Avviso ai Naviganti N. 19 Vent`anni, tra passato e futuro

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Avviso ai Naviganti N. 19 Vent`anni, tra passato e futuro
Avviso ai Naviganti N. 19
Mendrisio, 14 maggio 2012
Vent’anni, tra passato e futuro
Il futuro negato
Di una sola cosa siamo certi: tra dieci o vent’anni, il mondo sarà ben diverso da come ce
lo immaginiamo oggi. L’Italia forse no; la storia degli ultimi decenni non induce
all’ottimismo.
Se voltiamo lo sguardo indietro ai primi anni ’90, il mondo si è completamente
trasformato. L’Italia è rimasta immobile, un “gatto(pardo) di marmo”. Molte delle attuali
difficoltà attribuite all’Euro sono da ricondurre all’incapacità di cavalcare il fenomeno
della globalizzazione. E’ perfino banale enfatizzare la crescente distanza tra “gli altri” e
noi: da una parte domina l’accelerazione, la spinta derivante dalla digitalizzazione
dell’economia, dall’altra siamo consapevoli di vivere in un paese culturalmente
“immobile”, in crisi d’identità, con un’economia in eterna stagnazione e oggi in caduta
libera. La rivoluzione digitale è avvenuta totalmente al di fuori del nostro sistema
economico. Siamo “utilizzatori finali”, non ideatori.
“Declino” è il termine più usato, verrebbe da dire il più abusato, per descrivere lo stato
della penisola. Siamo il paese della perenne “divergenza”.
Nel ’92 l’Italia ha subito traversie per molti versi simili a quelle attuali. Anche allora la crisi è
stata totale: politica, istituzionale, sociale e finanziaria. Quella di oggi è molto peggio. Ma
anche allora l’aspetto finanziario aveva a che fare con la prospettiva della moneta
unica; un progetto, un’idea, ancora priva di nome proprio. Quando si dice la forza delle
idee! Fissare le immagini di venti anni fa equivale a toccare con mano la perenne
inadeguatezza italiana e mettere a fuoco il vizio originario della moneta europea.
Guardare oltre l’orizzonte dei prossimi due, tre lustri significa provare a immaginare un
futuro diverso, migliore, anche per l’Italia. E’ possibile? Forse si, ma è indispensabile una
rivoluzione culturale che trasformi il ventre molle del paese. Nel post ’92 sembrava potesse
succedere, ma è finita come sappiamo. Oggi c’è un’altra opportunità da cogliere ma,
ora come allora, siamo sull’orlo del baratro. Vanno evitati gli stessi errori, innanzi tutto
scrollandosi di dosso l’ingombrante protettorato di un’Europa germano-centrica. Che poi
vuol dire cessare di delegare a terzi le nostre responsabilità, a partire dalla gestione del
“vincolo esterno”, che dagli anni ‘70 zavorra la crescita del paese. Non è necessario
uscire dall’Euro, evento inequivocabilmente catastrofico, soprattutto se non preparato a
dovere; è piuttosto obbligatorio, nel primario interesse di famiglie e imprese, predisporre
un “piano B”1, da attivare se la deriva europea dovesse proseguire e accelerare. C’è solo
una salvezza: ridurre drasticamente il perimetro statale, abbandonare l’abusato vizio del
“tax e spend”, figlio della peggiore tradizione neokeynesiana, riattivare gli “animal
spirits”di Shumpeter e del miglior Keynes, che forse non sono stati ancora completamente
sterminati. Una vera rivoluzione copernicana rispetto all’andazzo degli ultimi decenni.
1
L’idea del “piano B” è mutuata dal breve saggio di Paolo Savona “Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla
crisi”, Rubbettino Editore, 2012.
1
Globalizzazione e digitalizzazione: cosa sta cambiando.
