la coscienza di berto - Casa editrice Le Lettere
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Paola Culicelli LA COSCIENZA DI BERTO Le Lettere Indice generale Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. I.Epopea dei vinti. Prose di guerra, di prigionia, di brigantaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. I primi racconti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.Il cielo è rosso: romanzo d’esilio al di là del Neorealismo. . 3.Le opere di Dio: tra invocazione e blasfemia. . . . . . . . . . . 4. Un libro all’indice: Guerra in camicia nera. . . . . . . . . . . . 5. Dalla parte del Brigante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . II. Il male oscuro, ovvero Giona e il Leviatano. . . . . . . . . 1. Le cause metafisiche del male. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Anatomia di un’irrequietudine. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Stile del ventre e materiali di scarto: dentro l’officina dello scrittore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Terapia della scrittura, tra confessione e psicoanalisi. . . . 5. La «smania di scrivere». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. L’inguaribilità programmatica dello scrittore. . . . . . . . . . 7. I prolegomeni del Male oscuro: Esaurimento nervoso e Uno del giro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 » 37 » 39 » 59 » 97 »104 » 118 » 125 » 127 » 145 » 151 » 156 » 161 » 166 » 169 III. Mal di Venezia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 175 1.La cosa buffa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 177 2.Anonimo Veneziano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »188 IV. Le fiabe di Berto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 193 1.Oh Serafina!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 197 2.La Fantarca. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 200 6 indice generale V. Eresia e tradimento ne La gloria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Lo scrittore e il suo doppio: autoritratto di un apostata. . . 2. Il filone cristologico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La gloria e la morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 203 » 205 » 220 » 223 Conclusione. Horror vacui e vocazione alla scrittura . . . . . . . » 231 Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 235 Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 243 2. IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO Una doppia prospettiva Stando alla testimonianza di Berto, Il cielo è rosso è il romanzo del suo “inconsapevole approccio al neorealismo”, allo stesso tempo tuttavia, sempre secondo una definizione adottata dall’autore, è un libro neoromantico44. Anche in questo caso, preferendo l’iniziale minuscola, il bastian contrario di Mogliano Veneto ribadisce il suo fastidio per le scuole e le ideologie, che con le loro gabbie tolgono responsabilità ma anche libertà di pensiero all’individuo45. Il genere di appartenenza di quest’opera, pubblicata nel dicem bre del 1946, è stato più volte dibattuto dalla critica. Inizialmente ne è stata messa in rilievo la matrice neorealista; sul finire del seco lo scorso, invece, se ne è ravvisata la natura ibrida e peculiare che gli conferisce tuttora una fisionomia originale. Innanzi tutto Il cielo è rosso è un romanzo d’esilio. Quando Berto si accinge a scriverlo non si trova in Italia, ma in Texas, nel campo di prigionia di Hereford. È lontano dalla sua terra, dunque, e può vivere soltanto indirettamente, di riflesso, la guerra che in quei mesi si sta combattendo in patria. Il suo è un Neorealismo che nasce dalla riflessione più che dall’azione. Non è un partigiano bensì una camicia nera ai ferri corti col suo passato e col peso di una sconfitta. Dopo aver attraversato l’oceano, le storie e le voci Cfr. G. Berto, L’inconsapevole approccio, cit. Cfr. Id., Modesta proposta per prevenire, cit., p. 69: «Quando ci accorgiamo che qualcosa difetta di sostanza, noi la scriviamo con l’iniziale maiuscola, in questo modo conferendole una specie di garanzia immunitaria, che la mette al riparo dal buonsenso e dalla critica». 