L`ABUSO DEL DIRITTO NELLA LEGGE DELEGA FISCALE di

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L`ABUSO DEL DIRITTO NELLA LEGGE DELEGA FISCALE di
L'ABUSO DEL DIRITTO NELLA LEGGE DELEGA FISCALE
di
Alessandro Giovannini
Presidente dell'Associazione Italiana Professori di Diritto Tributario (AIPDT)
Professore ordinario di diritto tributario nelle Università di Siena e Pisa
SOMMARIO: 1. L'abuso del diritto e la legge delega 11 marzo 2014, n. 23: introduzione e
riferimenti normativi. - 2. Sulla nozione di abuso del diritto. - 2.1. La buona fede in senso oggettivo
come regola di condotta. Il “nocciolo” della nozione. - 2.2. Il risparmio indebito d’imposta e le
ragioni extrafiscali dell’operazione. Il giudizio postumo di congruità dei mezzi rispetto ai fini
perseguiti. - 2.3. La possibile nozione di abuso alla luce della legge delega. - 3. Sulla sanzionabilità
della violazione del divieto d’abuso. - 3.1. Abuso, elusione ed evasione: diversità strutturali e
convergenze. - 3.2. Il problema della “determinatezza” e le violazioni di "evento". - 3.3. La
possibile soluzione al problema della punibilità della violazione del divieto d’abuso alla luce della
legge delega e della legislazione francese. - 4. Sulla motivazione dell’avviso di accertamento, sulla
qualificazione giuridica dei fatti e sul contraddittorio anticipato. - 4.1. La motivazione e la
qualificazione giuridica dei fatti di causa. La nullità dell’avviso di accertamento come
conseguenza priva di senso giuridico. - 4.2. Il contraddittorio anticipato e la sanzione della nullità
dell'avviso di accertamento.
L’art. 5 della legge 11 marzo 2014, n. 23, delega il Governo ad attuare la revisione delle
vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell'abuso del
diritto. La disposizione tenta di raccoglie sia esigenze concrete manifestate da alcune parti sociali,
sia concetti elaborati nel corso del dibattito dai suoi protagonisti. Quest’opera di “assemblamento”
ha prodotto una miscellanea di nozioni, con esiti non univoci in punto di risoluzione dei problemi
in discussione. Il lavoro si propone di mettere in evidenza le questioni in via di definizione e di
verificare, alla luce dei criteri indicati nella delega, i temi ancora aperti, come quello relativo alla
nozione stessa di abuso ed il problema della sanzionabilità del comportamento abusivo, nel
tentativo di offrire possibili soluzioni.
Article 5 of the Law 11 March 2014, n. 23, mandates the Government to implement the review
of the existing anti-avoidance provisions in order to adjust them to the general principle of the
prohibition of abuse of right. The provision contains both concrete requirements expressed by
social partners, both other issues arisen during the debate. This work of "assemblage" produced
a mixture of concepts and led to results that are not unique to provide a resolution to the problems
under discussion. This paper aims to highlight the issues that are going to be defined and to
analyze, in light of the criteria stated in the delegation, the issues that still remain unresolved,
such as the one related to the notion itself of abuse and the problem of enforceability of abusive
behavior, in an attempt to provide possible solutions.
1. - L'abuso del diritto e la legge delega 11 marzo 2014, n. 23: introduzione e riferimenti
normativi. - L’art. 5 della legge 11 marzo 2014, n. 23, delega il Governo ad attuare la revisione
delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell'abuso
del diritto.
Tenuto conto della raccomandazione della Commissione U.E. 6 dicembre 2012, n. 2012/772,
sulla c.d. pianificazione fiscale aggressiva, il Governo dovrà:
a) definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un
risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;
b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un
diverso carico fiscale e, a tal fine: 1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come
causa prevalente dell’operazione abusiva; 2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva
se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extra fiscali non marginali; 3)
stabilire che costituiscono ragioni extra fiscali anche quelle che non producono necessariamente
una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e
determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;
c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a) all’amministrazione
finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta;
d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere
di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione
funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale
logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di
valide ragioni extra fiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;
e) prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione
dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;
f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con
l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di
accertamento tributario.
L’art. 5, nei termini or ora richiamati, tenta di coniugare le norme dell’art. 37-bis del DPR n.
600 del 1973 coi concetti elaborati dalla dottrina1, dalla giurisprudenza comunitaria2 e dalla Corte
di Cassazione3 nel corso del dibattito.
Quest’opera di “assemblaggio” ha prodotto una miscellanea di nozioni, con esiti non univoci
in punto di risoluzione dei problemi. Infatti, l’art. 5, se per alcuni di essi compie scelte precise, per
altri detta criteri confusi e per altri ancora non offre nessuna indicazione decisiva. Difetti, questi,
che mal si conciliano con la previsione dell’art. 76 della Costituzione e soprattutto con lo scopo al
quale la delega tende: scolpire una norma di principio, che, per essere davvero tale, esige
stringatezza e chiarezza.
2. Sulla nozione di abuso del diritto. – Il primo aspetto da esaminare, poiché ancillare a tutti
gli altri, attiene alla nozione di abuso, sulla quale la legge delega mi pare offra indicazioni non
cristalline4.
E’ possibile che il legislatore delegante, nel voler mettere insieme troppi fili, abbia perso di
vista il bandolo della matassa. Come e dove ritrovarlo, allora? Credo che la via da seguire sia
quella di sfrondare il ragionamento da inutili bizantinismi e da altrettanto inutili rivoli casistici,
così da andare dritti al nocciolo della categoria.
Ciò significa prendere atto della sua più antica e compiuta elaborazione, che non è, come
molti ritengono, quella comunitaria o giurisprudenziale domestica, ma è quella civilistica, propria
della nostra più feconda ricerca giuridica, che, muovendo da un insieme di disposizioni del codice
1
Tra gli altri e senza pretesa di completezza, cfr. Gallo, Brevi spunti in tema di elusione e frode alla legge (nel reddito
d’impresa), in Rass. trib., 1989, I, 11 ss.; Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale,
Padova, 1992, e Id., Elusione fiscale, in Digesto, sez. comm., Aggiornamento, I, Torino, 2007; Russo, Brevi note in
tema di disposizioni anti elusive, in Rass. trib., 1999, 68 ss.; La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle
fonti del diritto, in Rass. trib., 2000, I, 785 ss.; Tabet, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Boll. trib., 2009, 85 ss.;
Beghin, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra fisco e contribuente, in Riv. dir. trib., 2009,
408 ss.; Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario, in Dir. e prat. trib., 2012, I, 683 ss.; Amatucci, A., La funzione
antiabuso dell'interpretazione del diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2012, I, 879 ss.; Prosperi, L'abuso del diritto
nella fiscalità vista da un civilista, in Dir. e prat. trib., 2012, I, 717 ss.; Basilavecchia, Presupposti ed effetti della
sanzionabilità dell'elusione, in Dir. prat. trib., 2012, I, 797 ss.; Carinci, Elusione tributaria, abuso del diritto e
applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat. trib., 2012, I, 785 ss.; Zizzo, L’elusione tra ordinamento
nazionale ed ordinamento comunitario: definizione a confronto e prospettive di coordinamento, in Elusione ed abuso
del diritto tributario, cit., 57 ss.
