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Teoremi, numeri e realtà biologica:
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noduli di Heberden
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Biofilm e crescita batterica: una sfida da non perdere
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Teoremi, numeri e realtà biologica: una riflessione e un po’ di provocazioni
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Hanno collaborato a questo numero:
Fulvio Bongiorno, Silvana Francipane,
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La responsabilità delle affermazioni
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Un raggio laser al servizio della diagnosi clinica: la citofluorimetria a flusso
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Osteoartrosi. Quei “fastidiosi” noduli di Heberden.
Lelio R. Zorzin, Silvana Francipane
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pubblicati sulla rivista Diagnostica Bios, possono
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iL PROBLEMA QUOTiDiAnO DEL MEDiCO
Fare informazione è capacità di fare conoscenza? Diagnostica BIOS offre in questo numero articoli di particolare interesse, che mettono in evidenza come sia mutato rapidamente
l’iter del percorso diagnostico (citofluorimetria) grazie all’introduzione sul campo delle
biotecnologie e come si debba considerare ancora in evoluzione il capitolo delle malattie autoimmuni.
Ma non dobbiamo dimenticare la clinica,
per l’osservazione del quadro radiologico, l’identificazione corretta del segno e del sintomo
(vedere le belle immagini proposte nell’articolo di reumatologia). Cose ovvie per chi vive il
mondo della medicina ma anche aspetti ricchi
di una nuova complessità nella gestione del sapere. Infatti presentiamo anche l’articolo di un
matematico che, in forma non consueta, ci apre
una nuova dimensione del ragionare, fornendo
qualche spunto non banale di riflessione. È comune buon senso ricordare il concetto del sapere e saper fare. Bene. Oggi le linee-guida sono un tentativo di mettere insieme in tempo reale le conoscenze in arrivo, la pratica clinica e
una garanzia medico-legale. Attenzione però alle linee-guida (ormai ne esistono a decine): sono un punto di riferimento non un codice assoluto del fare.
La nostra disciplina, la medicina, si presenta per comune approccio e percezione “popolare” unicamente come disciplina professionale
applicativa. Sbagliato. L’osservazione del medico è innanzi tutto biologia. Da questo scaturisce
l’insieme delle conoscenze con il relativo assetto applicativo (la cura, medica o chirurgica).
Quindi come ri-pensare la bio-medicina?
Con l’umiltà di chi ha in mano la salute del prossimo ma anche con l’intelligenza di vivere una
fase storica nella quale la non gestibilità unilaterale delle conoscenze può creare seri problemi.
È un po’ quello che accade quando si compera
uno strumento complesso e poi lo si usa solo in
parte senza un training adeguato (non basta il libro delle istruzioni).
La forza e l’opportunità di conoscenza presenti nel nostro periodo storico, grazie soprattutto alla rete, forniscono un’importante piattaforma dalla quale partire verso soluzioni concrete, con vera capacità risolutiva. Ma forza e
opportunità dipendono dall’informazione e dalla disponibilità di utilizzarla. Quindi conoscenza integrata, rifiuto della routine, comunicare il
dubbio e condividerlo con altri. Il rischio terribile, con ricadute sostanziali negative nel nostro
lavoro, è il frazionamento delle conoscenze: la
persona malata o con il sospetto di essere malata deve essere inserita in una visione “integrata”, visione non come somma di reperti ma risultante da una dinamica di acquisizioni variamente generate (clinica, laboratorio, imaging).
Ai nostri giorni si parla molto di malattie rare: si danno definizioni sulla loro distribuzione
statistica e, spesso, purtroppo, sul problema della non disponibilità di terapie. Tuttavia una riflessione è obbligatoria: ma sono veramente
“rare” le malattie rare? L’etichetta della diagnosi conforta il medico ma quante etichette sono mutate nel tempo? Il tempo della riflessione
talora non è consentito in forma disgiunta dal
tempo delle decisioni ma dobbiamo sempre distinguere tra velocità e fretta di arrivare ad una
definizione precisa. Per questo motivo oggi l’unica alternativa alla fretta sta nell’adeguata distribuzione delle competenze che consentano,
interagendo, la descrizione corretta di un problema (primo passo necessario) per una soluzione dello stesso. E in questo processo risolutivo è entrata la nuova matematica, strumento
indispensabile ormai, per attivare una nuova
bio-medicina.
AUTOiMMUniTà E inFEziOni
Augusto Vellucci
Specialista in Malattie Infettive e Clinica Medica
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Nel corso della Evoluzione “la specie umana
era particolarmente fragile, debole e vulnerabile;
essa non aveva selezionato geneticamente artigli, becchi o denti possenti, non veleni da sputare sugli aggressori, non capacità di fuga, specie
se paragonata a un’antilope o a un leopardo, o
quella di volteggiare tra i rami degli alberi. In
questo ambito l’evoluzione era stata un vero disastro per l’uomo. Ma egli aveva sviluppato un
cervello possente, da dove sgorgavano tecniche
per preparare armi e strategie difensive, rivelatesi tutte vincenti” (G. Ruffolo: Lo specchio del
diavolo, Einaudi).
Ovviamente questo è accaduto per i numerosi pericoli visibili.
Ma per quelli invisibili, come i microbi ?
I microbi, che nei primi tre miliardi di anni
erano stati gli unici abitanti della Terra, aggredivano poi continuamente gli animali e l’uomo, il quale era completamente privo di qualsiasi idea dell’esistenza di questi nemici mi-
croscopici. Qui il cervello non poteva far nulla. E allora ?
La salvezza è stata la selezione evolutiva di
un complesso meccanismo difensivo a livello
microscopico, prima generico e poi specifico,
che ha difeso la vita dei vari esseri viventi, fino
all’uomo: parliamo del sistema immunitario.
Per comprendere quanto diremo, è necessaria
una breve illustrazione dei meccanismi immunitari.
Tutto è iniziato con la selezione di cellule
(macrofagi, granulociti, ecc.) che hanno sviluppato un sistema difensivo, sia cellulare (fagocitosi) che umorale (complemento, citochine varie, ecc.), molto efficace ma generico (immunità
innata). Successivamente si è evoluto un altro
più complesso sistema difensivo, attuato dai
linfociti e dagli anticorpi da questi prodotti, stavolta specifico per ciascun agente microbico
(immunità adattativa), di grande efficacia protettiva.
4
Va tenuto presente che questo secondo sistema si attiva solo se le cellule dell’immunità innata lo mettono in moto, segnalando al linfocita
CD4 le caratteristiche antigeniche dell’agente
patogeno, in maniera molto specifica e con la
collaborazione di un complesso molecolare chiamato HLA. Una volta attivato, il linfocita dà origine alla risposta immunitaria, sia evolvendo in
cellule citotossiche (CD8), sia producendo le immuno-globuline (anticorpi).
La selezione degli anticorpi (definita “teoria
della selezione clonale” da Frank Macfarlane
Burnet) avviene con la produzione continua di
linfociti, i quali presentano sulla loro superficie
molecole di recettori specifici per ogni singolo
antigene esistente; ogni linfocita porta un solo tipo di recettore e quindi produce una risposta con
una sola specificità.
Esiste nel nostro corpo una vasta gamma di
linfociti (oltre 1012), già prima di qualsiasi processo infettivo; il sistema è regolato in modo che
il contatto con un antigene, in presenza della specifica molecola di HLA capace di presentarlo,
produce la selezione di un solo tipo di linfocita e
stimola la produzione di anticorpi (per i linfociti B) rivolti proprio soltanto verso quell’antigene.
Insomma, quando un antigene è presente nell’organismo, esso si lega solo ai linfociti corrispondenti, dando origine a un clone cellulare che
sintetizza e secerne l’anticorpo specifico. L’antigene quindi ha selezionato, da un gruppo preesistente di cellule, solo quelle che hanno l’appropriata specificità.
I linfociti però dovrebbero aggredire anche
gli antigeni delle proprie strutture, gli antigeni
“self”, con i quali ovviamente sono sempre a
contatto; ma questo usualmente non avviene perché i linfociti specifici per il self vengono eliminati all’inizio dello sviluppo.
Già Paul Herlich nel 1901 aveva enunciato il
concetto di horror autotoxicus, facendo riferimento a qualche ipotetico meccanismo di regolazione delle nostre reazioni immunitarie, in grado di prevenire la formazione di autoanticorpi.
Fra il 1944 e il 1953 Peter Medawar e Milan
Hašek descrissero il fenomeno della tolleranza
immunitaria. L’organismo, durante le fasi iniziali dell’ontogenesi, sviluppa un complicato sistema immunitario che impara a reagire contro
tutto ciò che è a sé estraneo (“non self”), ma riesce anche a distinguere le strutture molecolari caratteristiche della propria individualità; e allora i
linfociti specifici per il self vengono eliminati o
addormentati con diversi meccanismi. È questa
la tolleranza immunitaria, che si può definire
come la perdita della capacità del sistema immunitario a rispondere ai propri antigeni; essa si
genera sia a livello centrale sia periferico.
La tolleranza centrale si instaura quando i
linfociti incontrano il rispettivo antigene durante il loro processo maturativo a livello degli organi linfatici centrali (midollo osseo per i linfociti B, timo per i linfociti T). In tal caso, essi non
vengono attivati, ma divengono tolleranti nei
confronti di quell’antigene. Tra i linfociti T
CD4+ o CD8+ maturi che lasciano il timo non
vi sono più cellule capaci di riconoscere gli autoantigeni presenti a livello centrale.
La tolleranza periferica si esplica nei confronti di quegli autoantigeni che non sono rappresentati a livello timico o midollare, ma sono
invece espressi nei tessuti periferici.
Appare chiaro che un’alterazione dei meccanismi normalmente responsabili del mantenimento della tolleranza può riaccendere risposte immunitarie nei confronti del “self” e quindi provocare l’insorgenza di fenomeni di autoimmunizzazione; l’autoimmunità risulta quindi legata ad
anomalie dei processi fisiologici di induzione e di
mantenimento della tolleranza da parte del sistema immunitario nei confronti del “self”.
Insomma se, per qualsiasi causa, si alterano i
meccanismi responsabili della induzione e del
mantenimento della tolleranza si può risvegliare
la risposta immunitaria verso antigeni self, caratterizzata dalla ri-comparsa di cellule T e B auto-aggressive, con l’eventuale instaurarsi di infiammazione e danno tissutale.
Come abbiamo già accennato, questo evento
si verifica solo in soggetti geneticamente suscettibili, dotati degli HLA che possano far attivare i
fenomeni auto-reattivi.
Ricordiamo che esistono tre tipi principali di
HLA della classe I (HLA-A, HLA-B e HLA-C) e
tre tipi principali nella classe II (HLA-DP HLADQ e HLA-DR); ciascun tipo comprende centinaia di sottotipi (esempio: HLA-B27) e ciascun
sottotipo centinaia di ulteriori sottotipi (esempio
HLA-B27.05). Pertanto esistono migliaia di possibili combinazioni di HLA. Lo straordinario numero di differenti HLA che ciascun organismo
possiede ha lo scopo di aumentare al massimo la
possibilità di intercettare il più elevato numero di
patogeni esogeni (e anche di qualsiasi struttura
“non self”). Nel campo delle malattie immunitarie, dato che anche in questo caso necessitano
HLA specifici per attivarle, la patologia può insorgere solo se l’organismo possiede quei tipi di
HLA; ecco perché alcune persone non si ammalano mai e altre invece sono colpite più facilmente, ciò dipendendo in parte significativa dalla combinazione di HLA posseduta geneticamente.
L’importanza dei fattori genetici nella insorgenza delle malattie autoimmuni è avvalorata
dalla loro frequente comparsa in più individui
dello stesso ceppo familiare; colpiscono due gemelli il 24% dei casi di LES, il 25 % della sclerosi multipla, e il 40% del diabete tipo 1. Ed è
proprio il tipo o i tipi di HLA posseduti che motivano tali comportamenti, come risulta chiaramente da molte osservazioni, anche sperimentali. In topini BALB/c l’infezione con virus coxsackie causa una miocardite autoimmune solo se
gli animali possiedono un certo tipo di MHC (definizione estensiva di HLA per Major Histocompatibility Complex).
Nella patologia umana, è paradigmatico l’evento che condiziona l’insorgenza della celiachia, che insorge solo se il soggetto è portatore di HLA DQA10501 o di DQB10201. Inoltre
l’allele DRB107 risulta associato al rischio di
sviluppare la Febbre Reumatica post-infezione
streptococcica. In soggetti con Epatite cronica
C, il possesso dell’HLA DR11 si associa alla
insorgenza della Crioglobulinemia mista. Si è
poi dimostrata l’associazione dell’HLA-DR2
con la sclerosi multipla (HLADR1501) e
dell’HLA-B27 con la spondilite anchilosante.
La malattia autoimmunitaria può essere
quindi definita come un’alterazione del sistema
immunitario tale da attivare lo sviluppo di risposte immunitarie dirette contro componenti del proprio organismo, in grado di determinare un danno
funzionale o anatomico del distretto colpito.
Le principali malattie autoimmunitarie sono:
Organ-specific
systemic
Hashimoto thyroiditis
systemic lupus
erythematosus
Autoimmune hemolytic
anemia
Rheumatoid arthritis
Autoimmune atrophic
gastritis of pernicious anemia
sjögren syndrome
Multiple sclerosis
Reiter syndrome
Autoimmune orchitis
inflammatory
myopathies*
Goodpasture syndrome
systemic sclerosis
(scleroderma)*
Autoimmune
thrombocytopenia
Polyarteritis nodosa*
insulin-dependent diabetis
mellitus
Myasthenia gravis
Graves’ disease
Primary biliary cirrhosis*
Autoimmune (chronic active)
hepatitis*
Ulcerative colitis
*The evidence supporting an autoimmune basis of
these disorders is not strong.
Da Robbins: Basic Patology, 8th ed
Queste patologie possono insorgere, nel corso della vita, in seguito al complesso gioco di interazioni tra il sistema immunitario e i numerosi
agenti biologici che continuativamente tale sistema è chiamato a controbattere. Non dimentichiamo che i geni più frequentemente associati
con le malattie autoimmuni sono quelli di classe
II (MHC), cioé gli stessi geni coinvolti nella presentazione degli antigeni microbici ai linfociti. È
pertanto altamente verosimile che risposte del si-
5
stema immunitario verso agenti infettivi di vario
tipo possano determinare la rottura della tolleranza verso gli autoantigeni e quindi dare inizio
al processo di autoimmunizzazione
L’AUTOiMMUniTà inDOTTA DA inFEziOni
6
Le infezioni hanno un importante ruolo nel
cosiddetto “mosaico dell’autoimmunità”. Si può
dire che ogni malattia autoimmune risulta in
qualche modo collegabile a una o più infezioni,
ricordando che un agente infettivo può scatenare differenti disordini autoimmuni, ma anche che
diverse specie microbiche possono essere coinvolte nella stessa patologia.