44 45 60 EPOPEA DEI VINTI che lo raggiungono si depositano sulla pagina, filtrate dal distac co e appannate dalla nostalgia, fino a sradicarsi dalla contingenza e ad assumere lo statuto di exemplum. Osservando l’altra faccia del conflitto, quella americana, l’autore rovescia la prospettiva e cer ca di fingersi la metà che nella sua visuale rimane in ombra, quel la di un’Italia travagliata più che da una guerra oltre confine, or mai esaurita, da conflitti interni. La realtà bellica da lui descritta è come il calco di un volto: egli non la osserva frontalmente ma alle spalle, di modo che, per indovinarne le fattezze, laddove scorge delle concavità si figura delle convessità, laddove fissa il vuoto la sua immaginazione materializza il pieno. Dunque lavora in negati vo, in una maniera del tutto insolita, sgretolando così il Neoreali smo dall’interno ancor prima di aderirvi. La sua è una prospettiva strabica: da un lato osserva l’oggetto, dall’altro l’ombra che esso proietta. Ed è proprio l’ombra che lo affascina più di ogni altra cosa. In questa direzione, sembrandoci appropriata la definizio ne che De Robertis dà di Fenoglio, ci permettiamo di estenderla a Berto: «piuttosto che un neorealista, un realista, ma integrale, che ti dà, oltre la cosa, il sentimento, l’ombra della cosa»46. In questo romanzo, scritto in una condizione di isolamento e di lontananza dalla patria, si contemperano realtà, memoria e immaginazione. Il dato storico, riportato o meramente congetturato, è strappato al l’attualità, trasposto in una dimensione simbolica e paradigmatica, avulsa dal tempo e dallo spazio. In Berto, come ha osservato ap propriatamente De Michelis, «c’è molto più mito che realtà»47. La reclusione è un vuoto da riempire e il minimo contatto con l’esterno si lascia dietro una scia di suggestioni, echi che sedimen tano nel deserto texano per aprirsi alla letteratura: La condizione di prigioniero, tristissima in sé, esalta la capacità emoti va dell’individuo: avere una notizia dall’Italia o intravedere al di là dei reticolati una donna o un bambino, era per noi un’emozione intensis sima, e si poteva utilizzarla, volendo, anche per scrivere48. G. De Robertis, Fenoglio scrittore nuovo, in «Corriere di Catania», 14 marzo 46 1953. 47 C. De Michelis, Berto e il Neorealismo, in E. Artico, L. Lepri (a cura di), Giuseppe Berto. La sua opera il suo tempo, cit., pp. 76-77. 48 Dieci domande di G.A. Cibotto a Giuseppe Berto, in «La Fiera Letteraria», 27 settembre 1964. IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 61 Proprio attraverso il reticolato era giunta a Berto la notizia del bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944. L’avevano inoltre tur bato alcune foto scorte su «Life» raffiguranti dei bambini sardi ri dotti in cenci e costretti a mendicare in mezzo alla strada. Lo scrittore lavora sulle fonti che toccano maggiormente le cor de della sua emotività e racconta il “suo” bombardamento. La tra sposizione romanzesca dell’incursione aerea nel cielo della provin cia veneta è un ritratto ancipite della ferocia umana, che ne mette in luce la qualità biunivoca scrutandola da due diverse angolazioni: dal lato di coloro che la patiscono e da quello di coloro che la eser citano. Dapprima Berto focalizza la narrazione su chi conduce l’at tacco, irradiandola dal punto di vista dei piloti americani, mentre in un secondo tempo fa scivolare in basso la prospettiva, adottan do il punto di vista degli italiani che subiscono inermi la pioggia di fuoco. Nel momento in cui lasciano cadere le bombe, non c’è nei soldati americani pensiero di morte: gli obiettivi sono i riquadri e le casupole colorate che hanno individuato sulle mappe durante le astratte e alienanti esercitazioni. «L’obiettivo – scrive Berto – è una stazione, un cavalcavia, un ponte, dei fasci di binari. Così dall’alto sembrano giocattoli per bambini»49. Mentre, inconsapevoli, semi nano distruzione e morte, con la mente i soldati corrono alle loro case oltreoceano, alla loro vita prima di quella guerra: Gli uomini pensano, volando nella notte. Sotto c’è la terra scura, non si vede niente. Sopra ci sono le stelle, e le stelle aiutano a pensare. Così volando nella notte quegli uomini hanno pensieri di cose lontane. Pae si che sono in un’altra parte della terra, ai quali essi appartengono, e ai quali sperano di tornare un giorno. Vi è in essi una inesauribile voglia di tornare a casa, che li rende un po’ malinconici, ma che è anche il rifugio contro le difficoltà della vita. Sempre, nella noia o nel dolore, essi pensano di tornare a casa o a ciò che facevano ed erano prima50. La patria lontana è il luogo dove i soldati si rintanano col pensiero per sfuggire a un presente fatto di violenza, per scacciare i rimor si di ciò che si preparano a compiere. Per non perdersi, dunque, dannati dalle loro stesse azioni, vanno con la mente al loro mondo, alle persone che erano prima della guerra. È proprio l’incapacità G. Berto, Il cielo è rosso, cit., p. 68. Ivi, p. 67. 