L`alpinista generoso Fu eroico in quota ma anche nella vita

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L`alpinista generoso Fu eroico in quota ma anche nella vita
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L’ECO DI BERGAMO
MARTEDÌ 17 GENNAIO 2017
L’anniversario
Mario Merelli
L’alpinista generoso
Fu eroico in quota
ma anche nella vita
Il ricordo. Il 18 gennaio 2012 la tragica scomparsa
di Mario Merelli durante l’ascensione alla punta Scais
In Nepal c’è ancora l’ospedale che volle con Zaffaroni
PAOLA VALOTA
Ci sono certi volti che ti
si piantano dentro il cuore e difficilmente li dimentichi, anche se
il tempo passa. È così per Mario
Merelli, l’alpinista bergamasco
scomparso il 18 gennaio di 5 anni
fa, all’alba di un mercoledì freddo
come sarà quello di domani.
Sarà per quelle sue imprese
che ancora sanno di eroico, come
la salita di dieci ottomila, con due
giganti «bissati», come nel caso
dell’Everest e dello Shisha Pangma. Sarà per quel suo modo di
parlare, calmo e filosoficamente
concreto. Sarà per quella sua disponibilità ad ascoltare; per quel
suo stile schietto, modesto; quel
suo altruismo genuino. Quella
sua straordinaria «normalità».
Il ricordo vive ancora
Sta di fatto che per tutti – coloro
che l’hanno conosciuto ma non
solo – Mario è ancora vivo. E lo
testimoniano le varie iniziative
volute in questi anni in suo onore:
dall’installazione sul Monte
Bronzone alla rosa dei venti al
Passo della Manina, dall’intitolazione del Rifugio al Coca e del
Centro sportivo di Vertova alla
denominazione di una via nel comune di Terno d’Isola, passando
per serate alpinistiche finalizzate
alla raccolta fondi per l’ospedale
Kalika: un presidio sanitario nella
poverissima regione nepalese,
che Mario aveva sognato insieme
all’amico Marco Zaffaroni, oggi
impegnato nel portare avanti
quel progetto nel Dolpo. Perché
Kalika è un po’ il suo «testimone»:
racconta quel Mario che voleva
rendere alla montagna ciò che la
montagna aveva dato a lui. Quasi
un debito da saldare o forse solo
un ringraziamento, una preghiera fatta di azioni a quel Dio che ha
creato le cime ma anche chi le può
salire, come aveva detto lui stesso
in una delle ultime interviste. Prima di quell’alba che si è portata
via Mario sicuramente troppo
presto.
Il sostegno per l’ospedale
«In tanti – racconta la sorella Raffaella – ci contattano, ci danno del
denaro per l’ospedale. Nel nostro
dolore siamo commossi da questa
generosità. Ad Albino qualche
mese fa gli amministratori hanno
rinunciato al gettone di presenza
ad una seduta del consiglio comunale per aiutare l’ospedale. Sono
segni bellissimi e ci fanno sentire
Mario ancora vivo».
Parole a cui fa eco anche la moglie di Mario, Mireia Giralt, che
nella sua Lizzola c’è anche oggi: da
allora ci torna in volo dalla Spagna
ogni 2 luglio, in modo più intimo,
per il compleanno di Mario, e per
questo anniversario, che ha però
il sapore di un ricordo scevro di
retorica. È la famiglia stessa che
chiede di non averne. Chiede di
tagliare corto sugli Ottomila e di
ricordare semplicemente la sua
generosità, di uomo più che di
alpinista, il suo tratto caratterizzante e l’aspetto principale su cui
si sofferma anche l’amico – così
vuole che lo si definisca – Emilio
Moreschi.
E così, nel suo altruismo, lo si
conosce nel libro a cura di Pino
Capellini e Emanuele Falchetti
che la nostra testata gli ha dedicato lo scorso anno.