La nuova ondata di globalizzazione che ha dominato l’ultimo ventennio è stata
largamente determinata dalla rivoluzione digitale che caratterizza la cosiddetta società
della conoscenza.2 La significativa crescita dell’economia globale ha “velato” un
processo di redistribuzione dei redditi a beneficio del nuovo ceto medio nei paesi in via di
sviluppo, che va a braccetto con il cospicuo travaso di peso politico e di risorse da ovest
verso est. In parallelo, però, è lievitato il potere di mercato delle grandi multinazionali
globali, che si configurano sempre più come il nuovo vero potere sovranazionale, la cui
testa pensante rimane nei principali paesi sviluppati, a partire dagli Stati Uniti. Facile
prevedere che tale tendenza prosegua e si intensifichi anche nei lustri a venire.3 Ma, sotto
traccia, la globalizzazione sta cambiando nuovamente pelle. Negli ultimi venti anni la
minimizzazione dei costi di produzione è largamente passata per l’ottimizzazione del
rapporto tra costo del lavoro e produttività. Ne è conseguito l’evidente fenomeno
universale della delocalizzazione produttiva. C’è chi pensa che nei prossimi lustri possa
cambiare ancora tutto4:
 rivoluzione nella logistica: il costo della distribuzione negli Stati Uniti pesa per circa il 6%
del prezzo di vendita; in Cina il 20%. Si ipotizza che il costo possa tendenzialmente
scendere al 3% universalizzando la distribuzione via internet (il modello “Amazon più
Fedex”, compri da casa tutto quello che vuoi). Le chiavi di questa rivoluzione sono nel
cassetto delle multinazionali della tecnologia Usa.
 rivoluzione produttiva: la robotizzazione dei processi industriali sta subendo una
violenta accelerazione. Questa tendenza potrebbe portare il costo del lavoro a livelli
inferiori rispetto a quelli cinesi. Nuove tecnologie produttive come quelle basate sulla
stampante laser tridimensionale - una tecnologia relativamente giovane con un
grande potenziale nel futuro - possono rivoluzionare i processi e la supply chain,
riducendo l’importanza delle economie di scala e riavvicinando i luoghi di produzione
ai mercati di sbocco.
Più il processo produttivo diventa digitale, più sarà possibile produrre efficientemente
piccole quantità, con più flessibilità e minor fabbisogno di lavoro, grazie all’utilizzo di
nuovi materiali, nuovi processi e nuovi servizi di supporto on line. Si ritorna dalla
produzione di massa a una molto più centrata sugli specifici bisogni del cliente locale. E
questo può riportare nei paesi sviluppati parte dei processi produttivi esternalizzati
nell’ultimo ventennio.
 Risorse naturali: un recente studio di McKinsey5 ha evidenziato come negli ultimi 15 anni
il deficit commerciale delle “economie mature” sia stato largamente causato dall’
import di materie prime, i cui prezzi sono cresciuti oltre misura; viceversa hanno avuto
un surplus di export nei comparti ad alta intensità di innovazione tecnologica
(“knowledge-intensive manufacturing”). Tra le economie sviluppate, guarda caso, la
posizione italiana è particolarmente critica su entrambi i fronti.
2
Termine usato per la prima volta da Peter Druker in “The Age of Discontinuity”, Guidelines to Our Changing Society.
New York: Harper & Row, 1969.
3
Cfr. rif. FT 27 aprile 2012, “The great middle class power grab”, di Philip Stephens , financial Times, April, 27, 2012.
Secondo Il Global Trend Report, presentato al convegno l’Institute for Security Studies ( www.issafrica.org) tenutosi
il 17/2/2012, la “classe media” a livello mondiale passerà dagli attuali 2 miliardi di persone a 3,2 nel 2020 e a 4,9, su
8 miliardi di abitanti, stimati nel 2040.
4
Cfr. Paul Markillie, “A third industrial revolution”, The Economist, 2012, April, 21 e Gavekal, “Quarterly Strategy
Chart Book”, March 2012.
5
McKinsey Global Institute (MGI)—Trading myths: Addressing misconceptions about trade, jobs, and competitiveness.
Maggio 2012.
2
Figura 1 Export netto economie mature in % del PIL, fonte McKinsey, rif. citato.
Lo sviluppo delle potenzialità degli enormi giacimenti di “shale gas”6 scoperti di recente,
in parallelo con l’evoluzione delle tecniche di estrazione (il fracking), apre la parta alla
probabile autosufficienza energetica degli Stati Uniti e, forse, di altre economie avanzate.