49 50 62 EPOPEA DEI VINTI di vedere, il buio che rende «la terra scura», a far sì che gli aviatori possano rifugiarsi altrove. Si noti come anche in questa circostanza la condizione di Ber to, deportato nel campo di Hereford, sia speculare rispetto a quel la dei piloti americani: cambiano i luoghi, diametralmente opposti, e le uniformi, ma i sentimenti sono identici. In questa scena, quasi cinematografica, c’è la gente di Treviso, a terra, e in alto ci sono i piloti; sembrerebbe la facile rappresentazione di un dualismo mani cheo tra bene e male, tra oppressi e oppressori, ma in realtà non c’è contrapposizione di schieramento: anche quando il cielo è rosso di fiamma tutti gli uomini sono uguali, parimenti vittime del male cieco che grava sul mondo. Deresponsabilizzando i piloti, lo scrittore sem brerebbe voler discolpare se stesso, puntando il dito su un peccato che pesa sull’umanità e non sul singolo. Nella descrizione si avvertono i chilometri che separano il nar ratore dalla sua terra. Dietro la nostalgia degli aviatori stranieri ci sono infatti l’esilio di Berto e il suo mancato ritorno a casa. La spe ranza che accomuna tutta la gente, al di là delle rivalità, è quella di «arrivare viva alla fine della guerra, perché dopo si vivrà meglio»51, ma è una mera illusione. Si pensi al passo estrapolato dal vangelo di Matteo e posto in epigrafe al romanzo: Di sera voi dite: tempo bello, perché il cielo è rosso; al mattino, poi: oggi tempesta, perché il cielo è rosso cupo. Ipocriti! Voi sapete distin guere l’aspetto del cielo e non sapete conoscere i segni dei tempi! Una generazione malvagia e adulta domanda un segno, ma non le sarà dato altro segno che quello di Giona52. Ironia della sorte, la gente a terra confida proprio negli america ni per un futuro diverso, in quei piloti che con un semplice moto della mano sulle leve stanno per sganciare le bombe. In apparenza, non c’è colpa in quel gesto meccanico che innesca ordigni mortali, ma una fatalità oscura. I piloti, così come la popolazione sottostan te, sono burattini nel teatro della storia, i cui fili sono retti da un male cieco, di portata universale: «Un male ha dato loro la possibilità di uccidere delle persone scono sciute, così simili a loro stessi. Un male tanto grande, per cui essi por Ivi, p. 68. Ivi, p. 5. 51 52 IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 63 tano terrore e morte e distruzione senza pensarci, con la coscienza di compiere un dovere»53. Il male non è negli americani ma nella ruota degli eventi che schiac cia ogni cosa. Non vi è responsabilità nelle azioni in quanto queste sono compiute in modo inconsapevole, ignorandone le conseguenze: Per un certo tempo – si limiterebbero a pensare gli aviatori secondo Berto – il nemico non potrà più servirsi della stazione, dei binari, forse del ponte, se è stato colpito. E se per fare ciò essi hanno prodotto una somma di dolore umano che niente potrà mai cancellare, nessun bene mai sulla terra, questa è una cosa che non ha importanza. Essi non vi pensano, e non ne hanno colpa, a causa del male universale54. I soldati non sono né buoni né cattivi, similmente la gente non è né colpevole né innocente: ognuno è vittima, succube della necessità delle cose. Nel corso del romanzo, Tullio, uno dei protagonisti, si esprimerà, a proposito degli americani, in questo modo: Se prendiamo a uno a uno questi soldati americani, non c’è da dirne male. Ce ne sono di buoni e di cattivi, come tutta la gente del mondo55. È Berto stesso a parlare e dietro l’uniforme statunitense c’è la ca micia nera, macchiata di sangue ma anch’essa vittima della storia, della cecità del caso e delle contingenze avverse. L’esigenza di capi re e scagionare il proprio nemico, in fondo, sottende il bisogno di perdonare se stessi e di vedersi perdonate le proprie colpe, la ne cessità di andare al di là delle apparenze e delle casacche militari, laddove tacciono distanze e differenze. Lo scrittore, tuttavia, non cerca un’amnistia della colpa bensì uno sguardo pietoso e, soprat tutto, umana compassione. La perduta gente della civitas diaboli Il titolo originariamente scelto dall’autore per il suo romanzo d’esor dio, subito bocciato da Longanesi, era La perduta gente56. La diffe Ivi, p. 69. Ivi, pp. 69-70. 55 Ivi, p. 213. 56 Cfr. G. Berto, L’inconsapevole approccio, cit., p. 38: «Il romanzo avrebbe 53 54 64 EPOPEA DEI VINTI renza è sostanziale. Mentre Il cielo è rosso è di matrice biblica e pre suppone uno sguardo rivolto verso l’alto, La perduta gente, di sicura ascendenza dantesca, presume un occhio rivolto alla realtà terrena, quasi ctonia dell’uomo57. Sotto la luce fosca del bombardamento, in fatti, Treviso acquista fattezze infernali e i suoi quartieri somigliano alle malebolge dei dannati. Ci sono strettoie e budelli per passare da una zona all’altra, c’è la cenere ancora fumante tra le rovine recenti, carri con cadaveri accatastati, uomini trasfigurati che hanno perduto i loro tratti umani. In tempo di guerra il male, le pene e la dispera zione del regno d’oltretomba abitano la città trevigiana, e gli abitanti altro non sono che spettri, non morti, perduta gente: Forse erano tutti morti. Anche lei era morta, anche la donna che invo cava Dio con una voce eguale. Ecco che già si trovavano in un mondo diverso, come vivi e non più vivi, sconsolatamente ognuno per conto proprio. Era un senso di solitudine che faceva male58. Sono svariate le occorrenze del participio passato del verbo perde re, riferito sia alle cose