Atti del convegno

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Atti del convegno
OLTRE IL PIL
PER UN NUOVO INDICE
DEL BENESSERE
Presentazione e discussione
del Rapporto
“Stiglitz-Sen-Fitoussi”
Bologna, Dicembre 2009
ATTI DEL CONVEGNO
Settembre 2010
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Introduzione di Marisa Parmigiani
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Ha il fascino del numero magico, capace di spiegare se non proprio tutto, almeno gran parte
della realtà. E’ il PIL, acronimo di Prodotto Interno Lordo, e da molti decenni ormai è
l’indicatore che definisce la crescita – o il calo – della ricchezza di un paese, anche in rapporto
a tutti gli altri. In realtà, accanto alla comodità di avere un numero che semplifica una materia
assai complessa come è l’economia, il PIL è in grado di descrivere una parte soltanto della
realtà. Soprattutto non è in grado di descrivere e spiegare l’effettivo benessere di un paese e
di una comunità.
Da qui i tentativi che economisti e studiosi hanno intrapreso da qualche tempo per sostituire il
PIL con indici più articolati e in grado di cogliere meglio la complessa realtà sociale. Definire,
cioè, indicatori in grado di misurare il livello e la qualità del benessere delle persone: grado di
istruzione e cultura, salute e assistenza, esposizione agli effetti inquinanti, ma anche tempo
libero, altruismo e, persino, la “mitica” felicità.
Ultima in ordine di tempo, l’iniziativa assunta dal presidente francese Sarkozy, che ha
incaricato una Commissione di studiosi di tutto il mondo, sotto la guida di due Premi Nobel,
Amartya Sen e Joseph Stiglitz, nonché di Jean Paul Fitoussi, con l’obiettivo di mettere a punto
uno strumento per la “Misurazione della performance economica e del progresso sociale”.
Il lavoro di questa Commissione, durato circa due anni, si è concluso nel settembre scorso con
la presentazione di un Rapporto2 in cui sono raccolte indicazioni, raccomandazioni e proposte
per concretizzare quello che resta un obiettivo ancora da realizzare, ossia un indicatore diverso
dal PIL, capace di rappresentare meglio e più efficacemente il benessere di ogni singolo paese,
anche in relazione a tutti gli altri e a livello globale.
L’iniziativa di Impronta Etica, Fondazione Unipolis e Fondazione Ivano Barberini, presenta per
la prima volta in Italia il Rapporto della “Commissione Sen-Stiglitz-Fitoussi” e, grazie alla
presenza di autorevoli studiosi tra i quali il Presidente dell’Istat, Enrico Giovannini (unico
italiano nella Commissione), intende rilanciare anche nel nostro paese il confronto sui temi
della qualità dello sviluppo economico, degli indici di benessere sociale, per giungere alla
definizione di una alternativa al PIL.
Per Impronta Etica questo convegno è sostanzialmente la continuazione del lavoro sviluppato
negli ultimi anni e presentato, in particolare, in occasione del convegno svoltosi il 6 febbraio
2009, con il documento programmatico dal titolo La responsabilità sociale come opportunità
per superare la crisi pensando al futuro3: in particolare, nel documento si evidenzia l’esigenza
1
Segretario Generale di Impronta Etica e Vicepresidente Fondazione Ivano Barberini.
Il rapporto è disponibile in versione integrale e originale alla pagina:
http://www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/documents/rapport_anglais.pdf
Una traduzione italiana dell’ “Executive Summary” del Rapporto è allegata al presente documento.
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Il documento è scaricabile alla pagina: www.improntaetica.org
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di rispondere alla ricerca di una metrica che possa andare oltre il PIL, ed essere una metrica
del benessere.
Anche per le altre due fondazioni organizzatrici, Fondazione Ivano Barberini e Fondazione
Unipolis, il tema è di forte interesse: per entrambe, data anche la vicinanza al movimento
cooperativo, è significativa l’attenzione a modelli di valutazione del benessere, della qualità
della vita, degli indici di sviluppo, che includano al loro interno variabili altre rispetto al puro
valore di impresa.
All’interno di un contesto sicuramente molto ricco, questo momento di confronto costituisce il
primo approfondimento su un tema rispetto al quale i cittadini iniziano a manifestare un forte
interesse: l’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro (2008) conferma infatti che oltre 2/3 dei
cittadini dell’Unione europea ritengono che per misurare il progresso si debbano usare in egual
misura indicatori sociali, economici e ambientali, e meno di 1/6 preferisce che la valutazione
sia basata principalmente su indicatori economici.
Già da tempo sono stati sviluppati appositi studi: l’indice dello sviluppo umano delle Nazioni
Unite, il global project sulla misurazione del progresso della società dell’OCSE, e infine la
comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo4, con la quale di fatto la
Commissione si assume l’impegno di sviluppare, entro il 2010, un indice ambientale globale
che possa completare il PIL con indicatori ambientali e sociali.
Dopo l’introduzione di Marisa Parmigiani, che presiede e coordina i lavori, seguono i saluti di
Flavio Delbono sindaco di Bologna, la presentazione del Rapporto da parte di Enrico Giovannini
Presidente ISTAT e unico componente italiano della “Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi” e gli
interventi di Fiorella Kostoris docente di Economia Politica presso l’Università La Sapienza di
Roma, Giovanni Pieretti docente di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso l’Università
di Bologna, Roberto Artoni docente di Scienza delle Finanze presso l’Università Bocconi di
Milano, Pierluigi Sacco docente di Politica Economica presso l’Università IUAV di Venezia.
Chiude i lavori l’intervento di Pierluigi Stefanini Presidente Fondazione Unipolis e Presidente di
Impronta Etica.
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Communication from the Commission to the Council and the European Parliament: GDP and beyond, Measuring
progress in a changing world (COM(2009) 433 final - August, 2009), disponibile alla pagina web:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0433:FIN:EN:PDF
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Flavio Delbono
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I temi della qualità dello sviluppo economico e degli indici di benessere sociale per giungere
alla definizione di una alternativa al PIL, sono di straordinaria attualità e credo che la città di
Bologna, non solo per la sua storia antica, ma anche per quella recente, abbia tutte le carte in
regola non solo per ospitare, ma per essere attivamente coinvolta in quello che è un dibattito
tutt’altro che accademico e molto rilevante, soprattutto in questa fase storica.
Non c’è ombra di dubbio che moltissimi degli schemi e delle cornici interpretative che abbiamo
tradizionalmente utilizzato, sia nell’analisi economica ma anche e soprattutto nella valutazione
dei comportamenti economici (di imprese, ma anche di soggetti economici pubblici) richiedano
una revisione importante. Una revisione non solo dal punto di vista tecnico ma anche più in
profondità: da una parte nel collegamento tra le azioni economiche e le loro conseguenze, e
dall’altra sulla lettura, gli strumenti utili e necessari per decifrare molte delle dinamiche
economiche recenti.
Più precisamente, affrontare questi temi (per esempio dal punto di vista di un decisore
pubblico) può sembrare retorico, quasi ridondante. Negli anni scorsi si è molto parlato di questi
aspetti: perché fare il bilancio sociale di un ente pubblico, che dovrebbe essere sociale per
definizione? In realtà, abbiamo imparato (il Comune di Bologna è stato uno dei primi, alla fine
degli anni ’90, a dotarsi di questo strumento) che è anche un potente strumento comunicativo,
dato che il bilancio contabile è una prerogativa di pochi addetti ai lavori, mentre il bilancio
sociale ha senz’altro una platea molto più ampia.
Accountability, bilancio sociale, bilancio ambientale, bilancio di genere, bilancio di sostenibilità.
Tutti questi strumenti hanno reso molto più efficace la comprensione di quello che si stava
facendo, e soprattutto ci hanno consentito di leggere, e quindi programmare meglio, i vari tipi
di intervento. Tutto ciò è ancora più necessario in una fase di crisi, scarsità di risorse, in una
fase di oggettiva confusione per quanto riguarda, per esempio, il rapporto tra valori ed azioni,
che si auspica torni ad essere al centro del dibattito.
Quindi, lungi dall’apparire, come forse nei primi tempi poteva sembrare, speculazione astratta
o teorica, credo che poter affrontare questi temi, e di volta in volta approfondirne dei possibili
filoni di indagine, sia utile non solo per il gusto dell’approfondimento, ma soprattutto la
rilevanza pratica, che investe tanto le imprese (quale che sia la loro forma giuridica) quanto i
decisori pubblici.
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Sindaco di Bologna 2009-2010.
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Enrico Giovannini
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Questo tema mi sta molto a cuore e dovrebbe stare a cuore a tutti noi perché ha a che fare
con il nostro presente e con il nostro futuro di cittadini, di persone che si muovono nella
società e contribuiscono con i propri comportamenti, con il proprio voto, a determinare
l’evoluzione della società stessa.
Da dove nasce in particolare il mio interesse per questi temi? Nel 2001 sono stato nominato
Direttore delle statistiche dell’OCSE di Parigi, l’organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
Economico. Nel 2003, prima di organizzare un incontro sulla misurazione dello sviluppo
sostenibile, mi capitò di incontrare il direttore del General Accountability Office degli Stati
Uniti: egli era interessato a questi temi perché si era reso conto che, in conseguenza
dell’ampio ricorso alle statistiche, negli Stati Uniti, si era determinata una forte confusione, e
gran parte della società civile non era a conoscenza dei dati fondamentali del paese. Quindi mi
incoraggiò a organizzare un convegno, che nel 2004 si svolse a Palermo: il primo forum
mondiale dell’OCSE su “Statistica, conoscenza e politica”. Visto il successo dell’evento, nel
2007, l’ OCSE organizzò un secondo forum ad Istanbul, sul tema “Misurare e favorire il
progresso delle società”. Mentre nel 2004 avevamo avuto più di 500 partecipanti da oltre 40
Paesi, al forum di Istanbul hanno partecipato 1200 persone da ben 220 Paesi. Scoprimmo
quindi che c’era un forte movimento di studiosi che, in diverse parti del mondo cercava, in
forme abbastanza simili, senza sapere in realtà molto gli uni degli altri, di rispondere alla
stessa domanda: dove stiamo andando? Abbiamo avuto l’impressione che in realtà questo
problema fosse un problema molto sentito all’interno della società odierna, in particolare
all’interno della cosiddetta società dell’informazione, che spesso si rivela essere la società della
confusione. A Istanbul fu firmata una dichiarazione congiunta con l’ONU e molti altre
organizzazioni. Il terzo forum mondiale si è svolto in Corea, e vi hanno preso parte 2000
persone: l’aumento del numero di partecipanti indica un interesse crescente. Il prossimo forum
sarà in India nel 2012.
Il problema è che esiste una forte necessità di capire cosa stia avvenendo al PIL come misura
del benessere, ma vi è anche un forte problema di accountability: il fatto che abbiamo una
molteplicità crescente di soggetti nella società, il fatto che ormai produrre dati è molto
semplice (perché le tecnologie sono cambiate), rischia di produrre una cacofonia nella società,
per cui alla fine, dalla società dell’informazione passiamo alla società della confusione. Allora
termini come accountability rischiano di perdere di significato, perché se un cittadino non sa se
l’inflazione è al 2% o al 20%, difficilmente riuscirà a giudicare l’operato di chi ha guidato la
cosa pubblica o la politica monetaria.
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Presidente ISTAT e unico componente italiano della “Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi”
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Cominciamo da “oltre il PIL”.
Questa citazione viene dal Primo Ministro del Buthan,
Lyonpyo Jigmi y Thinley, il quale a
Istanbul disse : “[…] abbiamo erroneamente usato il PIL per valutare il benessere di un paese
[…]. Il PIL è necessario, ma inadeguato e abbiamo bisogno di sviluppare ulteriori misure che ci
consentano di fornire una visione più ampia di come la società umana sta progredendo […].
L’essere umano ha due tipi di necessità, quelle del corpo e quelle della mente e per molto
tempo noi ci siamo interessati troppo alla dimensione corporale, forse solo a
questa […].
Quello di cui abbiamo bisogno è un cambiamento di paradigma”. In qualche modo, si ritiene
che ci siamo concentrati troppo sugli elementi materiali e non sufficientemente sugli elementi
immateriali. Quindi abbiamo bisogno di un cambiamento nel paradigma.”
Stiglitz afferma che se si osserva il reddito mediano e non il reddito medio, cioè il reddito che
divide la popolazione in due parti, , il reddito mediano della fine degli anni 2000 era inferiore a
quello della fine degli anni ’90. Ciò vuol dire che una gran parte, non necessariamente tutti
naturalmente, della popolazione americana stava, alla fine degli anni 2000, peggio rispetto
all’inizio del decennio. Quindi, guardare un indicatore medio rispetto a guardare un indicatore
mediano, cambia completamente la percezione.
Come vedete, quindi, questa critica al PIL sta crescendo, è forte, non è nuova, ma sicuramente
ha avuto un’accelerazione.
È stato in apertura richiamato un documento importante della Commissione europea7. Questo
documento nasce dopo una discussione durata oltre un anno, iniziata dopo il secondo forum
mondiale di Istanbul, e dopo la conferenza al Parlamento europeo su Oltre il PIL. Anche il
titolo, “GDP and beyond”, cioè il PIL e oltre, che originariamente invece era “Oltre il PIL”, è
stato discusso per mesi all’interno della Commissione. Pur non essendo un documento di forte
spessore dal punto di vista statistico, contiene al suo interno alcune idee che hanno generato
sorpresa: per esempio, l’idea che le politiche devono produrre un aumento del benessere.
Questo non è il linguaggio tipico della Commissione europea, la stessa Commissione che ha
sviluppato l’Agenda di Lisbona e la strategia per la crescita. Riconoscere che alla fine quello che
conta è il benessere, che le politiche dovrebbero concorrere ad aumentare il benessere e
riconoscere la necessità di sviluppare degli indicatori capaci di fare quello che ci aspettiamo
dagli indicatori, cioè misurare il progresso, possono essere considerati elementi di novità.
In questi mesi, in particolare nell’ultimo anno, e in modo abbastanza sapientemente disegnato,
è stato costruito un percorso che comprende l’interesse della Commissione Europea, la
7
Communication from the Commission to the Council and the European Parliament: GDP and beyond, Measuring
progress in a changing world (COM(2009) 433 final - August, 2009), disponibile alla pagina web:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0433:FIN:EN:PDF
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Commissione Stiglitz, il G20, il Forum mondiale dell’OCSE, e adesso andremo avanti.
Dovremmo tuttavia chiederci: cosa vuol dire progresso, in cosa stiamo andando avanti?
La Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi si intitola Commissione per la misurazione delle
performance economiche e del progresso sociale.
Il termine progresso è una parola che in realtà, sul piano culturale, ha origine in Aristotele e si
afferma durante il periodo dell’Illuminismo. Ma è importante ricordare che questa parola,
progresso, era stata sostanzialmente uccisa dagli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale,
perché sia il nazifascismo che il comunismo avevano preso questo concetto come obiettivo
ultimo da raggiungere. Per avere una misura del “divieto” di usare questa parola, basti sapere
che, quando negli anni ’60 fu diffusa l’enciclica papale “Populorum Progresso”, in inglese non
venne tradotta con “progress”, ma con “development”, cioè con sviluppo, benché la parola
latina fosse assolutamente chiara.
Mentre negli anni del nazifascismo il progresso era un progresso necessario, negli ultimi anni si
fa riferimento ad un progresso possibile, e si è iniziato a parlare di progressi: il progresso
tecnologico, il progresso umano, il progresso economico. Cioè perdendo di vista l’idea, e
abdicando ad essa, che potessimo in qualche modo tentare di ricondurre tutti questi aspetti a
un elemento comune.
Dovremmo chiederci però se alla fine stiamo meglio, se la società sta meglio, o sta peggio.
Quando nel 2006 l’OCSE ha iniziato a pensare alla preparazione del Forum di Istanbul e a tutto
il percorso successivo, in una riunione al Rockfeller Foundation a Bellagio, ci siamo chiesti quali
parole usare: sviluppo? sviluppo sostenibile? benessere? Scegliemmo invece la parola
progresso, declinata al plurale, progressi delle società, cioè riconoscendo che non vi è un solo
modo di vedere il progresso, bensì diversi.
Fatta questa digressione, si potrebbe immediatamente dire: sì, ma come si fa a misurare il
progresso? Esistono tre modi fondamentali.
Il primo è quello di prendere i conti pubblici nazionali così come li conosciamo (la contabilità
nazionale produce dati sui conti economici, i conti finanziari, ecc.) e allargare questi schemi
all’ambiente e alla società. Un approccio molto fondato sul piano metodologico, ma anche
molto difficile, molto complesso e molto costoso.
Seconda soluzione: selezionare
50 indicatori, 100 indicatori, 2000 indicatori, assegnare a
ciascuno un peso, aggregarli e creare un indice composito, come ad esempio l’indice dello
sviluppo umano delle Nazioni Unite. Un’idea apparentemente grandiosa. Però, al di là di tutti i
problemi metodologici, quali pesi vanno assegnati ai diversi domini (ambiente, società,
economia, educazione, sanità)? E soprattutto, ci sono dei casi in cui queste componenti hanno
in realtà dei trade-off negativi, cioè se uno cresce, l’altro diminuisce: un indice composito, in
un caso del genere, sarebbe stabile, e non mostrerebbe i cambiamenti, mentre in realtà la
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composizione interna cresce e cambia notevolmente. Questi indici piacciono moltissimo ai mass
media, perché si prestano molto alle “classifiche”, e hanno un forte impatto mediatico: per un
giorno però. Dopodiché, il giorno successivo, si passa ad un altro indice. Non a caso, esistono
160 di questi indici al mondo.
Terza soluzione possibile: riconoscere che la realtà è complessa, e quindi in qualche modo che
non è possibile ricondurla a un unico numero, e allora scegliere una serie di indicatori chiave,
lasciando poi alle persone la capacità di trarre conclusioni, non necessariamente a livello
individuale, ma eventualmente a livello collettivo.
Nella dichiarazione sviluppata nel corso del Forum di Istanbul, si è affermata la necessità di
andare oltre il PIL, di guardare ad una realtà multi-dimensionale, al fine di aiutare una società
a migliorare il suo benessere. Soprattutto, per andare avanti, è fondamentale far sì che ogni
società si interroghi e cerchi di rispondere alla domanda: “cos’è il progresso per me?”. Questo
approccio, che poi ritroveremo nella Commissione Stiglitz, in realtà ribalta l’approccio normale,
rendendolo un processo di discussione democratica, in cui ogni paese cerchi in qualche modo
di definire che cosa vuol dire progresso per quel paese, rispettando le culture, la storia, le
istituzioni, e così via. Naturalmente, questo approccio metterebbe in discussione
la
comparabilità internazionale.
Veniamo ora al Rapporto Stiglitz. È interessante capire come Sarkozy annunciò questa
iniziativa: “Abbiamo bisogno di una nuova civilizzazione, perché la società com’è oggi va
cambiata, va migliorata. Nella nostra Costituzione ci sono dei diritti, ma la Costituzione è stata
scritta molti anni fa, abbiamo bisogno di introdurre nella Costituzione nuovi diritti. Quindi ho
chiesto a Simone Veil di fare una Commissione per aiutarci a capire quali sono i nuovi diritti da
inserire nella Costituzione. Però, enunciare dei diritti non è sufficiente, perché poi dobbiamo
anche avere le politiche, e migliorare le politiche, ma se guardiamo le misure sbagliate
abbiamo le politiche sbagliate. Esiste un divario crescente tra quello che i cittadini sentono sia
la loro vita e quello che le statistiche macroeconomiche ci dicono. Se non colmiamo questo
gap, nessuno crederà più alle statistiche, e di che parleremo? Quindi ho chiesto a Joseph
Stiglitz di organizzare una Commissione […]”. E’ interessante vedere questo percorso, che
nasce da quella che spero un giorno si chiamerà la curva Giovannini. In preparazione del
convegno di Istanbul, fu commissionata ad Eurobarometro un’indagine sulla conoscenza dei
cittadini europei in merito al tasso di crescita del PIL, la disoccupazione, ecc., allo scopo di
indagare e capire la loro fiducia nei confronti delle statistiche, il grado di importanza della
conoscenza di questi dati secondo i cittadini, e se pensavano che i politici usassero questi dati
per prendere decisioni.
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T ru s t in o ffic ia l s ta tis tic s (d iff te n d to tru s t - te n d n o t to tru s t)
100
80
60
NL
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-40
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
Political decisions are made on the basis of
statistical information (diff yes-no)
Fonte: Eurobarometro 2007
Osservando il
grafico, dove sulle ascisse abbiamo il numero di persone che credono nelle
statistiche, e sulle ordinate abbiamo coloro i quali pensano che i politici prendano decisioni
basate sui dati, troviamo una straordinaria correlazione con i Paesi nordici, in alto, sia in
termini di fiducia nelle statistiche che nella convinzione che i politici prendano decisioni
basandosi sulle statistiche. All’estremo opposto abbiamo i Paesi ex comunisti, e poi abbiamo la
Francia e la Gran Bretagna, dove soltanto un 30% dei cittadini crede alle statistiche8. La stessa
indagine, replicata nel Settembre 2009, ha evidenziato un risultato ancora peggiore: il 46%
degli europei non crede alle statistiche. In fondo alla classifica di nuovo Francia e Gran
Bretagna, questa volta affiancati da Germania, Spagna e Italia: ciò evidenzia il fatto che, nei 5
grandi Paesi europei esiste un serissimo problema di fiducia nelle statistiche e, più in generale,
di uso dei dati. Sarkozy fece riferimento a questi risultati in occasione della presentazione della
Commissione.
8
Questa indagine è stata realizzata nell’Aprile 2007, anno nel quale in Francia, durante le elezioni, si verificò un
problema sui dati della disoccupazione.
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La Commissione Stiglitz si è articolata in tre gruppi di lavoro: un gruppo - che ho presieduto si è concentrato sull’estensione del concetto di PIL sui prodotti nazionali; il secondo gruppo,
presieduto da Alan Kruger - attuale chief economist del Governo americano - sulla qualità della
vita; il terzo gruppo di lavoro - presieduto da Jeff Hill di Yale – ha lavorato sulla sostenibilità.
Quali sono i messaggi della Commissione?
Primo punto: si deve passare da un concetto di produzione a un concetto di benessere, dal
momento che il PIL è una misura - buona ancorché perfettibile - di produzione, ma dice poco
se ci mettiamo dalla parte delle persone, e in particolare se vogliamo misurare il benessere. In
questo ambito, è possibile cercare di ottenere, con i dati e gli schemi attuali, misure migliori
del benessere. Facciamo un esempio: se invece del prodotto interno lordo usassimo il reddito
disponibile delle famiglie, ponderato per la quantità di servizi pubblici resi - e quindi qualcosa
che è più vicino ai trasferimenti monetari e in natura ricevuti dalle famiglie - scopriremmo che
in Italia, negli ultimi 10 anni, la crescita di questa variabile è stata più o meno pari alla metà di
quella del PIL, di per se già bassissima. quindi, pensando per un attimo a tutto il dibattito sulla
situazione economica in Italia, possiamo vedere come, in realtà, avevamo a disposizione una
misura che rispecchiava molto di più questo aspetto.
La prima raccomandazione riguarda quindi il fatto che, se vogliamo passare dalla produzione al
benessere, abbiamo la possibilità di fare molto, anche utilizzando i dati già disponibili, e anche
su dati di carattere economico.
Secondo messaggio: non abbiamo trovato una misura che, in qualche modo, possa accorpare
tutte le varie dimensioni del benessere in una, perché in realtà, per fare una cosa del genere
serve innanzitutto una metrica comune. Siamo riusciti a creare il PIL perché usiamo dei prezzi
per aggregare delle quantità intrinsecamente diverse. una metrica per aggregare le diverse
dimensioni del benessere non è stata identificata, e riteniamo che non esista. Non riteniamo
fattibile l’attribuzione di pesi basati sui prezzi a cose come i rapporti interpersonali o la
partecipazione civica o, nel caso fosse fattibile, le ipotesi alla base di queste misure sarebbero
talmente forti da determinare un altissimo grado di incertezza associato a questa misura.
Quindi, questo è il secondo messaggio forte: non abbiamo trovato un Santo Graal che possa
aggregare tutte le componenti in un unico indicatore. Inoltre, non riteniamo opportuno e
consigliabile l’utilizzo di indicatori compositi, che non sono una buona scorciatoia, per quanto
possano essere comunque usati per accorpare dei temi tra loro simili.
Terzo messaggio importante: se non si può avere un unico indicatore, quale metodo, o meglio,
quale tassonomia dovremo usare per misurare quello che chiamiamo benessere o progresso?
La Commissione si è assunta il rischio di indicare 7 categorie, che la ricerca sembra dimostrare
essere molto rilevanti per il benessere. Tra l’altro nel report si sostiene l’idea che un indicatore
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di felicità, ancorché interessante, non può essere usato per sostituire il PIL. Le dimensioni
identificate sono le seguenti: la sanità, lo stato psicofisico delle persone, la conoscenza e la
capacità di comprendere il mondo in cui viviamo, il lavoro, il benessere materiale, l’ambiente, i
rapporti interpersonali e i rapporti civici, e quindi la partecipazione e così via. Queste
dimensioni sono fondamentali, si ritrovano in gran parte degli schemi e dei modelli elaborati
sul tema, e sono anche quegli stessi elementi che sembrano influenzare di più lo stato
soggettivo delle persone: la felicità o la soddisfazione di vita.
In realtà, nel Rapporto vi è un ulteriore elemento, l’insicurezza, che però io non condivido per
come è trattato. Inoltre, ritengo che oltre alle sette dimensioni sopra elencate, ve ne siano due
orizzontali: la prima è la dimensione intra-generazionale, cioè l’equità, mentre la seconda è la
dimensione inter-generazionale, cioè la sostenibilità.
Il quarto messaggio: è vero, le quantità contano, gli aspetti quantitativi sono importanti, ma
anche quelli qualitativi. Quindi bisogna misurare il benessere sia da un punto di vista
oggettivo, che da un punto di vista soggettivo.
Il messaggio successivo è sulla sostenibilità: la sostenibilità, intesa in senso ampio, quindi non
solamente solo nella sua accezione ambientale, può essere misurata solamente guardando a
due elementi. Il primo elemento sono gli stock, le attività (e in particolare gli stock di capitale
prodotto, le macchine, le sedie, ecc.) ma anche lo stock di capitale naturale, lo stock di
capitale sociale e lo stock di capitale umano. La sostenibilità ha a che fare con la quantità di
questi stock che noi lasciamo alle generazioni successive. Ma gli statistici non devono illudersi
di poter misurare la sostenibilità da soli, perché questi dati possono essere usati per costruire
modelli che ci aiutino a guardare il futuro, perché la sostenibilità ha molto a che fare con
ipotesi anche forti. Serve la modellistica, perché le sole statistiche non sono sufficienti per la
valutazione della sostenibilità di un percorso.
Ancora due messaggi, uno agli statistici e uno ai politici.
Agli statistici: siate coraggiosi. Conoscete questa storia? un signore incontra un tizio per strada
che sta cercando qualcosa sotto il lampione e dice: “Ho perso le chiavi”, “Ma le hai perse qui?”,
“No”, “E allora perché le cerchi qui?”, “Perché qui c’è la lampada”. Gli statistici sono diventati
un po’ così, sono diventati straordinariamente conservatori. La Commissione li sprona a
riprendere l’iniziativa e ad avere il coraggio di misurare quello che è difficile, non solo quello
che è facile.
Ultimo messaggio della Commissione: questo lavoro è un percorso che è stato avviato e non
finisce qui, ma chi deve portare avanti questi temi? Certo, da un lato gli statistici. Ma a livello
politico, che cosa si deve fare? E qui trovate questa raccomandazione, che è perfettamente in
linea con questo progetto globale lanciato dall’OCSE nel 2007. In ogni paese dovrebbe essere
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costituita una specie di tavola rotonda sul progresso, prendendo ad esempio le tante pratiche
implementate in giro per il mondo, sia nei Paesi sviluppati che nei Paesi in via di sviluppo.
Dovrebbe rappresentare una sorta di “Costituzione statistica”, cioè qualcosa sufficientemente
generale o generica, che però rappresenti il modo di sentire di un paese. E questa
Commissione dovrebbe comunicare i risultati ai cittadini, nel modo il più possibile neutrale, per
cercare di aiutarli a capire il mondo in cui vivono.
Concludo con una citazione. “La gente di questo paese è stata erroneamente indotta a credere
che si potesse aumentare la produzione, e che un mago avrebbe trovato il modo di trasformare
la produzione in consumi e profitti per i produttori. La felicità non viene unicamente dal
possesso dei soldi, ma dal piacere che deriva dal raggiungimento di uno scopo, dall’emozione
che deriva dallo sforzo creativo. La gioia e la tensione morale non devono più essere
dimenticate a favore di una folle ricerca di profitti evanescenti”. Chi può aver detto una cosa
del genere? Franklin Delano Roosevelt, nel 1933, ovvero nel pieno della Grande Depressione.