Uno dei più tipici esempi di questa relazione
è la Febbre Reumatica, che può insorgere diverse settimane dopo un’infezione delle alte vie respiratorie da parte dello Streptococco piogene;
la somiglianza molecolare tra la proteina M del
batterio e le glicoproteine umane causa, in soggetti geneticamente predisposti, la rottura della
auto-tolleranza verso le strutture che contengono
tali glicoproteine. Patogenesi analoga si osserva
nella “Sindrome anti-fosfolipidica”, nella quale
compaiono diversi auto-anticorpi self-reattivi,
uno dei quali, l’anti-β2 glicoproteina, riconosce
epitopi in comune con molti patogeni, come
l’Haemophilus influenzae e la Neisseria gonorrhoeae; in questi soggetti sono stati rilevati
alti titoli IgM contro toxoplasma e CMV. Sono
stati poi osservati rapporti stretti tra l’insorgenza
del diabete tipo 1 e le infezioni da enterovirus.
Per lungo tempo non si è compreso perché un
soggetto affetto da LES sia impegnato soprattutto con una patologia renale, mentre un suo gemello, con la stessa malattia, presenti patologia
cardiaca o del sistema nervoso centrale. Oggi si
ritiene che differenti infezioni siano responsabili per queste diverse manifestazioni cliniche; ad
esempio nel lupus che coinvolge il SNC si riscontrano spesso alti titoli IgM per il virus della
rosolia, mentre anticorpi anti-EB-virus correlano più frequentemente con lesioni articolari e cutanee, ma non con quelle renali o a carico del si-
stema nervoso. Nella granulomatosi di Wegener
gli anticorpi anti-CMV sono correlabili alle manifestazioni gastro-intestinali, mentre quelli verso l’EBV sono più evidenti nelle forme con impegno renale.
A proposito di EBV ricordiamo che esso risulta associato con numerose patologie autoimmuni e che l’immunizzazione di animali con
frammenti dell’antigene nucleare 1 (EBNA-1) ha
indotto la produzione di auto-anticorpi “lupuslike” (1). Gli studi effettuati in patologia animale confermano le osservazioni dell’innesco di patologia autoimmune da parte delle infezioni. I topini NZB/W sono geneticamente esposti, nella
loro vita, alla insorgenza di patologia LES-simile, con anemia emolitica autoimmune e nefrite;
diverse infezioni o l’iniezione di lipopolisaccaride possono accelerarne l’insorgenza (2,3).
In topini NOD (Non-Obese-Diabetic) compare spesso una infiltrazione linfocitaria che causa insulinite; infettando gli animali con un rotavirus (che nell’uomo viene associato all’esacerbazione dei fenomeni autoimmunitari anti-insule pancreatiche) si scatena rapidamente l’insorgenza dell’insulinite e la rapida comparsa del
diabete (4).
Vediamo ora quanto è noto sulla associazione tra fenomeni autoimmunitari e alcune infezioni da virus, batteri, parassiti e funghi:
Virus: è stata dimostrata l’associazione
tra il virus HCV e molte patologie autoimmuni, come la Crioglobulinemia, la Tiroidite autoimmune, la Malattia
di Crohn, il Pemfigo vulgaris e alcune vasculiti.
L’HBV, che causa infezioni latenti e ricorrenti,
risulta collegato con l’insorgenza di LES, Artrite a cellule giganti, Granulomatosi di Wagener,
Poliarterite nodosa e Sclerosi multipla; il virus è
stato inoltre isolato nella sinovia articolare dei
soggetti con Artrite Reumatoide e nelle ghiandole salivari della sindrome di Sjögren.
Batteri: l’Helicobacter pylori è sicuramente
implicato nella gastrite autoimmune. Inoltre, os-
servazioni epidemiologiche fanno ritenere
che vi sia un’associazione tra la sieropositività per questo germe e
l’insorgenza dell’aterosclerosi; studi sperimentali hanno evidenziato che una proteina
(HSP60: heat shock protein 60) derivata dall’Helicobacter induce una risposta immune Th1
nel topo iper-lipidemico che accentua la progressione dell’aterosclerosi (5). Altri studi hanno
evidenziato un ruolo di questo batterio nello sviluppo della porpora di Henoch-Schonlein, della
tiroidite autoimmune e della sindrome di Raynaud.
Parassiti: il Trypanosoma cruzi causa la
malattia di Chagas; nel
30% dei pazienti scatena una severa cardiomiopatia autoimmune,
in quanto molti suoi
antigeni (B13, cruzipain e Cha) cross-reagiscono
con antigeni dell’ospite. Addirittura se vacciniamo topini con gli antigeni dello Chagas, o iniettiamo in essi T-linfociti specifici per il cruzi possiamo causare la patologia descritta (6).
Sono stati rilevati alti titoli di anticorpi antitoxoplasma in pazienti affetti da cirrosi biliare
primitiva e da granulomatosi di Wegener.
Funghi: oggi si
considera l’Aspergillosi broncopolmonare allergica una reazione
immuno-mediata del
polmone a funghi, in
particolare all’Aspergillus fumigatus, che può insorgere in soggetti
affetti da malattia polmonare cronica ostruttiva.
Non sempre l’insorgenza di una malattia autoimmune è legata a un evento acuto sostenuto
da un unico stimolo patogeno; più spesso si tratta di un processo dannoso cumulativo, che agisce
ripetutamente nel tempo. Ad esempio, ripetute
infezioni che colpiscono e si ripetono fin dall’infanzia, in soggetti geneticamente sensibili,
possono raggiungere un punto di rottura, superare cioè il cosiddetto “carico infettivo” (infection burden) e dare inizio alla patologia autoimmune. Questo può essere ben rilevato nell’insorgenza della aterosclerosi, nella cui patogenesi sono implicati molti agenti infettanti (Clamydia
pn., CMV, H. pilory), anche se il ruolo di ciascuno di essi appare modesto. Un’indagine svedese caso-controllo (7), estesa all’intera nazione, ha evidenziato un collegamento tra le infezioni sofferte nel primo anno di vita e un aumentato rischio di sviluppare, nella età adulta,
un’artrite reumatoide siero-negativa e la sua forma giovanile. Studi analoghi hanno rilevato una
forte associazione, in soggetti adulti, tra presenza di anticorpi anti-nucleo e infezioni da parotite e rosolia sofferte nella infanzia. Stessa correlazione è stata fatta tra enteriti diarroiche del primo anno di vita e la dimostrazione nella età adulta di anticorpi anticardiolipina.
7
MECCAnisMi Di inDUziOnE Di AUTOiMMUniTà
In che modo gli agenti infettivi possono indurre l’instaurarsi di una patologia autoimmune?
1. Mimetismo molecolare (molecular mimicry)
È il meccanismo più comunemente in gioco
nella induzione della patologia autoimmune. Si
verifica quando gli agenti infettanti condividono
antigeni “cross”-reattivi con auto antigeni; e
quindi esiste una reattività crociata tra epitopi
(proteine, carboidrati, DNA) del patogeno e antigeni self dell’ospite. Il molecular mimicry si osserva tipicamente nel determinismo della Malattia Reumatica. Come abbiamo già accennato,
questa può insorgere alcune settimane dopo una
infezione da Streptococcus pyogenes di gruppo
A; la somiglianza antigenica tra proteine del germe e glicoproteine cardiache può dare origine alla perdita della tolleranza verso il miocardio, con
produzione di anticorpi cross-reattivi e insorgenza di focolai miocarditici. Gli epitopi strep-
8
tococcici N-acetil-glucosamina e proteina M mimano la miosina miocardica e le alfa-elicoproteine presenti nelle valvole. Ricordiamo che il
trasferimento passivo di anticorpi prelevati dal
ratto immunizzato con miosina cardiaca può scatenare una tipica cardiomiopatia (8). Come per
tutte le altre patologie autoimmuni, la Malattia
Reumatica insorge, dopo la faringite streptococcica, soltanto in soggetti geneticamente suscettibili, e cioè solo nel 3% degli infetti e in persone
dotate di alcuni antigeni di istocompatibilità
(HLA DR 4, 2, 1, 3, 7 e DRB1*16).
Un altro esempio del molecular mimicry si
osserva nella associazione tra il Campylobacter
jejuni e la sindrome di Guillain Barré; in questa,
il ganglioside GM1 si comporta come auto-antigene. I ceppi di Campylobacter dotati del gene
sialiltransferasi inducono la sintesi di lipo-oligosaccaridi GM1-like; conigli sensibilizzati con
questa sostanza sviluppano anticorpi rivolti verso il proprio GM1 con induzione di paralisi flaccide (9). Appare relativamente comune osservare risposte immuni tra molti virus e alcune strutture dell’ospite. Inducendo la produzione di anticorpi contro morbillo o herpes virus, è stato dimostrato che la maggior parte di essi reagisce solo con lo specifico antigene virale, ma alcuni
hanno azione dannosa anche su cellule non infette; almeno il 4% degli anticorpi monoclonali
antivirus reagiscono anche con proteine self.
È stato dimostrato che la polimerasi del virus
dell’epatite B possiede un epitopo in comune con
la proteina basica della mielina (MBP); quando
si inietta nei conigli questo peptide virale, si formano anticorpi anti-MBP e molti animali sviluppano una encefalomielite autoimmune (10). È interessante notare che lo sviluppo della reazione
auto-aggressiva avviene specialmente se l’epitopo viene somministrato insieme al cosiddetto
adiuvante completo di Freund. È noto che gli
adiuvanti sono in grado di formare complessi insolubili con l’antigene, prolungandone notevolmente il tempo di persistenza nell’organismo (da
24 ore fino a 3-4 settimane); inoltre aumentando
le dimensioni dell’antigene incrementano l’attività delle cellule fagocitarie. Un tipo di adiuvan-
te è rappresentato dalle emulsioni acqua-olio: il
più noto è storicamente l’adiuvante di Freund,
che può essere incompleto (mistura di un olio minerale leggero con monooleato di mannide) o
completo (si aggiungono alla mistura micobatteri uccisi). E ricordiamo che, almeno in patologia
sperimentale, “in most if not all the model where
molecular mimicry has been used to induce an
autoimmune disease, an adjuvant such as CFA
…is required” !!! (11).
2. Liberazione di epitopi modificati (epitope
spreading) nelle infezioni persistenti
La risposta immunitaria rivolta verso un patogeno persistente e i prodotti litici provenienti
dalle proprie strutture alterate dal processo infettivo possono causare la liberazione in circolo
di antigeni self che vengono captati dalle cellule
APC; si innesca così una reazione di autoaggressione. Si verifica cioè una sorta di trasformazione di autoantigeni tollerati in neoantigeni
parzialmente “cross”-reattivi, con la modifica
della specificità di un epitopo dominante in uno
sub-dominante (criptico). Per esempio, nel caso
della Febbre Reumatica, lo stato autoimmunitario cronico che danneggia il tessuto valvolare
cardiaco può sviluppare una risposta del sistema
immunitario verso neo-epitopi, come le proteine
del connettivo laminina o collagene. Processi simili possono verificarsi in alcune infezioni virali persistenti. Nel topino il virus dell’encefalomielite murina di Theiler (TMEV) determina una
prolungata infezione nel SNC definita “malattia
demielinizzante cronica T-cell-mediata”, nella
quale si può dimostrare una progressiva accentuazione dell’immunizzazione verso i vari epitopi mielinici che via via si evidenziano (12).
3. Attivazione di antigeni silenti o sequestrati
(bystander activation – cryptic antigens)
Danni tissutali indotti da un’infezione virale
possono causare il rilascio di antigeni dianzi sequestrati, che mettono in moto linfociti auto-reattivi, non direttamente impegnati nell’iniziale reattività all’infezione virale. E le cellule T-virusspecifiche possono dare inizio al fenomeno, dopo
la ricognizione delle cellule virus-infette, producendo granuli citotossici e citochine e dando origine a un ambiente infiammatorio che può causare un bystander killing delle cellule presenti in tale ambiente, anche se non infette dal virus. Questo è stato dimostrato in modelli animali, causando diabete tipo 1 o encefalomieliti autoimmuni.
Le tre descritte modalità dell’insorgenza di
una risposta autoimmune possono comparire in
corso di un processo infettivo. Ed è stata avanzata la teoria del“campo fertile” (fertile field):
cioè, ogni individuo viene ripetutamente esposto, nel corso della vita, a varie sollecitazioni
immunogene, abitualmente senza evidenti conseguenze. Ma se al momento della esposizione a
un tale stimolo, nel soggetto si sviluppa una infezione virale, questa potrebbe alterare l’ambiente immunologico dell’incontro con l’antigene (13).
Ad esempio un virus che possiede un mimetismo molecolare con proteine del SNC dell’ospite può inizialmente attivare cellule T autoreattive, ma non fino al punto da mettere in moto la malattia neurologica autoimmune, che però
può comparire successivamente quando ulteriori eventi, infettivi o non, attivino tali cellule.
mente il Plasmodium berghei previene il Lupus
nei topi e l’artrite nei ratti (14,15,16). Appare interessante il rilievo che, mentre nei discendenti
dei neri africani, viventi nei paesi occidentali, la
comparsa del LES è frequente, la prevalenza di
questa malattia è bassa in Africa, specialmente
nelle zone ricche di Malaria.
AUTOiMMUniTà E VACCinAziOni
Le vaccinazioni rappresentano il prototipo
della stimolazione del nostro sistema immunitario; e se esse sono generalmente sicure e meritorie per aver contribuito alla eradicazione di molte malattie endemiche e per aver ridotto la morbosità e la mortalità del genere umano, non possiamo non considerare la possibilità che inducano fenomeni autoimmunitari nei soggetti vaccinati (17).