sia alle persone. Nel romanzo il campo se mantico di questo vocabolo si dilata implicando, oltre alla perdita, lo smarrimento, la sconfitta, e la dannazione dell’anima, che è ambascia e male di vivere. Speculare e complementare al verbo perdere si pro fila il verbo cercare. Su uno sfondo di macerie e cadaveri, i soprav vissuti si muovono, alienati oppure incantati, alla ricerca di qualcosa: della loro roba o dei loro cari. C’è ansia, coazione a ripetere, smania, in quel loro accanimento nel cercare: una piaga cronica, la loro, che non verrà mai sanata, neppure cessata la guerra. L’indigenza patita dai sopravvissuti non li abbandonerà neppure in seguito, raggiunto il benessere economico. Quel cercare compulsivo delle generazioni trattato dell’Italia, si capisce, del popolo rovinato dalla guerra, e si sarebbe signifi cativamente intitolato La perduta gente». Cfr. anche ivi, p. 48: «Il romanzo del No stro uscì tra il Natale ’46 e il Capodanno ’47: soltanto quando lo vide nelle vetrine dei librai Berto seppe che Longanesi l’aveva intitolato Il cielo è rosso. Era un titolo bellissimo e astuto, che magari aveva poco a che fare col testo ma restava immedia tamente impresso in chi lo vedeva. Berto sa che una parte non piccola del successo del romanzo è dovuta a quel titolo». 57 Cfr. ivi, p. 47: «Accondiscese anche al cambiamento del titolo La perduta gente, che Longanesi trovava orribile, però si fece promettere che l’editore avrebbe tirato fuori il nuovo titolo dai Vangeli, perché la cosa si combinasse in qualche modo con Le opere di Dio». 58 G. Berto, Il cielo è rosso, cit., p. 60. IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 65 che hanno vissuto la guerra diventerà languore, fame continuamente frustrata di qualcosa di diverso dal cibo: nevrosi. Una variante dell’espressione «perduta gente» è rappresentata dal sintagma «gente disgraziata» che durante un dialogo fra Tullio e Giulia è ripetuto tre volte, con la cadenza di un lugubre refrain, da un anonimo ascoltatore, il quale si intromette solo per chiosare le loro parole in modo lapidario: “Sei stato anche a casa nostra?” domandò Giulia. “Sì” disse Tullio, e pareva non volesse dir altro. Invece dopo disse an cora: “Sono stato da quelle parti, ma non si capisce più niente. È an dato giù tutto, non si vede neanche il segno, delle strade. Poi brucia. M’han detto che lasceranno bruciare tutto quello che brucia, perché non val la pena di far venire i pompieri […] “Case di gente disgraziata” disse un uomo che stava a sentire. “I pompieri che arrivano li mettono a lavorare a San Francesco e a San Tommaso” disse Tullio. “Anche vicino al Duomo ce ne sono che già lavorano. Ma qui e alla stazione c’è troppa rovina. Dicono che non val la pena.” “È perché siamo gente disgraziata” disse ancora l’uomo. “E i tuoi?” domandò Giulia. “Non so” disse Tullio. “Penso che sarà lo stesso per tutti”. Anch’egli guardava nella piazza, tristemente. Le file erano già molto lunghe e i soldati continuavano a portare degli altri morti. “Tullio,” disse Giulia “bisognerebbe cercare tra questi morti se ci sono i nostri. Carla potrebbe andare a vedere per la nonna.” Tullio fece una smorfia con le labbra. “Se è morta è ancora là” disse. “Nessuno è andato a prenderli, quelli.” “Gente disgraziata” disse l’uomo per la terza volta59. La ripartizione in quartieri della città segue le differenze di classe, così la catastrofe non pesa su tutti allo stesso modo e dopo l’at tacco aereo, laddove un tempo abitava la «gente disgraziata», «non val la pena» di intervenire subito e prestare soccorso. Come scrive Ragni, Il cielo è rosso e Le opere di Dio sono «drammi di povera gente travolta dalla guerra, impostati in chiave che potrebbe definirsi da biblica apocalisse»60. Il bombardamento Ivi, pp. 83-84. E. Ragni, Berto, in Dizionario critico della letteratura italiana, Utet, Torino 1974, p. 296. 59 60 66 EPOPEA DEI VINTI in effetti getta su Treviso un’atmosfera luciferina, la precipita in una dimensione infernale. A più riprese Berto si sofferma sul colore vermiglio del cielo e sulla caligine rossastra che incombe sulla città come una cappa. Avvolta in quella nebbia ogni cosa appare mutata, distorta: «anche la chiesa era diversa con quella mobile luce rossa sui mattoni»61. Perfino la gente, sotto il fascio di quella luce, sembra diversa, quasi sfigurata nelle sue fattezze umane: La gente che si muoveva nella luce rossa e confusa aveva un aspetto pauroso. Erano militari e borghesi insieme, e tutti portavano roba, o barelle con sopra i feriti e i morti. Da lontano erano come macchie scure, senza rumore di passi o di voci. Ma da vicino apparivano tra sformati, con gli occhi scavati e scuri, e il resto del viso che risaltava troppo all’infuori62. Da lontano, gli uomini che camminando non fanno rumore, pur gravati dai loro fardelli, somigliano a spettri, sono «macchie scure» che non hanno voce