso tra la vecchia città e il sobborgo di
Gracia, detto El Ensanche («l’allargamento»), e nella
Diagonal, la grande arteria che taglia la città da nordovest a sud-est.
3.18 La città
ricavata intorno al centro della città, attraverso la
realizzazione di un sistema di viali attrezzati per accogliere nuovi edifici pubblici e privati. Il concorso fu
vinto da Ludwig Förster (1797-1863), il quale realizzò un moderno tessuto viario che connetteva l’antico nucleo interno (l’Innere Stadt) con i quartieri periferici [3.118, 3.120].
Nel 1859 fu affidato l’ampliamento di Barcellona a Ildefonso Cerdá y Suñer (1816-1876). Nel piano proposto dall’urbanista [3.119] la città vecchia, sorta in-
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