STORIA URBANISTICA - Dipartimento di Ingegneria Civile

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STORIA URBANISTICA - Dipartimento di Ingegneria Civile
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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INDICE
FACOLTÀ DI INGEGNERIA
UNIVERSITÀ DI PISA
AA 2003/2004
CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA CIVILE
TECNICA URBANISTICA
CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA CIVILE,
DELL'AMBIENTE E DEL TERRITORIO
INGEGNERIA DEL TERRITORIO
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN ING. IDRAULICA, DEI
TRASPORTI E DEL TERRITORIO
INGEGNERIA DEL TERRITORIO 1
1 NASCITA DELL’URBANISTICA MODERNA.........................................................................................................3
2. LE TRE GENERAZIONI DEI PIANI URBANISTICI IN ITALIA........................................................................4
2.1 I piani di prima generazione: i piani della ricostruzione. ....................................................................................4
2.2. I piani di seconda generazione: piani dell’urbanistica riformista .....................................................................5
2.3. I piani di terza generazione...................................................................................................................................5
3 LA CITTÀ MODERNA E LA CRISI DEL PIANO. ..................................................................................................6
4. LA LEGGE 142 DEL 1990...........................................................................................................................................8
5. LA QUESTIONE AMBIENTALE NELLA PIANIFICAZIONE: LA NECESSITÀ DI UNA “DOMANDA DI
PIANIFICAZIONE AMBIENTALE”. ...........................................................................................................................9
6. IL SISTEMA DELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA IN ITALIA: VERSO UNA RIFORMA
URBANISTICA ..............................................................................................................................................................11
Prof. SILVANA LOMBARDO
_________________________________________________________________________
APPUNTI DELLE LEZIONI
6.1. Sintesi degli strumenti e dei livelli di pianificazione secondo la normativa vigente (lg 1150/42) ..................11
6.2. La proposta dell'Inu per la riforma urbanistica ...............................................................................................12
7. LO STATO DELL'ARTE DELLA LEGISLAZIONE TOSCANA........................................................................14
7.1. Schema della pianificazione nella regione Toscana...........................................................................................15
8. NUOVI STRUMENTI................................................................................................................................................15
STORIA URBANISTICA
Arch. Luisa Santini
8.1 Strumenti finanziari: il Project Financing..........................................................................................................15
8.2. Strumenti tecnici per l'ambiente: Valutazione di Impatto Ambientale ..........................................................16
8.3. Gli strumenti di pianificazione: I Programmi Integrati. ..................................................................................19
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1 NASCITA DELL’URBANISTICA MODERNA
[informazioni tratte da: E. Salzano, 1998, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Bari.; L. Benevolo,
1983, Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari.]
Per capire i motivi e i contenuti dell’urbanistica moderna bisogna fare una breve premessa sulla
città e il suo sviluppo nel corso degli anni.
Prendiamo la definizione di città seguente: il luogo che gli uomini hanno creato quando hanno
dovuto vivere insieme per svolgere una serie di funzioni che non potevano svolgere da soli.
La città inizialmente è legata alle funzioni di difesa e scambio. Infatti le mura e il mercato sono gli
elementi fondativi della città. Quindi, il luogo dove costruire la città viene scelto in funzione delle
esigenze della difesa (alture, isole nei fiumi, ecc.) e del commercio (incrocio di itinerari terrestri e di
vie d’acqua). Ovviamente, con il passare del tempo le funzioni si sono mano a mano arricchite:
templi e cattedrali (religione), fori e piazze, tribunale, palazzo del governo(giustizia e vita sociale).
Tali luoghi sono distinti da quelli deputati alla residenza perché ospitavano funzioni legate al vivere
in comune.
Il primo mutamento decisivo nell’organizzazione della città si registrò, nelle città europee, intorno
alla prima metà del ‘700: le città vengono interessate da massicci aumenti di popolazione, dovuti
soprattutto al fatto che il miglioramento delle condizioni igieniche portò ad una notevole
diminuzione della mortalità. Contemporaneamente all’aumento della popolazione si assiste al
cambiamento del sistema produttivo, con il passaggio da un’economia essenzialmente basata
sull’agricoltura e sul commercio dei prodotti agricoli ad un’economia basata sull’industria.
Moltissime innovazioni tecnologiche (dalla macchina filatrice che consentiva ad un solo operaio di
manovrare più fili contemporaneamente sullo stesso telaio, alla prima tessitrice meccanica, alla
macchina a vapore, all’uso del carbone nella lavorazione dei minerali), furono la principale causa
dell’aumento dell’attività industriale (rivoluzione industriale), che si concentrò principalmente nelle
città (fenomeno chiamato: industrializzazione).
La concentrazione di attività industriali nella città attirò molta popolazione dalle campagne, con
conseguente abbandono dell’attività agricola, e ulteriore aumento di popolazione nelle città (è una
delle prime fasi della storia delle città: la città industriale). Lo spostamento di popolazione dalle
campagne alle città fu agevolato e incrementato dal miglioramento dei collegamenti. Infatti, per
garantire le esigenze commerciali, il sistema viario subì notevoli sviluppi (costruzione di nuove
strade e miglioramento delle esistenti) e anche il sistema ferroviario, con l’invenzione della
locomotiva di Stephenson (1825), subì un notevole incremento (creazione di linee ferroviarie sia per
il trasporto di persone che di merci).
Nell’800, le città, cominciano ad accusare gli inconvenienti di tale fenomeno (chiamato:
urbanesimo) legati alla carenza di servizi (ad es. le fogne) con la relativa nascita di quartieri
residenziali malsani in cui le scarse condizioni igieniche erano causa di epidemie (colera, tifo, ecc.),
l’aumento del traffico e dell’inquinamento, l’aumento della povertà, la speculazione
sull’edificazione dei quartieri residenziali con scarsissima qualità.
In sintesi, si può affermare quindi che l’urbanistica moderna nasce come il tentativo di dare una
risposta positiva alla crisi della città ottocentesca, consistente in un insieme di regole, dettate
dall’autorità pubblica, che fossero in grado di dare ordine alle trasformazioni della città e costruire il
substrato per l’attività di costruzione e localizzazione di funzione da parte dei privati.
I primi interventi che l’urbanistica realizza riguardano, infatti, le grandi città ed hanno come
obiettivo quello di migliorare le condizioni igieniche e di garantire l’organizzazione della città
mediante la pianificazione del rapporto tra funzione industriale e le altre attività dell’uomo. In
particolare, ricordiamo gli interventi (sventramenti) di Hausmann a Parigi (1853-69) e di Anspach a
Bruxelles (1867-71), la sistemazione del Ring (cintura verde) di Vienna (dal 1857), l’ampliamento
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delle città di Firenze (1864-77) e Barcellona (dal 1859) e gli interventi sul sistema fognate e della
linea metropolitana di Londra (a partire dal 1848).
Da allora ad oggi la città ha subito notevoli trasformazioni. La città industriale ottocentesca, infatti,
ha cominciato ad occupare porzioni sempre più estese di territorio ossia ha cominciato ad
impadronirsi del territorio con un processo di urbanizzazione notevole (estensione dell’urbanesimo
al territorio). Ciò significa che non è stato più sufficiente regolare unicamente le trasformazioni
della città, ma è stato invece necessario che l’urbanistica si occupasse anche del territorio; per
questo si comincia a parlare di pianificazione territoriale e non solo urbanistica.
Alla città industriale, ha fatto seguito, la città fordista, dei primi del secolo (1930-1980), in cui
l’industria ottocentesca lascia il passo all’industria moderna, caratterizzata da tecnologie avanzate,
dal cambiamento dei processi di produzione e dalla conseguente nuova riorganizzazione dei
rapporti e delle relazioni tra industria e le altre funzioni della città. Il processo di crescita delle città
è sempre in atto, fino agli anni ’70 le città continuano a crescere a dismisura, sottraendo
popolazione alle campagne e generando enormi periferie prive di connotazione e qualità. Tale
processo, però, si interrompe, e la cosiddetta città post fordista, con cui si designa l’organizzazione
delle città fino ai giorni nostri, vede l’affermarsi di nuove regole ed equilibri, tra cui la nascita del
settore dei servizi che, se inizialmente affianca l’attività industriale, ora diviene il settore trainante
dell’economia, la nascita di interi quartieri residenziali in zone marginali (ritorno alla campagna),
l’affermarsi di principi di qualità ambientale e sviluppo sostenibile.