2
Cfr. Lettieri, Marini, Merone, L’abuso del diritto nel dialogo tra corti nazionali ed internazionali, Napoli, 2014. Per
una rassegna delle sentenze della Corte di giustizia si v. Piantavigna, Abuso del diritto fiscale nell'ordinamento
europeo, Torino, 2011, passim, ma prima, per un ragionato inquadramento dell'abuso nel diritto comunitario, cfr.
Gestri, Abuso del diritto e frode alla legge nell'ordinamento comunitario, Milano, 2003, passim, ma specie 54 ss. e
183 ss.
3
Per l’esperienza italiana, si richiama la fondamentale sentenza della Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30055.
4
Si tratta, per la verità, di un'esigenza antica e mai appagata fino in fondo: fin dagli inizi degli anni trenta del secolo
passato il problema fu studiato con alterne soluzioni. Cfr. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria
come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Elusione ed
abuso del diritto tributario, a cura di Maisto. Milano, 2009, 3 ss., specie 12, e prima L’influenza dell’opera di Albert
Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della norma tributaria, in Riv.
dir. trib., 2007, I, 569 ss. Si veda inoltre l’approfondito studio di Melis, Sull’interpretazione antielusiva in Benvenuto
Griziotti e sul rapporto con la scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, ivi, 2008, 413 ss., e soprattutto
L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 163 ss.
civile (artt. 833, sugli atti d’emulazione, 1175, sul comportamento secondo correttezza, 1375,
sull’esecuzione di buona fede, e 1345, sul motivo illecito comune ai contraenti), è giunta ad
elaborare una vera e propria categoria concettuale generale del diritto5.
2.1. La buona fede in senso oggettivo come regola di condotta. Il “nocciolo” della nozione. In questa prospettiva, di abuso si deve parlare quando atti od operazioni complesse, pur
esattamente corrispondenti al contenuto di una situazione giuridica soggettiva e di un precetto
normativo, sono determinati per perseguire un interesse proprio dell’agente in spregio a quello
oggettivo del creditore, interesse il cui rispetto costituisce limite esterno alle libertà giuridiche
individuali, comprese le libertà economiche e d’impresa6.
Il collegamento tra diritto tributario e diritto civile, nei termini ora proposti, non deve essere
scrutato con sospetto. Anzi, solo se pienamente consapevoli della storia della nozione e della sua
sedimentazione concettuale è possibile, anche ai nostri fini, semplificare il discorso e giungere a
quel nocciolo che è essenziale mettere in risalto.
Ed infatti, agganciare il concetto di abuso, per un verso, a situazioni soggettive espresse in atti
e negozi e all’interesse in concreto perseguito dal contribuente, e, per altro verso, al diritto
potenziale del creditore erariale, significa raggiungere due obiettivi.
Il primo: legittimare l’inopponibilità all’amministrazione degli effetti giuridici di quei negozi,
senza vanificarne gli effetti privatistici7. Il secondo: legare il concetto di divieto di abuso a quello
di buona fede in senso oggettivo, principio, quest’ultimo, che nella nostra materia è consacrato
nell’art. 10 della legge n. 212 del 2000, ma che già discende, dritto dritto, dalle regole del codice
civile, spesso dimenticate o non valorizzate adeguatamente.
Sia consentito rinviare, per considerazioni ulteriori su questa radice civilistica, a Giovannini, Il divieto d’abuso del
diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. trib., 2010, 982 ss. Sulla centralità
della valutazione dell'interesse nella delimitazione della categoria dell'abuso, cfr, Giorgianni, L'abuso del diritto nella
teoria della norma giuridica, Milano, 1963, specie 193 ss.
6
Rescigno, L'abuso del diritto, Bologna, 1998, 86, precisa che "la dottrina dell'abuso di diritto avverte i legami che
corrono tra l'abuso e la mancanza di giusta causa: essa sottolinea come la giusta causa, il motivo legittimo siano la
pietra di paragone o l'antidoto dell'abuso". In termini, per così dire, anticipatori dei successivi filoni di ricerca, cfr.
Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano (1958), ora in Diritti
fondamentali e categorie generali, Scritti di Ugo Natoli, Milano, 1993, 511 ss., il quale chiarisce con nitidezza come
costituisca una caratteristica dell’abuso del diritto “l’apparente conformità dal comportamento del soggetto al
contenuto del suo diritto onde abusare del diritto dovrebbe significare coprire dell’apparenza del diritto un atto che si
avrebbe il dovere di non compiere”. Nella scia della elaborazione del caposcuola pisano, cfr. Bigliazzi Geri, La buona
fede nel diritto privato, in AA.VV., La buona fede, Milano, 1987, 51 ss. Si veda inoltre, per un’ampia ricostruzione
delle teorie sul punto, Breccia, L’abuso del diritto, in AA.VV., L’abuso del diritto, Padova, 1997, 5 ss.
7
Breccia, L’abuso del diritto, cit., 35, chiarisce come l’effetto del ricorso alla clausola di divieto d’abuso consenta di
rendere non opponibili effetti giuridici altrimenti idonei a spiegarsi interamente: “quel che altrimenti sarebbe efficace,
in quanto frutto di atti di per sé strutturalmente e astrattamente idonei, viene inficiato da un aspetto della reciproca
interrelazione delle parti in conflitto che è incompatibile con il fondamento razionale della tutela predisposta in astratto
dal sistema giuridico”. Cfr. anche Messina, L'abuso del diritto, Napoli, 2003, 165 ss.
5
Buona fede oggettiva e divieto di abuso possono non esprimere esattamente lo stesso concetto
e non essere perfettamente sovrapponibili8. Buona fede oggettiva e divieto di abuso, però, hanno
una medesima connotazione: entrambe le nozioni si caratterizzano per esigere una valutazione
bilaterale. Da un lato, infatti, impongono di valutare i diritti del privato alla realizzazione del
ventaglio di interessi suoi propri e le ragioni sostanziali che lo hanno indotto all’adozione di atti o
negozi, nel rispetto della libertà dei traffici giuridici e dell’autodeterminazione negoziale.
Dall’altro, esigono che sia accertato il diritto del creditore alla realizzazione della pretesa secondo
la sua reale configurazione, in ossequio al principio di congruità sostanziale degli atti coi fini
effettivi degli stessi.