9
EFFETTi PROTETTiVi DELLE inFEziOni sULL’AUTOiMMUniTà
Ci si è chiesti se le infezioni possano svolgere una azione protettiva sulle patologie autoimmuni (e su quelle allergiche); dal 1989 è nata la
cosiddetta “hygiene hypothesis” che sostiene che
l’aumento dell’insorgenza delle malattie autoimmuni nei paesi occidentali evoluti, soprattutto nella seconda metà del ventesimo secolo
(Diabete tipo 1, Sclerosi Multipla, Malattie intestinali infiammatorie, ecc.) sia dovuta in gran
parte alla riduzione della patologia infettiva e al
miglioramento delle norme igieniche. È stato osservato che il virus della epatite B svolge una
azione protettiva contro l’insorgenza del LES. È
stato dimostrato che l’infezione dei topi NOD
con lo Schistosoma mansonii o con il Coxsackievirus previene l’insorgenza del diabete. Simil-
Un’associazione probabile è stata evidenziata
nei riguardi della Sindrome di Guillain-Barré con
la vaccinazione contro l’Influenza suina del 1976,
della porpora immune trombocitopenica con il
vaccino anti-morbillo-parotite-rosolìa e della miocardiopericardite con la vaccinazione anti-vaiolosa. Il sospetto dell’induzione della sclerosi multipla da vaccinazione anti-Epatite B, che dopo studi prolungati era stato considerato inattendibile,
viene ora rivalutato (18).
Una recentissima osservazione su due casi di
anemia emolitica autoimmune, insorta dopo vaccinazione antinfluenzale, ripropone un problema
molto discusso nell’ultimo decennio, quello del-
10
l’eventuale induzione di manifestazioni autoimmunitarie da parte dei cosiddetti adiuvanti (19).
Come già accennato, ricordiamo che un adiuvante è un agente in grado di stimolare il sistema
immunitario e di incrementare la risposta a un
vaccino, senza svolgere di per sé un effetto antigenico specifico. Ma come funzionano gli adiuvanti? Probabilmente essi sono dotati di mimetismo (mimicking specific sets) rispetto ai cosiddetti PAMPs (Pathogen-associated molecular
patterns), molecole appartenenti a gruppi microbici che sono riconosciute dalle cellule del sistema immunitario innato, attraverso i loro recettori (Toll-like receptors). Poiché il sistema immunitario è evoluto assumendo la capacità di riconoscere queste strutture antigeniche presentate
dai patogeni, la presenza dell’adiuvante può fortemente incrementare la risposta innata nei riguardi del vaccino stimolando l’attività delle cellule dendritiche, dei macrofagi e dei linfociti mimando una infezione naturale. In soggetti geneticamente predisposti questo fenomeno può scatenare malattie autoimmuni!
Al riguardo, è stata a lungo discussa la cosiddetta “Sindrome della guerra del Golfo”, che è una
malattia di cui hanno sofferto i veterani che combatterono questa guerra nel 1991, caratterizzata da
sintomi che comprendono disordini al sistema immunitario, sindrome da fatica cronica, perdita di
controllo muscolare, cefalee, vertigini e perdita
dell’equilibrio, problemi di memoria, dolore muscolare e alle articolazioni, indigestione, problemi dermatologici, ecc. È stato rilevato che, durante l’operazione Tempesta nel deserto, il 41%
dei soldati statunitensi e tra il 57% e il 75% dei
soldati inglesi furono vaccinati contro l’antrace.
Nel 2002 venne pubblicato uno studio che collegava lo squalene, un coadiuvante sperimentale dei
vaccini, a individui che mostravano i sintomi clinici della “sindrome della guerra del Golfo” (20).
In patologia sperimentale è stato rilevato che gli
adiuvanti del vaccino per l’antrace hanno provocato in topi alterazione dei neuroni motori e artrite cronica mediata dai linfociti T (21, 22).
Un altro interrogativo è quello dell’efficacia e
della sicurezza delle vaccinazioni effettuate in sog-
getti già sofferenti di patologie autoimmuni, sia per
il sospetto di una minore attività del vaccino nell’indurre la risposta protettiva, sia per il timore di
aggravamento o riattivazione della malattia immunitaria. Anche se i dati della letteratura sono
scarsi al riguardo, possiamo dire che “le vaccinazioni non hanno dimostrato di esplicare un aggravamento della malattia nei pazienti con Sclerosi
multipla, LES, Artrite Reumatoide, Diabete tipo 1,
Vasculiti e Miastenia grave. Ma l’effetto immunogeno, pur se protettivo, è risultato ridotto rispetto ai
controlli normali, soprattutto in relazione alla severità della malattia autoimmune e all’eventuale
terapia immunosoppressiva in atto” (23).
Comunque, data la relativa rarità degli effetti negativi delle vaccinazioni sulla patologia autoimmune, e dato il pericolo della gravità che
possono assumere le malattie infettive in questi
malati, è utile effettuare sempre le vaccinazioni
in questi casi.
Forse, ricordando quanto abbiamo detto riferendoci alla patologia sperimentale (“in most if
not all the model where molecular mimicry has
been used to induce an autoimmune disease, an
adjuvant such as -CFA …is required”), va attentamente valutato se possa essere più sicuro preparare vaccini con più elevata dose di immunogeno, evitando di aggiungere adiuvanti, capaci
di stimolare anche reazioni autoimmuni.
RisCHiO Di inFEziOnE in sOGGETTi
sOTTOPOsTi A TERAPiE iMMUnOsOPPREssiVE
Ricordiamo che la terapia immunosoppressiva prolungata, che altera sempre la risposta linfocitaria e citochinica, può essere causa della insorgenza o della riaccensione di alcune infezioni. Gli anticorpi monoclonali usualmente impiegati (i così detti “biologici”) bloccano o riducono la risposta immunitaria difensiva, così facilitando l’insorgenza o la riattivazione di alcune
malattie infettive, come la Tubercolosi, l’Herpes
zoster, ecc. (24-28). Tale rischio è massimo nei
primi sei mesi di trattamento (29) e va attentamente valutato per le opportune profilassi.
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Il prof. Augusto Vellucci, già primario infettivologo dell’Ospedale di Viterbo, specialista in Clinica Medica e Malattie infettive, svolge la sua attività
di consulenza presso la BIOS S.p.a. di via Domenico Chelini 39 a Roma.
Info CUP 06809641
11
co in condizioni differenti senza ripetere esperienze o in situazioni non verificabili sperimentalmente; convalidare o smentire ipotesi biologiche; indagare proprietà di materiali biologici o
misti; evidenziare legami non immediatamente
verificabili nel contesto degli eventi medici analizzati. Esistono vari centri nazionali e internazionali che promuovono attività di formazione e
ricerca in questo ambito multidisciplinare. Attenzione: non si tratta di adattare la biologia e/o
la medicina (che è biologia) alla matematica, ma
dell’esatto contrario: prendere spunto dalla dimensione biologica per “costruire” una sorta di
“nuova matematica”.
12
MixinG
OnORE AL MERiTO iTALiAnO
Non tutti sanno che uno dei più importanti
studiosi della malaria è stato un italiano: Angelo Celli (nella foto). Nato in una tranquilla cittadina delle Marche il 25 marzo 1857, a Cagli, si
laureò a Roma nel 1878 e divenne professore di
Igiene. Il suo contributo è stato fondamentale sia
nell’ambito scientifico sia nell’ambito sociale ed
educativo. Sostanziale il suo apporto alle leggi
per la fondazione dell’Azienda Chinino di Stato. Consapevole dell’arretratezza delle conoscenze tra la povera gente si impegnò attivamente per la costituzione di “scuole” a favore
dei contadini che vivevano nell’Agro Romano e
nelle Paludi Pontine.
nOn sOLO nUMERi
L’impiego della Matematica in Medicina e
Biologia è cosa ovvia ma meno percepita di
quanto si dovrebbe. Il dato più recente, negli ultimi anni, riguarda la disponibilità di nuove tecniche di indagine per la possibilità di organizzare la sempre più ampia quantità di dati e informazioni. Ma non si tratta di “sola” statistica; gli
studi d’avanguardia si riferiscono alla simulazione numerica di modelli biologici nell’ambito
dei fenomeni complessi che necessitano di predittività. Tra i vantaggi offerti da un modello matematico in biologia o medicina si possono citare: studio del l’evoluzione di un sistema biologi-
PAnCREATiTE ACUTA DA FARMACi:
ATTEnziOnE ALLE TERAPiE
I medici devono avere in mente che un’alta
percentuale di malati viene ricoverata per pancreatite non altrimenti interpretabile se non a
causa dell’assunzione di farmaci. Lo rivela uno
studio osservazionale e multicentrico condotto
da Hans A. Tuynman e collaboratori, del Dipartimento di Gastroenterologia ed Epatologia presso il Rijnstate Hospital, ad Arnhem (Olanda).
Considerando l’intero campione arruolato nello
studio, è emerso che il 41,6% dei soggetti studiati assumeva farmaci associati alla pancreatite
quando sono stati ammessi in una struttura clinica. [Da: pubmed: Am J Gastroenterol, 2011 Sep
13. Epub ahead of print].
MOniTORAGGiO PER VACCinO AnTiPERTOssE
La tosse “convulsa”, la pertosse, è una ben
nota patologia altamente contagiosa delle vie respiratorie. Sebbene all’inizio possa ricordare un
comune raffreddore i sintomi peggiorano nel
tempo e possono essere una serio problema, soprattutto nell’età infantile. La migliore prevenzione è il vaccino. Secondo un recente studio è
possibile che il vaccino perda o riduca sensibilmente entro i tre anni la sua efficacia veramente
protettiva. Lo studio, condotto in forma preliminare, solleva un problema comunque importante
sull’opportunità o meno di effettuare un richiamo
in tempi anticipati rispetto a quanto ritenuto in
passato. “I was disturbed to find maybe we had
a little more confidence in the vaccine than it might deserve” ha comunicato il dr. David Witt, capo del Infectious Disease – Kaiser Permanente
Medical Center in San Rafael, Calif. Witt, che ha
recentemente presentato le sue osservazioni presso l’American Society for Microbiology Conference in Chicago.
Human Services, in collaborazione con un’organizzazione privata nonprofit, ha lanciato un’iniziativa (Million Hearts) con lo scopo di prevenire un milione di attacchi cardiaci nei prossimi
cinque anni. Ricordiamoci dunque: usare lo stile di vita e un’accorta gestione delle nostre conoscenze mediche. Lo scopo dell’iniziativa si
fonda su uno sforzo integrato capace di unificare impegno scientifico, programmi di informazione e adeguate politiche sanitarie.
13
VACCini PER L’AUTOiMMUniTà?
sALVARE MiLiOni Di CUORi
Negli USA, secondo un recente report del
Morbidity and Mortality Weekly Report [2011;
60: 1248-51], persiste il problema drammatico
delle malattie cardiovascolari associate a definiti fattori di rischio: controllo inefficace dell’ipertensione, alti livelli della colesterolemia
(LDL-C), fumo di sigaretta. Nello studio viene
riferito che il 49,7% degli adulti con età maggiore dei 20 anni hanno almeno uno dei fattori
di rischio segnalati. Il Department of Health and
Sebbene si conosca molto dei processi che
determinano il danno nei tessuti in corso di malattie autoimmuni, restano aperti numerosi problemi nella pratica clinica. Nel suo paper su Autoimmun. Rev. dell’agosto 2011 D.H. Dreyfus
(Autoimmune disease: A role for new anti-viral
therapies?) discute il significato di nuove terapie antivirali potenzialmente in grado di essere
utilizzate per le malattie autoimmuni. In sostanza è possibile che farmaci inibitori dell’integrasi virale, molecole capaci di “silenziare”
alcuni geni, specifici vaccini siano in grado di
ri-modulare la risposta immunitaria nei casi di
patologia autoimmune (artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico, sclerosi multipla). È
probabile che anche anticorpi monoclonali, per
esempio anti-linfociti B, siano in grado di eliminare cloni cellulari memoria la cui persistenza è a rischio per la comparsa di una risposta
autoimmunitaria.
UniTi COnTRO LO sTROKE
OVERsHOOT DAY: DEFAULT DEL PiAnETA TERRA?
14
Una notizia da non trascurare, pur con le dovute riserve del caso. Dal 27 settembre del 2011
(secondo notizie di stampa) il bilancio tra risorse rinnovabili e consumi entra in area critica:
questo significa che abbiamo cominciato a impiegare fonti che “non si ricaricano”. Questo significa che le risorse rinnovabili della Terra si
stanno esaurendo e che per proseguire con le nostre abitudini di bipedi evoluti dobbiamo inevitabilmente contrarre un debito, cioè dobbiamo
utilizzare un “tesoro” biologico e strutturale del
pianeta che in pratica non possediamo: quindi
impoverire ulteriormente gli oceani con la pesca,
tagliare foreste, prelevare acqua da riserve fossili che non potranno ricaricarsi. Secondo le stime del Global Footprint Network, la rete che
monitorizza la biocapacità globale, stiamo messi piuttosto male anche se ancora, nella nostra
quotidianità non ne abbiamo coscienza.
Il futuro si può cambiare? Dipende da noi, dallo stile di vita: se ne parla a livello individuale per
ridurre diabete, sindrome metabolica, obesità,
stroke, tumori, ecc. Ma dobbiamo ragionare in termini di specie, puntare alla qualità. Un pianeta
sporco e stressato si pone tra le cause di nuove patologie, soprattutto con l’emergere di malattie infettive e generando le premesse di una peggiore
qualità della vita (conservazione del cibo, uso
massiccio di fertilizzanti, discariche, crescita dell’inquinamento ambientale, difficoltà “psicologica” della vita soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane).
Linee-guida sulla prevenzione dello stroke.