Uomo e alpinista generoso
Insomma, Mario aveva fatto della
generosità una sua compagna di
vita. Condivideva l’acqua della
borraccia, la torta al campo base,
la gioia della cima. E lui di cime in
tasca ne aveva parecchie. Sembrava destinato a completare
quell’obiettivo stabilito: la salita
dei 14 giganti della terra. Intanto
in dieci anni ne aveva già saliti ben
dieci, in quello stile genuino e
magari anche un po’ ingenuo che
rifiuta gli aiuti, che si chiamino
ossigeno, sherpa o sponsor.
Certo, aveva qualche amico –
istituzionale e non – che credeva
nelle sue imprese e gli dava una
mano, ma in modo discreto, mai
chiassoso. Prima c’era stato l’Everest, poi il Makalu, il Kangchenjiunga, lo Shisha Pangma,
l’Annapurna, il Broad Peak, il
Gasherbrum II, il Lothse, il Cho
Oyu e il Daulagiri. In mezzo anche
tentativi e rinunce, perché Mario
era uno che aveva cuore e testa,
non andava oltre il limite, sapeva
girare i tacchi ed era convinto che
pur se bello fosse andare in cima
Mario Merelli è rimasto nel cuore dei bergamaschi per le sue imprese alpinistiche e per la sua generosità
n Memorabili
le sue imprese in
alta quota: dieci
ottomila, con due
giganti «bissati»
n La sorella
Raffaella: tanti
contributi per la
struttura sanitaria,
siamo commossi
ma ancor più lo era «tornare a
baita».
«Mario ci incoraggia ancora»
Non era raro che Mario parlasse
al plurale, in un gesto di modestia
che disarma. «Come me – diceva
– ce ne sono tanti», riferendosi
appunto a quel suo andare in
montagna. Ma lui un po’ unico lo
era. Si commuoveva quando – dal
rientro da una spedizione – ripercorreva a ritroso la «sua battaglia».
Si diceva fortunato di potersi
ritrovare di fronte a se stesso nella
solitudine della vetta. E al tempo
stesso faceva sentire fiero ogni
suo interlocutore, ricordando che
«siamo tutti protagonisti della
nostra vita», perché ciascuno ha
il proprio Everest da scalare, tutti
i giorni. E c’è da credere che dirà
questo di lui, domani sera, anche
l’amico Paolo Valoti, nella serata
di Orobie FilmFestival in programma all’auditorium di Piazza
della Libertà. Perché Valoti era
con lui nell’ultimo tentativo di
salita alla vetta, nel canale finale
al Pizzo Scais, nella notte fra il 17
e il 18 gennaio 2012, per una notturna in sicurezza sulle montagne
di casa, fra Valseriana e Valtellina.
«Con la forza dell’umiltà, della
semplicità e della concretezza
Mario – dice l’amico Valoti – ci
incoraggia ancor oggi a salire. Il
suo esempio di libero uomo e libero alpinista ci invita a superare
uniti le rocce e talvolta le dure
esperienze. E andare avanti uniti,
oltre le vette».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
LA LETTERA DELL’AMICO
«Eri l’uomo dei gesti semplici
persino sul tetto del mondo»
fine gennaio io e te
avevamo un appuntamento fisso, tutti
gli anni. Qualsiasi
cosa fosse successa,
qualsiasi cosa tu o io avessimo
fatto durante l’autunno o le
prime settimane dell’inverno,
che ci fosse neve oppure no,
quindi che quello fosse un
buon inverno oppure che fosse
un inverno avaro di neve, stitico, gennaio era il momento.
Tutti e due sapevamo che ci
saremmo sentiti e poi visti per
andare all’Ispo di Monaco, in
Germania.
L’Ispo è la più grande fiera
espositiva d’Europa per aziende che producono articoli
sportivi e per la montagna. Sia
io che te, da quando avevi qualche sponsor, all’Ispo ci doveva-
A
mo andare, tutti gli anni. A
nessuno dei due piaceva andarci ma tant’era, si doveva
fare. Era lì (ed è sempre lì, anche adesso) che tutti gli alpinisti e i progetti alpinistici, i sogni e le spedizioni, prendono
forma. Non è un luogo romantico, comunque è lì che cominciano tutte le grandi avventure, dentro a quei capannoni
pieni di gente e di aziende che
mettono in mostra i loro prodotti. C’è gente che chiacchiera, promette, contratta, vende
e che nella media racconta un
sacco di balle noiose.