Egli
diceva
“noi dobbiamo affrontare insieme le difficoltà, ma grazie a Dio, tali difficoltà
riguardano solamente cose materiali. Senza distinzione di partito, la grande maggioranza del
nostro popolo cerca l’opportunità di far prosperare l’umanità e di trovare la felicità. Il nostro
popolo riconosce che il benessere umano non si raggiunge solamente attraverso il
materialismo e il lusso, ma che esso cresce attraverso l’integrità, l’altruismo, il senso di
responsabilità e la giustizia”.
Se i rappresentanti del G20 fossero capaci di alzarsi e dire queste cose nel mezzo della crisi più
dura dopo quella del ’29, credo che avremmo fatto un grosso passo avanti.
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Fiorella Kostoris
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“PIL ma non solo PIL”
Nel dibattito ho sentito esprimere due riflessioni disgiunte – che non prendiamo
sufficientemente in considerazione la storia del pensiero economico, e che
questa città era amministrata molto meglio negli Anni ‘70 - riflessioni che per me
sono assolutamente congiunte nel ricordo di Renato Zangheri, che qui desidero
salutare quale uno dei miei indimenticabili maestri all’Università, Professore di
Storia del Pensiero Economico, particolarmente interessato ai fisiocratici e a
Quesnais, di lì a poco divenuto Sindaco di Bologna proprio in quei famosi Anni
’70.
Il tema che oggi ci viene proposto in riflessione è importante. Aggiungerei che i messaggi
principali del Rapporto Stiglitz, che qui discutiamo, a me sembrano tutti accettabili, anche se
magari su alcuni dettagli tecnici non sono d’accordo. Sebbene non intenda soffermarmi su di
essi,
vorrei
fornire
almeno
un
esempio
delle
mie
perplessità,
relativo
alla
prima
raccomandazione del Rapporto, laddove è indicata la preferibilità, a fini di comparazione del
benessere sociale, dell’utilizzo della variabile reddito nazionale netto anziché del prodotto
interno lordo: ricordo che interno significa creato dentro al paese, indipendentemente dalla
nazionalità
dei
produttori,
mentre
il
qualificativo
nazionale
attiene
alla
certificazione
amministrativa della residenza, indipendentemente dal luogo di operatività, anche temporanea,
dei titolari dei fattori produttivi, e la nettatura esplicitata nella prima variabile (ma non nella
seconda) riguarda la sottrazione (o meno) dell’ammortamento, essendo comunque entrambe
da giudicarsi nette da duplicazioni, in quanto relative al valore aggiunto.
Esistono alcuni buoni motivi per compiere il costoso passaggio dal PIL al reddito nazionale
netto, poiché quest’ultimo tende a misurare il tenore di vita della gente, mentre con il PIL si
valuta il livello della produzione. Ma la contro-motivazione principale per ritenere inutile, se
non addirittura dannoso, questo cambiamento è che già ora, dal punto di vista della contabilità
nazionale, sussiste un’identità fra reddito-spesa-produzione; inoltre, la nettatura del PIL è
parzialmente arbitraria perché il deprezzamento del capitale è solo imputato statisticamente, e
la scelta di considerare parte del nostro benessere il reddito degli emigrati italiani all’estero,
anziché quello degli immigrati stranieri in Italia è del tutto discutibile. In ultima analisi, ritengo
che i due concetti contabili sopra indicati presentino problemi simili, costituendo entrambi
approssimazioni molto imperfette del livello del benessere sociale, che si vorrebbe sintetizzare
in un parametro quantitativo; al meglio, forse, un elevato livello di quelle variabili è condizione
9
Docente di Economia Politica presso l’Università La Sapienza di Roma
13
necessaria ma non sufficiente perché un paese sia soddisfatto, nel senso che essere ricchi non
rende felici, ma essere poveri di certo non aiuta. Dovrebbe, dunque, valere la regola aurea del
“quieta non movere”, se i vantaggi futuri presunti delle trasformazioni proposte dal Rapporto
Stiglitz sono modesti e i costi immediati sono certi e non del tutto trascurabili. Altre, a mio
avviso, sono le priorità nel campo statistico, come meglio chiarirò al termine della mia
esposizione.
Approfondendo ulteriormente l’analisi dei citati concetti di PIL o di reddito nazionale netto (non
preciserò più, d’ora innanzi, quale dei due convenga utilizzare), emergono sei limiti
significativi. Innanzitutto, essi tengono conto solo delle transazioni che passano dal mercato.
In secondo luogo, essi trascurano i problemi della sostenibilità di lungo periodo della
produzione. Inoltre, non riescono a valutare correttamente il benessere sociale anche perché
ignorano lo stato e la dinamica demografica e distributiva. In aggiunta, per costruzione, non
vengono integrati né vari indicatori oggettivi tra loro, né questi con altri di carattere
soggettivo, come una migliore stima richiederebbe. Infine, tutti questi limiti sono ingigantiti
dalla relazione “pericolosa” oggi esistente fra statistica, politica e opinione pubblica, con
particolare riguardo a certe variabili macroeconomiche “calde”, quali il PIL, il reddito,
l’inflazione, il deficit pubblico.
Cominciando a trattare del primo argomento, si sa che il PIL o il reddito nazionale netto
registrano unicamente i flussi che transitano dal mercato. La conseguente, grave, distorsione è
perfettamente nota da almeno 100 anni, dacché il famoso economista inglese, Pigou, fece
notare la circostanza paradossale secondo cui, se improvvisamente tutti i gentiluomini del suo
paese avessero sposato le loro cameriere, la mera trasformazione in mogli di queste ultime,
ferma restando la continuazione dei loro impegni casalinghi, avrebbe fatto diminuire il livello
del benessere, come (mal) evidenziato dalla contabilità nazionale. E’ ovvio, al contrario, che la
soddisfazione sostanziale delle persone dipende anche dagli scambi che non si svolgono nel
mercato, o che magari vi passano in una forma economicamente non rilevante, cioè pro bono.
In una situazione come quella attuale, dove il non profit o il volontariato del tutto gratuito
stanno divenendo sempre più diffusi, una dimensione significativa e crescente del benessere
sociale sfugge, dunque, alle statistiche della contabilità nazionale.
Discutendo ora del punto successivo, vorrei ricordare che tanto il PIL che il reddito nazionale
netto sono indici mediocri del benessere, perché ignorano il problema della sostenibilità,
ovvero il grado di mantenimento nel tempo dei flussi di mercato stimati dalla contabilità
nazionale. La teoria economica, invece, da almeno 70 anni (con Value and Capital di Hicks)
sostiene chiaramente che scambi occasionali o temporanei comportano effetti completamente
diversi da quelli permanenti. La sostenibilità del prodotto o del reddito implica che a crearlo
14
non si distruggano in qualche modo risorse del nostro futuro, il che darebbe luogo ad una
sottrazione negli anni a venire, accanto ad una addizione nel presente, sicché il “vero” valore
aggiunto attuale andrebbe misurato con una sorta di somma algebrica di addendi di segno
opposto. In quest’ottica, non sfugge più a nessuno, ad esempio, che trascurare i danni
ambientali provocati dalle attività correnti induca a valutazioni effimere del potenziale del
benessere sociale. Personalmente vorrei, in quest’ottica, riferirmi ad un altro caso che si è
manifestato a partire dalla crisi dei mercati finanziari del 2007-2009, cui normalmente si
presta poca attenzione. Come si sa, nei drammatici momenti seguiti al fallimento della Lehman
Brothers, Sarkozy, all’epoca Presidente di turno della UE ha convocato il 12 ottobre 2008 i capi
di Stato e di Governo dell’Eurogruppo (in una formazione insolita non solo perché
curiosamente estesa, nella circostanza specifica, fino a includere il presunto euroscettico
premier inglese, Gordon Brown, ma anche perché ristretta, in quell’occasione, ai vertici
politico-istituzionali dei Paesi Membri, anziché essere allargata, come di norma, ai Ministri delle
Finanze). In quel famoso week-end parigino, in cui si temeva che le Borse non si sarebbero
potute riaprire il lunedì successivo, i partners europei riuscirono a prendere all’unanimità e
rapidamente tre decisioni fondamentali: garantire il debito delle banche, in modo che i
risparmiatori avessero la certezza che i loro depositi fossero fuori pericolo; assicurare anche gli
assets bancari, per accrescere la stabilità del sistema finanziario, eventualmente attraverso
ricapitalizzazioni pubbliche o perfino nazionalizzazioni; abbandonare il metodo di valutazione
societario chiamato del mark to market, legato al valore di borsa delle azioni (su cui si
commisurava lo stesso bonus dei banchieri), perché con esso si confondevano stime di breve
periodo sulla liquidità aziendale con altre sulla profittabilità delle imprese nel medio-lungo
termine.
Nella prospettiva ora adottata, sottolineo che quest’ultima decisione ha messo in moto una
serie di riflessioni per rideterminare le retribuzioni variabili dei banchieri e degli alti dirigenti ed
amministratori delegati delle grandi Società per Azioni, spesso “too big to fail”, al fine di
poggiarle su basi più solidamente correlate alla sostenibilità nel tempo della performance
societaria, anziché sui corsi azionari soggetti a enorme volatilità quotidiana e per di più tenuti
artificialmente
alti
dall’azzardo
morale
derivante
dall’impossibilità
del
fallimento.
Successivamente, il G20 ha chiesto al Financial Stability Board, presieduto dal Governatore
della Banca d’Italia Mario Draghi, di addivenire a proposte concrete di riforma dei bonus dei
CEO, specialmente delle banche d’affari, al fine di perseguire l’obiettivo, insieme efficiente ed
etico, di commisurarli ai risultati economici non di breve periodo, ma duraturi nel tempo.
Passando a trattare del quarto punto, appare chiaro che non il valore assoluto del PIL o del
reddito nazionale netto identifica il benessere sociale, bensì eventualmente queste stesse
variabili riportate alla numerosità e alla distribuzione della popolazione. Sappiamo, ad esempio,
che la Cina sta per diventare uno dei sette grandi Paesi del mondo, dal punto di vista del livello
del prodotto, ma ciò succede perché in essa vive un miliardo e 300 milioni di abitanti. Se
15
invece che al PIL, più correttamente guardassimo al PIL pro capite, per rilevare il potere
d’acquisto della gente, la graduatoria cambierebbe e la Cina sarebbe ben lontana dalle
posizioni più elevate della classifica globale. Nella stima del benessere sociale, conviene,
dunque, focalizzarsi in prima approssimazione sulle medie e sulle mediane, come proposto dal
Rapporto Stiglitz, al fine di una adeguata considerazione della demografia.
In aggiunta, è necessario tener conto anche della distribuzione delle risorse nella popolazione,
perché è chiaro che il reddito pro capite in quanto tale può presentare tutte le limitazioni del
famoso pollo di Trilussa: se ci sono due persone, mediamente ciascuno ne mangia metà,
sebbene possa accadere che uno se lo pappa per intero, mentre l’altro rimane a bocca asciutta.
Ma precisare l’intera distribuzione e non solo la media delle variabili di contabilità nazionale
implica l’utilizzo di indicatori statistici di difficile comprensione per l’opinione pubblica. Lo
dimostra il caso, pur molto semplificato, delle misure della povertà, che in Europa si riferisce di
solito a quella “relativa”, più che a quella “assoluta”. La prima è legata alla distribuzione dei
redditi, non al loro livello, che invece è rilevante per la seconda. Normalmente, nell’UE una
persona è definita povera se guadagna meno della metà del reddito medio (o talvolta meno del
60% del mediano): dunque, coeteris paribus, la povertà (relativa) è associata alla varianza dei
redditi. Da questo punto di vista, si potrebbe arrivare a sostenere che nel paese più
emarginato dell’Africa, dove tutti sono al limite della sussistenza, ma tutti vivono egualmente
di stenti, i poveri sono meno numerosi che negli Stati Uniti, dove c’è un’enorme variabilità
nella distribuzione dei redditi, sicché i poveri (relativi) costituiscono il 20% della nazione, ma
ciascuno di essi in realtà sta meglio dell’intera popolazione di quel depresso paese africano, in
cui senza eccezione si muore di fame. Al contrario, per gli Stati Membri dell’ONU, il Rapporto
dell’UNDP stima più frequentemente la povertà (assoluta), con riferimento al livello del reddito
disponibile, esaminando ad esempio la quota degli abitanti con meno di 2 o con meno di 10
dollari al giorno, a parità di potere d’acquisto, o la percentuale di persone prive di mezzi
essenziali per una sopravvivenza dignitosa, quali l’acqua potabile. Entrambe queste misure di
povertà – purché comprese – aiutano a capire le varie forme di privazione sociale, e come tali
vengono analizzate anche dagli Istituti di Statistica nordamericani e da alcuni europei (incluso
l’ISTAT).
Per tornare al tema più generale dell’importanza della disuguaglianza nella valutazione del
benessere sociale, vorrei ricordare che, mentre la Commissione Stiglitz sembra trattare il
problema senza addivenire a univoche conclusioni, la posizione prevalente nell’opinione
pubblica e nelle istituzioni europee di fatto corrisponde a ritenere negativa, per data media,
un’alta varianza dei redditi, al punto da associarla al concetto di povertà. Il mio approccio in
proposito è diverso. Se si suppone che i talenti non siano uguali nella popolazione (ipotesi
ragionevole anche alla luce dei più recenti studi di neuroscienza), dovremmo attenderci che,
per ragioni di efficienza ed equità, per incentivare e riconoscere il merito nel mercato del
16
lavoro, la distribuzione dei redditi non sia concentrata sulla media. In tal caso, la variabilità
sarebbe giusta e insieme efficace. In definitiva, la valutazione sulla correlazione positiva,
neutra o negativa esistente fra distribuzione dei redditi, da un lato, e benessere sociale,
dall’altro, è strettamente collegata con le preferenze e le opzioni politiche, diverse fra Paesi e
in momenti differenti. Se la funzione del benessere sociale è di tipo paretiano, cioè se la
popolazione è più soddisfatta quando aumenta l’utilità di alcuni, ferma restando quella degli
altri, in sostanza il ridurre la disuguaglianza non è di per sé un valore, perché questa può
diminuire in due modi - abbassando il reddito di chi sta meglio o alzando quello di chi sta
peggio - e con il primo metodo non vi è un miglioramento di tipo paretiano. Al contrario, chi
crede che la disuguaglianza sia in sé un male, considera che l’interesse generale sia premiato
anche facendo “piangere i ricchi”, oltre che inducendo al “sorriso i poveri”: la sua funzione del
benessere, improntata per così dire all’invidia sociale, è di tipo non paretiano.