Il 25% degli stroke che colpiscono la popolazione hanno carattere recidivanti, per cui la prevenzione diventa essenziale. L’American Heart Association/American Stroke Association ha aggiornato le sue classiche raccomandazioni per i
pazienti già colpiti da TIA o da stroke, con lo
scopo di evitare nuovi episodi. Particolare rilievo è stato dato al controllo dei fattori di rischio,
al controllo dell’aterosclerosi e all’impiego delle terapie antitrombotiche. Il testo è strategicamente finalizzato ad evidenziare un trattamento
ad approccio multiplo, non basato essenzialmente sui farmaci. Il testo è reperibile da: Furie
K.L. et al. Guidelines for the prevention of stroke
in patients with stroke or transient ischemic attack: A guideline for healthcare professionals
from the American Heart Association/American
Stroke Association. Stroke 2011 Jan; 42:227.
sPiRiTUALiTà E DEPREssiOnE
Esseri “spirituali” aiuta? Forse sì. Uno studio prospettico (Joel Yager, “Being Spiritual
Protects People from Depression”. In: Journal
Watch Psychiatry, September 19, 2011) sembra confermare il dato soprattutto in individui
già sofferenti di depressione e con genitore depresso. Era già noto come soggetti con particolari inclinazioni religiose risultassero più
“difesi” nei confronti di ricadute in senso depressivo, così come una certa soglia di predisposizione ereditaria verso “spiritualità” e “religiosità” è stata descritta da tempo. L’argomento è ovviamente complesso e ricco di variabili interpretative. È però utile che i medici,
durante la loro pratica clinica, si informino dai
pazienti con depressione in merito alle loro
convinzioni religiose o spirituali. È possibile
infatti che con il supporto di queste linee di
comportamento gli individui traggano un vero
beneficio clinico.
a cura di Giuseppe Luzi
BiOFiLM E CREsCiTA BATTERiCA:
UnA sFiDA DA nOn PERDERE
Giuseppe Luzi
Specialista in Immunologia Clinica e Malattie Infettive
15
PRiMi PAssi
I batteri sono in grado di adattarsi a diverse
condizioni di crescita in differenti contesti ambientali e anche in presenza di molecole antimicrobiche. Con altrettanta abilità possono contenere e limitare gli attacchi del sistema immunitario. Per molti anni la ricerca sui batteri e sulla
patogenesi delle malattie infettive ha concentrato le proprie energie nel descrivere le caratteristiche biologiche e di popolazione riguardanti le
specie batteriche in grado di nuocere all’uomo.
Questo passaggio “storico” era inevitabile, legato a esigenze tecniche e al ruolo devastante di
gravi malattie infettive spesso mortali o in grado
di lasciare sequele invalidanti. Gli studi sulla risposta immunitaria hanno permesso di comprendere alcuni aspetti fondamentali della funzione antimicrobica che l’organismo è in grado
di mettere in atto contro i diversi patogeni, ma
soltanto da pochi anni abbiamo le idee più chiare sulle modalità con le quali si svolgono le interazioni tra cellule del sistema immunitario e
popolazione dei microrganismi.
REALTà E iMMAGinAziOnE
Quando si descrivono le proprietà dei batteri, pur con tutte le attenuanti necessarie per una
conoscenza didatticamente efficace, se ne “semplificano” gli aspetti strutturali (esistenza della
parete batterica, caratteristiche di colorazione al
microscopio, resistenza all’ambiente, etc.) e si
incasellano giustamente le informazioni per arrivare a definire le proprietà funzionali degli stessi microrganismi (basti pensare al ruolo di un antibiogramma, al significato clinico di una sua
corretta esecuzione, e all’attendibilità delle risposte di laboratorio). Ma la semplificazione è
sempre un rischio. Uno degli aspetti fondamen-
16
tali della crescita batterica e delle proprietà acquisite nel corso dell’evoluzione per sopravvivere a determinate condizioni ambientali è la capacità dei microrganismi di vivere in “comunità”. Quando immaginiamo i batteri probabilmente, in prima approssimazione, li pensiamo
come piccoli microrganismi che si muovono nel
sangue o in altri liquidi biologici dove si trovano
bene per il loro nutrimento e la loro esigenza di
specie. Ma le cose non stanno proprio così, o meglio, la faccenda impone una lettura più complessa e meno banale. Mettiamoci dal punto di
vista dei batteri: devono mangiare, vivere, riprodursi. Devono difendersi dall’aggressione ambientale. Devono cambiare nel tempo, almeno un
po’, per sfuggire a un sistema immunitario
tutt’altro che sprovveduto. Come fare allora?
denza ad attaccarsi su diverse superfici, viventi o
non viventi, utilizzando questa proprietà per
moltiplicarsi e vivere all’interno di un ambiente
biologicamente vantaggioso. Questa comunità
ben organizzata prende il nome di biofilm. Il biofilm rappresenta un esempio molto valido della
capacità “fisiologica” espressa dai microrganismi per adattarsi all’ambiente e costituisce uno
degli elementi costitutivi con i quali le popolazioni batteriche possono resistere ad agenti antimicrobici. Ormai abbiamo acquisito la conoscenza che una gran parte delle infezioni causate dai batteri (endocarditi, carie dentali, osteomieliti, infezioni dell’orecchio medio, infezioni
derivate da cateteri o altri “medical-device”, infezioni croniche del polmone come si verifica
nella fibrosi cistica) sono di difficile controllo
proprio per la presenza dei biofilm.
ORGAnizzARsi ED EVOLVERE
iL BiOFiLM
Un esempio di come i batteri abbiano acquisito una forte capacità di adattamento è fornito
dalla loro abilità di crescere in vere e proprie comunità. I microrganismi hanno una naturale ten-
È dunque importante conoscere la struttura
del biofilm, le sue caratteristiche morfologiche e
il ruolo funzionale che assume. Il biofilm si può
definire come una comunità ben strutturata di
cellule (batteri, ma anche cellule eucariotiche)
all’interno di una matrice polimerica che viene
prodotta dalle cellule stesse, matrice che cresce
su superfici inerti o viventi (biologiche), localizzandosi in modo preferenziale all’interfaccia con
una fase liquida. In generale si distinguono due
differenti tipi di cellule. Si hanno batteri che si
muovono liberamente e hanno un carattere “nomade” (flora planctonica) e batteri adesi alla superficie sulla quale si è costituito il biofilm (comunità sessile).
La formazione del biofilm è un processo dinamico che comprende la transizione fra le cellule free-swimming (forma planctonica) e quelle attaccate alla superficie (sessili). La transizione ha origine in risposta a diversi stimoli ambientali tra i quali uno dei più importanti è la
disponibilità di nutrimento. Come ha inizio il
processo? Dapprima i batteri prendono contatto con la superficie ma l’adesione non è immediata né definitiva.
Se cominciano a secernere una matrice, questa gradualmente svolge il ruolo di contenimento per stabilizzare nella sede del contatto iniziale le cellule e costituisce anche un vero microambiente (buffer) di difesa verso le strutture
circostanti. Le componenti della matrice sono
molecole di varia origine: si distinguono i polisaccaridi extracellulari (EPS), proteine, acidi nucleici. Quindi i microrganismi free-swimming
(planctonici) dallo stato liberamente fluttuante
aderiscono ad una superficie. Questa fase inziale è il vero momento critico: infatti i primi coloni agganciati alla superficie rendono più semplice il sopraggiungere di altre cellule con la formazione della stessa matrice costituiva del biofilm. È interessante osservare che alcune specie
17
Esempio di crescita di biofilm su un singolo granello di sabbia. La sabbia è stata raccolta in una spiaggia
vicino Boston nel settembre 2008 e trattata con scanning Electron Microscope (sEM). image courtesy of
the Lewis Lab at northeastern Lab at northeastern University. image created by Anthony D’Onofrio, William H. Fowle, Eric J. stewart and Kim Lewis.”
18
batteriche non in grado di agganciarsi a una superficie possono però ancorarsi alla matrice o addirittura ai batteri che hanno formato la primigenia colonia. Il meccanismo, a questo punto, è attivato: iniziata la colonizzazione il biofilm cresce
grazie a diverse divisioni cellulari e acquisisce
anche popolazioni batteriche che appartengono
ad altre specie. Quindi in un biofilm abbiamo un
attecchimento iniziale che, dapprima reversibile, poi diventa irreversibile. La matrice va incontro a diversi livelli di maturazione e il sistema gradualmente acquisisce una sua dinamica
ben definita.
I biofilm di solito consistono di molte specie
di batteri (consorzio batterico). I consorzi batterici sono quelli più frequenti mentre risulta più
difficile e meno probabile la formazione di biofilm derivati da una singola specie. Ogni specie
presente nel consorzio svolge differenti funzioni
metaboliche ed esprime un proprio trofismo.
Questa evoluzione implica il generarsi di una ben
definita nicchia ecologica. Il fenomeno ha un
grande interesse nella dinamica evoluzionistica,
poiché consente la convivenza di specie diverse
senza che tra loro entrino in conflitto.
Nella trama della matrice i composti polimerici danno una conformazione solida tridimensionale a tal punto che, se si verificano alcune
condizioni, si osserva una vera e propria fossilizzazione. All’interno della matrice, che svolge
un ruolo protettivo per le cellule che vi sono contenute, si generano canali fluidi, vere e proprie
vie di comunicazione che distribuiscono ai singoli raggruppamenti cellulari le molecole di nutrizione e di segnalazione. Ovviamente questi canali consentono anche di convogliare verso la
parte “periferica” del biofilm i prodotti di scarto
o comunque variamente elaborati (per esempio
esotossine).
iL BiOFiLM nEL TEMPO
Quando il biofilm è maturo la sua evoluzione, e in parte, le sue caratteristiche dipendono
dalla sede di impianto, dalla natura dei microrganismi e dalla disponibilità dei nutrienti. Così
John William Costerton
sono descritti biofilm formati da densi strati di
cellule confluenti (placche dentali, biofilm di cateteri urinari) o da piccole colonie (definite microcolonie) che sono disperse o aggregate a partire da uno strato particolarmente sottile.
Il pioniere degli studi sui biofilm è stato J.W.
Costerton (Montana State University-USA) che
originalmente definì il biofilm come una “complex aggregation of microorganisms marked by
the excretion of a protective and adhesive matrix
(EPS)”.
Costerton ha dato un contributo originale ed
efficace alla comprensione del problema stimolando una serie di studi che hanno avuto importanti applicazioni non solo nell’ambito biomedico ma in diverse aree applicative, dall’ingegneria navale alla gestione delle pompe anti-incendio, fino alla conservazione di reperti archeologici e così via.
Proprio dagli studi di Costerton si è compreso come sia di particolare interesse la conoscenza delle modalità con le quali i batteri del consorzio si “parlano” tra loro: alcuni batteri producono segnali (molecole) che raggiungono altre
cellule in un processo organizzativo noto come
cell-cell communication or signaling. Questa comunicazione intracellulare all’interno del biofilm
è la condizione che rende possibile un comportamento finalizzato e coordinato tra le diverse
popolazioni microbiche.
QUORUM sEnsinG
Con questa espressione si definisce, all’interno del biofilm, la capacità che hanno le colonie di “sentire” la loro dimensione e di regolarsi di conseguenza. È un sistema di regolazione che agisce in modo critico sull’evolversi
del biofilm e sul comportamento delle popolazioni batteriche. In sostanza il quorum sensing
rappresenta una rete di comunicazione tra i batteri. Utilizzando questo processo i microrganismi vanno incontro a diversi mutamenti fisiologici che inducono caratteristiche funzionali
utili al sistema, per esempio la maggiore resistenza agli antibiotici dei batteri nel microfilm
rispetto allo stesso microrganismo vagante allo
stato libero. Analizzando con qualche dettaglio
il contesto del quorum sensing possiamo vedere che per, batteri gram-negativi, la comunicazione cellulare avviene attraverso l’attività delle molecole di omoserina lattone acetilata
(AHLS). Queste piccole molecole di segnale,
veri e propri autoinduttori, vengono liberate
dalle cellule e tendono ad accumularsi nelle colture in funzione della densità cellulare. Il quorum è rappresentato dalla densità della popolazione soglia. L’accumulo di AHLS consente
l’interazione con recettori disposti sulla superficie della cellula batterica, recettori in grado di
controllare l’espressione genica.
PUnTi DA POnDERARE
Dove possiamo trovare i biofilm?
• Sulle pietre lungo la riva di un fiume
• Sui denti e sulle lenti a contatto
• Nelle ferite infette
• In tubi dove scorre l’acqua
• In strumentazione medica come i cateteri
Perché si formano i biofilm?
I batteri adottano una strategia con la quale accrescono la possibilità, per un consorzio
di cellule, di contenere in senso “evoluzionistico” la pressione selettiva ambientale.
Quando si formano?
I batteri possono essere presenti in forma
planctonica (liberi) o aggregarsi; il biofilm si
forma quando alcuni batteri dallo stato di freeswimming si attaccano ad una superficie (inerte o di materiale biologico). Inizialmente si ha
una piccola colonia ma poi cominciano alcune
trasformazioni critiche.
Come si formano?
Si generano segnali che portano alla formazione di una matrice all’interno della quale si dispongono batteri di una sola specie o
di più specie. Un meccanismo di grande inte-
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resse noto come quorum sensing consente di
regolare la struttura del biofilm. Con questo
meccanismo si regola in vario modo la densità delle popolazioni batteriche coinvolte.
Grazie a molecole che vagano in canali di
flusso all’interno dei biofilm i batteri comunicano fra loro.
Chi forma i biofilm?
Vari microrganismi Gram negativi, Gram
positivi, funghi, sono in grado di formare un
biofilm.
i biofilm sono un pericolo per la salute?
Si, perché è difficile la loro eradicazione:
sia la risposta immunitaria sia l’azione degli
antibiotici risultano spesso inefficaci. Sono in
corso studi promettenti che mirano ad utilizzare molecole in grado di disaggregare la struttura di molecole (matrice) del biofilm.
Mutanti non in grado di produrre AHLS sono
stati identificati nella P. aeruginosa: questi ceppi
erano in grado di formare unicamente sottili strati di cellule non differenziate su una superficie di
vetro. L’aggiunta dell’AHL al mezzo di coltura
poteva ripristinare la capacità del mutante di costruire un biofilm come si osserva nel fenotipo
“selvaggio”. In pratica se volessimo semplificare
il fenomeno e indichiamo con P la variante planctonica, con S la variante sessile di un batterio e
con B il prodotto finale (biofilm), potremmo scrivere:
P
S
B
(auto-) induttore,
e concludere che AHL presenti nel biofilm in sviluppo inducono la trasformazione del pool planctonico nella variante sessile, iniziando la costruzione delle complesse strutture multicellulari che
formano la comunità batterica.
Il quorum sensing è stato anche descritto nei
batteri gram-positivi, che utilizzano però autoin-
duttori con molecole diverse (piccoli peptidi). In
termini operativi il quorum sensing è l’espressione genica dipendente dalla concentrazione
cellulare e la comunicazione fra cellule (il quorum sensing per appunto) è facilitata dalla stessa natura del biofilm rispetto a quanto si osserva
in colture prevalentemente liquide.
inFEziOni E BiOFiLM
Le infezioni a carattere persistente rappresentano un importante problema medico, sia per
gli aspetti clinici sia per le implicazioni economiche e assistenziali. Sotto il profilo biologico
nulla di nuovo: l’organismo invaso dai patogeni tenta di eliminarli o di contenerli mentre il
patogeno invasore cerca di prevalere o, almeno, di vivere/sopravvivere nell’ospite. E proprio
il biofilm rappresenta una delle strategie più comuni messe in atto dai batteri per difendersi dai
meccanismi di contenimento dell’ospite.