né lineamenti, quando al contrario sono vicini riacquistano una corporeità eccessiva, fatta di sproporzioni espres sionistiche. Spesso questo pulviscolo rosso, che trasforma Treviso in una civitas diaboli e i suoi abitanti in «perduta gente», è una sorta di barriera che impedisce di guardare lontano, simbolo della miopia della guerra che incatena gli uomini ai bisogni dell’oggi, riducendoli a bestie e impedendo loro di guardare al futuro. Questa cecità del corpo e dell’anima affiora con insistenza sulla superficie della pagina: continuamente gli occhi dei personaggi si chiudono per non vedere oppure è il cielo a chiudersi, impenetrabile allo sguardo. Durante il bombardamento, in particolare, Giulia non fa che chiudere gli occhi e coprirsi le orecchie con le mani63. Cessato l’attacco aereo, invece, la giovane si sforza di fissare lo sguardo sulle rovine, ma invano: Salì sulle mura, proprio sopra il rifugio, e guardò verso la città. Si ve deva poco, a causa del fumo e della polvere. Ogni cosa era coperta da una grande nuvola, che era rossa in basso e scura in alto, e invadeva gran parte del cielo64. G. Berto, Il cielo è rosso, cit., p. 77. Ivi, p. 78. 63 Cfr. ivi, pp. 58-61. 64 Ivi, p. 66. 61 62 IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 67 La cenere che si alza dalle macerie inghiotte gli uomini, rendendoli incapaci di vedere perfino a un passo da loro: A tratti arrivava il fumo degli incendi, che bruciava nella gola e negli occhi. La luce rossa del cielo veniva assorbita da un pulviscolo spesso, e non si riusciva a vedere lontano. Le poche persone che erano in giro apparivano e sparivano rapidamente65. La miopia della gente colpita dalla guerra diviene infine un’attitu dine, una posa nella quale i personaggi si irrigidiscono: «Quasi tut ti avevano gli occhi chiusi, e un’espressione assente o sottomessa sul volto»66. Nella rappresentazione infera di Treviso un ruolo fondamentale è svolto dalla luce che con la sua presenza e la sua assenza scandisce la clessidra del tempo e il prisma volubile dei sentimenti umani. Sono costanti nel romanzo l’attenzione alla luminosità o viceversa al l’oscurità, la ricerca del sole oppure il dialogo con la luna. Osserva tore privilegiato è Daniele che, anche in questo suo atteggiamento, riecheggia l’attitudine dello scrittore nel campo di concentramento. In Texas infatti, secondo la testimonianza di Dante Troisi, suo com pagno di prigionia, all’ora del tramonto Berto era solito sedersi per terra e osservare con attenzione il punto dell’orizzonte in cui il sole scivolava giù: «ogni sera io lo trovavo al medesimo posto, seduto per terra, le spalle contro la parete della baracca, le braccia abban donate tra le gambe, perduto nella pianura che cambiava colore»67. Nella sua memoria si imprimeva ogni volta un punto diverso e, avendo come riferimento i pali della recinzione, si era detto che una volta che il sole li avesse oltrepassati lui sarebbe tornato a casa: era il suo rituale, la sua liturgia quotidiana per far passare il tempo. Torpore e male di vivere Parallelamente all’incapacità di vedere si fa strada nel Cielo è rosso l’incapacità di muoversi. Fin dall’inizio il torpore e la stanchezza, Ivi, p. 73. Ivi, p. 79. 67 D. Troisi, L’inizio dello scrittore, in E. Artico, L. Lepri (a cura di), Giuseppe Berto. La sua opera il suo tempo, cit., p. 231. Cfr. anche D. Biagi, Vita scandalosa di Giuseppe Berto, cit., p. 43. 65 66 68 EPOPEA DEI VINTI similmente alla straniante luce rossa, pervadono ogni cosa, dalla natura agli uomini. Proprio l’inerzia accomuna la condizione del lo scrittore nel campo di prigionia a quella dei suoi personaggi nel romanzo. Di fronte allo scorrere identico del tempo, Berto guarda con fastidio chi soggiace alla schiavitù di vivere per mangiare, della mera sopravvivenza. Come il suo personaggio, si ribella alla catena della necessità alimentare; ma mentre Daniele si suicida, lo scritto re trova riscatto nel romanzo: la scrittura gli permette di recupera re il tempo perduto nell’abulia del lager. Il cielo è rosso si apre con la descrizione del fiume che bagna Treviso, quasi un Acheronte pigro e lutulento che, dopo essersi originato nella palude, da innumerevoli polle, si trascina con fatica fino al mare. Il ritratto del paesaggio è carico di lirismo e la stan chezza del corso d’acqua, che diviene lentamente metafora della noia e dell’inerzia di vivere, sembra contagiare ogni cosa. Dappri ma si trasmette alla città: Così si poteva dire che la città fosse stata originata dal fiume, perché il fiume le dava tre cose indispensabili a quei tempi, acqua e sicurezza e modo di comunicare con la costa, dove si apriva il mondo. Si notava subito che la città era antica di molti secoli68. Alla fine del primo capitolo la pena e la spossatezza nell’andare avanti, proprie del fiume che scorre in pianura, si estendono anche agli abitanti: Così la gente continuava a vivere, come poteva, perché qualcuno dava loro abbastanza cibo per non morire. Aspettavano che la guerra finisse. Questo era essenziale, arrivare vivi a quel punto. Poi qualcun altro li avrebbe aiutati a vivere ancora, in un mondo che pensavano migliore69. I passi appena citati sono accomunati dal medesimo incipit, «Così», che sembra legare fatalmente il destino della città e degli uomini a quello del fiume. Berto scrive che Treviso «era antica di molti se coli» e che «la gente continuava a vivere»: la miseria esistenziale, immodificabile, sperimenta una durata che rasenta l’eternità, non a caso il tempo utilizzato dallo scrittore è l’imperfetto. G. Berto, Il cielo è rosso, cit., p. 9. Ivi, p. 13. 