Fin qui le due nozioni si accomunano. Ma il principio della buona fede oggettiva, per
ricostruzione consolidata, introduce un criterio o elemento di giudizio ulteriore: la correttezza della
condotta9.
L’ordinamento protegge gli atti del privato e ne legittima gli effetti - anche in ambito fiscale
- sino a quando essi non divengono strumentali al perseguimento di finalità diverse ed estranee a
quelle astrattamente tutelate e non riflettono, sul terreno della condotta, uno sviamento dai fini per
i quali le norme sono ordinariamente composte.
L'abuso del diritto, pertanto, si traduce in un comportamento artificioso, contrario alle regole
che lo dovrebbero informare seguendo quelle della buona fede in senso oggettivo. In termini ancor
più essenziali, il divieto di abuso è regola di condotta, il cui perno, appunto, è la buona fede
oggettiva10.
2.2. Il risparmio indebito d’imposta e le ragioni extrafiscali dell’operazione. Il giudizio
postumo di congruità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti. - Eccoci all’altro punto focale del
ragionamento, anello successivo ed ulteriore delle cose fin qui dette: il risparmio d’imposta.
Il risparmio d'imposta è mera conseguenza economica della qualificazione della fattispecie
operata dal contribuente in forza della sua libertà negoziale. Il risparmio d’imposta, di per sé, è
lecito.
8
Cfr. Restivo, Contributo ad una teoria dell'abuso del diritto, Milano, 2007, 147 ss., specie 191 ss. Uno dei contributi
sistematicamente più chiari sul rapporto tra abuso del diritto e buona fede oggettiva rimane, secondo me, quello di
Natoli, Note preliminari ad una teoria, cit., 520 ss.
9
Che la buona fede oggettiva sia concetto espressivo o comprensivo di regole di condotta improntate a correttezza è
pacifico ed è chiarito, in termini inequivoci, da Natoli, op. cit., 522 ss., che parla, appunto, di “buona fede come regola
di condotta”. E che sia possibile sostenere, quanto al comportamento o alla condotta, la riconducibilità del divieto di
abuso alla buona fede oggettiva è ripreso, anche in tempi recenti, da autorevole dottrina. Cfr. Busnelli e Navarretta,
Abuso del diritto e responsabilità civile, in Studi in onore di Pietro Rescigno, vol. V, Milano, 1998, 77 ss.; Prosperi,
Il contratto di subfornitura e l'abuso di dipendenza economica. Profili ricostruttivi e sistematici, Napoli, 2002, 326
ss.
10
E’ senz’altro da condividere, dunque, la teoria per la quale la buona fede oggettiva “non è un principio
costituzionale, è anche un principio costituzionale”. Principio cioè con tracce importanti nelle disposizioni della Carta
fondamentale, ma che in realtà è norma integrativa verticale dell’intero sistema, integrativa, cioè, di ogni ordine di
produzione codificata del diritto (costituzionale, legislativa primaria, regolamentare, comunitaria). E come lo è la
buona fede, lo è il divieto d'abuso. Il riferimento è a Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano,
ristampa, 2001, 7, che in poche e chiarissime pagine ha scolpito un contributo che rimane denso di significato anche
per la nostra materia.
Esso diviene illecito o indebito quando le regole di condotta e le finalità astrattamente definite
dalla legge divergono dalle regole e finalità in concreto perseguite. Più precisamente: quando agli
atti sui quali si struttura la condotta non sono riconducibili ragioni sostanziali - economiche o extra
fiscali - apprezzabili positivamente e non secondarie o di “non scarsa importanza”, secondo
l’espressione storicamente accreditata dell’art. 1455 cod. civ., mentre ad essi sono riportabili,
prevalentemente o esclusivamente, finalità di natura fiscale11.
Di qui una conseguenza immediata. Si è detto che l'uso distorto degli strumenti giuridici e
delle libertà negoziali, se da un lato connota la condotta come contraria alle regole della buona
fede, da un altro e specularmente lede il diritto del creditore.
Ebbene, giacché il diritto di credito si deve considerare leso dalla condotta e poiché la condotta
si deve valutare contraria alla buona fede oggettiva se si incardina su atti impropriamente utilizzati
rispetto alle reali finalità perseguite, il riscontro empirico delle valide ragioni sostanziali
(economiche o extra fiscali, non secondarie o di non scarsa importanza) consente di confermare
nel comportamento i connotati della liceità e di apprezzare come congrui gli strumenti eletti
rispetto ai fini perseguiti.
Semplificando al massimo il ragionamento, siccome le ragioni sostanziali attengono agli atti
e poiché la condotta si concretizza e si riscontra, per il diritto tributario, proprio per il loro tramite,
quelle ragioni riguardano strutturalmente la condotta: costituiscono un elemento rappresentativo
delle sue anomalie, sebbene esse si annidino in atti formalmente rispettosi dei modelli ammessi
dall’ordinamento.
Avere riportato le ragioni sostanziali - economiche e extrafiscali - alla condotta ha un rilievo
essenziale sul piano della prova e su quello della ripartizione del suo onere. Di questo dirò tra
poco. Per ora mi basta aver chiarito come tali ragioni, se reputate non valide o di scarsa importanza,
secondo il collaudato concetto di diritto civile, consentono di connotare negativamente la condotta
e quindi finiscono per marchiare di illiceità il risparmio fiscale conseguente.
Il risparmio indebito d’imposta, invece e conclusivamente, non è strutturalmente parte della
condotta intesa come fattispecie, ma ne è l’effetto. Quel risparmio è indebito proprio perché
conseguenza pregiudizievole della condotta, pregiudizio che, in forza della “errata” configurazione
o determinazione dell’obbligazione d’imposta, si rispecchia sul diritto del creditore.
2.3. La possibile nozione di abuso alla luce della legge delega. – Le considerazioni fin qui
compiute consentono di ritrovare quel bandolo che il legislatore delegante sembra avere smarrito.
E’ solo un giudizio fattuale successivo, dunque, che può condurre ad un apprezzamento negativo del risparmio
d’imposta in ragione della non congruità degli atti rispetto ai fini effettivamente perseguiti con quegli stessi atti.
Giudizio, se ben si riflette, che non diverge da quello che tradizionalmente accompagna la valutazione della causa
negoziale, sia che la si intenda come funzione (obiettiva) economico-sociale del negozio, sia che la si veda come
funzione (obiettiva) giuridica dell'atto o dell'operazione. Per tutti, cfr. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I,
Milano, 1953, 75 ss., e Id., Causa del negozio giuridico, in Novissimo Dig. it., III, Torino, 1957, pp. 32 ss. ; Pugliatti,
Nuovi aspetti del problema della causa nei negozi giuridici, ora in Diritto civile, Metodo – Teoria – Pratica, Milano,
1951, 76 ss. Da ultimo, proprio sulla valutazione empirica della causa, Bianca, Causa concreta del contratto e diritto
effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 251 ss.