Passando ora al punto successivo, quello dell’opportunità di un uso congiunto di vari indicatori
oggettivi e soggettivi, ai fini della misurazione della soddisfazione di un paese, va menzionato
che anche questo è un aspetto ben noto sia alla teoria, sia alla prassi economica. Ad esempio,
il già citato Rapporto dell’UNDP, presentando l’indice dello “sviluppo umano”, in essere dal
1990, reputa rilevante, tra le variabili oggettive, non solo il reddito pro capite, ma anche
l’aspettativa di vita e il grado di istruzione degli adulti, combinato con la percentuale di iscritti
ai tre livelli scolastici principali. Si tratta di parametri ben selezionati per gli scopi comparativi
dell’UNDP, in quanto essi possono venir esaminati negli Stati Membri dell’ONU in via di
sviluppo, come in quelli sviluppati.
Fra le altre, tante, variabili oggettive finora prese in considerazione dalla letteratura per il
calcolo del tenore di vita della popolazione, segnalo quanto in proposito da me già scritto nel
Lessico dell’economia V (2008): il CEPII francese, ad esempio, corregge il reddito pro capite
con altre sei evidenze empiriche - sulla composizione delle famiglie, sul tempo di lavoro, sulla
sua precarietà, legata alla probabilità di disoccupazione, sulla speranza di vita in buona salute,
sulle ineguaglianze nel reddito (considerate un male), sulla sostenibilità ambientale -. Ciascuna
di queste variabili è significativa per un miglioramento della valutazione del benessere sociale,
ancorché sia talora arbitraria, come in parte già spiegato con riferimento alla disuguaglianza. E’
rilevante, ad esempio, la composizione numerica dei nuclei familiari, perché molti costi (parte
della luce, del riscaldamento, della pulizia, degli acquisti alimentari al supermercato) sono fissi
e le economie di scala esistono. Perciò si adottano le cosiddette scale di equivalenza, per
evitare di lasciar intendere che una famiglia di due persone abbia bisogno esattamente del
doppio del reddito individuale per cavarsela identicamente bene. Quanto al parametro “tempo
di lavoro”, la Commissione Stiglitz ne parla come di un diminutivo dell’utilità provocata dal
reddito: i libri di testo di economia più semplici, del resto, spiegano che lavorare crea disutilità
e che l’otium è gradito. Tuttavia, non sempre il “far niente” è ugualmente “dolce”: bisogna
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distinguere fra i tempi davvero liberi da un lavoro regolarmente retribuito, e dunque volontari,
da un lato, e quelli superimpegnati da “non lavori” domestici, faticosi e indesiderati, dall’altro,
e quelli del tutto vuoti, involontariamente inattivi, per un altro verso ancora. Non vi è dubbio
che una casalinga in cerca di occupazione preferirebbe all’otium il negotium, anche se non si
annovera fra i disoccupati, e che le stesse aspirazioni caratterizzano tanti giovani inattivi,
disposti a intercalare ore di studio e di lavoro e tanti meno giovani che hanno perso il posto e
perfino il coraggio di cercarlo, tutti egualmente frustrati. Non si può allora considerare sempre
un male il tempo lavorato, né ritenere, come vorrebbe il CEPII, che solo i disoccupati registrati
nelle forze di lavoro lo testimonino: si deve riconoscere che, se “lavorare stanca”, non farlo
può pesare ancora di più, anche perché l’inattività comporta uno stigma sociale.
Per aggiungere un’informazione telegrafica sugli indicatori soggettivi, quelli, per intenderci,
sulla felicità, essi sono particolarmente analizzati dalla scuola inglese, con un forte richiamo,
non certo casuale, alle filosofie utilitaristiche alla Jeremy Bentham. Questo tipo di indici, come
tutti quelli sul sentiment della popolazione, si fonda sui sondaggi di opinione, ad esempio su
quelli di Eurobarometro, recentemente riproposti da Andrew Oswald e, ancora prima, da
Richard Layard. Essi, secondo me, al meglio forniscono elementi che possono aggiungersi a
quelli provenienti dagli “hard facts”, ma non vanno presi isolatamente, perché è difficile
interpretarne il significato. Infatti, se, come accade, l’Italia esce spesso in tali sondaggi come
un paese fra i più scontenti del mondo sviluppato, non è chiaro se questo sia dovuto alla
circostanza che i nostri connazionali si lamentano anche senza ragione più degli stranieri (e c’è
da pensarlo, viste le meraviglie del paesaggio, della cultura, dell’operosità da cui siamo
attorniati, ad esempio in una città come questa, che oggi ci ospita), oppure se essi
effettivamente abbiano seri e concreti motivi di insoddisfazione. Questi ultimi certamente non
mancano e sono perfino più numerosi di quelli già esposti trattando degli indicatori oggettivi
del benessere/malessere sociale - uno per tutti essendo il livello del debito pubblico, alto e
crescente, segno della non sostenibilità del nostro tenore di vita -. Ma per comprenderli e per
valutarli appieno, è precisamente necessario tornare a quegli indicatori oggettivi, da cui il
discorso sul quinto punto è precisamente cominciato.
Infine, un flash sul sesto punto, sulla relazione tra statistica e politica, data la sempre
maggiore influenza della prima sulla seconda e il conseguente timore di un indesiderabile
feedback in direzione contraria: i numeri dovrebbero essere neutri, freddi, compresi in tutti i
loro limiti e significati. C’è da dubitare che questo succeda, per varie ragioni. Innanzitutto,
perché, quando i dati sono raccolti presso la popolazione con domande tecniche, ancorché
semplici (ad esempio su quale sia il tasso di inflazione rilevante per il potere d’acquisto del
proprio reddito), è improbabile che essa capisca il quesito e sappia adeguatamente rispondere
(ad esempio perché confonde l’inflazione con il livello dei prezzi). Secondariamente, quando
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l’opinione pubblica legge le evidenze empiriche raccolte come variabili stocastiche di carattere
oggettivo, spesso non è in grado di interpretarle: ad esempio, quanti italiani conoscono la
differenza concettuale e quindi pratica tra il deficit e il debito pubblico? Pochissimi
probabilmente, ma molti di più sanno che il primo – non si sa bene come definito e calcolato –
debba essere inferiore al 3%. E’ allora che le statistiche di finanza pubblica divengono “calde” e
il desiderio dei policy-makers di “massaggiarle” elevato, per il fatto stesso che su di esse si
concentra l’esame della Commissione Europea circa l’eventuale “deficit eccessivo”, e dunque si
appunta l’attenzione (preconcetta e disinformata) dell’opinione pubblica: gli stakeholders
guardano al numero, senza comprendere che, essendo una variabile stocastica, lo stare poco
sopra o poco sotto al famoso 3% è statisticamente (ma non politicamente) insignificante.
Avviene così che spesso sussista non solo una larga differenza tra la prima uscita (la prima
release) sul dato del disavanzo pubblico illustrato dagli Istituti di Statistica nel febbraio
successivo ad ogni anno solare di riferimento e lo stesso dato assestato due anni dopo, ma
che, soprattutto, quest’ultimo sia, come nel caso italiano, sistematicamente superiore a quello
esposto all’opinione pubblica nel momento in cui era “caldo”, cioè alla prima release. A partire
dal nuovo millennio, in particolare, il nostro rapporto deficit/PIL è sempre stato, salvo in tre
anni (2002 e 2007-08), maggiore del 3%, ma questa informazione non è mai uscita quando il
numero concerneva l’anno immediatamente antecedente, bensì è lievitato nei mesi e negli anni
seguenti, servendo a quel punto solo agli storici economici.
La situazione all’interno dell’U.E. è, in proposito, molto differenziata. Alcuni Paesi sono noti per
aver diffuso vere e proprie bugie sulla loro finanza pubblica, a scopo politico: esemplare è il
caso della Grecia, che ha spudoratamente mentito per poter aderire all’euro con un solo anno
di ritardo rispetto ai primi partners della moneta unica. In uno studio svolto per la
Commissione Europea nel 2007, Mora e Nogueira-Martins dimostrano che, fra il 1994 e il 2007,
Francia, Germania e Regno Unito sono stati gli Stati Membri dell’Unione che hanno riportato le
informazioni sui deficit pubblici più affidabili, l’affidabilità essendo definita tanto maggiore
quanto minore è la differenza fra il dato assestato e quello dell’iniziale release; è solo alla
quinta release che i dati italiani sul disavanzo pubblico raggiungono lo stesso grado di
affidabilità di quelli francesi alla prima release.
Sicché, quando si afferma che “bisogna conoscere per deliberare”, si sostiene una verità
lapalissiana, con un caveat aggiuntivo, tuttavia. In realtà i policy-makers vorrebbero possedere
informazioni statistiche accurate e tempestive (attraverso sondaggi, dati oggettivi e soggettivi,
evidenze sul sentiment), ma desidererebbero che gli altri non ne fossero sempre a conoscenza,
al fine di poter prendere contromisure - nei casi migliori sulla realtà, nei casi peggiori sui
numeri che la rappresentano - se non per scopi di manipolazione, almeno per una captatio
benevolentiae sia del corpo elettorale, sia dei controllori. Non a caso, nella revisione del Patto
di Stabilità e Crescita realizzata nel 2005 dalla UE, si è molto insistito sul fatto che gli Istituti di
Statistica debbano divenire più indipendenti, autorevoli, terzi rispetto all’Esecutivo. Il peso
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politico nella loro governance è in alcuni Stati Membri troppo elevato, indipendentemente dal
disegno istituzionale che sulla carta magari li preserva da pressioni governative, così come,
all’opposto, in altri Paesi, esso di fatto si rivela leggero, anche se formalmente tali Istituti di
Statistica sembrano direttamente dipendere dal Ministro delle Finanze (come avviene in
Francia o negli USA).
Nelle società moderne, il rapporto fra statistica e politica è dunque particolarmente complesso.
Perché esso diventi più sano, è necessaria un’opera profonda e prolungata di alfabetizzazione
dell’opinione pubblica e dei media, nonché di moralizzazione e professionalizzazione dei
produttori e degli utilizzatori dei dati. Questo discorso vale anche per i parametri oggettivi e
soggettivi concernenti la stima del benessere sociale. In tale ottica, rebus sic stantibus, non
solo non pare prioritario procedere all’offerta di nuove misure più sofisticate del PIL, volte a
valutarlo, ma questa eventuale innovazione, fortemente desiderata l’anno scorso dal
Presidente Sarkozy e da altri policy-makers europei (come implicitamente suggerito dalla
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, dal titolo “Non solo
PIL”), potrebbe perfino indurre al commento, malizioso e magari cinico, che la sostituzione o
l’integrazione del concetto di PIL non a caso si promuovono proprio nel 2009, quando esso
scende nell’area dell’euro di ben 4,1 punti percentuali (in Italia del -5%), cifre al ribasso da
capogiro, che non si osservavano nel Vecchio Continente da moltissimi decenni.
20
Giovanni Pieretti
10
Il futuro ha un cuore antico
Il titolo del presente contributo, mutuato da quello di un vecchio libro di Carlo Levi, ha la
presunzione di sottolineare quanto la crisi climatica, ambientale e sociale che stiamo vivendo
possa essere affrontata, se non risolta, attraverso una riscoperta dei valori delle classi
subalterne italiane. La cultura di cui esse sono state, e in parte sono, portatrici, che
chiameremo cultura dell’essenzialità11, possiede un sapere della vita che, se ripercorso e
ritrovato, può contribuire a riscoprire un senso della giustizia e della redistribuzione delle
risorse senza il quale ogni rimedio tecnico rivelerà la propria manchevolezza, poiché
tutt’interno ad una idea di sviluppo senza progresso. L’occasione qui presentata da Impronta
Etica, ovvero ridiscutere le misure del benessere e quindi l’idea stessa di benessere ci porterà,
alla conclusione del nostro ragionamento, a rivisitare i valori contenuti nella cultura
dell’essenzialità. Si deve accogliere con interesse l’occasione offerta di discutere il rapporto
Stiglitz Sen Fitoussi: era tempo di uscire da misure del benessere che facessero coincidere
meramente quest’ultimo col PIL. Il rapporto è importante da molti punti di vista e, più degli
altri, perché tenta con molto coraggio di proporre qualcosa di nuovo.
Il rapporto mette in luce che vi è circolarità tra definizione, strumenti di misurazione (e oggetti
di quest’ultima) e policies da mettere in atto. Oggi ciò accade sempre meno: con l’alibi delle
risorse scarse il processo di decisione è sempre più sganciato da autentici processi conoscitivi
mentre si scambiano sondaggi per ricerche scientifiche.
Un benessere che non deve però somigliare al titolo del libro di Ermanno Gorrieri, Parti uguali
tra disuguali12 (che riprende una frase molto citata, e forse non troppo capita, di Don Lorenzo
Milani). La definizione di benessere, insomma, non deve somigliare a insensatezze tipo la
definizione di salute di Alma Ata dell’OMS: “perfetto stato di benessere psichico, fisico e
sociale”. Ci vuole un bel coraggio a dare definizioni di questo tipo, in un mondo ove ogni sei
secondi c’è un morto per fame. Ci vogliono quindi misure e dati che tocchino il genere “tutti”.
Già, quale benessere? Non certo lo sviluppo che abbiamo conosciuto e che conosciamo; credo
che le parole di Pasolini valgano tutt’ora ad etichettarlo: sviluppo senza progresso. Allora
dobbiamo andare oltre. A mio avviso le misure nuove che vengono proposte dal rapporto
“funzionano” bene soprattutto per quel che riguarda i tre indici sull’ambiente: e non solo
perché costituiscono un deciso salto in avanti sul tema, ma perché è l’ambiente il problema.
Eppure non bastano: occorre una sterzata decisa in senso ambientale. Il fatto che Nick Stern,
10
11
Docente di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso l’Università di Bologna.
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, Angeli, Milano, 1996.
12
E.Gorrieri, Parti uguali fra disuguali: povertà, disuguaglianza e politiche redistributive nell’Italia di oggi, Il Mulino,
Bologna, 2002.