68 69 IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 69 Il primo capitolo è tutto dedicato allo scorrere cadenzato e affa ticato del fiume, al travaglio dell’esperienza vissuta che si pietrifica nelle mura e nelle case e poi si incarna nelle persone. Sono pagine in cui campeggia uno scenario lirico privo però di retorica, e dove si profila, come un personaggio, la fatica dell’esistenza. Fin dal l’inizio la narrazione tradisce una matrice verghiana, un’aderenza al vero che lo scrittore maturerà e metterà in discussione alla luce di autori come Svevo e Gadda. Ci domandiamo che cosa abbia a che fare con il Neorealismo una storia inventata, scritta per corrispondenza potremmo dire, che fin dalle battute iniziali metaforizza nello stentato scorrere di un fiume il tedio, l’erlebnis del male di vivere che logora l’uomo70. Andando avanti nella lettura del romanzo, la stanchezza, la fame e l’indigenza divengono quasi croniche e non vi si può rimediare semplicemente con il riposo, il cibo o il denaro. Queste insoddi sfazioni aderiscono alle carni come la maglia di Deianira finché non arrivano a toccare anche l’anima acquisendo connotazioni me tafisiche. Non è semplicemente per la miseria, la fame, l’odio o le vendette, che le persone non possono più essere quelle di prima. Neanche loro conoscono il motivo per cui si sentono «sempre stan chi e cupi nel fondo, e scontenti di sé e di vivere»71. Berto ipotizza che una parte di quel male universale che li ha segnati sia rimasta loro dentro, senza più andar via. Con la guerra hanno perso per sempre un tassello di umanità, e nella guerra si sono smarriti. Si insinua l’idea di un malessere continuo, inguaribile e “oscuro” ante litteram («non sapevano bene neanche loro la ragione»72). È un’insoddisfazione inveterata, di sé e della vita, un sentimento della sconfitta che si fa progressivamente più nitido nel corso della narrazione fino a trovare nell’ultima pagina una definitiva consape volezza: A poco a poco la gente capiva. Non era più una guerra da sopporta re, era una guerra perduta. Nonostante tutto quel che si diceva, biso 70 Cfr. E. Ragni, Berto, cit., p. 297: «Pur presentando […] una problematica tipicamente e contingentemente italiana, egli innalza all’assoluto, e perciò universa lizza, le sofferenze dei personaggi, ambientandole nel clima di un quasi ipostatizzato “male universale”». 71 G. Berto, Il cielo è rosso, cit., p. 103. 72 Ibidem. 70 EPOPEA DEI VINTI gnava pensare che quella era una guerra perduta. Ed essi erano stati lasciati soli a sopportare il peso della disfatta, un peso troppo grande per un popolo povero, in un paese devastato e isterilito dalla guerra. E non si poteva neanche prevedere quando sarebbe finito il peso di una disfatta. Forse non sarebbe finito nel periodo della vita di un uomo, e allora tutti quegli uomini che vivevano e pensavano, non avrebbero mai più potuto essere contenti durante la loro vita, avere cibo suffi ciente e vesti e riparo contro il freddo, e sufficiente speranza di essere ancora vivi il giorno dopo73. Il romanzo, che si apre sotto il segno del torpore e dell’accidia, materializzati nel fluire stanco del fiume, si chiude con un’analoga immagine di indolenza, tutta compresa nell’icastica brevità di una riga: «Uomini seduti al sole aspettavano con stanca pigrizia»74. Nel la prima riga il fiume viene definito «pigro», nell’ultima una «stan ca pigrizia» caratterizza gli uomini. Quando leggiamo «non avreb bero mai più potuto essere contenti durante la loro vita», pensia mo immediatamente a Berto, alla sua condizione di prigioniero e di vinto, alle responsabilità che egli sentì gravare su di sé e sulla sua generazione. Pensiamo alla nevrosi vivisezionata nel Male oscuro, all’angoscia somatizzata in ulcera, al senso di colpa trasposto in ossessione del cancro. È proprio questa stanchezza, questo senti mento della sconfitta, la linfa vitale che irrora Il cielo è rosso così come le altre opere dell’autore, prima fra tutte Il male oscuro, il suo albero della vita. La cornice della guerra, tra storia ed exemplum metafisico La prigionia ispira Berto perché amplifica, come una cassa di riso nanza, la sua sensibilità di scrittore. Di fronte alla paura della mor te, al senso dell’effimero e della precarietà, ogni sentimento viene estremizzato. In particolare la sofferenza si dilata, caricandosi di connotazioni esistenziali: diviene melanconia. E lo scenario ideale di questo male di vivere è la guerra. In questo deserto puntellato da rovine l’io narrante si interroga sull’uomo, al di qua del tempo e della storia. Così le generazio ni per sempre segnate dall’esperienza della guerra simboleggiano, Ivi, p. 402. Ibidem. 