11
Gli elementi costitutivi della nozione non possono che essere due: la condotta contraria alla
buona fede oggettiva, in quanto gli atti nei quali essa si struttura, privi di ragioni sostanziali
apprezzabili favorevolmente, tendono ad aggirare la legge tributaria ed a ledere per questa via il
diritto di credito statale12; il vantaggio fiscale illegittimamente conseguito alla stregua di finalità
prevalente dell’operazione, finalità realizzata, proprio, per il tramite di quella condotta13.
In questa nozione possono trovare collocazione coerente i criteri indicati sia nella lettera a),
sia nella lettera b), punto 1, dell’art. 5, ovvero il criterio dell’uso distorto di strumenti giuridici
idonei ad ottenere un risparmio d'imposta e quello del vantaggio fiscale, come "causa" prevalente
dell’atto o dell’operazione.
Si è ora osservato che se l’atto è sorretto da ragioni sostanziali (economiche o extrafiscali
apprezzabili positivamente e non valutabili di scarsa importanza, riprendendo la formulazione
dell’art. 1455 cod. civ.) la determinazione dell’obbligazione d’imposta nei termini rappresentati
dal contribuente si deve considerare legittima. Lo ripeto: siccome le ragioni sostanziali attengono
agli atti e siccome la condotta trova riscontro proprio negli atti in concreto prescelti, quelle ragioni
non possono che riguardare strutturalmente la condotta.
Di conseguenza, il riscontro positivo delle ragioni sostanziali non può che determinare la
qualificazione del comportamento come conforme alle regole della buona fede oggettiva e dunque
è giocoforza che la prova dell'inesistenza di quelle ragioni gravi sull’amministrazione.
Su questi aspetti la legge delega non brilla per limpidezza. Come già ricordato, per la lettera
b), punto 3, l'abuso è da escludere se l’operazione è giustificata da ragioni extrafiscali non
marginali, tra le quali anche quelle che non producono una redditività immediata, ma rispondono
ad esigenze di natura organizzativa o di miglioramento strutturale e funzionale dell'azienda. Nella
successiva lettera d) si prevede, poi, che la prova della non conformità degli strumenti giuridici ad
una normale logica di mercato sia a carico dell’amministrazione, gravando sul contribuente l’onere
di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il
ricorso a tali strumenti e quindi anche quelle collegate all’organizzazione e al miglioramento
aziendale.
Cercando di cogliere gli elementi essenziali delle previsioni adesso richiamate, mi sembra
di poter dire questo. La lettera d) persegue un doppio obiettivo: per un verso tende a disciplinare
la ripartizione dell'onere della prova conformemente all'art. 2697 cod. civ. 14 , e, per me, alla
collocazione strutturale delle ragioni economiche in seno alla condotta; per un altro declina le
“valide ragioni economiche” - già richiamate esplicitamente dall’art. 37-bis del DPR n. 600 e
parametro di valutazione costante della giurisprudenza - nella “normale logica di mercato”.
12
È proprio l'aggiramento che giustamente Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario, cit., specie 688, pone al
centro della distinzione tra risparmio indebito o illecito e risparmio lecito. Su questo profilo, in termini simili, cfr. A.
Amatucci, La funzione antiabuso dell'interpretazione del diritto tributario, cit., 879 ss., e Russo, L’onere probatorio
in ipotesi di “abuso del diritto” alla luce dei princìpi elaborati in sede giurisprudenziale, in Il fisco, 2012, 1301 ss.
13
Impostando così il ragionamento, mi pare si evitino commistioni con istituti autonomi, quali la simulazione,
problema, invece, oggi vivacemente dibattuto. In termini giustamente critici su questa commistione concettuale, cfr.
Falsitta, Abuso del diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, in Riv. dir. trib., 2010, 349 ss. Sulla stessa
linea, Beghin, L’abuso del diritto tra concetti astratti e rilevanza del fatto economico, in Corr. trib., 2010, 1759 ss.
14
Cfr. Russo, L’onere probatorio in ipotesi di “abuso del diritto”, loc. già cit.; Contrino, Il divieto d’abuso del diritto
fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamentali giuridici e connotati strutturali, in Dir. prat. trib., 2009, 463 ss.
La lettera b), punto 3, invece, si preoccupa di ampliare l'oggetto della prova rimessa al
contribuente. E infatti, qualifica alla stregua di cause giustificative dell’operazione anche ragioni
prive di rilievo economico, ovvero priva di redditività. Le ragioni extrafiscali che la norma indica,
pur rispondendo ad esigenze non esclusivamente o propriamente reddituali, finiscono per rendere
ugualmente conforme la condotta alle regole della buona fede oggettiva e per legittimare il
risparmio d’imposta.
3. Sulla sanzionabilità della violazione del divieto d’abuso. - Le osservazioni che precedono
consentono di esaminare più agevolmente uno dei corni del dilemma che l’art. 5 non si preoccupa
di affrontare: la sanzionabilità della violazione del divieto d’abuso15.
Il problema, in verità, sembra trovare una eco nell’art. 8 della stessa legge delega, dedicato
alla revisione del sistema sanzionatorio, dove si richiede al legislatore delegato di individuare i
“confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e le relative conseguenze
sanzionatorie”. Come dirò tra poco, questa previsione può orientare, in qualche modo, la ricerca
di una soluzione ragionevole del problema.
3.1. Abuso, elusione ed evasione: diversità strutturali e convergenze. – Per verificare
compiutamente questa possibilità, occorre preliminarmente soffermarsi sulla distinzione tra
elusione, abuso ed evasione.