Perciò oggi, sono mutati gli obiettivi e i contenuti della pianificazione urbana e territoriale. Se fino a
qualche decennio fa l’esigenza primaria era di governare l’espansione delle città, ora diviene
fondamentale la riqualificazione (dei centri storici ma anche delle periferie costruite negli anni ‘50,
‘60 e ‘70), la pianificazione dei servizi e la tutela e la salvaguardia ambientale.
2. LE TRE GENERAZIONI DEI PIANI URBANISTICI IN ITALIA.
[informazioni tratte da : G. CAmpos Venuti e F. Oliva (a cura), 1993, Cinquant’anni di urbanistica
in Italia. 1942-1992, Laterza., Bari]
Per poter analizzare la storia della pianificazione urbanistica contemporanea e degli strumenti di
governo e controllo dei fenomeni urbani e territoriali in Italia, negli ultimi quaranta anni, sono state
individuate tre generazioni di piani che fanno capo a tre distinti momenti storici:
1) i Piani di ordinamento urbano, facenti riferimento al periodo del dopoguerra e della
ricostruzione;
2) i Piani dell'espansione urbana;
3) i Piani della trasformazione urbana.
2.1 I piani di prima generazione: i piani della ricostruzione.
I Piani del periodo del dopoguerra sono ancora strumenti generici che, sebbene abbiano come
principale obiettivo quello di regolare la crescita urbana, spesso sono concepiti a favore del regime
immobiliare. Infatti, la maggior parte delle distruzioni belliche è concentrata nelle zone centrali
delle grandi città e in prossimità delle stazioni o dei porti. È qui che si concentra il maggior numero
di interventi, che vede la ricostruzione di nuovi massicci edifici con aumento delle densità e del
carico urbanistico. È una ripresa edilizia speculativa che sfrutta, inizialmente, le rendite differenziali
proprie dei luoghi centrali, le uniche capaci di attrarre i pochi capitali privati.
I Piani di prima generazione, sono strumenti relativamente semplici, che consistono essenzialmente
in una ristrutturazione della rete viaria e nell'aumento delle densità dei nuclei centrali, senza tener
conto delle destinazioni d'uso.
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Analizzando il processo di sviluppo che ha interessato le città dal dopo guerra fino agli anni ’70, è
evidente la contraddizione implicita fra esigenze sociali e modello di sviluppo urbano di tipo
speculativo. La città cresce in tutte le direzioni (a macchia d’olio), seguendo le regole della
speculazione immobiliare e della rendita urbana, senza risparmiare la campagna e senza lasciare
aree libere per la realizzazione dei servizi e del verde.
I Piani di questo periodo non riescono a controllare e a governare lo sviluppo delle città, e
tantomeno ad arginare i danni che il processo speculativo comporta. La maggior parte della crescita
e delle speculazioni avviene in assenza di uno strumento urbanistico vero e proprio, a prescindere
dai piani redatti durante la guerra, che spesso manifestano le idee del regime totalitario (Roma
1931), molte città adottano i piani decenni dopo la fine della guerra (Roma 1960, Milano 1953).
2.2. I piani di seconda generazione: piani dell’urbanistica riformista
Poiché l’urbanistica non era stata in grado di ostacolare la rendita fondiaria, prende corpo una nuova
linea “politica”: l’urbanistica riformista. In Italia il prevalere della rendita sul processo di crescita
della città ha determinato una maggiore attenzione verso questo aspetto piuttosto che verso aspetti
esclusivamente tecnici.
In questi anni (‘60-‘70) le città continuano ad espandersi notevolmente, il processo interessa non
solo le grandi città ma anche i centri medi e piccoli. Alla luce di ciò, i Piani della seconda
generazione, sebbene abbiano l’obiettivo di contrastare la speculazione, affrontano il tema
dell'espansione urbana come crescita necessaria, da razionalizzare e da non limitare e, pur cercando
di capire i meccanismi della rendita urbana e le loro ricadute sulla città, non ne affrontano le cause,
né prospettano dei metodi per cercare di evitanrne gli effetti. Risultano, perciò, al servizio di quel
regime immobiliare che stavano tentando di contrastare.
Così, ad esempio, il Piano di Roma del '62, sebbene ricco di innovazioni, con la previsione di oltre
cinque milioni di stanze da realizzare continua a prestare il fianco ai meccanismi della rendita
urbana.
L'istituzione del Piano per l'Edilizia Economica e Popolare del '62 e degli Standards Urbanistici del
'68, pur essendo innovazioni tecnico-normative importanti verranno spesso usati in modo scorretto,
dato che prevedono di utilizzare per queste funzioni a bassa rendita (abitazioni popolari e servizi
pubblici) aree marginali a basso costo. Alle aree centrali, più servite infrastrutturalmente, verranno
fatte corrispondere le funzioni economicamente più vantaggiose, quali il direzionale ed il terziario
avanzato.
2.3. I piani di terza generazione
Questi Piani segnano il passaggio dalla cultura dell'espansione a quella della trasformazione:
emerge il tema dell'adeguamento della città alle moderne tecnologie.
A partire dagli anni '80 assistiamo a una sempre maggiore espulsione delle industrie e delle
residenze popolari a favore di una più forte terziarizzazione delle aree centrali.
Esplode la domanda di trasporti pubblici in sede propria, mentre l'ingenza del patrimonio edilizio
prodotto spinge alla necessità di ridurre il consumo di suolo agricolo a favore del recupero delle
zone edificate mal utilizzate o delle aree dismesse.
La morfologia urbana torna ad essere un elemento importante della qualità della città.
Infine poi, il livello di confronto delle controversie urbanistiche si sposta dalla scala comunale a
quella metropolitana, regionale e nazionale.
A livello di strumenti urbanistici si assiste ad una massiccia "deregulation" che si traduce in
interventi di trasformazione urbana e di terziarizzazione decisi al di fuori di qualsiasi quadro
urbanistico di riferimento, nella totale assenza di una strategia comune o di una visione globale del
territorio.
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I piani riformisti continuano però con la loro azione positiva (Bologna, Ravenna, Cesena, Imola,
Reggio Emilia, Modena 1985)
Affrontano temi inerenti:
· Qualità urbana
· Corretto dimensionamento delle nuove previsioni
· Assetto delle funzioni produttive
Utilizzando STRUMENTI AD AZIONE DIFFERENZIATA, ossia direzionati con intensità
diverse ai vari interventi.
Generalmente:
· Interventi intensivi in alcune parti del territorio, ove sono previste FUNZIONI
STRATEGICHE
· Interventi estensivi, norme di pianificazione generali per i restanti tessuti.
3 LA CITTÀ MODERNA E LA CRISI DEL PIANO.
Attualmente stiamo attraversando un periodo di profonda trasformazione della forma urbana. Nelle
città si osserva l'interruzione e talora l'inversione dei processi di crescita ed urbanizzazione.
I problemi della qualità della vita nelle grandi città, dalla congestione del traffico, alla qualità
dell'aria e dell'acqua, sono oggetto di continua attenzione e discussione, come pure la difficoltà di
controllo dell'ambiente urbano.
Negli anni '60, il problema della sovrappopolazione è stato identificato con la crescita di smisurate
concentrazioni metropolitane sempre più ingovernabili.
Il termine megalopoli perde il suo significato originario per descrivere un fenomeno patologico e
negativo.
Durante la seconda metà degli anni '70 e nel decennio successivo, in quasi tutti i paesi con
economie avanzate, la crescita urbana ha subito un rallentamento che ha suggerito diverse ipotesi
sulla morte delle città. Infatti, le grandi città italiane hanno iniziato lentamente a spopolarsi.
Nell'ultimo decennio questo fenomeno si è inesorabilmente accentuato e allo svuotamento delle
grandi città capoluogo è corrisposta una crescita dei comuni della cintura dell'hinterland.
Le città risultano circondate da una corona di comunità sempre più affollate. In altre parole i conti
delle migrazioni interne vanno ormai fatti in termini di territorio metropolitano. Così, se Milano è in
deficit di abitanti, hanno un saldo positivo Monza, Agrate, Rozzano e via elencando. Lo stesso
dicasi per Frascati, Albano, Ariccia e Genzano nei confronti di Roma.
Queste migrazioni,dalle grandi città alle piccole, sono il prodotto dell'economia dei servizi. Mentre
la città industriale favoriva la coesione, l'epoca dei servizi e della motorizzazione di massa ha la sua
caratteristica nel decentramento.
La maggior parte della popolazione che si trasferisce in questi centri minori, attraverso una mobilità
quotidiana, continuando a usufruire di tutti i servizi che la città offre, è come se fosse andata ad
abitare in un altro quartiere della metropoli. Il luogo di lavoro non coincide più con l'abitazione. La
città si è dilatata nel territorio.