73 74 IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 71 con tinte forti e tratti espressionistici, la condizione dell’intera umanità. La trama è una sorta di crocevia dove si incontrano i desti ni di quattro adolescenti, Carla, Tullio, Giulia e Daniele, costret ti dalle circostanze e dalla miseria a crescere più in fretta e a di ventare uomini. A loro si aggiunge una bambina autistica, rimasta orfana e chiusa in un mutismo impenetrabile; quasi ridotta a una larva, è confinata in uno stato subumano di demenza, un «perso naggio nuovo nella letteratura italiana […] la cui psicologia irrecu perabile – osserva David – è rappresentata con mano felicemente istintiva»75. Prima che la narrazione vera e propria abbia inizio, lo scrittore mette in scena, con l’abilità di un regista, alcuni antefatti, lontani tra loro nel tempo ma progressivamente sempre più vicini al pre sente: ci mostra come la madre di Giulia abbia deciso di tenere la bambina nonostante sia frutto del suo mestiere di prostituta; come fin da piccole Giulia e sua cugina Carla abbiano palesato una di versa indole; come siano morti i genitori di Daniele nel bombar damento di Treviso. Sembrano le tappe necessarie tracciate da un determinismo lacaniano, che ci mostrano come i protagonisti siano diventati quello che sono, eppure proseguendo nella lettura e scru tando il fondo, oltre l’apparenza, si avverte che nel Cielo è rosso l’impianto naturalista della narrazione viene sgretolato e svuotato dall’interno. In un discorso di Tullio a Daniele si può ravvisare una critica di Berto al determinismo sociale: “Tu non sei come noi” disse. “Il vecchio ha ragione quando dice che sei diverso. Ma lui pensa che la differenza sia perché tu sei figlio di un avvocato o di un medico, e allora sbaglia. Lui pensa che quando uno vien fuori da un avvocato o da un medico non potrebbe diventare un farabutto o patir la fame, solo perché vien fuori da un avvocato o da un medico. È questo che fa rabbia. Noi non siamo eguali. Ogni uomo è diverso dagli altri uomini, ma non dipende da suo padre, se è povero o ricco. Dipende solo da lui, da come è fatto lui, se no non si spieghe rebbe perché i farabutti vengono fuori dai poveri e dai ricchi senza distinzione”76. 75 M. David, La psicologia nell’opera narrativa di Berto, in E. Artico, L. Lepri (a cura di), Giuseppe Berto. La sua opera, il suo tempo, cit., p. 126. 76 G. Berto, Il cielo è rosso, cit., p. 217. 72 EPOPEA DEI VINTI Scardinati i principi della race, del moment e del milieu, l’individuo diviene fabbro della propria fortuna, capace di autodeterminarsi e di scegliere chi vuole essere. Perciò non è la sola guerra a muovere le azioni dei personaggi, essa semplicemente si limita ad acuirne le attitudini, simile a uno sfondo nero che ne metta meglio in risalto le caratteristiche. A poco a poco, lo scrittore fa sì che l’accidente storico venga soppiantato e scalzato dal l’exemplum metafisico. Come scrive Barberi Squarotti, il bombardamento di Treviso è un fatto di guerra, che Berto usa come grandiosa e orribile cornice necessaria perché, altrimenti, i vizi e i valori autentici non verrebbero fuori o, meglio, si manifesterebbero nella maniera banale e volgare di infinite volte nel corso dei tempi77. Berto non è interessato al documento in sé, nella sua attualità e specificità, il suo intento non è quello di additare le piaghe ancora vive del dopoguerra, bensì mostrare una sofferenza radicale e insita nell’uomo che va al di là della storia. La guerra, così come la peste nera nel Decameron, è lo scenario lugubre e buio contro il quale i colori della vita si stagliano e risaltano meglio. Le condizioni di precarietà e miseria determinate dal conflitto rendono Treviso una sorta di terra desolata sullo sfondo della quale l’indole di ognuno campeggia con evidenza espressionistica: Di tutta quella strage, era rimasta in loro la coscienza che fosse una cosa ingiusta. Anche senza sapere di chi fosse la colpa, potevano dire che era una cosa ingiusta. E la coscienza di ciò liberava dal vincolo delle leggi con Dio e con gli uomini. Erano spinti ad essere ciò che maggiormente si sentivano di essere, o più buoni o più cattivi, ciascu no secondo la sua natura78. La devastazione che segue il bombardamento è una cornice che fa assurgere la banalità del quotidiano dal fenomeno all’essenza, ren dendo l’uomo senza qualità protagonista di una moderna epopea. In questo modo il dato reale acquista pregnanza allegorica: la guer ra non è più un conflitto circoscritto nel tempo, ma diviene simbo lo di ogni altra guerra, così come i personaggi personificano l’uma 77 G. Barberi Squarotti, Quale rosso del cielo, in B. Bartolomeo, S. Chemotti (a cura di), Giuseppe Berto vent’anni dopo, cit., p. 18. 