21
ex Chief Economist della Banca Mondiale, l’autore di Un Piano per salvare il pianeta13, facesse
parte della commissione conforta da questo punto di vista. Eppure il rapporto, che è
inevitabilmente un prodotto di sintesi tra punti di vista diversi, non soddisfa interamente sul
piano ambientale: è proprio Stern, nel suo libro e nel rapporto a sua firma del 2007 per il
governo Blair, a dirci senza giri di parole che il tempo è finito, quanto all’ambiente e Amartya
Sen, commentando il libro di Stern, a confermarlo.
E’ dunque necessario un cambiamento assai radicale, e molto presto. Non abbiamo più tempo,
quanto al clima, secondo autorevolissimi contributi (rinvio anche a An Inconvenient Truth)14.
Oggi abbiamo la certezza che l’emergenza cibo è legata strutturalmente all’emergenza clima15.
Il rapporto, però, non assume totalmente questo punto di vista. Io viceversa propendo per una
lettura in linea con Stern e dirò delle cose sul rapporto e sulle misure a partire dalla
presupposizione seguente: non abbiamo più tempo e accentuerò il fenomeno dell’urban sprawl,
della sua diffusione e della cementificazione crescente dei terreni agricoli come elemento
chiave da misurare per fare davvero qualcosa per l’ambiente. Metterò pertanto in risalto
l’esigenza di una battaglia da combattere a favore della città compatta versus la città diffusa.
Abbiamo bisogno di misure buone, pulite e giuste. Allora dobbiamo capire che qualcosa che è
presente nel rapporto non fa parte del buono e del giusto: l’aspetto edonico. Ci vuole qualcosa
che funzioni per tutti e non solo per qualcuno. Nel rapporto vengono citati “ indicatori della
felicità”. A me il termine felicità fa venire in mente il francese lacaniano Bèance (hedonic) o i
maccheroni che scendono dalle montagne di parmigiano di Francois Rabelais. Ma soprattutto,
come vedremo tra poco, le misure hedonic sono strettamente legate, checché se ne dica, al
consumismo e ad una idea consumistica della vita.
La società di cui parla Pasolini16 è connotata da due piloni portanti: l’edonismo e la joie de
vivre; atteggiamenti, questi, che coinvolgono anche le classi subalterne. Scrive Pasolini:
“L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia
sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice,
nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve
obbedire, a patto di sentirsi diverso. I nuovi valori consumistici infatti prevedono il laicismo, la
tolleranza e soprattutto l’edonismo più sfrenato, tale da ridicolizzare il cosiddetto pacchetto dei
vecchi valori”.
13
N. Stern, Un piano per salvare il pianeta, Feltrinelli ,2009.
14
D. Guggenheim, An Inconvenient Truth, USA, 2006
15
Possiamo considerare il Global Hunger Index (www.ifpri.org). Leggendo l’indice del 2008 si scopre che il numero di
persone afflitte da fame dal 1961 ad oggi è calato, ma il numero di paesi coinvolti in problemi di fame, denutrizione e
malnutrizione è aumentato. In questo momento siamo davanti a 800.000.000 di persone coinvolte direttamente
dentro ai problemi della fame, senza includere in questa cifra quelle affette da problemi di denutrizione e
malnutrizione. Gli unici non coinvolti sono i giapponesi, i sud coreani, i taiwanesi, l’Europa occidentale, i paesi
scandinavi, gli australiani e il Nord America.
16
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, 1975.
22
Secondo Baudrillard17, in perfetta sintonia con le affermazioni pasoliniane, la nostra società è
caratterizzata dalla “rimozione universale delle proibizioni, dall’accesso a tutta l’informazione,
dall’obbligo a divertirsi. […]”. Ciò davanti a cui soccombiamo non è più l’oppressione,
l’espropriazione o l’alienazione, ma bensì la profusione, l’eccesso folle di beni e merci. Se a
caratterizzare le società che ci hanno preceduto erano state la penuria e la sudditanza, oggi
sono l´opulenza e il liberalismo a caratterizzare la nostra società, entrata in fase terminale e
destinata a terapie intensive.”
Se Marx aveva visto giusto riguardo al concetto di dialettica, possiamo dire che la nostra follia
consumistica e il persistere della fame sono strettamente correlati. E allora non abbiamo
nessuna felicità da misurare perché la felicità per qualcuno significa infelicità per qualcun‘altro.
Ci si inserisce nel quadro della trasformazione, per certi versi epocale, che ha fatto del
fenomeno che R. Ingersoll ha definito Sprawltown il punto più importante dell’assetto del
territorio oggi. Molti insistono, negli ultimi tempi, sul tema della città diffusa (o diramata), sul
periurbano, sulle edge cities e, via via, su tutte le configurazioni che il nuovo territorio va
assumendo: tutte, naturalmente, al di fuori della città tradizionale. Quest’ultima sembra
perdere appeal in misura crescente nel nostro paese e in realtà in molta parte dell’Europa e del
Nordamerica. Un dato per tutti: negli Stati Uniti il numero di residenti in città è risultato, al
censimento 1990, per la prima volta superiore al numero di residenti altrove, comunque
quell’altrove lo si voglia chiamare: questo è il segno di un mutamento per alcuni versi storico.
La trasformazione di cui parliamo, lo sprawl, è da ritenere un fenomeno di portata epocale,
così ad esempio lo considera Richard Ingersoll (il quale ricorda: «oggi più del 50% del mondo
abita in città e di questo ormai il 60% si trova in situazioni periurbane»), e ne stiamo
probabilmente vedendo solo i primi passi. Entro questo grandissimo contenitore dobbiamo
cercare di capire soprattutto perché soggetti e famiglie che vivono in alcune delle più belle città
del mondo le abbandonano, per andare a vivere in luoghi-non luoghi, per qualche sito
prossimo agli svincoli autostradali, ai centri commerciali, ai multiplex.
Seguendo il pensiero di J. Baudrillard, la trasformazione culturale degli ultimi decenni ci
impone un nuovo concetto di spazio che si avvicina sempre più a una dimensione frammentata
e immateriale, fatta di segni e immagini effimere, produttrice di profondo individualismo e di
spinte antisociali. Ciò che Jean Baudrillard chiama “la circolazione orbitale delle merci, dei
capitali e dei valori” porterebbe a concludere che le diversità spaziali stanno a poco a poco
perdendo valore.
Le città si stanno sprawlizzando. La forma urbana va sempre più verso lo sprawl, questo
costituisce non solo una prossima futura catastrofe, e forse una catastrofe molto vicina dal
punto di vista economico, ecologico e soprattutto sociologico. La prima ammonizione che mi
permetterei, dal mio piccolissimo punto di vista, di rivolgere ai policy makers e ai decision
17
J. Baudrillard, La trasparenza del male, SugarCo, Milano, 1991.
23
makers in generale, è la seguente: attenzione a contenere lo sprawl, quindi nella dialettica
città diffusa/città compatta (spesso sprawl e periurbano vengono definiti città diffusa, i termini
non sono proprio identici però) la scelta deve essere assolutamente a favore della città
compatta.
Non ho bisogno di insistere in modo particolare, ma soltanto il delirio che caratterizza i nostri
tempi può immaginare la vita di una persona anziana anche sufficientemente autosufficiente
nello sprawl. Sprawl significa, come ci spiega perfettamente Richard Ingersoll, dominio
incontrastato dell’automobile, significa dover andare a fare la spesa in automobile, significa
vivere completamente, dall’alba al tramonto, in automobile. Io credo che su questo non molto
si rifletta. Negli Stati Uniti alcuni Stati hanno introdotto una no-sprawl tax, ma qui non ci
stiamo ancora pensando. Ora il fenomeno dello sprawl, in particolare in molte città europee, e
penso alla mia, assume proporzioni ampie. Bologna ha perso ben oltre 300.000 residenti negli
ultimi 30 anni: questi sono quasi tutti andati nello sprawl, cioè nella cintura periurbana. E’
chiaro che non potrà mai esistere trasporto pubblico che possa rispondere alle necessità di
persone che vivono in spazi così sdraiati, così sparsi. E quindi credo che il primo punto di cui
dobbiamo prendere evidenza è costituito dalla tendenza della città di oggi di diventare città
sdraiata. Questa tendenza va contrastata finché siamo in tempo. Lo sprawl è popolato però da
persone che vogliono vivere come in città, perché qui è il paradosso più forte, persone che
hanno abbandonato la città, si sono spostate in altri territori, ma hanno la pretesa e il
convincimento di poter mantenere uno stile di vita urbano.
Si tratta di popolazioni che cercano l’omogeneità sociale, nella corsa verso il periurbano; Louis
Wirth, nel suo articolo famosissimo “Urbanism As A Way of Life”18, afferma che la città è il
melting pot, è il luogo delle differenze, il luogo della eterogeneità. Oggi invece siamo davanti a
fasce di popolazione che scappano dalla città nella speranza di trovare una certa qual
gentrification, di trovare delle popolazioni omologhe, di abbandonare il conflitto che è tipico
della città.
Inoltre è di qualche interesse considerare come si sta muovendo negli ultimi anni il mondo
dell’architettura: esso appare sempre più autoreferenziale: poche sono le voci che si stiano
battendo all’interno del mondo dell’architettura contro la tendenza allo sprawl.
Credo che sarebbe anche opportuno capire a cosa serva lo sprawl, a che cosa servono gli
outlet, a che cosa servono questi grandissimi centri commerciali, a che cosa servono gli
svincoli, a che cosa servono le città-fortezza, questi piccoli posti dove la gente vive carica di
paure, chiusa. Credo che il mondo dell’architettura stesso potrebbe provare forse da questo
punto di vista a uscire dalla propria autoreferenzialità, perché altrimenti è completamente
sconnesso dal sociale, dalle profondissime trasformazioni che il sociale sta avendo, e una
ulteriore possibile conseguenza potrebbe essere costituita dal fatto che ci si dimentica
completamente delle generazioni future e del senso da dare ad esse. In realtà con lo sprawl
18
Wirth L., “Urbanism as a Way of Life”, in American Journal of Sociology, 1938.
24
siamo davanti a una pasoliniana catastrofe antropologica, e questo è un allarme che va
lanciato con molta forza. Io sto pensando a persone anziane, o a persone come me che tra 1015 anni potrebbero ritrovarsi come delle monadi impazzite dentro a dei piccoli villaggetti con
laghetti, papere e piste ciclabili ma che però devono prendere la macchina per andare dal
medico o per andare a fare la spesa.
Nella città sdraiata19 vi è dunque un modello di sviluppo urbano che evidenzia bassa densità
insediativa, forte dipendenza da automobile e rapida urbanizzazione di territori.
Vediamo anzitutto il fenomeno dal punto di vista strutturale. Di seguito si riportano alcune
‘fotografie’ del processo di consumo che ha investito il suolo italiano tra gli anni Cinquanta e il
2005. Siamo davanti a evidenze che parlano da sole e non richiedono commenti.
I dati dell’Istituto Centrale di Statistica mostrano come, tra il 1950 e il 2005, la superficie
totale libera nel nostro paese è passata da 30.000.000 a 17.803.010 ettari, per un totale di
circa 12.196.000 ettari sottratti, pari al 40,65 % (l’intera Italia del Nord misura 11.991.000
ettari). Il consumo medio annuo risulta di 221.745 ettari. Tra il 1950 e il 1990 il consumo
medio annuo ha sfiorato i 213.350 ettari, che diventano 244.202 tra il 1990 e il 2005.
Allo scopo di quantificare l’occupazione del territorio da parte del processo di antropizzazione,
si definisce un indicatore ‘Suoli liberi consumati’, dato dal rapporto tra la somma delle aree
destinate ad usi residenziali, produttivi, commerciali, infrastrutturali, e l’area totale dell’unità
regionale; l’indicatore è espresso come percentuale. Questo indicatore, seppur abbastanza
generico, fornisce informazioni sulla quantità di suolo che viene sottratta alla sua vocazione
naturale, vale a dire quella agricola, dall'urbanizzazione attuata. Con “Suoli consumati” si
intendono quindi tutti quegli utilizzi a fini urbani (residenziali, produttivi, commerciali,
infrastrutturali) che ne determinano una riduzione di disponibilità quantitativa o qualitativa. I
dati sottostanti invece si riferiscono nella fattispecie al consumo di suolo nelle diverse regioni
italiane20.
19
R. Ingersoll, Sprawltown, Meltemi, Roma, 2004
20
Il più recente rapporto INU mette in discussione l’attendibilità dei dati riportati in tabella, sottolineando alcune
difformità nella rilevazione del consumo di suolo in alcune regioni
25
Tabella n. 1
SUOLI LIBERI CONSUMATI FRA 1990 E 2005
Regione
Percentuale
di
consumo
sulla
superficie regionale
Liguria
45,55 %
Calabria
26,13 %
Emilia Romagna
22,09 %
Sicilia
22,00 %
Sardegna
21,20 %
Lazio
18,93 %
Piemonte
18,39 %
Lombardia
18,23 %
Abruzzo
17,72 %
Molise
17,56 %
ITALIA
17,06 %
Puglia
16,41 %
Toscana
15,71 %
Campania
15,05 %
Friuli
Venezia
14,42 %
Giulia
Veneto
12,32 %
Marche
11,78 %
Umbria
10,20 %
Val d’Aosta
9,31 %
Basilicata
4,89 %
Prov.Bolzano
2,86 %
Prov.Trento
Dato non pervenuto
Fonte: Istituto Centrale di Statistica
Nel nostro paese le città, soprattutto a causa del fenomeno dello sprawl, sono cresciute a
dismisura, quasi sempre senza una organica pianificazione ecologica, e con uno sguardo che
non va oltre i confini amministrativi, provocando frammentazione e dispersione insediativa che,
oltre a consumare suolo, tende a provocare danni all’agricoltura, sprechi energetici, riduzione
della qualità del paesaggio e degli ambienti naturali, incremento della mobilità su gomma e, in
ultima istanza, perdita di vivibilità nelle città. L’immagine di un territorio quasi saturo,
26
sparpagliato, disordinato, una specie di città diffusa che ha più le sembianze di una metastasi
che non di una città.
I dati sull’uso del suolo, sulla copertura vegetale e sulla transizione tra le diverse categorie
d’uso figurano tra le informazioni più importanti per la formulazione delle strategie di gestione
sostenibile del patrimonio paesaggistico-ambientale.
Di seguito si riporta una tabella frutto di uno studio su 24 aree urbane sulle quali è stata
valutata l’entità del territorio consumato in termini percentuali sulla superficie totale. La stima
è stata realizzata sulle aree comunali, su quelle provinciali e su aree circolari omogenee.