E’ possibile che questa tripartizione, tradizionalmente assunta nella sua ossificata staticità per
circoscrivere la sanzionabilità alle sole fattispecie di evasione, non risponda compiutamente al
diritto. Grattando l'intonaco che tralaticiamente la sorregge, penso che l'elusione non possa essere
considerata propriamente una sua categoria, piuttosto debba essere guardata come categoria
15
Ricordo, di passata, che, la Corte di giustizia UE, con la sent. 21 febbraio 2006, causa C-255/02 (caso Halifax) ha
ritenuto non sanzionabile in via amministrativa il comportamento connotato da abuso perché privo di "un fondamento
chiaro e univoco”. La Corte di Cassazione, invece, si è orientata in senso diverso. Per quanto riguarda le sanzioni
penali, ha ritenuto che esse siano applicabili in forza degli artt. 1 e 16 del d.lgs. n. 74 del 2000 solo, però, se il fatto
censurato è tra quelli indicati nell'art. 37-bis del DPR n. 600 del 1973, se rientra, cioè, in una delle fattispecie lì
richiamate (operazioni straordinarie d'impresa, conferimenti, cessioni di credito, eccetera). Cfr. Cass., sez. II pen., 28
febbraio 2012, n. 7739. Anche per quanto riguarda le sanzioni amministrative, modificando il suo precedente
orientamento, la Corte ha finito per applicare la disposizione dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 471 del 1997 alle sole
fattispecie connotate da abuso, per così dire, codificato, che, sempre per la Corte, integrerebbero ipotesi di
dichiarazione infedele, ossia di dichiarazione nella quale l'imponibile o l'imposta liquidata è inferiore a quella dovuta
in seguito ad accertamento. Cfr. Cass., sez. trib., 30 novembre 2001, n. 25537. Condividono, nella sostanza, la
posizione giurisprudenziale, Russo, Brevi note, cit., 68 ss.; Gallo, Rilevanza penale dell'elusione tributaria, in Rass.
trib., 2001, 321 ss.; Nussi, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi, in Riv. dir.
trib., 1998, I, 505 ss.; Attardi, Elusione fiscale, abuso del diritto e sanzioni tributarie, in Fisco, 2011, 212 ss. Così
anche, se si vuole, Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, Milano, 2014, 131 ss. In termini dubitativi, Marini,
Note in tema di elusione fiscale, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Riv. trim. dir. trib.,
2013, 325 ss. La dottrina prevalente, invece, è contraria alla punibilità. Lo ricorda Basilavecchia, Presupposti ed effetti,
loc. già cit., e prima Id., Funzione di accertamento tributario e funzione repressiva: i nuovi equilibri, in Dir. prat.
trib., 2005, I, 3 ss.; anche Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011,
465 ss., nega la sanzionabilità, così come la negano Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato (a
proposito del “caso Dolce & Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, 865 ss.; Tesauro, Elusione e abuso, loc cit.;
Carinci, Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat. trib., 2012,
I, 785 ss.; Ficari, La rilevanza penale dell’elusione/abuso; quali regole da un caso concreto?, in Riv. dir. trib., 2013,
III, 81 ss.;
economica, esaurente la propria utilità, dal nostro punto di vista, sul piano della descrizione della
fattispecie.
Certo, sono consapevole che di elusione parla la rubrica dell’art. 37-bis del DPR n. 600, e che
ad essa si richiama anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione per marcare il confine tra
questa disposizione e la categoria generale dell’abuso, e non mi sfugge neppure il fatto - l’ho
ricordato poc’anzi - che all’elusione si riferisce l’art. 8 della legge delega.
Posso sbagliare, ma, nonostante questi richiami e l’utilità, per così dire, contingente legata al
bicefalismo della categoria, rimango dell’idea che l’elusione, per come tradizionalmente intesa,
non possa indossare i panni della norma giuridica. Per il diritto la categoria che viene in
considerazione è l’abuso perché è solo la violazione del suo divieto che determina conseguenze
giuridicamente rilevanti: l’abuso, dunque, come condotta contraria alle regole della buona fede
oggettiva, come comportamento artificioso lesivo del diritto del creditore, volto ad ottenere, come
finalità prevalete, un vantaggio fiscale per il debitore.
L'evasione, finalmente, è categoria apprezzabile per il diritto come evento, in quanto è la legge
a darle questa qualificazione. L'evasione scolpisce il risultato di quel comportamento sul duplice
piano della sottrazione o occultamento di materia imponibile e del "risparmio" dell'imposta, come
specificato nell'art. 1, lettera f), del d.lgs. n. 74 del 2000.
Si può dire, allora, che la distinzione tra evasione ed abuso fotografa non già due fenomeni tra
di loro diversi e separati, come si sostiene per negare la sanzionabilità dell’abuso (o
impropriamente dell'elusione), ma due profili del medesimo fenomeno: l'abuso descrive la
condotta, l'evasione il risultato16.
Per essere ancora più precisi, l'abuso connota un comportamento artificioso o inteso ad usare
la legge in maniera impropria; l'evasione, invece, è il risultato - l'evento, appunto - che accomuna
tutte le condotte, siano esse riconducibili alla violazione della buona fede oggettiva e quindi alla
violazione del divieto d’abuso, siano esse di sottrazione o occultamento del reddito, comprese
quelle simulatorie, che si pongono senz’altro al di fuori dell’abuso.
La distinzione tra abuso ed altre forme di risparmio illegale di imposta, insomma, non risiede
nel risultato, ossia nell’evasione, ma nelle condotte.
3.2. Il problema della “determinatezza” e le violazioni di "evento". - Ebbene, se la
disposizione sanzionatoria che s’intende applicare è di evento, ovvero ha come suo elemento
costitutivo l’evasione dell'imposta, senza specificazioni ulteriori sui fatti ad essa prodromici, anche
l'evasione determinata da un comportamento abusivo è suscettibile di esservi ricompresa.
Non intendo portare il ragionamento sul terreno scivoloso della tassatività e determinatezza
delle norme sanzionatorie e della loro interpretazione17. Rammento soltanto come per i sostenitori
16
È per questi motivi che non mi pare di poter condividere la pur suggestiva distinzione tra abuso ed evasione proposta
da Vacca, L'abuso e la certezza del diritto, in Corr. trib., 2014, 1127 ss., specie 1128.
17
Sulla distinzione tra determinatezza, intesa come regola rivolta al legislatore affinché proceda alla redazione di
precetti penali dal contenuto definito, e tassatività, intesa come regola impeditiva dell'estensione analogica della norma
penale, cfr. Padovani, Diritto penale, Milano, 1998, 31 ss. Soggiungo che determinatezza e tassatività vengono in
della tesi, per così dire, negazionista della punibilità, affinché questa operi è indispensabile che il
trasgressore conosca anticipatamente fatto e condotta puniti (in via amministrativa o penale poco
importa nell'economia del discorso). L’abuso, invece, si caratterizzerebbe per l'incertezza ex ante
del comportamento, il quale potrebbe essere considerato contra ius solo con un giudizio a
posteriori18.
In altra occasione ho già elevato critiche a questa impostazione 19 , osservando che, se la
condotta che concretizza l’abuso è “aperta", il divieto ad esso collegato si può ormai considerare
sufficientemente definito in punto di antigiuridicità, sicché anche la condotta, pur "aperta", può
essere percepita e valutata in questi termini.
Non sembra persuasivo sostenere né che la determinatezza pretenda l'individuazione
“casistica” delle modalità di realizzazione del pregiudizio del bene giuridico tutelato; né che chi
tiene comportamenti abusivi non conosca ormai la loro rimproverabilità per contrasto con una
norma giuridica impeditiva, qual è quella sul divieto d'abuso, o non possa comunque prevedere gli
effetti che può ragionevolmente produrre un comportamento siffatto20. E l'incertezza eventuale
della valutazione giudiziale non può di per sé e astrattamente vietare la reazione punitiva
dell'ordinamento poiché una consimile incertezza caratterizza tutte le violazioni per le quali
l'accertamento della "sufficienza causale" della condotta rispetto all'evento si incardina su un
giudizio postumo21.