Come si vede, si tratta di una profonda trasformazione della forma urbana, di un fenomeno non
diverso, per intensità e diffusione, da quello che ha portato all'affermazione della città industriale
nei secoli scorsi. La nuova forma della città viene chiamata metropoli e fenomeni metropolitani
sono quelli che ne derivano.
Il passaggio dalla città industriale alla metropoli ha conseguenze profonde sia sui modi tradizionali
di descrivere la città sia sui modi per amministrare ed operare nelle aree urbane.
La conferma è data dall'attuale crisi del Piano (lg. 1150/42) come strumento di zonizzazione poco
flessibile e incapace di cogliere le dinamiche dei processi di trasformazione in atto e le relazioni che
sono alla base della vitalità di un territorio.
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4. LA LEGGE 142 DEL 1990.
La manifestazione più evidente dell’attuale crisi del Piano é chiaramente leggibile nel basso grado
di attuazione delle sue previsioni ed indicazioni sulla città contemporanea: eccetto che in un limitato
numero di situazioni particolari, é possibile rilevare che nella maggior parte delle realtà urbane lo
sviluppo dell’assetto della città é determinato da fattori socioeconomici il cui livello di complessità
e di instabilità nel tempo non trova riscontro in una sua adeguata interpretazione a monte delle
previsioni di Piano ed in una necessaria flessibilità temporale e decisionale degli strumenti di
pianificazione.
Il rapido evolversi delle dinamiche sociali ed economiche alla base dell’urbanesimo contemporaneo
comporta non solo la perdita di attualità e di efficacia delle tradizionali categorie concettuali e
metodologie decisionali, ma anche, più in generale, una sostanziale inattuabilità dei modelli di
pianificazione urbana basati sul tradizionale determinismo nell’interpretazione delle realtà
territoriali e nell’elaborazione delle scelte di fondo.
All’interno del dibattito disciplinare urbanistico, del resto, sono attualmente presenti linee di
pensiero e ricerca che mostrano un’ampia e differenziata gamma di interpretazioni e di conseguenti
linee operative nei confronti della questione della crisi del Piano. Infatti, il piano regolatore
generale, è un piano razional comprensivo, ossia razionale perché cerca di razionalizzare lo
sviluppo urbano, prefigurando l'assetto territoriale futuro; comprensivo perché si occupa di tutti gli
aspetti, da quelli funzionali a quelli spaziali. È evidente l'inadeguatezza attuale di questo tipo di
piano; per prima cosa la complessità delle città e il veloce evolversi delle strutture urbane non
garantiscono che un modello di assetto prefigurato al presente possa essere valido anche in futuro,
inoltre i tempi di approvazione generalmente molto lunghi fanno sì che il piano sia obsoleto ancora
prima che venga attuato. È per questo motivo, e per il fatto che spesso interessi privati di tipo
speculativo esercitano delle grosse pressioni sulle politiche territoriali, che le città sono cresciute
sotto la spinta di logiche prive di un qualsiasi disegno di piano (progetti settoriali, piani
particolareggiati non previsti dal PRG, ecc.).
Tra le linee di pensiero più significative, nel campo del dibattito disciplinare sulla crisi del piano,
ricordiamo le correnti che fanno capo alla più moderata tradizione di pensiero dell’urbanistica
riformista, che sostengono che la ricerca di una ottimale congruenza tra tempi ed azioni del Piano e
complessità dei sistemi socioeconomici contemporanei deve essere ricercata atrtraverso:
• ottimale raccordo tra Pianificazione fisica e Programmazione socioeconomica;
• articolazione delle scelte di Piano nei due livelli, distinti e complementari, della Pianificazione
di tipo strategico-strutturale e della Pianificazione operativa;
• opportuna articolazione cronologica dei livelli di pianificazione e delle azioni decisionali;
• adeguato coordinamento dei differenti livelli amministrativi e dei diversi Enti istituzionali
preposti alla pianificazione ed alla gestione dell’assetto territoriale, sulla base di una necessaria
riforma della Legislazione urbanistica nazionale;
• adozione di forme innovative di regime dei suoli di tipo perequativo che consentano di
conseguire un’equa ripartizione degli oneri e dei vantaggi della trasformazione urbana;
• adozione di tecniche e metodologie innovative per l’ascolto e guida in tempo reale e la
valutazione delle dinamiche economiche e sociali e delle variazioni della domanda insediativa,
di confronto diretto e di concertazione tra poteri decisionali, di valutazione della fattibilità
economica delle scelte di Piano e delle concrete disponibilità agli interventi, coerentemente
all’obiettivo di conseguire una maggiore capacità di adattamento del Piano alle situazioni di
complessità, di incertezza, di pluralismo e pluralità di attori, decisori, operatori.
Come abbiamo visto, la complessità del fenomeno metropolitano richiede l'individuazione di una
nuova scala territoriale, che possa permettere di identificare la nuova città, cioè di riconoscere
quelle aree che costituiscono la nuova metropoli e che forniscono la base su cui si deve poggiare la
capacità competitiva delle nuove economie urbane.
La Legge 142, anche se in ritardo, in parte colma questo vuoto istituzionale individuando l'Area
Metropolitana, nuovo Ente intermedio tra Comune e Regione, con lo scopo di governare un più
vasto ambito territoriale nel quale possano essere raggruppati i comuni o le aree che hanno
continuità insediativa o interdipendenze funzionali con le aree urbane centrali.
La legge istituisce nove aree metropolitane sul territorio nazionale, ridistribuendo le competenze in
materia di pianificazione e di gestione delle risorse: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna,
Firenze, Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta
integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle
relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali.
L'area metropolitana si collocava come nuovo ente intermedio tra Regione e Comune ed aveva lo
scopo di governare un più vasto ambito territoriale nel quale possano essere raggruppati più comuni
A tal fine la legge prevedeva l'articolazione dell'amministrazione metropolitana in due livelli:
• la città metropolitana;
• il comune.
Alla città metropolitana si applicavano le norme riguardanti la provincia oltre alle funzioni
comunali di carattere sovracomunale o che richiedono svolgimento in forma coordinata.
La legge stabiliva inoltre le regole per la riorganizzazione delle amministrazioni locali e per la
gestione delle risorse e l'assetto del territorio.
La legge 142/90 ha scontato notevoli difficoltà di attuazione, infatti ad essa hanno fatto seguito dal
90 ad oggi altre due leggi: nel 1999 la legge n. 265, e nel 2000 il DL n. 267.
La legge 265/99, non fa più esplicito riferimento alla Città Metropolitana e ai Comuni dell'Area
Metropolitana, ma demanda all'assemblea degli enti locali interessati la formulazione di una
proposta di statuto della città metropolitana, in cui siano specificati l'organizzazione e
l'articolazione territoriale e funzionale dell'area metropolitana (art. 16).La legge 142/90 (art. 18)
faceva esplicito riferimento;
Il recentissimo DL. 267 del 18 agosto 2000, ha attuato la delega di cui all’art.31 l. 265/1999 recante
«Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge
8 giugno 1990, n. 142», costituendo il nuovo Testo Unico sull’ordinamento degli Enti locali. Nel
fornire una nuova regolamentazione del funzionamento degli enti locali, ha anche definitivamente
accolto le aree metropolitane come livello di governo locale; le norme in materia già presenti nella
L. 142/90 sono state in parte riformulate, per lo più alla luce delle imperfezioni risaltate
nell’esperienza attuativa di quella legge, in termini di difficoltà applicative e ipotesi
d’incostituzionalità.
Comunque sia, riassumendo il quadro istituzionale che si verrebbe a configurare prevede la
suddivisione del territorio regionale in Provincia e Area Metropolitana. Entrambe garantiscono la
razionale gestione e l'ottimale utilizzo dei servizi da parte dei cittadini, attraverso l'individuazione di
sub aree amministrative (municipalità o comuni derivanti dall'aggregazione di piccoli comuni nella
provincia, dalla disaggregazione del comune centrale e dall'aggregazione dei comuni secondari
nell'area metropolitana).
Per quanto riguarda l'attribuzione di competenze in materia urbanistica tra gli enti (Regione,
Provincia e Comuni, Città Metropolitana e Comuni Metropolitani) la legge stabilisce:
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• per la Regione, essa ha il compito di stabilire, in accordo con i comuni e le province, gli obiettivi
generali della programmazione economico-sociale e territoriale e di ripartire le risorse tra gli
enti locali. La Regione ha perciò anche un ruolo di coordinamento degli enti locali;
• per il comune, esso ha il compito di gestire le funzioni che riguardano il territorio comunale nei
settori dei servizi sociali, dell'assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico.