Da questo punto di vista difensivo/aggressi-
20
Un esempio di oggetto sul quale si formano i biofilm: lo spazzolino da denti.
University. image created by Anthony D’Onofrio, William H. Fowle, Eric J. stewart and Kim Lewis.”
vo la costruzione del biofilm per i batteri rappresenta una modalità di difesa rispetto alle molecole di antibiotici e un vero e proprio schermo
per bloccare la risposta immunitaria. Ovviamente se lo schema difensivo funziona ne deriva una
maggiore capacità aggressiva, che si può espletare in varie maniere. I batteri con i quali si pone il problema sono numerosi, basta citarne alcuni: lo Pseudomonas aeruginosa (nel contesto
della fibrosi cistica), l’Escherichia coli (infezioni delle vie urinarie), il Mycobacterium tuberculosis ma anche lo Streptococcus mutans, che genera infezione sulla superficie dentale.
La gran parte delle infezioni nosocomiali sono causate da biofilm persistenti e alcune statistiche evidenziano che nei paesi economicamente avanzati le infezioni correlate a biofilm rappresentano oltre il 60% dei casi. Poiché i biofilm
i BATTERi COME INSIEME BiOLOGiCO
A volte i termini usati in biologia e medicina non risultano efficaci per descrivere l’argomento o una specifica situazione presa in
esame, ma il termine sociomicrobiologia risulta assai intrigante. Introdotto da M. Parsek
e P. Greenberg (Trends in Microbiology 2005;
13: 27-33) riguarda il comportamento di
“gruppo” che hanno i microrganismi. L’essenza di quest’area di ricerca si basa sulla formazione dei biofilm e sui sistemi di comunicazione tra cellule (quorum sensing). L’osservazione che attraverso il quorum sensing o comunicazione intercellulare la “collettività”
batterica riesce a controllare l’espressione di
alcuni geni risulta di grande importanza sia per
gli aspetti pratici (clinica e terapia delle infezioni) sia per una migliore conoscenza dell’approccio evoluzionistico al comportamento
dei batteri.
Formazione
del biofilm
Struttura
del biofilm
Interazioni
ambientali
I batteri, attraverso auto-induttori, possono controllare la crescita della popolazione e
attivare particolari geni che regolano a loro
crescono
e formano
il biofilm
Batteri adesi
a superfici
regolando
la crescita
di popolazione
e acquisendo
resistenza
a batteri
e risposta
immunitaria
21
volta diverse funzioni tra le quali la stessa virulenza della popolazione batterica. Era noto
da tempo che i batteri sono gruppi di cellule
molto “elastiche” sia nell’adattarsi all’ambiente sia nel gestire il proprio stile di sviluppo e di “vita” in relazione a stimoli vari. La
scoperta concernente la loro capacità di “sentire” i cambiamenti di densità nella propria popolazione (quorum sensing) è stato un ulteriore passo avanti negli studi di microbiologia.
L’importanza di ampliare le nostre conoscenze sui biofilm nasce dall’osservazione che
la loro composizione può danneggiare diverse
strutture o interferire sul loro funzionamento.
Per esempio negli USA l’ordine di grandezza
delle infezioni acquisite da biofilm batterici
nosocomiali (cioè negli ospedali) è attorno al
milione di casi/anno e le conseguenze non sono legate soltanto al prolungamento dei quadri
patologici ma anche alle complicazioni di interventi chirurgici perfettamente riusciti e a un
accresciuto rischio di mortalità totale.
22
formano uno scudo protettivo per i batteri patogeni è evidente che si pone con urgenza il problema di un efficace contrasto verso questo assetto biologico di specie. Quindi si sta tentando
di usare antibiotici e molecole in grado di aggredire i biofilm, sia per disgregarli sia per impedire la loro formazione.
Le strategie attuali implicano almeno tre linee direttrici: lo sviluppo di metodi di interferenza sul quorum sensing, lo sviluppo di molecole antiadesive e il controllo di peptidi antimicrobici.
A proposito della risposta immunitaria, per
esempio, si è visto che sotto certe condizioni i
globuli bianchi possono penetrare nel biofilm ed
espletare una qualche funzione di fagocitosi ma
alcuni autori hanno dimostrato che nei biofilm
da P. aeruginosa i granulociti neutrofili che raggiungono la struttura del biofilm diventano poi
incapaci di allontanarsene. L’accumulo di neutrofili nel biofilm rappresenta un’ulteriore condizione di rischio: infatti si viene a definire una
sorta di auto-lesività per la produzione di sostanze ossidanti che possono compromettere ul-
teriormente le opportunità della risposta immunitaria. Ma non basta: i neutrofili che vanno incontro a necrosi finiscono con il rappresentare
un’ulteriore matrice biologica per la formazione
di biofilm. Esistono infatti evidenze cliniche che
mostrano come uno stato di infiammazione cronica abbia origine in corso di infezioni persistenti
da germi che fabbricano biofilm (ferite croniche
a lenta guarigione, osteomieliti, otiti dell’orecchio medio, fibrosi cistica, infezioni nosocomiali). E quindi il futuro della terapia è già cominciato di necessità: poichè le malattie da biofilm
(biofilm diseases) sono associate sia a infezioni
persistenti sia ad infiammazione cronica, per un
approccio terapeutico razionale dobbiamo considerare i tre punti cardine:
1) usare antibiotici per le forme planctoniche e
per contrastare le varianti sessili all’interno
dei biofilm;
2) introdurre farmaci antinfiammatori per limitare le reazioni che si originano dai biofilm
stessi;
3) applicare molecole che siano in grado di eliminare (clearance) il biofilm stesso.
Biofilm impenetrable
to host immune response
Biofilm impenetrable
to antibiotics
1. Organic layer
attachment
2. Bacterial
colonisation &
multiplication
3. Formation of
protective exopolymer
saccharides
4. Dispersal of
Biofilm Matrix
i BiOFiLM: Un VERO RisCHiO PER i
CATETERi.
Scopo della terapia per controllare i biofilm
è quello di disperdere la matrice che lo compone:
i biofilm infatti sono resistenti all’attacco delle
cellule immunitarie e agli antibiotici, che invece
funzionano contro i batteri in forma planctonica.
Proprio tenendo conto della struttura del
biofilm e della sostanza polimerica che lo costituisce (extracellular polymeric substance,
EPS) sono stati effettuati del tutto recentemente vari studi mirati ad utilizzare nuove strategie. Per esempio si è osservato che DNA extracellulare (eDNA) rappresenta una componente comune in molti biofilm patogeni. In par-
ticolare una famiglia di proteine (DNABII family), nota per interagire con DNA intracellulare, è anche in grado di agire su eDNA in matrice di biofilm. In sostanza se si utilizzano antisieri contro una DNABII family (usando E.
coli) si dimostra che è possibile distruggere un
biofilm formato da diverse specie patogene.
Risultati analoghi sono stati osservati utilizzando componenti della stessa famiglia come
immunogeni, facilitando la risoluzione di biofilm in animali nei quali questi si erano già precedentemente formati. È inoltre possibile associare a questo approccio l’usuale impiego degli
antibiotici che sono in grado, una volta disaggregato il biofilm, di espletare la loro funzione
antibatterica.
Bibliografia
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10.1038/mi.2011.27 – nature publishing group.
Il prof. Giuseppe Luzi, immunologo clinico, docente presso “La Sapienza”, Università di Roma, svolge attività di consulenza presso la BIOS
S.p.A. di via D. Chelini 39 a Roma (Sezione di Immunologia Clinica)
23
TEOREMi, nUMERi E REALTà
BiOLOGiCA: UnA RiFLEssiOnE
E Un PO’ Di PROVOCAziOni
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A TUTTO CAMPO
Fulvio Bongiorno
Matematico, docente Università di Roma Tre
Giuseppe Luzi
Immunologo clinico, Infettivologo, docente “La Sapienza” Università di Roma
Lo studio della matematica e le sue applicazioni inducono spesso un disagio a chi, per pregiudizio, considera questa disciplina complessa e
argomento per pochi eletti. Fulvio Bongiorno,
matematico e scrittore, con Giuseppe Luzi, immunologo clinico e sostenitore di un approccio
“matematico” alla bio-medicina, collaborano da
anni in quel percorso rischioso e affascinante della modellistica applicata alla realtà. Consapevoli entrambi che non si tratta di un gioco, hanno
pubblicato alcuni lavori miranti a sostenere una
dimensione delle nostre conoscenze derivate dal
mondo biologico per comprendere e, in un futuro,
predire eventi biologici (e clinici) che si basano
su interpretazioni meno “rigide” derivate dalle nostre acquisizioni di base.
QUi si PARTE in MODO sOFT
“Allora un anno non ha sempre lo stesso numero di giorni?” chiese Quattrocchi alla fine (della lezione)(1), un bimbo grassoccio, quattrocchi di
nome e di fatto, perché portava gli occhiali.
“Bravo Quattrocchi. In effetti ogni anno dura
365 giorni e sei ore. Ma se si sommano il numero dei giorni di ogni mese, si trova che normalmente un anno ha 365 giorni mentre ogni 4 anni
ne ha 356 e si chiama anno bisestile”.
“E porta sfortuna, dice mia nonna”, s’inserì
Carmelina, la figlia del mezzadro degli Zerbo, la
famiglia nobile di Polizzi.
“Questo succedeva ai tempi di tua nonna”,
tenne a precisare la signora Tedesco. “Ora non è
più così”.
“Attenzione”, disse poi. “Ora vi faccio una
domanda difficile. Perché si aggiunge un giorno
ogni quattro anni e non dopo 5 oppure 6?”
I ragazzini rumoreggiarono, ma poi Quattrocchi, che era tra i più bravi alzò la mano.
“Sentiamo”, disse la maestra.
“Perché 6 per 4 fa 24”.
“Bravo Quattrocchi. Proprio così. Mettendo
insieme le sei ore che avanzano ogni anno si fanno ventiquattr’ore, ossia un giorno”.
Mentre la maestra parlava, Ruhna aveva alzato la mano.
“Che c’è Ruhna?” chiese la signora Tedesco.
“Ma come si fa a conservare le sei ore che
avanzano ogni anno per metterle insieme nel
quarto anno e farci un giorno?”
Quattrocchi rise. La maestra lì per lì non disse nulla, ma altri bambini si aggiunsero alla risata. Allora lei con dolcezza disse.
“Ma che dici Ruhna. Vedi che fai ridere i compagni?”
QUi si COMinCiA AD AFFROnTARE LA
QUEsTiOnE PARLAnDO DEi MATEMATiCi
“Cosa è più scienza pura della Matematica?”
“Nulla”, rispondono prontamente e senza ombra di dubbio i matematici puri.
Ok. Partiamo, per il percorso che viene proposto in questa nota, facendo buon viso a cattivo
gioco.
Questo vuol dire che viene dato per accettato
l’asserto. Però ci si può difendere.
“Ma è certificata?” Si può chiedere.
“La Matematica?” chiedono allora con un risolino ironico. Ma, si noti, hanno intanto messo
la maiuscola alla parola Matematica, «Ma da dove vengono questi? Hai visto mai, però…» forse
pensando.
“Ma certo che lo è: da secoli di Matematica”,
rispondono sprezzanti.
“Eh no. Non si sta parlando di un’autocertificazione…”
“Ma che discorso mi vai facendo? Chi meglio
di un Matematico può sapere che la Matematica è
scienza pura…”
“Nel senso che è la scienza vera?” possiamo
mettere un altro bastone a nostro uso e consumo
sul loro percorso.
“Sì, certo. La Scienza vera”. E intanto, si noti, hanno messo un’altra maiuscola: quella nel nome comune scienza, «Ma che gente. Ma che possono avere in mente?…» pensando.
“Chi potrebbe dubitare di questa cosa?” viene
aggiunto subito.
“Mah! Metti qualcuno a cui la matematica serva…”
“Serva: nel senso di qualcosa o qualcuno che
fa un servizio, una volgare mansione pratica, vuole dire?”
«Menomale. Intanto mi ha dato del Lei…
Prendiamo le distanze».
“Sì. Qualcuno che abbia un problema da risolvere. Il salumiere, un ingegnere, un fisico, un
medico, un biologo…” si può rispondere correttamente.
“Ma che c’entra? Lei non parla della Matematica. La Matematica, vede – ed enfatizza un po’ sul
ritmo delle parole – serve e basta solo a se stessa”.
“Certo. Serve e basta. Non ci avevo proprio
pensato…” Nelle sue parole si può cogliere qualcosa come: condizione necessaria e sufficiente, se e
solo se, esiste ed è unica (ma come la trovi?)… Può
venire in mente di quel tale che, durante un’escursione su un pallone aerostatico, s’è perso. E allora
decide di perdere quota e chiedere dove si trovasse
a uno che stava camminando sull’arenile sotto di
lui. Siete su un pallone aerostatico, gli risponde
quello con molta flemma. Ma guarda se dovevo
beccare un matematico, osserva il tale sul pallone:
per rispondermi ci ha pensato su, mi ha detto una
cosa giusta, ma non ha risolto il mio problema…»
“Sì. È senz’altro come dice lei…” è arrivato il
momento di aggiungere allontanandosi, “mi scusi, ora, sa, non la sento più…”: della serie «passo
e chiudo…»
QUi si EnTRA nELLA TEMATiCA
Il problema è che la certificazione va data dall’utilizzatore. Questo ribalta il rapporto tra la matematica, la scienza e l’applicazione: per esempio
la modellistica, ora molto usata in ogni settore. A
noi è capitato di cimentarci con l’impiego della
matematica nella medicina(2).
In questo momento storico biologia e medicina, sostenute dalla tecnologia, compiono passi da
gigante. Non può sfuggire allora al matematico
applicativo, che questa scienza si trovi ad attraversare un periodo di difficoltà, cioè essa non
sempre riesce a rispondere alle aspettative.
25
Può venire in mente un paradosso: che sia meglio, invece di far seguire alla biologia o alla medicina le regole della matematica, mettere a punto una nuova matematica che segua le leggi proprie degli organismi viventi, che, perciò stesso,
sarebbe certificata per lo scopo di fornire un linguaggio adatto a quel tipo di fenomeni, più di
quanto non lo sia il linguaggio matematico.
Questo discorso non è una tautologia, un gatto che si morde la coda?
In altri termini, questa cosa si può fare veramente?