3.3. La possibile soluzione al problema della punibilità della violazione del divieto d’abuso
alla luce della legge delega. - Intendendo il concetto di determinatezza come "ragionevole"
percezione dell'antigiuridicità della condotta e "ragionevole" prevedibilità degli effetti, la
violazione del divieto d'abuso realizza già oggi, per me, una fattispecie astrattamente punibile. Si
considerazione sia in ambito penale, sia in quello amministrativo tributario, in forza del principio di legalità ex art. 3
del d.lgs. n. 472/1997.
18
In termini fortemente critici sulla punibilità, Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato, già cit.
19
Giovannini, Il diritto tributario per princìpi, loc. ult. cit.
20
Significativa la tesi della Corte costituzionale espressa nella sent. 16 maggio 1989, n. 247, concernente il delitto di
frode fiscale previsto dall’abrogato art. 4, comma 1, n. 7, del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla
legge 7 agosto 1982, n. 516. La Corte ebbe modo di chiarire, con riguardo, proprio, ai princìpi di determinatezza e
tassatività, come “il legislatore, attraverso la norma in discussione, ha chiaramente operato la scelta del tipo di
disvalore insito nell'ipotesi in esame sul delitto di frode fiscale” e che, d’altra parte, è pure vero “che il principio di
determinatezza è violato non tanto allorché è lasciato ampio margine alla discrezionalità dell'interprete (tale ampio
margine costituisce soltanto un sintomo, da verificare, d'indeterminatezza) bensì quando il legislatore,
consapevolmente o meno, s'astiene dall'operare "la scelta" relativa a tutto od a gran parte del tipo di disvalore d'un
illecito, rimettendo tale scelta al giudice, che diviene, in tal modo, libero di "scegliere" significati tipici”. Si veda
inoltre Corte cost., sentt. 9 aprile 1981, n. 96, 18 dicembre 2004, n. 5, e 30 luglio 2008, n. 327.
21
Palazzo, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979, passim, specie 190 ss. Mantovani, Diritto
penale, Padova, 1979, 153 e 154. A questo proposito i riferimenti normativi potrebbero essere molti. Ne compio,
nell’economia di questo lavoro, solo due, che secondo me depongono nella direzione or ora indicata. L’originario art.
323 del codice penale, pure indeterminato nella condotta, venne ritenuto conforme al principio di legalità dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 7 del 1965. D’altra parte, anche il nostro art. 16 del d.lgs. n. 74 del 2000 non si può
ritenere espressivo di una norma “determinata”, eppure, per come interpretato dalla della Corte di Cassazione e per
come anche secondo me si deve interpretare seguendo il “significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse”, esso è suscettibile di ricomprendere tra i fatti punibili quelli emersi dall’applicazione delle disposizioni
antielusive, a meno che il contribuente si sia (si fosse) adeguato al parere del Comitato consultivo o a quello del
Ministero delle finanze.
tratta ora di verificare i termini nei quali la legge delega orienta una soluzione "codificata" e
definitiva del problema.
L’art. 5 - si è già sottolineato - non se ne occupa, mentre di esso sembra esservene traccia nel
successivo art. 8, che delega il Governo ad individuare i confini tra le fattispecie di elusione e
quelle di evasione fiscale e le relative conseguenze sanzionatorie.
Penso che la soluzione vada ricercata in seno a questa disposizione. Vi è un doppio
presupposto interpretativo, però, dal quale è necessario muovere. Il primo: guardare ai termini
“elusione” ed “abuso”, risultanti da una lettura congiunta degli artt. 5 e 8, come espressivi di
categorie sovrapponibili: ritenere, ai fini qui in considerazione, che il termine elusione sia stato
utilizzato dal legislatore delegato come sinonimo, proprio, di abuso. Scelta, questa, probabilmente,
frutto dell’ossificata staticità della quale ho parlato poc’anzi a proposito del linguaggio e dei
concetti che tramite le sue stringhe si vogliono esprimere.
Il secondo presupposto è riferire il criterio direttivo dell’art. 8 alla revisione del solo sistema
penale. Della possibilità di adottare una tale interpretazione convince la collocazione che il criterio
stesso ha all’interno della disposizione. Esso, infatti, è posto a chiusura della sua "prima parte",
dedicata, appunto, alla revisione della legislazione penale, e prima del criterio dettato per la
revisione delle sanzioni amministrative.
Di qui, privilegiando un certo modo di intrendere il principio di determinatezza, la possibilità
di escludere dalla reazione penale le condotte elusive o abusive e la possibilità di ritagliare per loro
uno spazio all’interno del sistema amministrativo, con una normazione simile a quella che
caratterizza l’ordinamento francese22.
L'art. 1729, primo comma, lettera b), del code général des impôts dispone l’applicazione di
una maggiorazione dell’80 per cento dell’imposta in caso di violazioni conseguenti all’abuso del
diritto “au sens de l'article L. 64 du livre des procédures fiscales”; con una riduzione al 40 per
cento quando “n'est pas établi que le contribuable a eu l'initiative principale du ou des actes
constitutifs de l'abus de droit ou en a été le principal bénéficiaire”23.
22
Questa soluzione, per coerenza sistematica, si dovrebbe accompagnare ad una riscrittura dei reati da dichiarazione,
mantenendo la pena criminale solo per le fattispecie contraddistinte da frode, come, del resto, sembra indicare lo stesso
art. 8.
23
L’articolo L64 del Livre de procédures fiscales, contempla una clausola generale radicata, essenzialmente, su due
elementi: l'aggiramento della legge e la finalità esclusiva del risparmio fiscale, dopo che il Consiglio costituzionale,
con la sent. 29 dicembre 2013, n. 685, ha dichiarato illegittima la previsione, introdotta dalla legge finanziaria per il
2013, che collegava l'abuso alla finalità "prevalente" - e non soltanto esclusiva - del risparmio fiscale, per violazione
del principio di "piena accessibilità e conoscibilità delle leggi" derivante dagli artt. 4, 5, 6 e 16 della dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Nell’attuale versione, l’art. L64 del Livre de procédures fiscales così dispone:
"Afin d'en restituer le véritable caractère, l'administration est en droit d'écarter, comme ne lui étant pas opposables,
les actes constitutifs d'un abus de droit, soit que ces actes ont un caractère fictif, soit que, recherchant le bénéfice
d'une application littérale des textes ou de décisions à l'encontre des objectifs poursuivis par leurs auteurs, ils n'ont
pu être inspirés par aucun autre motif que celui d'éluder ou d'atténuer les charges fiscales que l'intéressé, si ces actes
n'avaient pas été passés ou réalisés, aurait normalement supportées eu égard à sa situation ou à ses activités réelles".