Inoltre, nel caso di istituzione di Municipi all'interno del territorio comunale, questi hanno il
compito di gestire i servizi di base, oltre ad altre funzioni eventualmente delegate dal comune;
• per la Provincia, essa ha il compito di gestire funzioni che riguardano vasti ambiti intercomunali
o l'intero territorio provinciale nei settori: difesa del suolo, tutela e valorizzazione delle risorse
idriche ed energetiche, dell'ambiente e dei beni culturali, viabilità e trasporti, protezione della
fauna e della flora, parchi e riserve naturali, caccia, pesca, smaltimento dei rifiuti e controllo
degli scarichi atmosferici, servizi sanitari e scolastici attribuiti dalla regione.
La Provincia ha, inoltre, un ruolo programmatorio, poiché concorre alla determinazione dei
programmi regionali, promuove il coordinamento tra i comuni, formula e adotta (con riferimento
ai programmi regionali) propri programmi pluriennali, predispone ed adotta il Piano Territoriale
di Coordinamento, determinando gli indirizzi generali di assetto del territorio (destinazioni
localizzazione di massima delle infrastrutture e delle principali linee di comunicazione,
sistemazioni idriche, idrogeologiche ed idraulico-forestali, parchi e riserve naturali);
• per la Città Metropolitana, essa assume le funzioni normalmente di competenza della provincia
oltre a quelle di carattere sovracomunale normalmente affidate ai comuni o che debbano essere
svolte in forma coordinata nell'area metropolitana in diverse materie (pianificazione territoriale,
viabilità traffico e trasporti, tutela e valorizzazione dei beni ambientali e culturali, delle risorse
idriche ed energetiche, servizi d'area vasta e per lo sviluppo economico)
5. LA QUESTIONE AMBIENTALE NELLA PIANIFICAZIONE: LA NECESSITÀ DI UNA
“DOMANDA DI PIANIFICAZIONE AMBIENTALE”.
[Sintesi delle considerazioni presenti in: Gambino R., 1996, Progetti per l’ambiente, Angeli,
Milano.
Prospetto sintetico della legislazione nazionale e regionale.]
Negli ultimi dieci anni, in Italia come nel resto d’Europa, è scaturita una “nuova posizione
culturale” e disciplinare, radicata sul concetto che le problematiche legate alla difesa ambientale
(consumo di risorse non rinnovabili, inquinamento di ogni tipo, degrado dei manufatti storici e dei
valori paesistici, compromissione delle risorse agricole e degli ecosistemi naturali, problemi
energetici, cataclismi naturali legati all’erosione dei terreni e alle piogge acide, ecc.) siano
strettamente correlate con questioni relative allo sviluppo socio-economico e all’organizzazione e
all’uso del territorio. L’emergere di una “domanda di pianificazione” esplicita in difesa
dell’ambiente è coinciso, peraltro, con la crisi della pianificazione stessa e con la diffusa la sfiducia
nei suoi metodi.
In Italia, la rivalutazione della pianificazione nel campo della tutela, conservazione e valorizzazione
dell’ambiente e delle risorse ambientali, si manifesta con la promulgazione di tre leggi: la 431/85, la
183/89 e la 394/91.
In particolare, la legge Galasso (n. 431/85), introduce, appunto, lo strumento del piano, nella forma
del Piano Paesistico o del Piano Urbanistico Territoriale (art. 1 bis), mediante il quale le regioni
sottopongono il territorio di propria competenza a specifica normativa d’uso e di valorizzazione
ambientale (attraverso la considerazione diretta dei valori paesistici e ambientali). La rilevanza di
questa legge deriva dal sostanziale salto qualitativo operato, da un lato, attraverso l’equivalenza
assegnata dalla legge al Piano Paesistico e al Piano Urbanistico Territoriale (integrazione tra aspetti
ambientali e urbanistici), e dall’altro mediante la precisazione di uno strumento urbanistico diretto
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alla tutela e alla valorizzazione ambientale rispetto alla semplice imposizione del vincolo paesistico
ai sensi della legge 1497/39.
Successivamente, la legge n. 183/89, “Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa
del suolo”, introducendo il Piano di Bacino come strumento conoscitivo e normativo per la
gestione, tutela e programmazione del suolo e delle acque, fa, a sua volta, ricorso ad un piano per
gestire le risorse ambientali.
Così, anche l’ultima legge nazionale, 394/91 (“Legge quadro sulle aree protette”), che istituisce le
aree naturali protette e detta norme per garantire e promuovere in forma coordinata la conservazione
e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese (art. 1), affida ad uno strumento di
pianificazione, il Piano del Parco, la tutela dei valori naturali ed ambientali (art. 12).
Le tre leggi quindi evidenziano, se pur in modi diversi, un orientamento a fondare la difesa
dell’ambiente sulla panificazione delle risorse e non sulla vincolistica rigida, ma, paradossalmente,
tutte e tre hanno avuto un seguito piuttosto limitato, basti pensare alla fatica con cui sono decollati i
Piani Paesistici e alle inadempienze che tuttora parecchie regioni manifestano proprio
nell’attuazione della recente legge n. 394/91 (si ricorda che la stessa legge prevedeva
l’adeguamento delle leggi regionali in funzione dell’individuazione delle aree protette).
Infatti esse, sebbene valorizzino lo strumento del piano, non individuano una forma di integrazione
tra questo e gli altri strumenti di pianificazione operanti sul territorio. Esemplare il caso della legge
che istituisce i Piani di Bacino, che, non chiarendo il rapporto tra questi e le altre forme di
pianificazione territoriale (si limita a definire i rapporti di sovraordinamento rispetto alla
pianificazione regionale), istituisce uno strumento che, occupandosi di difesa del suolo non riesce a
prendere in considerazione in modo integrato le problematiche ambientali (risorse paesistiche,
culturali, storiche, di competenza della pianificazione urbanistica territoriale). La legge Galasso,
nonostante gli intenti, ha prodotto quasi esclusivamente Piani Paesistici, che, essendo strumenti
vincolistici (si limitano a determinare le condizioni e le limitazioni per gli usi del territorio e per
nulla si occupano delle forme di gestione o di promozione delle risorse) non sono in grado di
operare quell’integrazione territoriale tra ambiente e altri fattori di cui si è parlato (i Piani
Urbanistici Territoriali, che sarebbero stati lo strumento più idoneo a tale operazione scontano le
classiche difficoltà disciplinari legate agli aspetti tecnici e burocratici). E così anche la 394 limita il
proprio strumento pianificatorio agli stretti perimetri delle aree protette, come se le condizioni al
loro interno non dipendessero da ciò che si verifica al loro esterno, e non prevede nessuna
interazione tra piano del parco e pianificazione del contesto territoriale.
Ritornando al concetto di integrazione tra pianificazione territoriale e pianificazione ambientale una
categoria concettuale che può ad esso essere coniugata è quella dello sviluppo sostenibile. Lo
sviluppo sostenibile, come definito dal Rapporto Brundtland (Brundtland G. H., 1987, Il futuro di
noi tutti, rapporto presentato all’Assemblea delle Nazioni Unite, Commissione Mondiale per
l’Ambiente e lo Sviluppo), rappresenta una vera e propria rivoluzione concettuale, in quanto,
sancendo la saldatura tra ambiente e sviluppo (lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento dello
sviluppo tecnologico ed i mutamenti istituzionali devono essere in reciproca armonia e incrementare
il potenziale attuale e futuro di soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni umane), introduce il
criterio secondo cui la stessa conservazione del patrimonio naturale può (e deve) divenire risorsa
fondamentale per lo sviluppo. In quest’ottica la valorizzazione e la tutela delle risorse (prima di
tutto quelle non rinnovabili) deve essere l’obiettivo principale cui va diretto il cambiamento dei
modelli di sviluppo. È evidente perciò lo stretto rapporto esistente tra questioni ambientali e fattori
socio-economici.
La prevenzione dall’inquinamento, la ricostruzione e la conservazione dell’integrità degli
ecosistemi, la conservazione delle diversità biologiche e l’utilizzo sostenibile delle risorse
rinnovabili divengono azioni prioritarie, per l’attuazione delle quali è necessaria l’integrazione tra
politiche dirette alle aree protette, politiche ambientali e politiche per lo sviluppo locale. Così,
nell’ambito del programma d’azione internazionale proposto dall’Agenda 21 (presentata a Rio nel
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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1992, durante i lavori del Vertice per la terra), si ribadisce l’esigenza ad un approccio integrato alla
pianificazione e alla gestione delle risorse del territorio come strumento per risolvere i conflitti tra
usi del suolo e risorse naturali, e garantire lo sviluppo sostenibile.