QUi si VA nEL “MARE APERTO”
26
Oggi, mentre cerchiamo di congedare questa
nota, è il giorno 02 – 09 – 2011. La sequenza di cifre scritte è una data, ma si può anche pensare come un numero, come, per esempio, 409. Possiamo
pensare che il numero sia scritto nella base decimale, quella usuale, e il suo significato è:
9 unità, 0 decine, 4 centinaia
Insomma, 409 unità. Base decimale vuol dire
che le posizioni delle cifre che si incontrano a partire da destra – unità, decine, centinaia… – indicano quantità che ad ogni passo verso sinistra sono 10 volte più grandi di quelle indicate nella posizione precedente. Formalmente si può dire in un
altro modo: le cifre del numero indicano i coefficienti di un polinomio nelle potenze del 10, cioè,
in questo senso, il numero 409 è la scrittura abbreviata del polinomio:
9 x 100 + 0 x 101 + 4 x 102
in cui 10 è la base delle potenze di riferimento(3).
Si comprende che la sequenza 02 – 09 – 2011,
pensata come numero, si presenta in modo più
complesso rispetto a 409. Però si può trattare allo
stesso modo con considerazioni semantiche.
Esso significa:
2 giorni, 9 mesi, 2011 anni.
Quante unità? Ovvero, quanti giorni?
Si comprende che il calcolo non è semplice
come nel caso della base 10. In più, passando da
una posizione alla successiva (in questo caso in
Europa la data si preferisce indicarla con l’ordine
giorno, mese, anno) non si moltiplica sempre per
lo stesso numero, cioè la base è variabile, e inoltre essa dipende dal numero che si moltiplica; in
termini formali si può scrivere:
2 x 1 + m (9 -mese) + a (2011 -anno)
dove il valore m (9, mese) indica quanti giorni sono passati dal capodanno al 1° di settembre.
Ben si comprende che per calcolare questo numero si deve tener conto della ben nota filastrocca:
Trenta giorni ha novembre, con aprile, giugno
e settembre, di ventotto(4) ve n’è uno, tutti gli altri ne han trentuno.
Ben più complesso è il calcolo della funzione
a (2011-anno). Essa indica quanti giorni sono
passati dal “capodanno”(5) dell’anno 1 al capodanno del 2011. Bisogna infatti tener conto sostanzialmente di quattro aggiustamenti che si sono succeduti nei secoli.
Il nostro calendario attuale si innesta su quello
introdotto da Giulio Cesare – che perciò fu detto
Giuliano – Il nuovo calendario gli era stato consegnato “chiavi in mano” nel 46 a.C. dall’astronomo
alessandrino Sosigene, che ne curò la stesura con la
collaborazione di eminenti filosofi e matematici
dell’epoca. In esso fu stabilito che la durata dell’anno fosse di 365 giorni, e che ogni quattro anni
si sarebbe dovuto intercalare un giorno complementare, raddoppiando il 23 febbraio che cadeva
nel dodicesimo giorno prima delle calende di marzo. Si veniva così ad avere nel febbraio un doppio
sesto giorno prima delle calende, cosa da cui derivò il nome bisestile. L’anno fu diviso in 12 mesi,
della durata, alternativamente, di 31 e 30 giorni,
con la sola eccezione di febbraio, di soli 29 giorni,
che diventavano 30 negli anni bisestili. In più si
spostarono i mesi di gennaio e febbraio che diventarono i primi mesi dell’anno, mentre fin dai tempi di Numa Pompilio erano stati gli ultimi.
In questo modo il calendario divenne simile a
quello degli Egizi.
Nell’anno 8 a.C., Augusto ordinò che fossero
omessi i successivi tre anni bisestili per correggere alcuni errori intervenuti dopo la morte di Giulio
Cesare. Il Senato inoltre decise di dare il nome di
Augustus al mese di Sextilis, in onore dell’imperatore. Stabilì anche che questo mese dovesse avere lo stesso numero di giorni di Julius, il mese che
onorava la memoria di Giulio Cesare. Per far ciò,
cioè portare a 31 il numero dei giorni di agosto, fu
tolto un giorno a febbraio che divenne così di soli
28 giorni (29 negli anni bisestili). Infine fu cambiato il numero dei giorni degli ultimi quattro mesi dell’anno, per evitare che ci fossero tre mesi
consecutivi con 31 giorni.
Si passò così a un assetto che dura tutt’ora.
Continuò a sussistere comunque il problema dello scollamento tra l’anno solare (cioè il periodo
di tempo intercorrente tra l’equinozio di due primavere successive, di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi) e l’anno del calendario di Augusto (di 365 giorni e 6 ore), destinato a produrre
nel tempo un ritardo nell’equinozio di primavera
che sarebbe scivolato dal 25 marzo ad aprile, poi
in maggio, in giugno, ecc. nonostante questa differenza sia piccola, infatti produce un ritardo di
circa tre giorni in 400 anni.
Per ovviare a questo errore, papa Gregorio
XIII, attuò nel 1582 una riforma, a cui dettero un
contributo particolare il medico calabrese Aloysius Lilius, il matematico gesuita Christopher Clavius e il matematico perugino Padre Carlo Pellegrino Danti. Con tale riforma, che fu detta gregoriana, si stabilì che non dovessero essere bisestili
quegli anni secolari che non fossero divisibili per
400. Ciò comporta il ritardo dell’equinozio di un
giorno dopo circa 30 secoli, o meglio, di tre giorni ogni 10.000 anni.
Si potrebbe, infine, migliorare ancora il calendario, accettando l’idea suggerita da John Herschel,
togliendo dal calendario gregoriano tre giorni ogni
diecimila anni, tradotta in una regola per un calendario perfetto da Antonino Zichichi, nel suo saggio
L’irresistibile fascino del tempo: i giorni dell’anno
sono 365, più uno ogni quattro anni, meno tre ogni
quattro secoli, e meno tre ogni diecimila anni, suggerendo in pratica l’idea di non considerare bisestili gli anni 4000, 8000 e 12000, che per il calendario
gregoriano, lo dovrebbero essere.
PRiMA COnCLUsiOnE: COnCETTUALE
Con la convenzione che l’inizio dell’anno “1”
sia il 1° gennaio dell’era Cristiana, quanti giorni
son passati dunque da allora fino ad oggi, 02 – 09
– 2011?
Esattamente 734.514; su internet si trovano
link che possono confermare la risposta.
Ma vorremmo concludere esponendo a chiare
lettere qual è l’obiettivo di tutto il percorso tortuoso di questa storia. È precisamente quello di
evidenziare che a sintetizzare il risultato non sono state le considerazioni formali promosse da
Giulio Cesare, Augusto Imperatore, Papa Gregorio XIII, Herschel pittore e filosofo, Zichichi,
quanto piuttosto una lettura via via più precisa di
un comportamento della Natura.
Schematizzando, si è invertito il percorso
dalla matematica
al fenomeno
procedendo invece
dal fenomeno
alla matematica
Su questa base, nuova di zecca, si può enunciare e validare un teorema.
Grande teorema di Cesare – Augusto – Gregorio – Herschel – Zichichi(6)
L’invarianza astronomica della posizione della Terra negli equinozi di primavera, giustifica e
certifica le regole del calendario perfetto.
sECOnDA COnCLUsiOnE: FATTUALE
Ma si può fare di più per realizzare senza matematica la sincronizzazione tra l’anno legale e
quello astronomico? Non è un’operazione difficile.
Basta un uomo paziente con un buon orologio.
Il nostro uomo si piazza a Roma (a Roma, perché è lì che è nato il calendario Giuliano, che rappresenta il punto di partenza di questo percorso) in
un giorno di marzo e aspetta il momento in cui sorge il sole. In realtà stabilire il momento dell’alba è
facile da dire ma meno da fare. Ma qui si vuole
semplicemente indicare un metodo e non una tecnica; poi fa quello che vuole, ma si sposta verso un
punto in cui potrà osservare il momento del tramonto (a Ostia viene bene, per esempio; Ostia è un
quartiere di Roma). Se sono passate esattamente
dodici ore dall’alba, quello è il giorno dell’equinozio di primavera. Se è passato di meno, bisogna tornare il giorno dopo, o qualche giorno dopo: tre, cinque. Con un po’ di pratica uno si regola. Se son pas-
27
sate più di dodici ore, l’equinozio si è perso. Bisogna riprovare l’anno dopo.
Ma diciamo subito come stanno le cose. Se
l’anno prima a Roma era stato possibile osservare l’equinozio, l’anno successivo non sarà più fattibile, perché la Terra si porta nello stesso punto
dell’orbita non dopo 365 giorni, né dopo 366, ma,
come s’è detto, dopo quei maledetti di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi, la durata, neanche troppo precisa, dell’anno astronomico.
E allora? Se l’uomo aspetta l’alba al 365°
giorno dopo il precedente equinozio, troverà che
il tramonto arriva prima delle fatidiche 12 ore
esatte. E che, si deve tornare il giorno dopo? No.
Nemmeno. Il giorno dopo il tramonto arriverà dopo 12 ore. E che vuol dire allora, che l’equinozio
per quell’anno non c’è?
«Ho fatto male, ieri pomeriggio», avrà pensato l’uomo con l’orologio, «mi sarei dovuto spostare, quando ho visto che il sole stava per tra-
TERzA COnCLUsiOnE: CRiTiCA
Non è che la maestra Tedesco avrebbe dovuto far mente locale su cose come queste, prima di
rispondere alla domanda ingenua di Ruhna?
note
(1) Questa storiella si trova alle pagg. 26 e 27 del Saggio
Avrei voluto capire la matematica, di Fulvio Bongiorno
e Andrea Damiani, pubblicato da Aracne Editrice, Roma
2010. Il libro per gentili concessioni dell’Editore Gioacchino Onorati e del Museo Energia è on line nel sito web
www.museoenergia.it e può essere scaricato gratis.
(2) a. Giuseppe Luzi, Guglielmo Bruno, Fulvio Bongiorno, “IVIgG: aspetti strutturali, funzioni biologiche e
applicazioni”. In immunologia e Clinica – Aggiornamenti sull’uso delle iVigG. G E edizioni, Roma – ottobre 2009.
b. Fulvio Bongiorno, Giuseppe Luzi, Guglielmo Bruno,
“Un’ipotesi matematica per predire l’efficacia delle IgG
ad alte dosi: quale modello?”. In: Dalla terapia sostitutiva al controllo biologico della risposta immunitaria –
Corso di aggiornamento. Ospedale S. Andrea, Roma “La
Sapienza” 9-10 ottobre 2009.
c. “C’è nel nostro futuro prossimo una nuova matematica per una “vecchia” biologia o viceversa?” In: Aggiornamenti di immunologia Clinica, a cura di Giuseppe Luzi, Guglielmo Bruno, Fulvio Bongiorno. Aracne editrice,
Roma – ottobre 2010.
(3) Si possono scrivere numeri con la stessa simbologia,
ma base diversa. Per esempio lo stesso numero di prima, 409, se si pensasse scritto in base 12 avrebbe il significato:
9 x 120 + 0 x 121 + 4 x 122,
che, tornando alla base 10 esprimerebbe 108 + 0 + 4 x
144 = 684 unità.
Per inciso, osserviamo che per scrivere in base 12 si deve disporre di dodici simboli diversi per le cifre. Nei
computer si usa la base 16. In questo caso i simboli delle cifre sono:
0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 6, 7, 8, 9, A, B, C, D, E, F
(4) Mica sempre! Solo nel caso di anni non bisestili, e
perciò, a rigore, la funzione m dipende non solo dal mese, ma anche dall’anno; si dovrebbe dunque scrivere m(9
-mese, 2011 -anno)
(5) In teoria non è detto che debba trattarsi di un vero e
proprio capodanno, ma del primo giorno utile per costituire un riferimento univoco, cioè identificato e certo. Il
calendario giuliano entrò in vigore nel 45 a.C., che fu bisestile. Veramente molto di più che bisestile perché per
riportare l’equinozio primaverile al 25 marzo si dovettero aggiungere 85 giorni per compensare gli errori accumulati in passato e allo scopo furono aggiunti una tantum
due mesi fra novembre e dicembre, il primo di 33 giorni
e l’altro di 34. Il primo mese dell’anno era ianuarius,
mese dedicato a Ianus (Giano), che conteneva nel nome
il riferimento al cambiamento dell’anno, perché Ianua in
latino significa anche porta. Si può assumere pertanto
ragionevolmente come capodanno dell’anno 1 proprio il
1° Ianuarius del 45 a. C.
(6) L’attributo grande è un atto di megalomania, ma anche un intento ironico, che allude – con inconfrontabile
distanza – al Grande Teorema di Fermat. L’aggettivo
vuole semplicemente sottolineare il fatto che la sua formulazione ha seguito un percorso nuovo. I nomi attribuiti nell’enunciato sono quelli di coloro che hanno dato un contributo, elencati, per non far torto a nessuno, in
stretto ordine cronologico.
(7) Scusate se sono stati saltati molti passaggi.
montare, verso Ovest, di corsa, dove il sole non
era tramontato ancora. E correre, per un po’ meno di sei ore appresso al Sole… ’Na parola: il Sole fila tirato dai cavalli alati del cocchio di Apollo: altro che un jet…». Tutto vero. «Eh già. Dovrei fare in po’ meno di sei ore, circa un quarto
del giro della Terra, alla mia latitudine. Figurati:
il giro del Mondo in ottanta giorni. A quell’andatura sarebbe fatto in sei per quattro, ventiquattro
ore. Un giorno…»
Proprio così. Invece per vedere a Roma l’equinozio di Primavera, senza correre appresso al
Sole, basterebbe aspettare un giorno, ma dopo 4
anni… Ecco perché l’anno bisestile… Demonio
di un Sosigene alessandrino!» (7)
28
Un RAGGiO LAsER AL sERViziO
DELLA DiAGnOsi CLiniCA:
LA CiTOFLUORiMETRiA A FLUssO
il citometro a flusso si può annoverare tra
gli strumenti analitici più complessi a disposizione della medicina e della biologia. Nato verso la fine degli anni ’50 come figlio dei primi
contaglobuli impedenziometrici, questo sistema
si è rapidamente evoluto facendo proprie molte
delle più recenti tecnologie emerse in diversi
campi della fisica e dell’ingegneria. Il motore
trainante che ha sempre stimolato la ricerca di
soluzioni innovative è stato ed è l’alto contenuto informativo delle analisi citometriche e la sua
potenziale ricaduta applicativa.