78 G. Berto, Il cielo è rosso, cit., pp. 101-102. IL CIELO È ROSSO: ROMANZO D’ESILIO AL DI LÀ DEL NEOREALISMO 73 nità in ogni tempo e in ogni luogo. In questo modo il Neorealismo diviene metafisico, si contamina con il neoromanticismo. Destori cizzata, la guerra è struggle for life, lotta per la vita o semplicemen te tentativo di rimanere in vita, e dunque simboleggia il travaglio dell’esistenza. Icastiche le parole pronunciate da Zanzotto in una conferenza tenutasi a Mogliano Veneto il 6 dicembre 1961: Nella Treviso trasfigurata da Berto, eppure così reale, si muove dun que tutto il dopoguerra con le sue piaghe aperte, un mondo che va da Berlino a Hiroshima e che comprende vincitori e vinti79. Come ha ammesso lo stesso Berto, proprio la sua condizione di re cluso gli ha permesso di guardare alla sconfitta da un punto d’os servazione più ampio, disancorandolo dai lacci della contingenza80. Il dramma da lui raccontato, il suo canto nostalgico alla patria lon tana, è tutto percorso dal vibrare di un ulterioris ripae amor che gli conferisce un’atmosfera insolita, neoromantica e surreale: «non c’è quanto star chiusi in una prigione – osserva – che aiuti a sentire il mondo»81. Lo scrittore ha definito il suo approccio al Neorealismo “in consapevole” perché è approdato a quella metodologia narrativa senza emulare alcun maestro, senza afferire ad alcuna scuola; è sta to capace di interiorizzare un momento collettivo nell’isolamento della prigionia, traducendolo con parole assolutamente personali ma sorprendentemente consonanti alla coralità storica e sociale del tempo. In questo romanzo d’esilio, lontano dall’Italia, Berto con le sue antenne di scrittore ha anticipato i tempi della letteratura. Lo schema dell’isola: tra scrittura d’esilio e isolamento dei personaggi Il campo di prigionia rappresenta per Berto l’habitat ideale, il luo go propizio alla scrittura. Le quattro mura che lo circondano, a Id., L’inconsapevole approccio, cit., pp. 83-84. Cfr. ivi, p. 84: «In questo sconfinamento oltre i limiti del provincialismo ita liano Berto può essere stato facilitato anche dalla sua condizione di prigioniero in America, e non tanto per la più vasta possibilità di rapporti con genti straniere, quanto per un quasi morboso acuirsi della sensibilità». 81 Ibidem. 79 80 74 EPOPEA DEI VINTI Hereford, sono una costrizione rassicurante: un’ancora di salvez za che gli impedisce di sottrarsi alla pagina. All’interno del fascist camp texano non gli manca proprio nulla: ci davano cibo e vestiti, e non c’era niente che si potesse fare per man giare o vestire meglio. Inoltre ci costringevano ad alzarci dal letto al l’alba, per l’appello, e così veniva vinta la mia accanita pigrizia82. In questo singolare campo di concentramento e di concentrazione, approda al romanzo e conosce la facilità di scrittura. La reclusione è la scatola magica in cui la realtà decanta per poi depositarsi sul fondo del foglio bianco: Sono convinto che, se non mi fosse capitato di finire in un campo di concentramento, non sarei riuscito a scrivere un romanzo. Ma lì mi trovai davanti una serie indefinita di giorni da riempire, non ebbi dubbio su come riempirli. Non avevo mai scritto prima, ma scrivere o qualcosa di simile era stata la vaga aspirazione di tutta la mia vita precedente83. La medesima condizione di isolamento si ripete, amplificata, nel la struttura del romanzo. I protagonisti vivono in un vecchio po stribolo ormai abbandonato e disastrato dai bombardamenti, al l’interno di quella che viene chiamata la «Zona infetta» o «zona dei morti», un’area dove le macerie raggiungono proporzioni tali da non permettere neppure il recupero e il seppellimento delle vittime: Là era stato difficile portare anche i soccorsi più urgenti, e solo po chi morti erano stati raccolti. Il resto rimase dove il bombardamento li aveva presi. E là gli incendi durarono fino a quando non si spensero da soli, e quando alla fine furono spenti, degli uomini passarono fra le macerie e vi gettarono con abbondanza calce e disinfettanti. Poi cin sero le zone con filo spinato e steccati, e sulle tavole scrissero a grandi lettere «Zona infetta», e dipinsero enormi teschi di color nero. La gen te chiamò quei recinti le zone dei morti. Dentro restavano gruppi di case mezzo diroccate, e poi cadaveri e muri pericolanti dietro ai quali Dieci domande di G.A. Cibotto a Giuseppe Berto, cit. G. Berto, Perché ho scritto il cielo è rosso, in E. Artico, L. Lepri (a cura di), Giuseppe Berto, la sua opera, il suo tempo, cit., p. 84. 82 83