Concludendo si può affermare che, mentre da un lato si assiste allo sviluppo di tematiche attente
alle questioni ambientali, fino al punto che la crescente presa di posizione a livello mondiale sullo
sviluppo sostenibile trova un certo riscontro, in Italia, nella produzione di leggi che individuano
nella pianificazione ambientale uno degli aspetti prioritari della pianificazione territoriale
(recepiscono tale aspetto molte leggi regionali), dall’altro l’obiettivo della sostenibilità si rivela
ancora molto lontano. Evidente risulta, infatti, lo scollamento tra politiche e pratiche, che si
manifesta soprattutto nel fallimento di estendere le politiche di conservazione delle risorse naturali e
paesaggistiche all’intero territorio, o meglio nella mancata integrazione tra politiche di salvaguardia
e politiche di gestione e pianificazione territoriale.
6. IL SISTEMA DELLA PIANIFICAZIONE URBANISTICA IN ITALIA: VERSO UNA
RIFORMA URBANISTICA
6.1. Sintesi degli strumenti e dei livelli di pianificazione secondo la normativa vigente (lg
1150/42)
Livello territoriale.
In Italia il livello territoriale è, come previsto dalla legislazione urbanistica, attribuito alle Regioni,
che attraverso documenti programmatori e veri e propri strumenti di pianificazione territoriale,
anche di settore, determinano gli indirizzi di sviluppo socio economico, le linee di tendenza della
pianificazione urbanistica e ambientale.
Gli enti locali devono poi adeguare i loro strumenti alle scelte regionali, determinando i noti, quanto
indesiderati, "effetti a cascata"
In particolare i "Quadri di Riferimento Regionali" all'interno dei quali le singole amministrazioni
provinciali devono redigere i piani territoriali di coordinamento hanno acquistato un ruolo
determinante negli atti di indirizzo di competenza regionale.
Come detto, infatti, dopo l'emanazione della legge 142, la pianificazione territoriale di
coordinamento è stata attribuita alle provincie che, come previsto dall'art. 14 della stessa legge,
hanno acquisito le competenze che prima erano esclusivamente regionali.
I Piani Territoriali Paesistici invece, redatti dalle Regioni, come previsto dalla legge Galasso
(431/85), individuano per l'intero territorio regionale degli ambiti di tutela paesistica per la
conservazione e la valorizzazione del territorio sotto il profilo ambientale.
Anche i Piani dei Parchi e delle Aree Protette (lg. 394/91), di competenza regionale, operano a scala
territoriale e sono finalizzati ad individuare quelle aree da sottoporre a tutela attraverso l'istituzione
di parchi e riserve che, ove possibile, costituiscano nuove occasioni di sviluppo, anche in termini
economici, per le popolazioni insediate.
Con l'emanazione della legge 183/89 sulla difesa del suolo, si individua un livello di pianificazione
territoriale sovraregionale corrispondente ai Bacini Idrografici. Come detto, è il primo tentativo di
pianificazione ambientale che, non considerando più determinanti i confini amministrativi,
individua il bacino idrografico come un ambito integrato per la conservazione, la valorizzazione e la
gestione delle risorse acqua e suolo; il piano di bacino (di competenza delle Autorità di bacino) è in
realtà, come il piano dei parchi, uno strumento territoriale di settore.
Livello comunale.
In Italia le scelte di programmazione e pianificazione urbanistica sono affidati ai Piani Regolatori
Generali che, dalla legge 1150/42 sono definiti di fatto come piani generali: essi presentano cioè
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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contenuti strutturali relativamente al sistema degli insediamenti (residenziali, industriali e terziari) e
dei servizi (attrezzature puntuali, a rete e verde pubblico) assieme a vincoli espropriativi
immediatamente cogenti. La divisione del territorio comunale in zone omogenee (zoning) indica la
destinazione d'uso dei suoli e l'applicazione degli standard urbanistici stabilisce le quantità minime
di servizi.
Livello attuativo.
E' il livello più articolato che investe generalmente le aree di espansione o la città consolidata, come
pure ambiti settoriali specifici.
Il livello attuativo è in Italia assai articolato, distinguendosi in una pletora di piani esecutivi
applicati al piano regolatore generale (piani particolareggiati, piani di recupero, piani per gli
insediamenti produttivi, piani per l'edilizia economica e popolare, etc..) difficilmente governabili e
che spesso hanno contribuito ad aggirare le regole generali, a complicare gli interventi degli
operatori e a moltiplicare la burocrazia.
6.2. La proposta dell'Inu per la riforma urbanistica
[sintesi di: G. Campos Venuti, 1996, La nuova legge urbanistica, i principi e le regole, in:
Urbanistica Informazione n. 145/96, pp. 94-98]
La proposta per una revisione della legislazione urbanistica nazionale prende spunto dal convegno
INU (Istituto nazionale di Urbanistica) tenutosi a Bologna nel 1995.
La prima esigenza di una nuova legge urbanistica è quella di predisporre un Testo Unico, che
riunifichi le disposizioni delle miriadi di leggi esistenti.
Inoltre, la nuova legge dovrà esaltare il ruolo delle autonomie locali, e riorganizzare in questo senso
le competenze e i livelli di governo. Si tratta di predisporre una concezione strutturale della
pianificazione urbanistica. Cioè, garantire un processo di pianificazione:
• che abbia carattere programmatico per le scelte pubbliche realmente possibili sulle basi delle
risorse finanziarie;
• che assegni rilevanza alla salvaguardia ambientale a monte di tutte le scelte urbanistiche locali;
• che unifichi all'interno di un unico processo di piano le decisioni, i controlli e le azioni di
gestione di tutti gli enti, non solo quelli direttamente competenti per la pianificazione territoriale
ai vari livelli, ma anche quelli settoriali (Anas, Autorità di Bacino, enti parco, ecc.),
coinvolgendo tutte le amministrazioni e creando i presupposti per un vero e proprio processo di
copianificazione;
• che sia in grado di garantire la partecipazione dei cittadini e di creare un consenso generalizzato
sulle azioni di programmazione e pianificazione;
Per quanto riguarda i livelli di governo, in primo luogo, è necessario un Quadro Territoriale di
Riferimento Nazionale, che coordini preventivamente con le regioni le grandi scelte per le
infrastrutture e le attrezzature nazionali. In secondo luogo bisogna accentuare il ruolo del Quadro
Territoriale di Riferimento regionale, e attribuire alle province il Piano Territoriale di
Coordinamento.
Per quanto riguarda il livello comunale è necessario superare due difficoltà, che hanno reso
inattuabili la maggior parte dei tradizionali PRG:
• dualismo tra previsioni generali e attuazione: il comune impone vincoli su proprietà anche
molto tempo prima dell'attuazione; il PRG invecchia ancor prima di essere approvato e gli
strumenti attuativi sono affetti da una mancanza di operatività.
• problema della sperequazione urbanistica: disparità di trattamento tra le diverse proprietà in
funzione delle destinazioni d'uso stabilite che consentono l'aumento della rendita fondiaria in
alcune aree, cui è connesso il problema della determinazione dell'indennità di esproprio
(attualmente vige la decrepita legge di Napoli, indennità stabilita in funzione del valore di
mercato al momento dell'esproprio). È necessario separare la rendita urbana dalle scelte
strutturali che il piano deve necessariamente operare. In altre parole il piano non deve più essere
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
•
13
"complice" di interessi particolari che, fino ad oggi, troppo spesso hanno pilotato i
sovradimensionamenti cronici delle aree di espansione e le localizzazioni di aree industriali in
aree di pregio ambientale determinando consumi irrazionali di suolo e crescite incontrollate
delle nostre città.
Le città non hanno più bisogno di piani di espansione urbanistica ma di piani di governo delle
trasformazioni.
Così come nella pianificazione di scala vasta ci si è spostati verso la formulazione di piani rivolti
alla determinazione delle scelte strutturali e strategiche, di indirizzo, piuttosto che di previsione
dettagliata degli interventi, anche a livello comunale è necessario distinguere due strumenti:
• Piano strutturale a carattere direttore, di medio periodo, che stabilisca uno scenario a grandi
linee, le cui indicazioni non siano vincolanti le proprietà coinvolte, perché costituisce una
prospettiva possibile ma non un impegno esecutivo; essendo costituito da scelte essenziali,
sfugge alla molteplicità di interessi sollevata dalle scelte della zonizzazione, è quindi svincolato
dalle posizioni di tipo privato. il Piano Strutturale traduce a scala locale le scelte generali del
Piano territoriale di Coordinamento, e viene redatto d'intesa con le amministrazioni dei livelli
sovraordinati.
