Mario Brunello: tra le note vado in cerca di silenzio

Transcript

Mario Brunello: tra le note vado in cerca di silenzio
Mario Brunello: tra le note vado in cerca di silenzio
di Brunella Schisa, Venerdì 23 maggio 2014
Il celebre violoncellista racconta in un libro la sua antica ossessione
per il rumore e il suo modo dI perdersi sulle montagne e nei deserti.
Solo? No, sempre accompagnato dal suo strumento.
Castelfranco Veneto. Il silenzio per Mario Brunello è un’ossessione. Lo
insegue da anni col suo violoncello, sui palchi dei teatri del mondo
intero, sulle vette alpine, in mezzo al deserto africano, tra i capannoni
industriali. Lo cerca tra le note e dietro le note, negli spazi del
pentagramma, lo cerca nel momento in cui avvicina l’archetto al suo
strumento mentre il pubblico tace e quando lo stacca alla fine
dell’esecuzione.
In un’epoca assordante come la nostra, che un musicista votato a
riempire gli spazi silenziosi scriva un libro sul silenzio è certamente una
stranezza, ma Brunello è un uomo di passioni estreme e il silenzio è il
suo compagno di strada come lo è il suo prezioso strumento, un Maggini
dell’inizio del Seicento. E tanta passione ha messo in queste pagine, apparentemente un flusso di pensieri,
in realtà riflessioni che vengono da molto lontano. «Prendevo appunti da diversi anni, all’inizio sotto forma
di note, e quando mi sono messo a scrivere ho creduto di suonare. Più penso al silenzio più mi sembra di
sentire la musica».
Siamo nella casa di Castelfranco Veneto affacciata sul giardino in fiore affidato alle cure esperte della
moglie Arianna, mentre dell’orto si occupa personalmente il maestro. A guardia di casa Brunello due oche
più una gallina faraona, che un giorno si è presentata al cancello e, da allora, si sente in dovere di
starnazzare davanti agli intrusi cercando comicamente di imitare il verso minaccioso delle sue ospiti
pennute. Molto più ospitali, per fortuna, sono i padroni di casa. Arianna Brunello ha riempito la lunga
tavola da pranzo con una dozzina di portate per una rapida colazione. Troppo facile immaginare cosa siano
le cene conviviali in casa Brunello. E quale vino si beva. Si dice che le ammiratrici del maestro si presentino
in camerino con bottiglie di pregiato Brunello. Nomina sunt…
Lei cita un verso di Wislawa Szymborska: «Quando pronuncio la parola Silenzio, lo distruggo» eppure lei
ha voluto descriverlo il silenzio. Non è stato un azzardo? «Forse, ma prima di descriverlo l’ho cercato a
lungo e credo che non smetterò mai di rincorrerlo. Io l’ho incontrato, l’ho conosciuto anche se ancora non
ho capito da che parte sta. Se dalla parte degli umani, oppure in una sfera dove noi non abbiamo diritto
d’accesso. Secondo John Cage, il musicista che ha dedicato la vita alla ricerca della definizione del silenzio
come materia sonora, il silenzio non esiste. La mia è stata dunque una partenza in salita».
E la sua ricerca l’ha portata alla fine a confermare la scoperta di Cage. «Dove c’è vita non ci può essere
silenzio, ma alle affermazione di Cage ho affiancato una serie di domande per chiarire a me stesso dove può
nascondersi».
E dove si nasconde? «Dietro al suono, dietro al tempo, dietro al pensiero che occupa gli spazi del silenzio.
Mi affascina cercarlo nella mente del compositore, nel momento in cui si affaccia un’idea e si compie la
magia della creazione. Quello spazio, essendo un esecutore, io posso soltanto supporlo. Immagino Bach
circondato dal frastuono casalingo di venticinque figli e tanti allievi che trova uno spazio silenzioso nella sua
mente e scrive. Che cosa è accaduto in quel silenzio che ha generato quelle note?».
Lei invece dove ha incontrato il silenzio? «In diversi momenti e in diversi luoghi. Per esempio quando
avvicino l’archetto al violoncello e le persone tacciono, quello in sala non è un silenzio assoluto perché ci
sono mille respiri, mille cuori che battono, è piuttosto un’eco del silenzio. Delle volte sono riuscito a
coglierlo in cima a una montagna. Anche quello però non è un silenzio assoluto ma c’è uno spazio enorme
dove cercarlo. Il silenzio è verticale, va su. Altrimenti perché gli uomini scalano le montagne?»
Perché da quando sono passati alla posizione eretta non hanno più smesso di guardare verso l’alto? «Il
silenzio in montagna ti spinge a chiederti cosa c’è sopra, a desiderare la solitudine. Nel deserto invece ho
avvertito un silenzio orizzontale, più pesante e non solitario perché dà sempre la speranza di un incontro».