La citometria a flusso è una biotecnologia
che consente la misurazione diretta e indiretta
di parametri chimico-fisici di ogni singola cellula umana, per mezzo di marcatori molecolari fluorescenti. Le principali caratteristiche che
distinguono questa tecnologia nel campo della
analisi citologica sono l’analisi multiparametrica che permette di misurare contemporanea-
mente fino a dodici parametri cellulari differenti su ogni singola cellula e l’altissima velocità di analisi (in pochi secondi possono essere
analizzate migliaia di cellule) su una quantità
di cellule impensabile per i classici metodi biochimici e microscopici, consentendo elevatissimi livelli di sensibilità, precisione ed accuratezza statistica.
I moderni citofluorimetri sono strumentazioni complesse composte principalmente da una
parte ottica formata da una sorgente luminosa,
che può essere realizzata da uno o più laser, indirizzata nella camera di misura attraverso un
banco ottico oppure con fibre ottiche; da un sistema fluidico per il trasporto delle cellule nella camera di misura e da componenti elettronici per la rivelazione del segnale luminoso (fotomoltiplicatori, fotodiodi), con successiva digitalizzazione del segnale elettrico e analisi computerizzata per mezzo di software specifici.
iL PUnTO
Carlo Rumi
Direttore U.O. Diagnostica Citometrica, Università del Sacro Cuore Roma
Gabriele Rumi
Unità di Allergologia Complesso Integrato Columbus, Università del Sacro Cuore Roma
29
Drop-Charging Signa
Sheath Fluid
Sample
Filter
Fluorescence
detectors
Beam
Splitter
Vibration Transducer
Filter
Collecting Lens for
Fluorescent Light Light
Detector
Flow Chamber
Laser
Obscuration
Bar Collecting Lens for
Forward-Scattered Light
Focusing Lens
Negatively Charged
Deflection Plate
Positively Charged
Deflection Plate
Left Collector
Electronics
Console
Right Collector
Waste
30
Alcuni campi di indagine:
• identificazione, quantificazione e separazione (cell sorting) di sottopopolazioni cellulari;
• fisiologia cellulare: vitalità, fagocitosi, reazioni di ossidazione, funzionalità degli organelli subcellulari;
• analisi della cinetica replicativa delle cellule
(ciclo cellulare);
• quantificazione del contenuto degli acidi nucleici DNA/RNA;
• analisi di microrganismi (batteri, lieviti, protozoi).
La citofluorimetria a flusso rappresenta oggi un potentissimo mezzo di indagine, le cui
possibilità sono state, fino ad ora, appena saggiate. Confinata per lungo tempo nelle mani dei
ricercatori di base, sta ora entrando a livello della routine ematologica, immunologica, allergologica, oncologica, dermatologica, genetica,
microbiologica… contribuendo efficacemente a
una ottimizzazione dell’inquadramento diagnostico e prognostico delle problematiche cliniche,
nonché alla migliore impostazione delle strategie terapeutiche in questi settori.
Tra le più comuni metodiche messe a punto a
disposizione dello specialista clinico vogliamo
ricordare lo studio immunofenotipico delle malattie del sangue (l’ultima classificazione delle
emopatie secondo la WHO è praticamente basata sulle caratteristiche immunologiche delle cellule del sangue), la valutazione della risposta
immunitaria cellulo-mediata (screening immunologico delle malattie autoimmuni, invec-
chiamento del sistema immunitario nella terza e
quarta età, ricerca di popolazioni clonali nel nostro sangue periferico, attività fagocitaria monocitico-granulocitaria, ricerca autoanticorpi, performance immunologica nell’overtraining) e il
test di attivazione basofila negli stati allergici,
senza dimenticare lo studio del contenuto di
DnA (DnA index) e dell’attività proliferativa
(dimensione della fase s) in oncologia, la valutazione del rischio trombotico (attivazione piastrinica) nelle coagulopatie, ma anche lo studio
citometrico nell’ambito dell’infertilità maschile
(analisi della funzionalità nemaspermica). Il vantaggio sostanziale delle tecniche citofluorimetriche è quello di poter studiare velocemente e contemporaneamente strutture di membrana, citoplasmatiche e nucleari di qualsiasi cellula di
qualsiasi tessuto del nostro organismo mediante
l’uso di sonde immunologiche altamente specifiche (anticorpi monoclonali), con costi economici decisamente accettabili.
iMMUnOFEnOTiPO EMATOLOGiCO
Nella medicina di laboratorio l’ematologia
ha il compito di studiare il sangue e i tessuti emopoietici mediante l’impiego di esami quantitativi (conteggio e dimensionamento di particelle) o
qualitativi (morfometria, citochimica, citofluorimetria…). Il sangue è un sistema bifasico, costituito da una fase liquida (plasma) in cui si trovano sospese cellule nucleate (leucociti), non nu-
Tube: normale
P2
Population
P3
102
All Events
P1
P2
P3
P4
P5
P5
P4
103
CD45PeCy5-A
104
105
Sangue periferico-normale
P1
50
100
150
SSC-A
200
250
(x 1.000)
cleate (eritrociti) e frammenti cellulari (piastrine). La frazione di coagulazione (in seguito a
coagulazione) prende il nome di siero. Il più importante esame di screening è l’emogramma
con differenziazione microscopica. Oltre alla valutazione quantitativa (neutrofilia, linfocitosi, eosinofilia, basofilia, monocitosi, neutropenia, monocitopenia, trombocitosi e trombocitopenia, poliglobulia e anemia) è determinante soprattutto
anche l’individuazione di cellule mieloidi o linfatiche atipiche, quale espressione di una malattia ematologica, cosa oggi possibile con la citometria a flusso.
L’immunofenotipizzazione si basa sull’espressione delle specifiche linee e differenziazioni di molecole sui o nei leucociti. L’adesione
alle singole cellule di anticorpi monoclonali,
marcati con coloranti fluorescenti, viene resa visibile e misurabile alla luce laser con un citometro a flusso. Questa reazione fluorescente è la
comprova della messa in evidenza dell’antigene
(molecola) cellulare riconosciuto dal relativo anticorpo monoclonale. A seconda della specificità
delle linee e della differenziazione si possono, in
base all’espressione di tutta una serie di antigeni, trarre conclusioni relative al tipo di cellula e
al suo grado di differenziazione. Il modello d’espressione della cellula maligna viene confrontato con i modelli degli stadi di sviluppo di cellule T e B normali.
L’impiego dell’analisi con citometria a flusso è divenuto parte integrante dello standard di
P1 Noise
P2 Linfociti
P3 Monociti
#Events
10,693
1,530
1,847
1,044
4,325
610
%Parent %Total
14.3
17.3
9.8
40.4
5.7
100.00
14.3
17.3
9.8
40.4
5.7
P4 Granulociti Neutrofili
P5 Granulociti Eosinofili
diagnosi e cura in ematopatologia. Poiché la
presentazione clinica di neoplasie come le leucemie acute, i linfomi, la sindrome mielodisplastica e le malattie mieloproliferative può variare
notevolmente, in generale viene effettuata una
strategia di diagnostica differenziale, in cui vengono considerate le eziologie di tipo neoplastico
e non neoplastico. Per questo motivo indicazioni cliniche come anemia, leucocitopenia, trombocitopenia, pancitopenia, neutrofilia, monocitosi, linfocitosi, eosinofilia, trombocitosi, linfoadenopatia e presenza di blasti vengono investigate mediante citometria a flusso, al fine di fornire dati critici per la diagnosi precoce, la stadiazione e la prognosi delle neoplasie ematolinfoidi.
Lo studio delle sottopopolazioni linfocitarie
o studio dell’attività linfocitaria serve a definire l’antigene o gli antigeni che i linfociti esprimono sulla loro membrana cellulare per meglio
conoscere la funzione alla quale sono preposti i
linfociti stessi. I linfociti sono cellule che rappresentano il 35% circa dei globuli bianchi del sangue. Essi svolgono un ruolo molto importante nel
sistema immunitario inducendo un tipo di risposta adattabile ovvero specifica per ogni tipo di
“antigene”, (virus, batteri, allergeni, peptidi, antigeni tumorali ecc.) che invade l’organismo e
viene ritenuto “non self” cioè estraneo all’organismo stesso. Si distinguono in linfociti T e linfociti B che derivano dalla linea linfoide delle cellule multipotenti presenti nel midollo osseo. I
31
32
linfociti T migrano dal timo dove avviene la loro
maturazione e successiva differenziazione. I
linfociti B maturano nel midollo osseo e, dopo
essersi trasformati in plasmacellule, producono
anticorpi specifici contro gli antigeni (virus, batteri, allergeni, ecc.) penetrati nell’organismo e ritenuti estranei allo stesso. Le sottopopolazioni
linfocitarie T non sono distinguibili tra loro o dai
linfociti B al microscopio ottico, ma possono essere facilmente identificate con una sofisticata
tecnica di laboratorio: la citometria a flusso.
La citometria a flusso permette di visualizzare (oltre che identificare e quantizzare) tutte le cellule presenti nel sangue. I linfociti, in
base alla specifica funzione alla quale sono destinati, possiedono sulla loro membrana uno o
più antigeni detti anche marcatori di superficie. L’utilizzo di specifici anticorpi, fluorescenti
e variamente colorati, contro questi antigeni, permette di visualizzare (oltre che identificare e
quantizzare) la presenza di queste cellule in “ammassi” o cluster” denominati perciò CD o “cluster of differentiation”. Gli antigeni espressi sui
linfociti T e B, finora studiati, sono oltre 200 e il
loro numero è destinato a salire. È anche possibile in citometria a flusso multiparametrica
studiare contemporaneamente sui linfociti B una
eventuale restrizione per catene leggere kappa
o lambda allo scopo di individuare precocemente popolazioni clonali, sicura espressione
di una malattia ematologica.
La fagocitosi è un processo di ingestione cellulare di particelle o sostanze estranee (dal greco,
phago, ‘mangiare’ e kytos, ‘cellula’), tramite l’emissione di prolungamenti citoplasmatici. La fagocitosi è attuata da tutti gli organismi viventi
unicellulari e, negli organismi pluricellulari, da
cellule chiamate fagociti, specializzate nella difesa dell’organismo dagli invasori potenzialmente dannosi. Le alterazioni a carico della popolazione leucocitaria riguardano principalmente le variazioni quantitative di tutta la popolazione leucocitaria di una o più classi di leucociti,
mentre i disturbi funzionali sono più rari e spesso assumono il carattere della malignità. Anche
questi processi immunologici difensivi del nostro organismo sono facilmente e attentamente
esaminabili con tecniche citometriche.
iMMUnOTEsT
L’esame è utile sia in condizioni fisiologiche (gravidanza, pubertà, senescenza) sia in
quelle patologiche (malattie allergiche, immunologiche, reumatiche, ematologiche…) spesso
silenti nel loro esordio e di difficile inquadra-
A.C. (Range)
% (Range)
WBC
5300 (4400-6300)
-
Lymphocyte
1600 (1300-1900)
31 (27-34)
CD3+
1300 (1000-1500)
75 (71-79)
CD19+
210 (60-270)
13 (11-16)
CD3+/CD16+CD56+
170 (130-250)
11 (8,0-15)
CD3+/HLA-DR+
138 (95-194)
11 (7,8-15)
CD3+/CD25+
324 (264-433)
28 (23-33)
CD3+/CD69+
89 (64-127)
7 (5,5-10)
CD4+
700 (600-980)
48 (43-54)
CD4+/45RA+
268 (192-401)
37 (30-44)
CD4+/45RA+
494 (355-600)
-
CD8+
520 (420-660)
32 (28-37)
CD3+/CD8+
418 (309-531
25 (22-31)
CD3+/CD8+
92 (64-114)
6 (4,0-7,0
HLA-DR+/CD8+
98 (61-145)
22 (14-29)
CD8+/CD57+
116 (80-214)
24 (16-37)
CD8+/CD38+
195 (162-267)
46 (36-53)
CD3+/CD4+;
CD3+/CD8+
CD4+; CD8+
mento diagnostico. Oltre alle malattie autoimmuni, l’Immuno-Test è in grado di valutare stati infettivi, parassitosi, ma anche squilibri del
sistema immunitario come nel caso di allergie
o intolleranze. L’esame trova certamente una sua
utilità prima dell’arrivo delle influenze stagionali, dove è in grado di indagare il sistema
immunitario ed evidenziarne eventuali carenze.
Nei soggetti nella terza e quarta età il test è in
grado di valutare alcuni parametri immunologici spesso associati a malattie ematologiche, come
le sindromi linfoproliferative o stati cronici di
anemia. Questo monitoraggio immunologico trova anche certamente una utile applicazione nelle persone che praticano una intensa attività fisica, in modo da valutare eventuali alterazioni
dello stato immunitario legate allo stress da esercizio fisico continuo e prolungato. L’ImmunoTest è in grado di completare la diagnosi clinica
consentendo una valutazione più accurata, innovativa e altamente specialistica del nostro sistema immunitario. Questa costituisce infatti, allo stesso tempo, il primo bersaglio e la nostra prima difesa nei confronti di qualsiasi agente pato-
1,8 (1,4-2,4)
1,6 (1,2-1,9)
geno. Oggi è quindi possibile, mediante innovative tecniche citofluorimetriche, conoscere esattamente il nostro stato di “salute immunitaria”
(studio delle sottopopolazioni linfocitarie, ricerca malattie clonali, attivazione B linfocitaria),
ovvero la nostra capacità di reagire nei confronti di parassiti, virus e antigeni tumorali.
ALLERGOTEsT
Grazie a un semplice esame del sangue, è ora
possibile diagnosticare un’allergia (antibiotici,
anestetici, FANS, mezzi di contrasto, alimenti,
veleno degli insetti, polveri, muffe, pollini, ecc.)
senza esporre il paziente a procedure potenzialmente pericolose. Recentemente presentato alla
“European Academy of Allergology and Clinical Immunology” (EAACI), il Test di Attivazione dei Basofili (TAB) rileva l’espressione di
particolari molecole di superficie – marcatori immunologici di attivazione (CD63/CD203c/
CRTH2) – su tali cellule, coinvolte nella flogosi
allergica in tutte le sue manifestazioni, compreso lo shock anafilattico.