• Piano Operativo, che è lo strumento esecutivo, vincolante per gli enti che si assumono l'onere
degli espropri, di durata limitata al quadriennio amministrativo del mandato del sindaco (da qui
il nome di Piano del Sindaco)e relativo ai soli interventi certi. Esso esplicita le decisioni
attuative del quadriennio, sia per i comparti obbligatori di trasformazione intensiva, sia per le
trasformazioni estensive sui singoli lotti e definisce, inoltre, le acquisizioni di aree, da effettuare
per esproprio (a prezzo di mercato) o con i meccanismi dell'edificazione compensativa. Il Piano
Operativo è approvato direttamente dal comune, dovendo la provincia verificarne solo la
coerenza con le scelte del Piano Strutturale
Proprio il meccanismo della edificazione compensativa, consente di ostacolare la sperequazione
(formazione della rendita fondiaria). Infatti, esso consiste nell'assegnazione ad ogni comparto,
individuato dal Piano Operativo in funzione delle azioni di trasformazione, i valori di "edificabilità
convenzionali". Ciò vuol dire che tutti i proprietari interessati dalle previsioni del Piano Operativo
avranno il riconoscimento di un diritto di edificabilità, se pur modesto, (si ricorda che la
costituzione sancisce il diritto di edificabilità sulla proprietà privata), ma in cambio si chiede ai
privati di concentrare i volumi in una parte ridotta del comparto, lasciando il resto al verde
(condominiale e pubblico) e servizi. In cambio del diritto ad edificare il privato cede gratuitamente
all'amministrazione le arre destinate al verde e ai servizi pubblici, in questo modo si elimina
l'esigenza dell'esproprio.
È evidente come, in questo modo, gli strumenti attuativi sarebbero tutti ridotti ad un solo piano
attuativo, uguale per l'edilizia residenziale pubblica o per gli insediamenti produttivi e terziari, per
le nuove costruzioni o per il recupero dell'esistente; tutti ugualmente sottoposti agli stessi oneri di
cessione d'area, di contributi e di eventuale esproprio.
Per quanto riguarda la questione ambientale, i Quadri di Riferimento regionali e i Piani Territoriali
di Coordinamento provinciali dovrebbero diventare gli strumenti territoriali per il coordinamento
delle leggi: 431/85 sui Piani Paesistici, 183/89 sui Piani di Bacino, 349/91 sui Piani dei Parchi.; ma
anche a livello comunale si dovrà porre particolare attenzione alla questione ambientale, e ciò può
essere garantito dall'introduzione nelle normativa urbanistico-edilizia del Piano Operativo nuovi
standard riguardanti la impermeabilizzazione dei suoli e le nuove piantumazioni, o altri vincoli e
quantità per lo sviluppo sostenibile. Inoltre, la pianificazione comunale dovrà necessariamente
ricomprendere in modo organico la pianificazione settoriale riguardante lo sviluppo delle reti
idriche e fognature, ecc.
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7. LO STATO DELL'ARTE DELLA LEGISLAZIONE TOSCANA
[informazioni tratte da: R. Manetti e M. Gamberini, 1996, Toscana, in: Urbanistica Informazioni,
Dossier 5/96, Leggi urbanistiche regionali tra innovazione disciplinare e riforme istituzionali,
Supplemento al n. 150, novembre-dicembre, pp. 24-26.
M. Gamberini, 2003, La normazione toscana e il paesaggio, in: M. Morisi e A. Magnier (a cura)
Governo del Territorio: il modello Toscana, il Mulino, Bologna, pp. 127-138.
Il testo integrale delle leggi è reperibile sul sito Internet della Regione Toscana:
http://www.regione.toscana.it, http://www.regione.toscana.it/ius/ns-leggi/?MIval=pagina_0]
In Toscana, l'entrata in vigore della legge nazionale n. 142/90, sulle autonomie locali, si inserisce in
un contesto legislativo che in parte aveva già anticipato alcuni contenuti della legge nazionale.
Infatti le due leggi regionali n. 74/84 e n. 4/90 avevano introdotto rispettivamente il QRCT (Quadro
Regionale Di Coordinamento Territoriale) e lo "Schema Strutturale" come strumenti regionali, e
avevano attribuito alcune funzioni alle Province, le quali contribuivano in forma coordinata con i
comuni alla costruzione del QRCT.
Anche in campo ambientale, la regione con la Legge n. 52/82, aveva anticipato le leggi nazionali
431/85 e 394/91, individuando i perimetri delle aree protette. Con una delibera del Consiglio
Regionale (296/88) viene approvato in Toscana il Piano Paesistico, mentre con la legge 4/90
diviene obbligatorio considerare gli elementi paesistici ed ambientali in ogni strumento urbanistico.
Abbiamo visto che la regione Toscana, con le sue leggi, ha anticipato molti temi di notevole
importanza, solo successivamente trattati a livello nazionale, in sintesi:
· necessità di un coordinamento dei comuni a livello territoriale e assegnazione di un ruolo
protagonista alle province;
· realizzazione del coordinamento in modo concertato (le autonomie locali collaborano alla
formazione dei piani regionali) e non attraverso il rapporto gerarchico;
· superamento del dualismo pianificazione urbanistica / pianificazione ambientale (la tutela
ambientale è obbligatoria in tutti gli strumenti urbanistici).
L'entrata in vigore della 142/90 dà lo spunto alla regione Toscana per rivedere il proprio apparato
legislativo in forma ulteriormente innovativa. Così la legge regionale n. 5/95 presenta alcuni
elementi fondamentali:
· il concetto di "sviluppo sostenibile" è il fondamento di ogni azione di pianificazione, a tutti i
livelli (regionale, provinciale, comunale);
· il SIT (Sistema Informativo Territoriale), come base per l'organizzazione territoriale;
· competenze regionali: il PIT (Piano di Indirizzo Territoriale) è un piano di programmazione
attraverso cui la Regione stabilisce gli obiettivi operativi della politica territoriale e coordina le
proprie politiche settoriali;
· competenze provinciali: il PTC (Piano Territoriale di Coordinamento) è lo strumento di
programmazione e raccordo tra regione e comuni;
· competenze comunali: la strumentazione comunale è divisa in due parti; Piano Strutturale, per
le scelte strategiche e Regolamento Urbanistico e Programma Integrato di Intervento, per
organizzare le scelte operative e la gestione della pianificazione.
Inoltre la legge sancisce la sussidiarietà nella distinzione delle competenze in contrapposizione al
rapporto gerarchico e la partecipazione dei cittadini alla formazione degli strumenti urbanistici,
che vengono approvati dai rispettivi enti competenti (e non dall'ente sovraordinato).
Dopo la legge regionale 5/95, altre leggi sono state emanate dalla regione, soprattutto per quanto
riguarda l'adeguamento alla legislazione nazionale in campo ambientale. In particolare la legge n.
49/95 sui parchi , riserve e aree protette (adeguamento alla 394/91) e la n. 56/00 sulla difesa del
suolo (di adeguamento alla legge nazionale n. 183/89)
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7.1. Schema della pianificazione nella regione Toscana
Lo schema pianificatorio è costituito da:
• PIANI DI SCALA VASTA, piani di programmazione più che di pianificazione:
· PIT, Piano di Indirizzo Territoriale di competenza regionale. Contenuti principali:
- Prescrizioni di carattere generale sull'uso e la tutela delle risorse;
- Prescrizioni relative alla localizzazione delle attrezzature superiori (aeroporti, stazioni,
università, ospedali)
- Prescrizioni della pianificazione regionale di settore
- Prescrizioni per la pianificazione urbanistica con attenzione ai valori paesistici
· PTC, Piano Territoriale di Coordinamento di competenza provinciale. Contenuti principali:
- Definizione e coordinamento degli obiettivi di governo del territorio e di tutela
ambientale
- Prescrizioni per la localizzazione sul territorio degli interventi di competenza
provinciale
- Ha valore di Piano Urbanistico Territoriale con specifica considerazione dei valori
paesistici
• PIANI DI SCALA COMUNALE
· PRG, Piano Regolatore Generale di competenza comunale; è composto da:
- Piano Strutturale (PS) che definisce le azioni e gli interventi strategici
- Regolamento Urbanistico (RU), è obbligatorio e valido a tempo indeterminato,
specifico per gli assetti del sistema insediativo, capace di governare ogni più piccola
trasformazione,
- Programma Integrato di Intervento (PII), è facoltativo e dura 4 anni (mandato della
giunta) ed è lo strumento attuativo del PS.