Per un commento, cfr. Fouquet, Fraude à la loi, l’explicitation du critère «subjectif», in Droit fisc., 2009, n. 39, act.
287; Liprino, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’esperienza francese, in Rass. Trib., 2009, 445 ss.
L'interpretazione dell'art. 8 poc'anzi proposta può aprire anche una diversa strada:
l'indicazione che lì compare alla distinzione tra elusione ed evasione potrebbe essere intesa come
finalizzata ad escludere le fattispecie elusive o abusive da qualsiasi forma di reazione punitiva.
Questa ipotesi potrebbe far leva anche e soprattutto su una considerazione sistematica. Si
potrebbe osservare, invero, che anche la loro sanzionabilità in via amministrativa viola il principio
di determinatezza. E in effetti, se la misura, pur qualificata dalla legge come amministrativa, ha
natura punitiva e se davvero si crede che la punibilità dell’abuso possa ledere quel principio, riesce
difficile negare validità ad una simile obiezione, specie se si valorizza la più recente giurisprudenza
della Corte EDU e della Corte di giustizia sulla qualificazione sostanziale delle misure afflittive24.
Si potrebbe così ipotizzare di rimettere la tutela a strumenti solo risarcitori, ipotizzando
l’esistenza di un danno in re ipsa causato dalle operazioni elusive o abusive.
Quale che sia la scelta, rimane una questione di fondo, che qui mi limito ad introdurre con due
interrogativi: escludere da pena criminale o addirittura da sanzione amministrativa condotte
comunque connotate da disvalore e pregiudizievoli di un diritto dello Stato, sarebbe scelta davvero
rispettosa della ragionevolezza e del principio della proporzionalità della reazione ordinamentale
rispetto al disvalore del fatto (artt. 3 e 27 della Costituzione)? Da un diverso, ma speculare punto
di vista, quella esclusione sarebbe scelta davvero giustificabile alla luce di un’interpretazione della
determinatezza (art. 25 Cost.) intesa come vincolo di individuazione “casistica” dei comportamenti
preparatori dell’evento, anziché come percezione dell’antigiuridicità della condotta e prevedibilità
degli effetti?
4. Sulla motivazione dell’avviso di accertamento, sulla qualificazione giuridica dei fatti e sul
contraddittorio anticipato. – Per terminare l’esame dell’art. 5 delle legge delega, rimangono da
valutare i criteri che esso indica in tema di motivazione dell’avviso d’accertamento e
qualificazione giuridica dei fatti, ed in tema di contraddittorio.
4.1. La motivazione e la qualificazione giuridica dei fatti di causa. La nullità dell’avviso
di accertamento come conseguenza priva di senso giuridico. – La lettera e) dispone che la
motivazione dell’avviso d’accertamento debba contenere, a pena di nullità dell’atto, la
qualificazione della condotta come abusiva.
Si tratta di un aspetto fondamentale, perché l’indicazione normativa sovverte l’orientamento
granitico della giurisprudenza: la Corte di Cassazione, invero, ammette pacificamente se stessa e
il giudice tributario a riqualificare come abusivi i fatti di causa, sebbene l'amministrazione non li
abbia configurati in tal modo nell'avviso d'accertamento. Essa è consolidata nel sostenere, appunto,
che il principio del divieto di abuso "comporta la sua applicazione d'ufficio da parte del giudice
tributario, a prescindere da qualsiasi allegazione al riguardo ad opera delle parti in causa", poiché
“il giudice ha - in quanto connaturale all'esercizio stesso della giurisdizione, quand'anche abbia ad
Mi permetto di rinviare a Giovannini e Murciano, Il principio del “ne bis in idem” sostanziale impedisce la
doppia sanzione per la medesima condotta, in Corr. trib., 2014, 1548 ss.
24
oggetto il mero riesame di atti - il potere di qualificare autonomamente la fattispecie demandata
alla sua cognizione”25.
La legge delega accoglie l’opposta prospettazione, sostenuta da quasi tutti gli studiosi.
Questo il nocciolo del loro ragionamento. Poiché l’amministrazione consuma il suo potere con
l’emanazione del provvedimento, nel quale deve indicare le “ragioni giuridiche” poste a
fondamento dell’accertamento (art. 42, comma 2, DPR n. 600 del 1973, art. 56, ultimo comma,
DPR n. 633 del 1972), nessuna integrazione è possibile in corso di giudizio da parte sua e dunque
neppure da parte del giudice, alla stregua dell’art. 112, cod. proc. civ., per il quale questi può
pronunciare d’ufficio su eccezioni proponibili soltanto dalle parti26. Si dice, esemplificando, che,
se l'amministrazione, nell'avviso d'accertamento, ha qualificato il fatto in un certo modo, il giudice
non può modificare la qualificazione invocando il divieto d'abuso: se il fatto, per l'ufficio, è di
evasione, come tale deve essere giudicato, perché come tale entra nel processo27.
Insomma, siccome il petitum sostanziale è fissato nell'atto dell'amministrazione e semmai
ulteriormente delimitato nel ricorso del contribuente in qualità di attore formale, il giudice, in
questo contesto, ha l'obbligo di attenersi ad esso ai sensi dell'art. 112, cod. proc. civ.28
Per parte mia ho già scritto29 che, guardando al divieto come ad un principio generale del
diritto, ossia come ad una norma giuridica in senso proprio 30 , la sua applicazione può essere
valutata anche come "regola di giudizio", alla stessa stregua di qualsiasi altra disposizione di diritto
positivo, applicabile dal giudice in forza dell’art. 113 cod. proc. civ. E ciò perché la massima iura
novit curia può essere impiegata in due significati: può indicare bensì una semplice eccezione alla
regola dell’onere della prova, per cui le norme non si provano e il giudice deve procurarsi d’ufficio
la conoscenza delle fonti del diritto; ma può anche indicare un’eccezione al principio del “chiesto
e pronunciato” con riguardo, proprio e soltanto, all'individuazione delle norme rilevanti per la
decisione31.
25
Per tutte, Cass., 11 maggio 2012, 7393, e prima Cass. 21 gennaio 2009, n. 1465, e Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008,
n. 30055, già cit., con osservazioni critiche di Cantillo, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note
sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. Trib., 2009. Si tratta, quella della giurisprudenza ora ricordata, di posizione
assolutamente pacifica, come si desume facilmente compulsando un qualunque repertorio giurisprudenziale o
qualunque banca dati.