La sua interpretazione cambia se lei suona in un capannone industriale, su una montagna o in una sala da
concerto. «Sì, assolutamente. Adoro suonare in montagna perché mi dà la possibilità di scavare dentro il
suono. Un suono crudo, non lavorato, che non torna indietro come avviene nelle sale da concerto dalla
buona acustica, per questo deve essere personale, intenso deve riempire lo spazio e avere gambe per
viaggiare per conto suo».
Il suo amico e straordinario musicista Ezio Bosso sostiene che la musica è basata sul silenzio. «Io sono
musicista non perché faccio musica ma perché riempio uno spazio silenzioso che, altrimenti, rimarrebbe
vuoto. Quella che per Schubert era l’ottava nota».
Schubert ha scoperto il silenzio piuttosto tardi. Forse l’ottava nota si apprezza con la maturità. «Credo
proprio di sì! Agli inizi il silenzio è insopportabile, si ha fretta di ricominciare. Col tempo però si allunga. I
grandi esecutori riescono a tenere con i gesti il silenzio di mille, duemila persone. Le ultime direzioni di
Claudio Abbado erano impressionanti. Alla fine di un’esecuzione riusciva a stare tre, anche quattro minuti
senza fare volare una mosca. Nei finali delle sinfonie di Mahler teneva i musicisti senza respirare. Invece nei
primi anni, dopo l’ultima nota, si girava verso il pubblico con i capelli al vento per accogliere gli applausi. Un
po’ alla volta il momento del distacco è diventato sempre più lungo. Il silenzio è un ambiente che un po’ alla
volta diventa familiare».
Si può dire che la pausa tra una nota e l’altra è un vuoto? Un silenzio? «Certo, è uno spazio come tra un
pianeta e l’altro, è una distanza».
L’interprete è libero di allungarla o accorciarla? «Totalmente libero, prendendosi le sue responsabilità. Nel
libro mi sono fatto aiutare dall’architettura. Un tempio alterna pieni e vuoti, ai grandi architetti greci
serviva un’alternanza, come lo sono il giorno e la notte, la vita e la morte, lo yin e lo yan. Spazio e pieno.
Fare durare troppo il silenzio significa costruire un Partenone con dei vuoti eccessivi tra le colonne. Per
essere liberi non bisogna guardare al passato, né alla musica del futuro. Rispetto ma non sostengo gli
interpreti legati al passato perché ai tempi di Beethoven si faceva così. Io vivo in questo momento, le mie
orecchie non dormono, ricevono migliaia di messaggi che non posso cancellare o non mettere in relazione
con quanto faccio. Perciò se il mio viaggio in treno è stato ansioso a causa di un ritardo, la mia esecuzione
rispecchierà il mio stato d’animo. La scelta del tempo è personale, e implica anche quella del silenzio».
Lei come reagisce al rumore del pubblico? «Dipende. Se il programma di sala cade dal grembo di una
signora, che si è addormentata durante un passaggio a cui ho lavorato mesi per portare il pubblico ad
assaporare il silenzio, lo considero una distruzione totale e devo reagire, inventarmi una soluzione B a cui
non ho mai pensato, eppure necessaria per ridare una forma a quello che ho descritto nell’aria. Noi
interpreti non disegniamo né scriviamo, la nostra narrazione svanisce nell’aria».
Quindi bisogna essere sempre pronti a improvvisare. «Bisogna avere le spalle solide per reagire, ma capita
anche allo sciatore che trova una buca in gara».
Lei ha preso un capannone dismesso, l’ha ridipinto, chiamato Antiruggine e lì condivide la le sue
esperienze senza palco, né poltrone. Un modo per rendere fruibile la musica a tutti. «Suono molto nelle
sale da concerto e mi dispiace che il lavoro delle prove vada perduto. È come buttare via quintali di stoffa
per fare un vestito. Cosa ne facciamo di quel materiale? Bisogna condividerlo e quindi è bene portarlo in
altri luoghi. Antiruggine è votato a questa re immissione in circolo di materiale che altrimenti andrebbe
perso. Lì cerchiamo di condividere le decisioni dell’artista non le esecuzioni, per quelle ci sono i teatri e i
luoghi deputati».
Ad Antiruggine non ci sono nemmeno i camerini. Invece nei camerini dei luoghi deputati le signore le
portano delle bottiglie di Brunello. «È vero, infatti ho una cantina molto fornita, grazie soprattutto a una
signora straordinaria che vive con due asini all’isola d’Elba e per mia fortuna è appassionata di entrambi i
Brunello. Ad Antiruggine, invece, il vino lo offriamo noi dopo i concerti».
Dica la verità, lei ha scritto il libro perché ritiene che la musica vada ascoltata in silenzio. «Sì, detesto la
musica di sottofondo. Colpa di mia madre che metteva un quartetto di Beethoven e poi andava a lavare i
piatti. E io, che mi dannavo a studiare il violoncello, impazzivo all’idea che tutta la mia fatica sarebbe stata
un giorno sopraffatta da un rito così prosaico».
Tratto da ilmiolibro.kataweb.it