8. NUOVI STRUMENTI
8.1 Strumenti finanziari: il Project Financing
In Italia è mancata una vera e propria cultura di pianificazione e programmazione degli interventi
sul territorio, tant'è che molte opere pubbliche non sono state realizzate a causa della mancanza di
previsione sulle carenti risorse pubbliche. Perciò è quanto mai necessaria una collaborazione
pubblico/privato, per il reperimento dei finanziamenti e il coinvolgimento dei capitali pubblici nella
gestione delle realizzazioni. In passato il privato interveniva in veste di esecutore, mentre il
finanziamento era pubblico. Il Project Financing, o finanza di progetto, consente il finanziamento di
opere, che ripagano il debito attraverso i flussi finanziari che esse stesse generano. Per esempio, un
ponte viene pagato con il pedaggio imposto ai suoi utilizzatori, un museo viene costruito e gestito
con i proventi che derivano dalla vendita dei biglietti, un centro congressi si costruisce con gli
introiti derivanti dall'affitto dei locali, una centrale elettrica si ripaga con la vendita dell'energia
prodotta, ecc.
Per far sì che una tale iniziativa abbia successo è necessario, in primo luogo, la trasparenza delle
procedure, in modo da garantire per il privato la chiarezza dei ruoli, la divisione dei rischi e la
solidità economica del progetto. È evidente, così, il forte ruolo delle attività di programmazione e
progettazione delle opere. Infatti, solo attraverso un'adeguata analisi e valutazione preventiva di
tutti gli elementi del progetto si può garantire la sua realizzazione, e l'accordo tra pubblico e privato
(concertazione).
In Italia, il project financing ha riscosso maggior successo nei settori: ambiente, energia e gas,
infrastrutture e telecomunicazioni. In particolare per opere legate al territorio, che migliorano la
qualità della vita della popolazione: impianti smaltimento rifiuti, inceneritori, impianti di
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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produzione di energia con fonti rinnovabili, centri sportivi, impianti idrici e fognari, interventi nel
settore turistico.
Principali riferimenti normativi
• Lg 144/99 e delibera CIPE n. 63/99, promozione all'interno delle pubbliche amministrazioni
dell'utilizzo di tecniche di finanziamento di infrastrutture con ricorso a capitali privati (SalernoReggio Calabria e Pedemontana Veneta).
• Lg 415/98 "Merloni Ter", definisce le regole per la costituzione dell'Unità Tecnica Finanza di
Progetto.
I Procedimenti
Ai fini di una corretta impostazione dello studio di project financing, l'analisi sarà volta alla:
1) Valutazione economica/finanziaria
2) Fattibilità amministrativa e procedurale
3) Fattibilità tecnica e urbanistica
1) Per le caratteristiche dimensionali e qualitative che di solito assumono i programmi di cui si
ipotizza la realizzazione in regime di project financing, risulta evidente la necessità di
provvedere ad una valutazione economica-finanziaria in grado di porre in evidenza il rapporto
tra investimenti e vantaggi ottenibili sul versante privato e degli interessi pubblici e collettivi.
A questo proposito specifiche linee di ricerca dovranno essere attivate al fine di individuare le
fonti di finanziamento potenzialmente acquisibili in sede locale, nazionale e comunitaria.
2) Il secondo parametro concerne lo studio della fattibilità amministrativa e procedurale del
programma di interventi. Le verifiche previste in questo ambito hanno l'obiettivo di indicare le
procedure possibili ai fini dell'attuazione del programma di intervento.
Le operazioni da compiere riguarderanno:
· individuazione dei soggetti a vario titolo cointeressati dalle fasi di
promozione/realizzazione/gestione del programma d'intervento;
· formulazione dello schema dei meccanismi di negoziazione tra le parti;
· indicazione delle azioni richieste/spettanti;
· descrizione delle procedure operative;
· calendario d'attuazione.
Particolare attenzione dovrà essere posta alle relazioni che si stabiliranno tra i soggetti promotori
dell'intervento, pubblici e/o privati, e l’insieme delle istituzioni e delle amministrazioni
pubbliche interessate dall’attuazione del programma. Le verifiche di fattibilità avranno l'obiettivo
di indicare soluzioni, per quanto possibili, di tipo ordinario, tali cioè da non richiedere azioni
amministrative di particolare complessità.
3) Un terzo parametro deve prendere in esame le questioni afferenti la fattibilità tecnico-urbanistica
del programma di interventi. Obiettivo di tale campo di indagine consiste nella definizione delle
caratteristiche funzionali ed urbanistiche dell’opera e/o dell’insieme di opere.. La scala di
definizione sarà tale da consentire un'esatta percezione della configurazione dell'area, in
corrispondenza delle principali fasi di realizzazione previste.
In termini operativi, si tratterà di:
· identificare e interpretare gli elementi strutturali del contesto funzionale e morfologico
dell'area di intervento;
· descrivere le relazioni del programma di interventi con gli indirizzi, le forme, gli strumenti
di programmazione e pianificazione territoriale vigenti sull'area interessata dall’iniziativa,
ovvero con le linee trasformative, non recepite dalla strumentazione esistente, degli attuali
assetti dell'area e del contesto di appartenenza.
8.2. Strumenti tecnici per l'ambiente: Valutazione di Impatto Ambientale
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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La Valutazione di Impatto Ambientale (comunemente detta VIA) è una procedura volta a
considerare gli effetti che possono manifestarsi nell’ambiente in seguito a determinate iniziative di
intervento e trasformazione del territorio; trova fondamento nelle strategie in tema di gestione
ambientale formalizzate a metà degli anni ‘80 da diverse direttive della CEE, che incoraggiano la
prevenzione dei danni inflitti all’ambiente anziché limitarsi ad affrontare i problemi a posteriori.
Scopo principale della VIA è di “individuare, descrivere e valutare gli effetti diretti e indiretti di un
progetto sulle varie componenti del sistema ambientale”. Si tratta di un procedimento che non fa
parte del sistema autorizzatorio ma appartiene al processo decisionale, quale metodologia di
elezione al fine di evitare la realizzazione di opere incompatibili con l’ambiente circostante
Tale procedimento consiste nella raccolta, da parte del committente, di informazioni relative agli
impatti dell’intervento proposto sull’ambiente naturale e socio-economico, nell’informazione delle
popolazioni interessate, nella valutazione da parte di un Comitato Tecnico di ogni aspetto rilevante,
e nella formulazione di un parere sulla compatibilità ambientale dell’opera. Il giudizio di
compatibilità ambientale scaturisce quindi da un bilancio del rapporto benefici - danni, inteso non
solo sotto il profilo ecologico-ambientale ma anche sotto quello economico-sociale, ed è finalizzato
al rispetto della gestione ottimale delle risorse.
Principali riferimenti normativi (vedi sito regionale: http://www.rete.toscana.it/sett/pta/via/sommario.htm)
• direttiva 85/337/CEE, norma europea di riferimento del sistema di Valutazione di Impatto
Ambientale (VIA)
• direttiva 97/11/CEE, variazione e aggiornamento della precedente
• Decreto Presidente della Repubblica, 12-4-1996 "Atto di indirizzo e coordinamento
dell’attuazione dell’art. 40, comma 1 della L. 22- 2-1994, n. 146, concernente disposizioni in
materia di valutazione di impatto ambientale", fissa i contenuti e le procedure per la valutazione
di impatto ambientale, in seguito denominata V.I.A., relativa a progetti per la realizzazione di
opere, impianti e altri interventi di competenza regionale
• Decreto Legislativo 31-3-1998, n. 112 "Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello
Stato alle Regioni e agli Enti Locali in attuazione del capo I della legge 15-3-1997 n. 59", ai
sensi del quale e’ individuata l'Autorità competente all’effettuazione della procedura di V.I.A.,
in relazione alle specifiche categorie dei progetti ed interventi, di iniziativa pubblica e privata.
• Legge Regione Toscana 3 Novembre 1998, N. 79, Norme per l’applicazione della valutazione di
impatto ambientale, come modificata dalla L.R. n. 79 del 30-12-2000.