L’individuazione di tali aree omogenee permette di rendere confrontabili, in quanto riferite ad
una stessa superficie territoriale, le valutazioni del fenomeno del soil sealing tra le diverse
realtà. Le aree buffer hanno come punto centrale il centro della città, identificato nella sede del
municipio, e raggio pari a 30 km. Tale estensione spaziale ha permesso di circoscrivere i
territori comunali delle città studiate e di analizzare circa la metà del totale dei territori
provinciali.
Per ciascuna area sono state calcolate le percentuali di copertura del suolo utilizzando la base
dati digitale CORINE Land Cover 200021.
21
Maricchiolo C. et al., La realizzazione in Italia del progetto europeo Corine Land Cover 2000. Rapporto APAT n. 61,
2005.
27
Tabella n.2
Consumo dei suoli nelle 24 aree urbane tra il 1990 e il 2000
con riferimento alla superficie provinciale
Fonte: CORINE Land Cover 2000 (www.clc2000.sinanet.apat.it)
L’espansione delle aree urbanizzate nel decennio di riferimento è mediamente del 5% nelle
maggiori aree urbane ma arriva a superare il 15% a Bologna, Parma e Cagliari mostrando, in
tutta la sua evidenza, il preoccupante fenomeno del consumo di suolo e dello urban sprawl.
Uno degli aspetti più forsennati dello urban sprawl sta nella sottrazione di terreni agricoli; le
dinamiche del consumo di suolo rappresentano l’inveramento sostanziale del secondo principio
della termodinamica: l’universale degradazione dell’energia, in una trama in cui il killer è
l’automobile.
Chi costruisce nello sprawl cerca di attirare i propri potenziali clienti con slogan di tipo
ambientalistico, senza considerare che per raggiungere il punto dello sprawl in cui andranno ad
abitare le persone saranno costrette ad utilizzare l’automobile, così come per fare la spesa, per
portare i figli a scuola e via dicendo. E sapere che gli incidenti automobilistici nello sprawl sono
il triplo rispetto a quelli in città, anche questi sono dati su cui si dovrebbe riflettere.
Non è possibile raggiungere i punti dello sprawl con nessun trasporto pubblico, è impossibile
oggi e lo sarà domani. Se pensiamo alla trasformazione della vita delle persone che lì vivono,
28
ci dobbiamo ricordare da cosa è accompagnato lo sprawl: individualizzazione crescente della
vita, perdita sostanziale di socialità e soprattutto stupro del territorio. Chi ne è stato sedotto
appartiene a gruppi sociali fuggiti dalla periferia della città perché il consumismo dilagante è
riuscito a convincerli che abitare in periferia significasse venire stigmatizzati come proletari.
Le periferie italiane sono andate progressivamente deteriorandosi e soprattutto sono sempre
meno presentabili per una popolazione, composta un tempo da appartenenti dichiarati ai ceti
subalterni, che non ha più voglia di dimostrare tale appartenenza e che è venuta (o che si
sente appartenente alla borghesia) borghesizzandosi. Ciò ha decretato la fine, peraltro
ingloriosa, di appartenenza fiera al proletariato, di ogni autenticità e concretezza a favore di un
modello di suburban way of life di matrice anglosassone ove i casermoni di periferia, anche
laddove ben costruiti e vivibili, diventavano un marchio di Caino dai quali fuggire al più presto
possibile e, potremmo dire, quasi a qualsiasi costo.
Si tratta della fine dell’idillio tra un gruppo sociale che la periferia l’aveva amata e la periferia
stessa: non già perché essa era diventata invivibile (era forse migliore di quella di prima) bensì
perché il marchio delle periferie era diventato intollerabile stigma di appartenenza a un
proletariato “puzzolente”, rispetto ai sapori da deodorante proposti dalla pubblicità televisiva.
L’esodo dalle periferie delle città italiane in generale, e da quelle orgogliose e cariche di storia
di Bologna in particolare, si spiega a partire dal tramonto dell’appartenenza sociale,
economica, politica, ideologica e antropologica, e quindi spaziale, dei gruppi sociali subalterni a
se stessi.
L’appeal della città tradizionale, come abbiamo visto, è scarso. Dobbiamo cercare di capire
perché milioni di persone hanno abbandonato, negli ultimi trenta anni, i centri storici delle città
italiane per andare a vivere in non luoghi (belli o brutti non importa), siano essi CID veri e
propri o qualcosa di non troppo lontano da svincoli autostradali, highways e freeways.
Il paradosso è che tanto non sono più adatti alla vita nei quartieri bolognesi che, pur essendosi
insediati nello sprawl, continuano a lavorare a Bologna dando linfa nuova al fenomeno del
pendolarismo: un pendolarismo sui generis perché, cosa che si scopre studiando da vicino gli
ex-bolognesi
oggi
residenti
nel
periurbano,
utilizza,
o
finisce
con
l’utilizzare,
quasi
esclusivamente l’autovettura privata.
Esiste, almeno nel nostro paese, una cultura che possiede già in sé misure buone, pulite e
giuste, un forte senso della giustizia e della redistribuzione dei beni e che è in grado di
sopportare, se non la decrescita, una restrizione anche forte degli stili di vita e di consumo pur
di lasciare qualcosa alle generazioni future e di ridistribuire i beni in modo più equo tra le
diverse popolazioni. Si tratta di quella cultura, patrimonio del proletariato, di antica matrice
contadina e successivamente sviluppatasi nelle città tra operai e piccolo artigianato. Una
cultura che non cede all’individualismo e che ha sempre fatto della sobrietà negli stili di vita e
29
di consumo un costume, così come della capacità di farcela con poco e, al bisogno, con ancora
meno.
Il mondo della cultura dell'essenzialità è minoritario, perdente, subalterno, corre anch'esso il
rischio dell'omologazione, ma esiste. Noi, nelle nostre ricerche, l'abbiamo trovato, anche se
forte è il rischio del suo tramonto. Entro tale cultura, si incontra uno stupore misto a paura
perché oggi un minimo di sicurezza è raggiunto: non sembra quasi vero, tanto si è stati
abituati a convivere con la precarietà, avere raggiunto qualche sicurezza, se non proprio il
benessere. La paura di perdere tutto, di tornare come prima è grande. Questa gente si aspetta
poco, aspira a poco, spende poco, consuma poco. Si aspetta poco dai consumi in generale, dai
viaggi, dalle ostentazioni. L'importante è che le cose che contano, casa, lavoro, cibo, salute, ci
siano. Non importa una bella casa, un lavoro gratificante. Importa che ci sia, che non manchi e
possibilmente che sia garantito ciò che conta, l'essenziale appunto. Ecco cos'è la cultura
dell'essenzialità. Stando al nostro paese, è questa la vera cultura comunitaria: la cultura della
comunità, del vicinato, del mutuo appoggio, la cultura che è stata in grado di immaginare il
mondo della cooperazione, a partire dalle cooperative di consumo. E’ a questi valori che, dopo
avere letto il rapporto Stiglitz Sen Fitoussi si deve tornare per trovare quale linea seguire: è
una linea interna, irrelativa, non in paragone con altre culture e tantomeno in confronto.
La cultura dell'essenzialità, in origine, è patrimonio delle gramsciane classi subalterne. Quello
di cui qui parliamo, dunque, riguarda una semantica non colta, la semantica delle classi
subalterne del nostro paese quanto ad alcuni ambiti fenomenologici: quelli, se così
impropriamente posso chiamarli, meno appariscenti ma più sostanziali. Ora ciò che ci
interessa, di questa cultura, lo possiamo desumere, ricostruire, immaginare, ma non rileggere:
proprio perché non si tratta di semantica colta o coltivata non la troveremo scritta: la si coglie
qua e là, nella memoria dei gruppi sociali subalterni e nella memoria della lotta di classe,
soprattutto ricostruendo la tradizione orale.
La cultura dell'essenzialità, soprattutto, la si coglie dalle pieghe e dagli interstizi delle realtà
territoriali fino ad assumere dignità autonoma: basta volerla cercare per trovarla.
Tale cultura, e la spiritualità in essa presente, può costituire una bussola per l'agire.
E’ ispirandosi ad una cultura dell’essenzialità, oltre che al buon senso che conclusivamente si
può azzardare una prima ipotesi di azione se non sufficiente, almeno necessaria per proteggere
il clima, rispettare l’ambiente e, perché no, ritrovare qualche forma di socialità. In primo luogo
esprimersi a favore della città compatta, e quindi fermare, finché si è in tempo, lo sprawl. In
secondo luogo, smettere di costruire, soprattutto nello sprawl ma in realtà in generale.
Quasi un quarto del PIL italiano, molti sostengono, ha a che fare con il cemento e derivati, cioè
prevalentemente con le nuove costruzioni. Nessuno vuole affossare l’economia, mandare a
spasso un sacco di gente che non saprebbe come riciclarsi e tantomeno togliere ai Comuni gli
oneri di urbanizzazione, una delle poche risorse rimaste. Si tratterebbe, ma spero possa essere
30
materia di discussione, di ristrutturare, ricostruire, riciclare, l’ingente patrimonio edilizio del
nostro paese, probabilmente trovando, entro questa cornice, un business buono, pulito, giusto
e rispettoso delle generazioni future.
E’ arrivato il momento di fermarsi, di uscire dalla cultura del surplus e di ritrovare orientamenti
valoriali autenticamente sostenibili.22
22
Una bibliografia suggerita dal relatore si può trovare in coda al presente documento.
31
Roberto Artoni
23
Dalla lettura del rapporto Stiglitz ho tratto tre insegnamenti, che adesso cercherò di esporre,
oltre ad un’indicazione di lavoro per il futuro.
Il primo insegnamento, al di là di quello che ci ha esposto in maniera del tutto brillante il
Presidente Giovannini, è che è importante imparare a leggere la realtà e a valutare
criticamente il dato numerico. In molti Dipartimenti di Matematica si considera lesivo alla
dignità del docente l’insegnamento della contabilità nazionale. Da questo deriva anche un
atteggiamento feticistico nei confronti del numero: qualunque numero, non capendone
l’origine, viene accettato e viene elaborato. Questo è un punto molto significativo e molto
importante, che tendo a ribadire.
Il secondo elemento di questo primo insegnamento riguarda l’importanza di costruire indici che
siano articolati, che siano rispettosi della realtà che si vuole descrivere. Ritengo che
l’atteggiamento, se ho ben capito, negativo nei confronti degli indicatori compositi, sia su
questa linea. Abbiamo bisogno di indicatori seri, che non sommino elementi diversi e di fatto
non comparabili. Apprezzo molto questa indicazione.
Il secondo insegnamento fondamentale, che è più sostanziale, riguarda la connessione che
bisogna sempre tenere presente fra l’elemento economico e l’elemento sociale e individuale.
Dato il continuo riferimento alla crisi economica in corso, voglio ricordare, come mi capita
spesso di fare ultimamente, il testo di un politologo americano, dal titolo “The great risk
shift”24: il grande spostamento del rischio, da livello collettivo a livello individuale. Questo
sottolinea l’importanza di tutti i meccanismi di sostegno della domanda, connessi alla
distribuzione, che abbiamo ritenuto elementi di incertezza individuale in tutti gli aspetti della
vita collettiva. È un insegnamento importante: io ho trovato certi spunti su questa linea di
nuovo nel rapporto, che però evidenza l’inadeguatezza di un riferimento puramente economico
a queste tematiche. In sostanza, uno scienziato sociale deve essere in grado di utilizzare
strumenti che non provengono direttamente dalla sua disciplina.
Terzo insegnamento, che ritengo assolutamente centrale, fa riferimento alle comparazioni
internazionali. Negli scorsi anni vi erano notevoli difficoltà di comparabilità in questo campo.
Per ragioni di lavoro, ho diverse volte tentato di trovare il modo di paragonare la spesa sociale,
che a livello internazionale pone dei problemi di comparazione
notevolissimi. C’è stato un
lavoro meritorio da parte dell’OECD in questo campo: hanno tentato di leggere la spesa sociale
in termini di componente fiscale implicita, ed è stata una analisi molto utile, molto importante,
23
Docente di Scienza delle Finanze presso l’Università Bocconi di Milano.
24
Hacker J., “The Great Risk Shift: The Assault on American Jobs, Families, Health Care, and Retirement--And How
You Can Fight Back”, Oxford University Press, 2006
32
che ha permesso di leggere e di paragonare certe strutture di stato sociale europee con quelle
americane. C’è, in sostanza, la fondamentale questione dell’individuazione di una valida base
di comparazione, sulla quale possano essere proposte delle linee economiche appropriate.
Certamente, il giungere a tipizzare il ruolo del prodotto interno lordo come indicatore
totalizzante della produzione del paese, è derivato anche dal fatto che la teoria economica
negli ultimi 20 anni ha assunto dei temi particolari. La disattenzione ai problemi distributivi è la
conseguenza di una ripartizione in sostanza armonica dei processi distributivi che avvengono
nella società. Se andiamo a vedere la sostanza dei contributi più interessanti della filosofia
economica americana (che a mio parere è uno degli aspetti più importanti degli ultimi 20-30
anni) troviamo elementi per costruire delle funzioni di benessere sociale che ci permettono di
valutare le politiche distributive, non nel senso di togliere al ricco per dare al povero, ma nel
senso più sofisticato: problemi posizionali e qualità dei servizi pubblici. In sostanza tutta una
serie di elementi che sono coerenti con gli insegnamenti di fondo del Rapporto Stiglitz, ma che
sono stati trascurati.
Il presidente Giovannini ha fatto un breve accenno al problema dell’insicurezza: nuovamente si
pone la problematica di valutazione dei rischi sociali, di capacità dei meccanismi assicurativi di
fronteggiarli, di presa in considerazione di indicatori di benessere, sfuggita invece alla teoria
economica . Il rapporto Stiglitz è molto attento alle indicazioni di costruzioni dei conti satellite,
che per me è un modo corretto per affrontare questi problemi. Un conto satellite importante
riguarda in sostanza la valutazione degli asset. Praticamente, tutta l’attenzione data al flusso
produttivo ha fatto dimenticare quella che in genere è stata la causa fondamentale di tutte le
grandi crisi, l’inflazione degli asset, l’inflazione dei valori immobiliari. Un’attenzione a queste
tematiche, un’attenzione a certi rapporti che nel lungo periodo possono essere lesi, è un
elemento fondamentale di una corretta lettura della realtà sociale e anche di corrette politiche
economiche, attente anche alle esigenze delle generazioni future.