26
Tesauro, Elusione fiscale. Introduzione, in Giur. It., 2010, IV. Coerentemente con la sua ricostruzione di teoria
generale, l’Autore distingue processi di accertamento del credito richiesto a rimborso e processi d’impugnazione di
atti provvedimentali d’accertamento o rettifica, riferendo solo a quest’ultimi la preclusione in esame.
27
Cfr. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, già cit., 701 ss. A soluzione sostanzialmente identica,
pur muovendo dalla ricostruzione del processo come di accertamento del diritto di credito dell'amministrazione, è
giunto anche Russo,
28
Incentrando il ragionando sull’art. 112 c.p.c. e valutando le previsioni dei commi 4 e 5 dell’art. 37-bis del DPR n.
600, la qualificazione del processo tributario nelle liti di impugnazione come d’annullamento o d’accertamento è
irrilevante ai fini che qui interessano. Per riferimenti fondamentali, tra gli autori più recenti, sulla prima impostazione,
Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2013, 9 ss.; per la seconda impostazione, alla quale anch’io ritengo
di aderire, Russo, Manuale di diritto tributario, Il processo tributario, Milano, 2013, 35 ss., 50 ss.
29
Giovannini, Il diritto tributario per principi, cit., 126 ss.
30
Magari priva di disposizione, come suggerisce Russo, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Milano, 2007,
228.
31
Cfr. Andrioli, Prova in genere (diritto civile), in N. dig. it., X, Torino, 1939, 823 e 824; Punzi, Jura novit curia,
Milano, 1965, 19 ss.; Verde, Prova (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 623 ss.; Id., Diritto
processuale civile, I, Bologna, 2009, 95; Pizzorusso, Iura novi curia, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, 1; Capone,
Iura novit curia, già cit., 15 ss.
La lettera e) dell'art. 5 fa piazza pulita dell’intero dibattuto: la qualificazione dei fatti spetta
soltanto all’amministrazione e la motivazione dell’avviso di accertamento ne è lo strumento.
Quel che non convince, nel criterio dettato dalla lettera e), è la previsione della nullità
dell’avviso conseguente alla mancata qualificazione dei fatti come abusivi, previsione che sortisce
un grande effetto suggestivo, ma che è priva di senso giuridico.
Se l’ufficio non qualifica l’operazione come abusiva, ma la configura, ad esempio, come
simulatoria, l’avviso non può essere considerato nullo. Semplicemente la pretesa creditoria
assumerà una struttura giuridica diversa da quella che avrebbe avuto se i fatti fossero stati
qualificati come abusivi, con la conseguenza che anche causa petendi, motivi e petitum si
struttureranno diversamente, nei termini, per l’appunto, rappresentati dall’attore sostanziale nel
provvedimento, senza che il giudice possa modificarne la loro configurazione giuridica.
4.2. Il contraddittorio anticipato e la sanzione della nullità dell'avviso di accertamento. –
L'altro aspetto che la legge delega contribuisce a chiarire attiene al contraddittorio: i decreti
delegati - stabilisce la lettera h) - devono disciplinare forme di “efficace contraddittorio con
l’amministrazione finanziaria” a tutela del “diritto di difesa in ogni fase del procedimento di
accertamento tributario”.
La finalità della disposizione è evidente: introdurre una fase endoprocedimentale obbligatoria
e anticipata rispetto all’emanazione dell’avviso d’accertamento, sulla falsariga di quanto dettato
dal comma 4 del art. 37-bis.
L’art. 5 della legge delega, però, a differenza di quest’ultima previsione, non indica la
sanzione conseguente al mancato rispetto della scansione procedimentale. Non specifica, cioè, se
il provvedimento d'accertamento emanato in assenza del preventivo contraddittorio si debba
considerare affetto da nullità, ossia come assolutamente invalido o inesistente32.
La questione non ha rilievo secondario. Provo a darne conto in termini sintetici. Ponendosi
nella scia di alcune sentenze delle Sezioni unite della Corte di Cassazione sugli accertamenti
parametrici del reddito d'impresa, la nullità sembrerebbe poter operare indipendentemente da una
previsione espressa33. Il silenzio del legislatore delegante, allora, potrebbe essere inteso come la
conseguenza di questo orientamento, sicché un eventuale silenzio (anche) del legislatore delegato
non determinerebbe un guaio sistematico irrimediabile: introdotta l’obbligatorietà del
contraddittorio, il suo mancato rispetto produrrebbe in ogni caso la nullità dell’avviso.
Non sono convinto che la soluzione sia giuridicamente corretta. Questo il motivo.
Il nostro ordinamento è improntato al principio di tipicità della nullità e della tassatività dei
vizi che la determinano; principio che si trova espresso nel codice civile (artt. 1418), nel codice di
procedura civile (art. 156), in quello di procedura penale (art. 177) e, finalmente, nella legge n.
241 del 1990 sul procedimento amministrativo (art. 21-septies).
La previsione espressa della nullità avrebbe evitato il riprodursi del dibattito nato intorno all’accertamento sintetico
del reddito delle persone fisiche, per il quale l’omissione del contraddittorio anticipato non trova una espressa sanzione
nell’art. 38 del DPR n. 600 del 1973.
33
Cass. SS.UU., sentt. 18 dicembre 2009, nn. 26635, 26636, 26637, 26638, in “il fisco” n. 2/2010, pag. 236.
32
Il principio di tipicità, invero, non garantisce solo le parti del rapporto e i loro interessi
privatistici, ma tutela anche l’ordinamento in quanto tale, i cui interessi, qualificabili come
d’ordine pubblico, coincidono con la certezza dei traffici e degli effetti giuridici, compresi quelli
riconducibili all’attività della pubblica amministrazione.
Questo ragionamento, secondo me, trova sicura conferma negli artt. 21-septies e 21-octies
della legge n. 241 del 1990: il primo individua tassativamente i vizi che determinano la nullità dei
provvedimenti; il secondo, predisposto in funzione dell’annullabilità, modula una scala di rimedi
a seconda del grado di incisività del vizio e modula, di conseguenza, i poteri di accertamento del
giudice.
Ecco perché, in assenza di una previsione espressa, il mancato rispetto del contraddittorio
anticipato potrebbe non determinare la nullità, intesa come invalidità assoluta o inesistenza
dell’avviso di accertamento, ma potrebbe dar luogo ad un’ipotesi di annullabilità valutabile ai sensi
del comma 2 dell’art. 21-octies34. Ed ecco perché è auspicabile che il legislatore delegato trovi il
modo di porre rimedio a questo problema, senza creare un ulteriore vuoto normativo.
Alessandro Giovannini
34
Su questo aspetto e per ulteriori considerazioni, mi permetto di rinviare a Giovannini, Note controcorrente su
accertamento sintetico, indici ISTAT e diritto alla riservatezza, in Il fisco, 2014, 1319 ss.