Bisognava armarsi di pazienza e spendere un giorno
per andare su e io e te di solito
lo facevamo insieme. In automobile. Ci telefonavamo, normalmente mi chiamavi tu già
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Mario Merelli
durante le vacanze di Natale
per salutare, per fare gli auguri
e per cominciare ad organizzare. «Tè, alùra? ‘N tàt, Auguri,
neh! Buon Anno! ’N vài a l’Ispo,
nòter?». Io ti rispondevo sempre di sì e la trasferta era già
organizzata. Di solito quando
mi chiamavi io ero a sciare da
qualche parte mentre tu invece eri al lavoro nel tuo albergo
a Lizzola, mi chiamavi tra una
cosa che dovevi fare e un’altra,
la telefonata era brevissima e
allegra, essenziale. La tua voce
stridula e il tuo accento bergamasco ancora peggio del mio
mi mettevano di buon umore.
Bastava un’altra telefonata
soltanto qualche settimana
dopo per stabilire il giorno e il
posto esatto dove ci saremmo
trovati, a un orario di quelli
adatti per dare l’assalto a una
vetta himalayana, e ci saremmo trovati in un parcheggio
all’inizio della Valle Seriana.
Alle otto in punto saremmo
stati all’ingresso della fiera a
Monaco, puntuali.
È curioso ma io e te in montagna insieme ci siamo andati
poco, andavamo soltanto in falesia oppure su montagne di
8.000 metri lontani da casa. Le
montagne di mezza misura
niente, le abbiamo trascurate.
A te non piaceva tanto andare
in giro come piace a me, in
scarpe da ginnastica e maglietta, di corsa, mezza giornata
soltanto. A te piaceva stare in
giro delle giornate o delle notti
intere, con zaino, scarponi,
ramponi e piccozza. Cose che
anche a me piacevano ma io
avevo i bambini piccoli e di
notte dovevo dormire. E poi
dovevo sciare.
Durante i nostri viaggi in
auto parlavamo di tutto, proprio come quando eravamo in
spedizione chiusi dentro a una
tendina, auto o tendina per noi
era lo stesso. Una volta a Kathmandu mi hai perfino fatto
scrivere una lettera a una che
ti piaceva e che volevi andare
a trovare, in Spagna. Tantissimi anni fa, poi tu e lei vi siete
sposati. «Tè te sèt brào a scrìf».
Tu, abbastanza.
Fare cordata con te era molto semplice perché con te era
semplice stare insieme, era
sufficiente mettere in comune
quello che c’era: un formaggino, un’automobile, una lettera
da scrivere, le ultime energie
rimaste per battere la traccia
in salita. Una volta eravamo
allo Shisha Pangma e stavamo
arrivando a 7.100 metri, io avevo in spalla la tavola da
snowboard e tu mi hai guardato, non avevo una bella faccia
si vede. «Certo che con chél
làur lè so la schèna…» hai tolto
il tuo zaino di spalla e hai tirato
fuori un pezzo di formaggella,
l’hai tagliata con l’Opinel spingendo il formaggio con la lama
contro il pollice, ne abbiamo
mangiato un pezzettino per
uno. Poi siamo ripartiti verso
l’alto e siamo arrivati al campo
3, non c’era un alito di vento
quella sera. Incredibile. Domani andiamo in cima sicuro
– ho pensato io e sono sicuro
che l’hai pensato anche tu –
però nessuno dei due ha avuto
il coraggio di dirlo.
Invece il giorno dopo c’era
un vento che volavamo via, a
volte in montagna le cose non
vanno esattamente come ci si
aspetta che vadano. Come è
successo a te quella notte alla
Punta di Scais. Questo, Mario,
è già il quinto anno che mi fai
andare all’Ispo da solo.
Emilio Previtali