33
Pierluigi Sacco
25
Prima di cominciare la mia riflessione, vorrei fare una piccola considerazione su questa sala,
non solo per la sua bellezza, ma per la significativa presenza che la riempie. È piuttosto
interessante che a un dibattito su un tema come questo arrivi tanta gente, e mi sembra
interessante perché dimostra in maniera chiara come, anche nel nostro paese, non soltanto in
Francia, ci sia in questo momento un grandissimo interesse per temi di questo genere. Allora,
bisogna chiedersi come mai certi tipi di riflessione si riescono ad avviare in Paesi come la
Francia e non si riescono ad attivare in Paesi come il nostro, se non in queste importantissime
iniziative, che però restano un po’ a margine. In realtà, la risposta a questa domanda, almeno
quella che secondo me è la risposta a questa domanda, la darò alla fine. Vorrei, invece,
cominciare a rispondere al tema che secondo me è importantissimo. Io, personalmente, ho un
certo interesse, una certa curiosità anche per la storia del pensiero economico. L’ho insegnata
per tanti anni in Bocconi e devo dire che è stata un’esperienza importante, formativa, perché
noi economisti tendiamo sempre a fare come se la storia del pensiero economico non
esistesse. Invece, la storia del pensiero economico è molto importante, e una delle cose che
dimostra con maggiore chiarezza è che nel corso delle epoche gli economisti tendono ad
oscillare su due pareri abbastanza antitetici. In determinati momenti si comportano come se
nell’economia non ci fosse più niente da capire, come se avessimo capito tutto, e dovessimo
chiarire solo dei dettagli. E poi ci sono invece dei momenti nei quali si verificano delle rotture di
paradigma piuttosto drammatiche, addirittura spettacolari. È interessante notare come, negli
anni in cui viviamo, ci stiamo muovendo dalla prima alla seconda posizione del pendolo. Un
lavoro come quello della Commissione Stiglitz sta anche a dire questo, ovvero che
effettivamente su tutta una serie di cose che abbiamo dato per scontate, oggi vale la pena di
fare una riflessione in più. Il punto è che questa riflessione, secondo me, è soltanto cominciata.
La messa in discussione, che di fatto viene portata avanti in maniera molto chiara, molto
sistematica da questo rapporto, in realtà secondo me deve avere, e probabilmente avrà nel
prossimo futuro, delle indicazioni più profonde.
Cercherò di sintetizzarle brevemente. Quando noi, oggi, diciamo che abbiamo bisogno di
ripensare il concetto di benessere, di rapportarlo alle necessità della politica, alle scelte
economiche,
25
ma
anche
alle
nostre
scelte
quotidiane,
in
un
certo
senso
stiamo
Docente di Politica Economica presso l’Università IUAV di Venezia.
34
problematizzando in maniera molto forte il concetto stesso di benessere. Lo stiamo facendo
perché c’è un motivo molto preciso per farlo. Il motivo per cui l’economia ha insistito per tanto
tempo sulla coincidenza tra benessere e indicatori del livello di attività economica, quindi della
capacità produttiva del sistema economico, ha una sua ragione molto precisa. Tutto lo sviluppo
di quello che potremmo chiamare il ciclo della rivoluzione industriale, infatti, in fondo è una
straordinaria avventura nella quale l’umanità ha capito come organizzare la sua attività
economica, per far sì che la stragrande maggioranza delle persone, almeno in quel pezzo di
mondo che possiamo definire economicamente compiuto dal punto di vista della rivoluzione
industriale, fosse in grado di disporre di quella spesa di cui aveva bisogno per accedere a tutta
una serie di risorse necessarie e fondamentali a risolvere un’altra serie di esigenze. In pratica,
la storia della rivoluzione industriale è la storia di un passaggio da un periodo, nel quale il
problema della sopravvivenza era un problema risolto da pochi a un problema risolto da tanti,
o in alcune situazioni addirittura da tutti. In un certo senso, il compimento della rivoluzione
industriale vuol dire questo. Capite bene, però, che per un lunghissimo pezzo della storia
economica dell’umanità, e sicuramente per quel pezzo nel quale sono maturate molte delle
categorie economiche che gli economisti hanno poi imparato ad utilizzare, “benessere
economico” significava essenzialmente mettere le persone in condizione di poter spendere il
necessario per avere accesso a certe risorse che ti permettono di vivere dignitosamente.
Questo modo di ragionare peraltro presuppone che le persone, nel momento in cui sono in
grado di spendere in questo tipo di contesto, sappiano più o meno bene come spendere i loro
soldi. Date a una persona che non ha abbastanza soldi per mangiare la possibilità di
aumentare la spesa per il cibo. E’ ovvio e comprensibile psicologicamente che non sceglierà
immediatamente cibi sani, sceglierà cibi che gli possano risolvere quell’ansia da scarsità
calorica, che è tipica di chi normalmente è denutrito. Che cosa succede in una società nella
quale questo problema si può dare per risolto? Per capire come questo sia risolto, facciamo
questo piccolo esperimento mentale. Chi di voi alzandosi stamattina si è posto il problema di
sapere se oggi sarebbe o meno morto di fame? Io credo nessuno. Forse vi farà piacere sapere
che, se risalite indietro di 4 generazioni nelle campagne della pur florida Bologna, molta gente
quando si alzava la mattina aveva esattamente quella preoccupazione. Quindi, non stiamo
parlando di un fenomeno che si è verificato nell’Alto Medio Evo, stiamo parlando di un
fenomeno che si è verificato ieri dal punto di vista del tempo storico. Capite, quindi, che
straordinario cambiamento nel concetto di benessere si è verificato nel momento in cui noi
abbiamo potuto per la prima volta nella storia dell’umanità, come soggetto collettivo, far finta
che il problema della sopravvivenza, e quindi la scarsità dal punto di vista delle risorse
materiali, non ci fosse più. Con che cosa l’abbiamo sostituito? Questo è l’aspetto interessante,
35
e se vogliamo il vero nodo problematico che secondo me si presenterà alla teoria economica, e
non soltanto a quella, nei prossimi anni. L’abbiamo sostituito con quello che noi potremmo
chiamare una nuova forma di scarsità che indicherei sinteticamente con scarsità identitaria. Mi
spiego. In una società, chiamiamola così, della sopravvivenza, cioè in una società nella quale le
persone hanno bisogno di potere d’acquisto perché devono rispondere a dei precisi bisogni, che
sanno come soddisfare nella misura in cui avranno il potere d’acquisto per farlo, tutta
l’attenzione si concentra sulla scarsità e sulla mancanza di approvvigionamento delle risorse.
Ben poca attenzione si concentra sul problema di chi sono le persone, per il semplice e
banalissimo motivo che le persone lo sanno già. In una società di questo tipo, i ruoli sociali
sono fondamentalmente bloccati, o quasi, e qui ci potrebbe essere un’ampissima aneddotica
per spiegare questo, ma mi astengo vista la mancanza di tempo. Io credo, però, che chiunque
si renda conto di come in una società, risalendo ancora una volta di poche generazioni, che è
dominata da quel tipo di preoccupazioni, se sei figlio di un medico o di un avvocato sai che
cosa andrai a fare, che tipo di persona mediamente sposerai, che cosa mangerai la mattina e
la sera, eccetera. Se sei figlio di un fornaio sai le stesse cose, solo che sono cose diverse.
All’interno di questo tipo di situazione, cioè man mano che noi ci avviciniamo al momento della
soluzione di questo, che potremmo definire il problema della scarsità in senso tradizionale, cioè
nel momento in cui passiamo a una società in cui la sopravvivenza non è più un problema,
succede una cosa curiosa: tutti quei vincoli preesistenti alla vita delle persone cominciano a
sciogliersi letteralmente come neve al sole. Nel giro di una generazione, noi ci troviamo
improvvisamente di fronte a un problema mai visto prima: dobbiamo costruirci un’identità, per
il semplice e banalissimo motivo che tutti i vincoli preesistenti valgono sempre meno, e alla
fine, in un certo senso, non valgono più. Il punto è che costruirsi un’identità è un problema
perché non l’abbiamo mai fatto prima, mentre rispondere al problema della sopravvivenza può
essere arduo, ma è facile concettualmente perché l’umanità ha imparato a risolvere questa
preoccupazione in migliaia di generazioni. Quindi, ci troviamo di fronte a una situazione nuova,
che siamo del tutto impreparati ad affrontare. Voi sapete che una delle curve che hanno fissato
gli economisti negli ultimi anni per misurare la felicità è appunto la famosa curva di Easterling.
Essa dimostra che, a livello aggregato, la relazione tra il reddito pro capite di un paese e il
livello medio di felicità, misurato secondo indicatori molto semplici e largamente utilizzati, in
realtà, al di là di una soglia di reddito pro capite relativamente bassa, che si situa più o meno
tra i 10 e i 12000 dollari pro capite annui, improvvisamente la relazione dapprima molto forte
tra reddito pro capite e felicità praticamente cessa di esistere, si appiattisce e la curva fa sì che
non ci siano relazioni significative oltre questa soglia tra quanto è ricco il paese in cui si vive e
qual è il livello di felicità espresso dalle persone che vivono in questo Paese. Questo non vuol
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dire, ovviamente, che i soldi non fanno la felicità, o che la capacità di spese non sia
importante, ma che non esiste più un modo naturale, semplice, di tradurre la capacità di spesa
in relazione di felicità, se vogliamo usare questo termine. Il problema nasce proprio dal fatto
che noi siamo del tutto impreparati ad affrontare questo nuovo tema che potremmo definire
l’ingegneria dell’identità, e faccio un esempio molto semplice per spiegarlo. Oggi più o meno
chiunque di noi ha la possibilità, magari risparmiando un po’, di comprarsi un capo d’alta
moda. Quello di cui non abbiamo la possibilità, è di essere necessariamente una taglia 42. Il
punto fondamentale non è più il poter o meno comprare un abito, il punto fondamentale è
avere accesso a delle caratteristiche identitarie che per definizione sono scarse. È un tema che
studio da molto, anche perché nella mia Università ho dei corsi in cui insegno economia della
moda, una delle prime cose che un economista si chiede è perché, visto che la maggior parte
della popolazione ha una taglia diversa, si propongono dei modelli che per la maggior parte
delle persone sono irraggiungibili? Se ci pensate, il motivo è banalissimo: perché, nel momento
in cui pongo avanti delle caratteristiche identitarie che per definizione sono scarse, costringo le
persone a mettere in atto delle modalità di spesa compensativa per far sì che a quelle
caratteristiche che non possiedo corrispondano almeno degli attributi che posso possedere. In
altre parole, quello che sta succedendo è che, di fronte alla situazione complessa nella quale le
persone sono assolutamente confuse, perché non sanno come mettere insieme tutta una serie
di caratteristiche per creare un’identità nella quale si riconoscano e gli altri li possano
riconoscere, si mettono in atto strategie più o meno lucide di costruzione di modelli di consumo
che hanno essenzialmente una funzione compensativa. Per farla molto semplice: in
un’economia nella quale, superata la logica della scarsità tradizionale, bisogna dare alle
persone nuovi motivi per spendere, il miglior motivo che gli si può dare è fargli trovare dei
modelli
identitari
fondamentalmente
irraggiungibili,
che
richiedono
forme
di
spesa
compensativa. Questo è un ottimo modo di far camminare il PIL, ma è un buon modo di far
camminare il benessere percepito o la felicità? La risposta è molto probabilmente no. Ma
vedete, per cominciare ad affrontare questo problema appropriatamente, noi abbiamo bisogno
di altre categorie, cioè categorie che il pensiero tradizionale non possiede, per il semplice
motivo che fino ad ora si è occupato di altri tipi di problemi. Il punto è cominciare ad occuparsi,
da adesso, di problemi che sono veramente centrali nella percezione di benessere delle
persone quando gli si fanno le domande giuste. Da questo punto di vista allora, noi dobbiamo
capire che, se il vero problema diventa l’ingegneria dell’identità, una categoria che fa davvero
fatica ad entrare nell’analisi economica, ma che dobbiamo fare entrare, è quella che potremmo
chiamare economia del senso. Le persone oggi hanno bisogno di fare scelte sensate, cioè
hanno bisogno di fare scelte alle quali attribuiscono una logica nella quale riconoscersi.
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Guardate che è paradossale da questo punto di vista. A me è capitato, per esempio, di fare un
lavoro interessante con dei ragazzi delle scuole medie superiori riguardo alle loro scelte
alimentari. Questi ragazzi se interrogati in certi momenti dicevano: “io fondamentalmente
faccio le scelte che voglio, non sono influenzabile, mangio quello che mi piace”, eccetera. Le
stesse persone, interrogate in un altro modo, a distanza di pochi minuti, ti dicevano: “Siamo
vittime di modelli spersonalizzanti che ci impediscono di fare le scelte che vogliamo e ci
costringono
a
fare
quello
che
non
vorremmo”.
Ora,
o
queste
persone
sono
tutte
patologicamente schizofreniche, o queste persone hanno semplicemente bisogno di integrare
due
spinte
assolutamente
contraddittorie,
e
queste
spinte
da
un
lato
portano
alla
rivendicazione, alla necessità di un senso nelle proprie scelte, che nasce da una conoscenza di
se stessi, ma dall’altra parte portano al riconoscimento di una fortissima coercizione esterna
nei confronti delle loro scelte, che però costituiscono esse stesse modelli di senso; è più facile
adeguarsi ad esse che fare un proprio percorso. Il rischio di fare il proprio percorso può essere
anche molto soddisfacente, ma se gli altri non ti riconoscono può essere molto penalizzante, e
dovete capire che, quando un povero è povero nella società tradizionale, può sempre pensare
che almeno Dio gli vuole bene, perché il povero non ha le risorse, ma poi avrà il Paradiso.