33
104
P3
103
CD203 PE-A
105
Test Basofili Cont Pos
10
2
34
Mentre nelle classiche allergie, come quelle
ai pollini, il nuovo test si può affiancare a metodi già disponibili (prove cutanee e RAST: esame
sul siero del paziente per individuare la presenza di IgE specifiche verso un allergene), nelle
reazioni avverse a farmaci (penicilline, cefalosporine, FANS) o ad alimenti potrebbe rivelarsi
102
103
104
CRTH2 RTC-A
105
molto prezioso. Per la maggior parte dei farmaci la presenza di una allergia può essere dimostrata con certezza solo ricorrendo a un test “in
vivo” di “provocazione orale” che prevede l’assunzione, sotto controllo medico, di una dose infinitesimale del medicinale in questione, con
possibili rischi per il paziente.
Questo test ha dimostrato di essere estremamente sensibile e altamente specifico per le diverse forme di allergia, inclusa l’ipersensibilità
ai farmaci.
Il paziente deve semplicemente sottoporsi
a un prelievo: il sangue verrà poi messo a contatto con l’allergene “sospettato” di provocare
un’allergia, che sarà rivelata dalla attivazione
dei basofili. Sono disponibili diversi “profili
diagnostici”, in funzione delle sostanze sospettate di una potenziale allergia (pollini, erbe,
muffe, acari, farmaci, alimenti, veleno degli insetti, ecc.).
L’Allergotest (Test di Attivazione dei Basofili) e l’Immunotest possono essere effettuati tutti i giorni previa prenotazione presso la Bios
S.p.A. di Via D. Chelini 39 a Roma dalle ore 7.30 alle ore 18.00.
Info CUP 06 809641
Lelio R. Zorzin
Specialista reumatologo
Silvana Francipane
Medico chirurgo
Fig. 1. Mano affetta da artrosi delle articolazioni interfalangee distali con evidenti noduli di Heberden.
Và precisato innanzi tutto che quelle deformità “natiformi” di consistenza dura, a carico
della superficie dorsale e laterale delle falangi
ungueali delle dita delle mani, definite “noduli
di Heberden”, sono l’espressione di una osteoartrosi dell’articolazione interfalangea distale. Si
tratta di un epifenomeno clinico-morfologico
della corrispondente degenerazione artrosica dell’articolazione, descritto per la prima volta da
William Heberden senior nel 1803 (Fig. 1).
I noduli sono caratterizzati da una familiarità
ed ereditarietà, a carattere dominante femminile
e recessivo maschile (Stecher). La loro patogenesi è tutt’ora discussa: si tratta di una forma
esclusivamente genetica o la conseguenza dell’azione micro- traumatica a cui sono sottoposte
queste articolazioni (Tab. 1)? Contrapposta alla
FATTORi Di RisCHiO DELL’OsTEOARTROsi
PRiMARiA LOCALizzATA
Età
Trasmissione familiare (HLA A1 e B8); mutazione del
gene del procollagene di tipo ii
Fattori meccanici:
Malformazioni o malposizioni articolari
instabilità articolare
Attività professionali e sportive
Traumi
sesso
Ereditarietà
Obesità ed endocrinopatie
(in articolazioni non sottoposte al carico)
infiammazioni
Tab. 1
iMPARARE DALLA CLiniCA
OsTEOARTROsi.
QUEi “FAsTiDiOsi” nODULi Di HEBERDEn
35
36
genesi idiopatica è quella microtraumatica, in
rapporto ad una particolare attività lavorativa o
sportiva (pallavolo, baseball). Interessante l’ipotesi di una azione inibente l’insorgenza di noduli idiopatici da parte di noduli post-traumatici e
ancor più l’osservazione dell’assenza di noduli
in mani che sono state coinvolte da una paralisi
centrale o periferica, quale possibile conseguenza di turbe vasomotorie. Analogamente i noduli
non si formano in casi di sinostosi articolare congenita (Fig. 2).
L’età di insorgenza dei noduli idiopatici è generalmente quella postmenopausale. La nodulosi, inizialmente localizzata ad alcune articolazioni interfalangee distali (secondo e terzo dito),
in modo simmetrico, si estende successivamente alle altre articolazioni interfalangee distali. La
sublussazione delle falangi è tipica dei noduli post-traumatici, ma una perdita dell’assialità e una
flessione ventrale dell’articolazione si possono
osservare anche nelle forme idiopatiche.
L’insorgenza delle nodosità può essere preceduta dalle cosiddette “cisti gelatinose”, definite in tal modo perché pungendole con ago da siringa si può estrarre una goccia di liquido vi-
schioso, trasparente; le cisti preludono alla formazione delle nodosità (Fig. 3).
Clinicamente questi noduli possono essere
definiti “fastidiosi” sia perché sono più o meno
dolorosi, sia perché, una volta stabilizzatisi, rappresentano un danno estetico scarsamente accettato dal “gentil sesso”. Il timore dominante nel
sesso femminile è che questi noduli possano esitare in una “artrite deformante “, coinvolgente
tutte le altre articolazioni delle mani!
Purtroppo, i noduli di Heberden, espressione
di una osteoartrosi interfalangea distale delle mani, si associano spesso ad una “rizoartrosi” (artrosi dell’articolazione trapezio-metacarpale) e/o
alla artrosi delle articolazioni interfalangee prossimali (noduli di Bouchard). Nel 90% dei casi
questa localizzazione si associa ad una cervicoartrosi dei metameri inferiori. Possono coesistere la gonartrosi e/o la coxartrosi nel quadro
della cosiddetta “poliartrosi progressiva”.
Sono segnalate inoltre associazioni con alterazioni ungueali,quali la leuconichia, o la “longitudinal nail ridge”, da alterazioni del microcircolo ungueale. L’osteoartrosi digitale può accompagnarsi ad una ipertensione arteriosa.
Fig. 2. Osteoartrosi diffusa delle articolazioni interfalangee prossimali e distali, a eccezione del ii°dito bilateralmente in cui non si apprezza tale condizione, per sinostosi articolare, della interfalangea distale.
Fig. 3. xerografia delle mani che mostra evidente artrosi a carico delle interfalangee prossimali e distali
delle dita e dell’interfalangea del pollice bilateralmente; è evidente a livello dell’interfalangea distale del
terzo dito di ds un’alterazione delle parti molli dovuta alla presenza di “cisti gelatinosa”.
La diagnosi radiologica dei noduli idiopatici
è caratterizzata da una riduzione asimmetrica
dell’interlinea articolare, la presenza di osteofiti
e di osteosclerosi sub condrale. Nella varietà post-traumatica la lesione è in genere isolata, l’osteofitosi è a sviluppo solo dorsale e mai ventrale e l’interlinea articolare è conservata. Quest’ultima varietà di osteoartrosi sarebbe in rapporto prevalentemente con una iniziale lesione
tendinea, invece che con una iniziale alterazione
della cartilagine.
La diagnosi differenziale deve essere posta
con l’artrite psoriasica e con l’osteoartrosi erosiva (M. di Crain).
La terapia di questa localizzazione dell’osteoartrosi è limitata al controllo del dolore, mediante farmaci antinfiammatori non steroidei, per
via sintomatica o topica, farmaci condroprotettori e terapia fisica. In casi particolari, ad evoluzione lenta e particolarmente dolorosa, si può ricorrere alla chirurgia di stabilizzazione dell’articolazione.
Nella pratica reumatologica ha primaria importanza la clinica, che si avvale
di un’accurata anamnesi. Il laboratorio conferma la diagnosi nelle affezioni
infiammatorie e la radiologia in primis con l’eventuale ricorso all’ecografia
e risonanza magnetica possono testimoniare lo stato di evolutività della
malattia. Non bisogna dimenticare che le affezioni “reumatiche” possono
essere talvolta l’epifenomeno di un impegno di altri apparati.
La Bios S.p.A. in via D. Chelini 39 a Roma offre un attento e aggiornato
Servizio di Reumatologia affidato al prof. Lelio R. Zorzin, già docente
della materia presso l’Università “La Sapienza”.
Per prenotazioni: Info CUP 06 809641
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FROM BEnCH TO BEDsiDE
i BEnEFiCi CLiniCi DELLA RiCERCA:
sELEziOnE DALLA LETTERATURA
sCiEnTiFiCA
Nasce al Policlinico di Milano la “Banca del
Sorriso” per la conservazione delle cellule staminali dentali.
Presso la Clinica odontoiatrica dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano è stata creata
una banca pubblica no-profit per conservare le
cellule staminali dentali, con una innovativa metodica di crioconservazione che consente un bancaggio sicuro e a basso costo. In questa prima fase iniziale si procederà alla raccolta, al bancaggio e allo studio delle staminali della polpa dentale per verificare possibili applicazioni future,
come ad esempio l’impiego terapeutico per patologie pregresse del donatore o per applicazioni dentistiche di varia natura.
È il progetto “Banca del sorriso”. Un gruppo
di medici e ricercatori guidati dalla dottoressa
Silvia Gioventù ha escogitato una tecnica per
preservare le cellule staminali contenute nella
polpa dentale, praticando alcuni fori nello smalto dentale con un laser, così che i vapori del li-
quido crioconservante possano mantenere vitale
il dente, e preservare la staminalità delle cellule
in esso contenute.
Il progetto “Banca del Sorriso” nasce dalla
consapevolezza che le staminali derivate dalla
polpa dentale hanno un’elevata capacità proliferativa e un’importante plasticità cellulare, caratteristiche rilevanti per possibili applicazioni
terapeutiche a livello nervoso, osseo e cartilagineo. È il primo esempio in Italia di bancaggio di denti interi. Lo scopo è recuperare la polpa, e le cellule staminali in una fase successiva, solo nel momento di un’eventuale necessità
terapeutica.
Le cellule utilizzate sono quelle contenute
nei materiali considerati “di scarto” nella quotidiana attività odontoiatrica, in particolare i
denti decidui o “da latte” dei bambini. In futuro si prevede di utilizzare anche i denti del giudizio, non ancora formati completamente e ritenuti all’interno delle ossa mascellari. Il Vaticano sostiene l’utilizzo delle cellule staminali adulte
http://adultstemcellconference.org/home
Nei giorni 9-11 Novembre 2011 è in programma in Vaticano un Convegno internazionale dal titolo “Cellule staminali adulte: la scienza e il futuro dell’uomo e della cultura”. Ne ha dato annuncio
Monsignor Tomasz Trafny, direttore del Dipartimento scienza e fede del Pontificio Consiglio della Cultura. L’iniziativa è tra le organizzazioni caritative del Pontificio Consiglio per la Cultura e di
NeoStem una società biofarmaceutica americana,
con lo scopo di accrescere la conoscenza di terapie
basate su cellule staminali adulte.
“Le ricerche sulle staminali adulte fanno parte di un nuovo e dinamico ramo della medicina,
conosciuto come medicina rigenerativa, che secondo le previsioni giocherà nei prossimi decenni un ruolo importante” che la Chiesa segue con
attenzione, “esplorando possibili tendenze di sviluppo della ricerca scientifica e ponendosi quesiti
concernenti il loro impatto culturale a medio e
lungo termine”. Lo afferma in un’intervista all’Osservatore Romano Padre Tomasz Trafny. La
Conferenza, spiega, avrà carattere “divulgativo
di alto profilo” e l’obiettivo di “presentare ai partecipanti lo stato dell’arte della ricerca sulle staminali adulte, le applicazioni cliniche, che in alcuni casi già portano notevoli benefici ai pazienti e illustrare e discutere alcuni problemi e sfide
che nascono nell’ampio orizzonte di interazioni
tra la ricerca scientifica e la cultura”.
Alimenti e giocattoli. In luglio entrata in vigore la nuova direttiva europea
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:170:0001:0037:it:PDF
In data 20 luglio 2011 è entrata in vigore la
Direttiva europea 2009/48 sui giocattoli abbinati agli alimenti (uova, patatine, dolci, ecc.). I piccoli giocattoli abbinati ai prodotti alimentari possono essere pericolosi perché, specie nei bambini più piccoli, vengono scambiati per cibo, portati alla bocca e ingeriti. I giocattoli devono essere inclusi in una confezione tale da non essere
inghiottiti e non devono contenere sostanze nocive o allergizzanti. Inoltre, è prevista l’indicazione della sorveglianza di un adulto quando si
utilizzano giocattoli collegati agli alimenti.
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Difendersi dagli incidenti domestici. Vademecum in 9 lingue dei Vigili del Fuoco
http://www.vigilfuoco.it/aspx/download_file.asp
x?id=8373
“Casa Sicura” è la guida realizzata dai Vigili del Fuoco per prevenire gli incidenti nell’ambiente casalingo ed è stata presentata a
metà luglio alla Prefettura di Firenze. Questa
guida è nata per evitare i pericoli insidiosi che
si nascondono tra le mura domestiche. Stampata in nove lingue (oltre l’italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, cinese e arabo), la brochure è stata adottata come
strumento per divulgare tra gli stranieri la cultura della sicurezza e della prevenzione dal
Consiglio Territoriale per l’Immigrazione, l’organismo che ha sede in Prefettura, per promuovere gli interventi finalizzati all’inserimento degli immigrati nel contesto locale. Distrazione,
impianti difettosi, negligenze, sono i fattori di
rischio più frequenti per l’incolumità delle persone nel luogo in cui abitualmente si sentono
più sicure, la propria abitazione, mentre è qui
che si verifica un gran numero di infortuni. L’opuscolo illustra diverse situazioni di pericolo e
consiglia come intervenire in caso di incidenti.
Gas, elettricità, incendi, acqua, cadute e sostanze tossiche sono gli argomenti affrontati
con linguaggio e immagini semplici e chiari.
a cura di M. G. Valorani
HAnnO COLLABORATO in QUEsTO nUMERO
Prof. Fulvio Bongiorno
Professore associato di Analisi Matematica
Università Roma Tre
Dott. Gabriele Rumi
Unità di Allergologia Complesso Integrato Columbus,
Università del Sacro Cuore Roma
Dott.ssa Silvana Francipane
Medico chirurgo
Maria Giuditta Valorani PhD
Postdoctoral Research Assistant
Blizard Institute of Cell and Molecular Science,
“Queen Mary” University of London - GB
Prof. Giuseppe Luzi
Specialista in Immunologia Clinica e Allergologia
Professore associato di Medicina Interna (f. r.)
Docente presso “La Sapienza” Università di Roma
Facoltà di Medicina e Psicologia
Prof. Augusto Vellucci
Specialista in Malattie Infettive e Clinica Medica
già Primario di Malattie Infettive
Prof. Carlo Rumi
Direttore U.O. Diagnostica Citometrica
Università del Sacro Cuore Roma
Prof. Lelio R. Zorzin
Prof. associato Reumatologia (f.r.)
Specialista Reumatologo
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