La legge regionale 79/98
Definizioni
a) Impatto ambientale: l’insieme degli effetti diretti e indiretti, positivi e negativi, a breve ed a
lungo termine, permanenti e temporanei, singoli e cumulativi, indotti sull’ambiente.
b) Studio di impatto ambientale: l’insieme coordinato degli studi e delle analisi ambientali di un
progetto volto ad individuare e valutare, attraverso approfondimenti progressivi, gli impatti
specifici e complessi delle diverse alternative, per definire la soluzione progettuale e
localizzativa ritenuta maggiormente compatibile con l’ambiente, nonché i possibili interventi di
mitigazione.
c) Progetto: l’insieme degli elaborati tecnici descrittivi della realizzazione di un’opera, di un
impianto o altro intervento sull’ambiente naturale o sul paesaggio, di iniziativa pubblica o
privata,
d) Autorità competente: la Pubblica Amministrazione o l’Ente di gestione a cui è affidata
l’effettuazione del procedimento di V.I.A. individuata ai sensi dell’art. 7.
e) Autorità proponente o committente: il soggetto, rispettivamente di natura pubblica o privata, che
predispone l’iniziativa da sottoporre alla procedura di V.I.A.
f) Pronuncia di compatibilità ambientale: il provvedimento dell'Autorità competente che contiene
il giudizio sulla compatibilità ambientale di un progetto, opera o altro intervento.
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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g) Procedimento per la valutazione dell’impatto ambientale: l’insieme delle diverse fasi
procedimentali culminanti nella pronuncia di impatto ambientale di un progetto, opera o
intervento.
Esse comprendono:
1. Procedura di verifica, tesa a valutare la necessità o meno del ricorso all’effettuazione della
V.I.A., in relazione alle caratteristiche progettuali dell’opera, impianto o altro intervento.
2. Fase preliminare, mediante la quale il soggetto proponente, in contraddittorio con l'Autorità
competente, individua gli elementi ed i temi oggetto dello studio di impatto ambientale.
3. Procedura di valutazione, la fase procedimentale essenziale, finalizzata alla pronuncia di
impatto ambientale, mediante il giudizio di compatibilità o meno dell’opera, impianto o
altro intervento progettato.
h) Sintesi non tecnica: relazione sintetica, redatta con linguaggio non tecnico a fini
divulgativo/conoscitivi, contenente la descrizione delle opere di cui si tratti. Essa deve
obbligatoriamente fornire le informazioni ed i dati maggiormente significativi contenuti nello
studio di impatto ambientale, ivi comprese le cartografie illustrative del progetto, ed essere
suscettibile di agevole riproduzione.
i) Garante dell’informazione: il pubblico dipendente, diverso dal responsabile del procedimento,
incaricato di avviare tutte le azioni necessarie per assicurare l’informazione ai cittadini ed alle
formazioni sociali, così da favorirne la partecipazione, e, in particolare di fornire a chiunque, a
richiesta, copia degli atti
Il procedimento
La legge regionale stabilisce, negli Allegati alla legge stessa, le tipologie di progetti da sottoporre
obbligatoriamente a VIA (Allegati A) e quelli, invece, per i quali la VIA è subordinata all’esito
della procedura di verifica (Allegati B). All’interno degli Allegati viene anche specificato, per ogni
tipologia di progetto, quale è l’Autorità competente ad effettuare, eventualmente, la VIA o
l’istruttoria delle procedure di verifica (Regione, Provincia, Comuni).
Il proponente richiede, con apposita domanda all'autorità competente, l’attivazione della procedura
di verifica. A tal fine allega alla domanda:
• il progetto preliminare dell’opera, impianto, o altro intervento, corredato da uno specifico studio
sugli effetti urbanistico-territoriali ed ambientali dell’opera o altro intervento progettato, e sulle
misure necessarie per il suo inserimento nel territorio comunale;
• una specifica relazione che dia conto della conformati del progetto preliminare con le norme
ambientali e paesaggistiche, nonché con i vigenti piani e programmi territoriali ed ambientali;
• una relazione descrittiva che evidenzi le motivazioni, le finalità, le alternative di localizzazione,
nonché gli interventi alternativi ipotizzabili;
Il proponente provvede al deposito degli elaborati sopra specificati presso le strutture operative
individuate e presso le Amministrazioni interessate.
Le strutture operative accertano, entro 15 giorni, la completezza degli elaborati presentati dal
proponente, provvedendo, ove ne ravvisino la necessità, a richiedere, entro i successivi 15 giorni,
non ulteriormente prorogabili, le integrazioni ed i chiarimenti opportuni. La richiesta di integrazione
interrompe i termini del procedimento.
Le strutture operative, concludono l’istruttoria entro 30 giorni dal deposito della domanda,.
L'autorità competente delibera in merito alla sottoposizione del progetto alla procedura di V.I.A.,
provvedendo a comunicare al proponente la relativa decisione, entro 60 giorni dal deposito.
Decorso il termine, in assenza di determinazioni da parte dell'autorità competente, il progetto
interessato si intende escluso dalla procedura di V.I.A.
L'autorità competente può subordinare l’esclusione del progetto dalla procedura di V.I.A. a
specifiche prescrizioni finalizzate all’eliminazione e/o alla mitigazione degli impatti sfavorevoli
sull’ambiente, alle quali il proponente è tenuto ad adeguarsi nelle fasi della progettazione successive
a quella preliminare.
APPUNTI DI TECNICA URBANISTICA E INGEGNERIA DEL TERRITORIO - Prof. SILVANA LOMBARDO STORIA URBANISTICA pag.
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Nel caso si ravvisi la necessità di effettuare lo studio di impatto ambientale i contenuti specifici
sono descritti nell'allegato C della legge regionale. In linea di massima essi possono essere riassunti:
- l'illustrazione dei potenziali effetti dell'opera progettata sull'ambiente;
- la specificazione degli scarichi idrici, dei rifiuti (liquidi e solidi), delle emissioni ed
immissioni inquinanti nell'atmosfera e delle emissioni sonore prodotte dall'opera;
- le misure previste per eliminare o ridurre gli effetti sfavorevoli;
- i piani di monitoraggio ambientale.
8.3. Gli strumenti di pianificazione: I Programmi Integrati.
Mentre il dibattito disciplinare sulla revisione della legge urbanistica nazionale aveva corso, si è
assistito allo sviluppo di strumenti innovativi, basati sulla concertazione tra i soggetti e sulla
partecipazione di soggetti pubblici e privati. Sono così nati i cosiddetti Programmi Complessi, che
in un ottica di programmazione strategica cercano di convogliare risorse pubbliche e private per la
realizzazione degli interventi. Sono programmi realizzati, perciò, di concerto tra pubblico e privato,
che si occupano di porzioni limitate di territorio, intervenendo con veri e propri progetti urabi di
riqualificazione e trasformazione.
Tra i programmi complessi ricordiamo:
• programmi integrati ai sensi dell'art 18 della legge 203/91; traggono origine dall'esigenza di far
fronte al fabbisogno abitativo dei dipendenti dello Stato impegnati nella lotta alla criminalità
organizzata. Sono i primi piani di edilizia convenzionata ed agevolata che prevedono accanto
all'edilizia sovvenzionata una quota di edilizia residenziale e non privata da immettere sul libero
mercato.
• Programmi di recupero ai sensi dell'art. 11 della legge 179/92; prevedono esclusivamente
interventi pubblici, ossia utilizzano finanziamenti pubblici per l'edilizia sovvenzionata anche a
fini del recupero (restauro, realizzazione infrastrutture) dell'edilizia pubblica esistente.
• Programmi integrati ai sensi dell'art 16 della legge 179/92; sono volti alla riqualificazione del
tessuto urbanistico, edilizio e ambientale, ma non sono stati promossi se non in rari casi.
• Programmi di recupero urbano ai sensi dell'art. 11 della legge 493/93; sanciscono il vero passo
in avanti verso l'utilizzo della concertazione pubblico/privato nella trasformazione e
riqualificazione urbana, e aprono la strada ai successivi
• Programmi di riqualificazione urbana (PRU) ai sensi dell'art. 2, comma 2, della legge 179/92 e
si propongono di riqualificare ambiti urbani delimitati dal comune, attraverso proposte che
riguardano opere di urbanizzazione primaria e secondaria, interventi di edilizia residenziale e
non che inneschino processi di riqualificazione fisica e funzionale, e mediante l'uso di
finanziamenti pubblici e privati.
Tra i PRUSST (Programma di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio),
promossi in Toscana ricordiamo i progetti TERRE SENESI e AREA LUCCHESE, del 1998, oltre
al PRUSST per la realizzazione di un sistema ferroviario metropolitano del Comune di San
Giovanni Valdarno