Quando il povero è povero nella società dell’identità, è la persona più sola e disperata che si
possa immaginare, perché il suo problema non è quello che non ha, è quello che non è, e
quello che non è, è qualcosa a cui non si può sfuggire. All’interno di questo tipo di situazione,
noi dobbiamo anche cominciare a immaginare un nuovo modo di scelta delle persone. C’è un
esperimento, condotto recentemente da un geniale economista americano che si chiama Daniel
Reilly, che ha sottoposto un campione sperimentale a questo doppio trattamento. Nel primo
trattamento ha somministrato, in una situazione di risonanza magnetica funzionale, quindi
andando a vedere qual era l’attivazione delle aree cerebrali che rispondevano a questa
esperienza, due assaggi di bevanda gassata, che erano la Coca Cola e la Pepsi, solo che nella
prima parte dell’esperimento non veniva detto di che cosa si trattasse, quindi bevanda 1 e
bevanda 2, e venivano poi registrate le risposte di attivazione cerebrale e le preferenze. Nel
secondo trattamento, ai soggetti venivano di nuovo sottoposte le bevande, ma questa volta
dicendo di che cosa si trattava. Ci sono stati due fondamentali cambiamenti tra il primo e il
secondo trattamento. Il primo è sorprendente ma fino ad un certo punto. Si è verificata una
cosiddetta inversione delle preferenze: molte delle persone che sostenevano di preferire la
Pepsi quando non sapevano che cos’era, preferivano invece la Coca quando sapevano che
cos’era, e qui si potrebbe aprire tutto un ragionamento piuttosto interessante su come le
nostre esperienze di consumo siano marcate nominalmente, ma non voglio approfondire
questo aspetto. L’aspetto su cui voglio farvi riflettere è, invece, che cosa accadeva ai pattern di
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attivazione
cerebrale.
Le
aree
di
attivazione
cambiavano
completamente,
senza
sovrapposizione, il che vuol dire che essenzialmente, dal nostro punto di vista, bere una
bevanda perché è una bevanda e bere una bevanda sapendo che cosa stai bevendo, sono due
esperienze diverse come camminare e respirare. Stiamo dicendo che, nel momento in cui le
attività si caricano di senso, questo senso le trasforma in maniera completa, e quindi richiede
una nostra capacità di concettualizzare queste scelte e i significati che hanno per noi. Mi rendo
conto che fare questo tipo di ragionamenti ci costringe a uno sforzo molto grosso; lo so perché
mi accade quotidianamente che quando parlo di queste cose con la maggior parte dei miei
colleghi economisti, mi rispondono che questa non è economia. Questi, però, sono i problemi a
cui oggi le persone sono interessate, queste sono le tematiche alle quali oggi dobbiamo dare
una risposta se vogliamo essere credibili nel porci come esperti del comportamento umano. Il
fatto che questo potesse essere probabilmente poco concepibile per chi ha scritto il manuale di
economia su cui hai studiato, francamente non mi interessa e non mi sembra particolarmente
rilevante. È verissimo che, all’interno di questa situazione, ci troviamo di fronte alla necessità
di un profondo riconoscimento di umiltà. Oggi, se vogliamo veramente cominciare a riprodurre
una teoria economica che abbia senso e che ci aiuti finalmente a capire che cosa succede alla
gente nella sua vita quotidiana, che in fondo era l’ambizione di Marshall e di Keynes quando
hanno scritto le loro opere fondamentali, dobbiamo effettivamente capire che, dal punto di
vista della teoria, non dico che dobbiamo ricominciare, ma dobbiamo veramente fare dei
grossissimi spostamenti di prospettiva, non tanto perché quella di prima non andasse bene,
ma perché nel frattempo il mondo è cambiato, e le persone che abbiamo davanti hanno
problemi diversi.
C’è un altro aspetto: anche nel ragionamento sui dati, secondo me, possiamo e dobbiamo fare
forse uno spostamento di prospettiva. Io sono assolutamente d’accordo quando si dice che
ragionare su degli indici compositi non sia particolarmente utile. Io, però, ho provato a fare con
alcuni colleghi un esercizio che, devo dire, mi ha dato una certa soddisfazione. Abbiamo preso
5 di questi indici compositi, alcuni più alcuni meno, che sono l’indice di competitività del World
Economic Forum, l’indice di sviluppo umano dell’UNPD,
l’indice di libertà economica
dell’Heritage Foundation, l’indice di libertà di stampa del Reporters Sans Frontières e l’indice di
trasparenza di Transparency International. Ciascuno di questi indici, se andate a vedere la
letteratura, ha un sacco di problemi, trovate un sacco di gente che dice che sono più o meno
come la lettura dei fondi del caffè, però è un fatto che sono utilizzati dalla maggior parte dei
policy makers, quindi quelli ci sono e quelli utilizziamo. Invece di andare a costruire un indice
composito di questi indici già compositi, abbiamo fatto un’altra cosa. Noi lavoriamo da anni,
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devo dire, su indici di architettura dei dati che sono le reti neurali artificiali. In particolare, c’è
una classe di queste reti, che sono le reti auto organizzate, che hanno una capacità molto
interessante di clusterizzazione endogena delle informazioni contenute anche in questi indici
compositi. Abbiamo chiesto ad un sistema appositamente costruito per l’occasione di
evidenziare come ciascuno dei Paesi, per cui tutti e 5 gli indici fossero disponibili, si
posizionava nei loro confronti. Emergevano delle cose interessanti. Primo, che questi Paesi si
clusterizzano rispetto a questi 5 indici in maniera piuttosto interessante. Prima di tutto, questi
5 indici insieme, se ci pensate, parlano di libertà economica, circolazione dell’informazione,
trasparenza. Sembra una rozza ma significativa approssimazione di una società aperta, cioè
sembrerebbe un indice rivolto a una società aperta. Emergeva prima di tutto, e questo è un
dato interessante, che i Paesi si clusterizzavano piuttosto bene rispetto a questi indici, e per
l’Italia l’aspetto di cui vale la pena parlare era che, insieme alla Grecia, era l’unico paese
dell’Europa Occidentale che in questo tipo di classificazione oggi si va a clusterizzare con i
Paesi dell’Est Europeo, con il Brasile, con una serie di economie emergenti e non con il gruppo
di punta, che comprende l’est europeo, il Nord America, il Cile, l’Australia e la Nuova Zelanda,
la Corea e il Giappone. Già questo è un primo aspetto interessante su cui si potrebbe riflettere.
Ma l’altro aspetto, su cui si potrebbe riflettere, è che, utilizzando questa clusterizzazione e
interrogando in un certo senso il sistema sulle similitudini che esistono tra i vari Paesi nel
posizionarsi su quest’indice, diventa possibile ricostruire con un livello di dettaglio abbastanza
stupefacente la logica delle relazioni politiche tra questi Paesi. Eppure, nessuno di questi indici
ha nulla a che fare anche solo con l’ordinamento politico di questi Paesi. Con questo voglio dire
che forse il vero problema non è costruire degli indicatori compositi più o meno esemplari, ma
costruire quelli che potremmo chiamare dei meta indicatori, cioè la possibilità di leggere in
maniera sofisticata, utilizzando qualcosa di abbastanza simile ma più usabile di certe forme di
economia non parametrica, per capire come noi oggi possiamo aggregare in maniera
estremamente complessa informazioni estremamente diversificate, che però ci dicono tutte
delle cose a loro modo estremamente coerenti. Notate che gli indicatori di cui vi parlavo sono,
a modo loro, fallati, e ciononostante, con questi 5 indicatori, un marziano che scendesse sulla
Terra e volesse sapere come sono fatte le relazioni internazionali tra Paesi dal punto di vista
politico, potrebbe fare, ad esempio, delle considerazioni estremamente sofisticate sul ruolo
della Cina e dell’India nell’attuale equilibrio internazionale. Un fatto del genere si spiega perché
evidentemente i dati, anche quelli difficili da aggregare in maniera unilaterale, straightforward,
possiedono in realtà molte più informazioni di quanto pensiamo se li sappiamo immaginare in
modo diverso, cioè se sappiamo immaginare delle strategie di interrogazione dei dati diverse
da quelle che abbiamo utilizzato finora. È una linea di ricerca che è appena cominciata. Tanto
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per farvi un esempio abbiamo sottoposto questo articolo a una rivista internazionale, ci
abbiamo messo un sacco di tempo perché la rivista non riusciva a trovare dei referee, cioè non
riusciva a trovare qualcuno che fosse contemporaneamente competente su tutti gli ambiti che
servono per spiegare se questi dati avessero senso oppure no. Questo è un modo molto chiaro
di capire quanto oggi certi modi diversi di interrogare il nostro sistema tendono a metterlo
abbastanza in crisi. Ora, e con questo concludo, perché allora momenti come questi sono
davvero importanti? Perché diventano, per chi fa lo studioso in epoche come queste, dei
momenti straordinariamente generativi di nuove possibilità, di nuove idee. Ora, questo non ha
a che fare soltanto con l’evoluzione interna del nostro modo di ragionare sulla società come
studiosi, ha a che fare anche con delle scelte precise dal punto di vista politico, intendendo con
“politico” soprattutto il ragionamento sulla collettività. Vi faccio un esempio. Che cosa vuol dire
oggi chiedersi che cosa significa veramente un’economia dell’identità e che cosa vuol dire il
fatto che esistano delle forme endogene di induzione alla spesa delle persone, che non hanno
più un legame diretto con il benessere, ma hanno fondamentalmente una funzione
compensativa? Vuol dire, per esempio, chiedersi se ha tanto senso quanto oggi ci viene detto
sovente, e cioè che il modo migliore per uscire dalla crisi economica è spendere comunque.
Questo spendere comunque non risolve nessuno dei nostri problemi, e sicuramente non risolve
il problema di utilizzare in modo sensato le risorse di cui disponiamo, soprattutto in un
momento di così grande incertezza intergenerazionale e intertemporale rispetto al futuro che ci
aspetta. In un paese come il nostro, e soprattutto oggi, avremmo bisogno di questi momenti di
riflessione, di questi momenti di interrogazione sulle questioni profonde, perché temo che uno
degli aspetti di maggiore decadenza sociale e civile del nostro paese sia quello di accettare
passivamente delle visioni del mondo che ci vengono raccontate come se fossero ineluttabili, e
su cui noi abbiamo di fatto smesso di interrogarci. Siccome il nostro paese ha da questo punto
di vista una tradizione straordinaria, io invito soprattutto le generazioni che hanno ancora la
forza di farlo, che peraltro sono ben rappresentate oggi, in questa sala, a far sentire la loro
voce.
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Pierluigi Stefanini
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Dall’interessante dibattito tra gli illustri studiosi intervenuti, emerge una questione essenziale:
ognuno di noi, per i compiti che ha e per i ruoli che assume, dovrebbe cercare di misurarsi su
questi temi e cimentarsi nel cercare di contribuire ad essi, al fine di determinare una visione
del progresso che sia più piena, più forte e soprattutto più capace di rispondere alle attese e ai
desideri delle persone.
Da quanto emerso credo che ci sia ampio materiale per sviluppare delle possibilità per
declinare utilmente questo modo di intendere il progresso sulla scala territoriale locale. Temo
una cosa, nella positività della giornata: che tutto sommato, nonostante gli sforzi importanti
che si stanno facendo a livello internazionale, il rischio possa essere quello che, passata la fase
più critica della crisi che stiamo vivendo, tutto ricominci come prima. Invece, dovremmo
essere, per quello che possiamo, vigili, attenti, responsabili, impegnati, per far sì che questo
non succeda, per fare in modo che da questa crisi sia possibile trarre quegli insegnamenti
profondi che ci permettano di immaginarci un futuro diverso, maggiormente attento
all’ambiente, alla salute dei cittadini e in generale al benessere delle persone.
Pensare che ci siano sviluppo e progresso, e non necessariamente legati all’incremento del
valore dell’economia prodotta, ma legato invece all’incremento e al valore del benessere che
tiene conto di altri indicatori, può essere una strada molto complessa, molto difficile, ma di
grande interesse e di grande prospettiva.
Pensare che lo sviluppo economico possa riprendere e possa alimentarsi attraverso il
meccanismo dell’indebitamento delle famiglie, quindi l’aumento dei consumi e la crescita del
PIL, è un’illusione, un miraggio molto pericoloso. A pensare di ricominciare in questo modo, si
corre un rischio davvero molto elevato. La soluzione non ce l’ho, ovviamente, ma dovremmo
cercare di immaginarci modalità, esperienze, percorsi, anche battaglie, perché un altro
importante assunto di questa giornata è che non tutte le cose che abbiamo sentito sono neutre
rispetto ai comportamenti, alle scelte politiche, ai modi di essere nella società: sono, al
contrario, pienamente dentro questi processi.
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Presidente Fondazione Unipolis e Presidente Impronta Etica.
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Il convegno è stato organizzato da:
Impronta Etica: associazione senza scopo di lucro per la promozione
e lo sviluppo della responsabilità sociale d’impresa (RSI), nata nel
2001
per
volontà
di
alcune
imprese
emiliano-romagnole
già
impegnate su questo fronte e testimoni dell’attenzione del mondo cooperativo verso il tema
dello sviluppo sostenibile e della RSI. Lo scopo dell'associazione è favorire lo sviluppo
sostenibile, creando un network tra imprese e organizzazioni che intendono l’impegno sociale
come parte essenziale della propria missione e si attivano in pratiche di responsabilità sociale.
Obiettivo prioritario è mantenere collegati gli associati tra essi, metterli in relazione con
analoghe
istituzioni
nazionali,
farli
partecipare
attivamente
ai
network
internazionali
sovranazionali che trattano di business ethics e accountability. L’associazione si pone, inoltre,
la finalità di rafforzare la presenza italiana nel panorama europeo: per questo nel 2002
Impronta Etica è divenuta partner del network europeo CSR Europe. L’intento è quello di
favorire lo scambio di buone prassi a livello europeo e partecipare al dibattito apertosi in
ambito comunitario.
Fondazione Unipolis: fondazione d’impresa di Unipol Gruppo
Finanziario,
nasce
nel
2007
a
seguito
di
un
processo
di
cambiamento strategico con l’intento di ampliare le aree di
intervento della precedente fondazione. In particolare, Fondazione Unipolis è ora una
fondazione mista che sviluppa sia attività operative di ricerca e progettualità autonome ed in
partnership con altri enti nazionali, sia erogative, sostenendo organizzazioni del settore non
profit nell’ambito della cultura, sicurezza, solidarietà e ricerca di rilevanza nazionale.
Fondazione Unipolis si configura, quindi, come uno degli strumenti più significativi della
strategia di responsabilità sociale e civile di Unipol Gruppo Finanziario.
Fondazione Ivano Barberini: La missione della Fondazione
“Ivano
Barberini”
può
essere
sintetizzata
in
alcuni
punti
fondamentali: vuole essere un luogo di produzione di ricerca
storica, economica e sociale sull’importanza della forma d’impresa cooperativa per rispondere
ai bisogni di sviluppo delle società contemporanee; è orientata ad uscire da una logica
difensiva per mostrare le potenzialità della cooperazione come strumento di aggregazione
sociale per la risposta a bisogni dei soggetti più deboli e per lo sviluppo; intende rilanciare una
riflessione sull’identità della cooperazione nel XXI secolo
e garantire la ricerca sui temi più
rilevanti per lo sviluppo delle imprese cooperative.
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