Le potenziali conseguenze sotto il profilo economico e socio-politico sarebbero enormi.
Figura 2 Prospettive di crescita per il gas naturale. Fonte: vedi nota 5.
In definitiva, nel giro di dieci o vent’anni, potremmo vedere un mondo molto diverso da
quello che ci immaginiamo oggi: un rampante ritorno della “supremazia americana”, la
ridistribuzione geografica dei processi produttivi, la continua riduzione dei prezzi dei
prodotti di largo consumo, il rafforzamento ulteriore del potere di mercato delle grandi
6
Cfr. “Prepare for a golden age of gas”, Martin Wolf, Financial Times, February, 21, 2012.
3
multinazionali. In parallelo, però, si intravede la prosecuzione del trend di impoverimento
della classe media dei paesi evoluti (sempre meno necessità di lavoro poco qualificato),
con il rischio che venga schiacciata nello scomodo ruolo di nuovo proletariato post
industriale.
Riuscirà l’Italia a interrompere un declino almeno trentennale nella prossima fase di
globalizzazione? Nel mondo globalizzato i vantaggi comparati sono determinati da quelli
assoluti, ossia dall’efficienza dei servizi non commerciabili internazionalmente. Il nostro
principale svantaggio comparato è il peso e l’inefficienza del settore pubblico. Si deve
partire da qui.
Globalizzazione e ceto medio: inarrestabile declino?
In parallelo con la crescita dei nuovi mercati, grandi cambiamenti hanno caratterizzato la
struttura economica e sociale del mondo sviluppato: in particolare si osserva un generale
impoverimento subito dalla classe media rispetto ai più abbienti sia in termini relativi, sia, in
molti paesi, perfino in termini assoluti. Questo decadimento, spesso negato dagli ayatollà
del liberismo puro e duro, diventa evidente se si sostituisce all’ abusato, generico
concetto di “crescita” quello, ben più pertinente, di “crescita del reddito reale pro
capite”. E, soprattutto, se si ragiona sull’evoluzione nel corso del tempo della distribuzione
della crescita del reddito e della ricchezza, nell’ambito dei singoli paesi avanzati, per
classi di popolazione7. In breve, la crescita reale dei redditi personali o della dinamica
dei bilanci familiari nei paesi sviluppati, è in rallentamento dalla fine del boom
economico seguito alla seconda guerra mondiale, ossia dagli anni ’70-’80 dello scorso
secolo e si è progressivamente “spenta” nell’era della globalizzazione. Nel nostro paese,
secondo una ricerca dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia, in termini reali il reddito medio
delle famiglie nel 2010 è inferiore del 2,4% rispetto a quello riscontrato nel 1991.
Viceversa, le grandi corporation multinazionali dei paesi sviluppati si sono ritagliate un ben
diverso destino: hanno depredato le larghe praterie dei mercati mondiali in espansione,
sfruttando sino all’estremo limite i guadagni di produttività, derivanti dall’innovazione
tecnologica, e di competitività, attraverso un feroce controllo dei costi (in primis del
lavoro) e la delocalizzazione produttiva.
A livello macroeconomico i due fenomeni sopracitati si sono riflessi nella tendenzialmente
crescente quota dei profitti sul reddito nazionale, a scapito dei “salari” (con brevi
interruzioni nei periodi di recessione); a livello microeconomico e finanziario hanno
alimentato margini di profitto il cui trend strutturale non mostra per ora, nessun cenno di
“reversion to the mean”, come sempre è successo in passato. A livello politico hanno
alimentato l’incontenibile ascesa dell’influenza e del condizionamento esercitato delle
grandi corporation e dal potere finanziario sull’azione pubblica.
Collegare i puntini: parte 1.
L’Europa e l’Italia sono nell’occhio del ciclone, al centro di una crisi epocale che ha
cause vicine e lontane, strutturali e congiunturali, esogene, cioè largamente fuori
controllo ed endogene, cioè relativamente gestibili. Volendo essere schematici
all’estremo, competitività e debito sono i due talloni d’Achille italiani. La carenza della
prima e l’enormità del secondo derivano, in larga misura, dall’incapacità della nostra
classe dirigente di guardare al futuro e di spendersi per le prossime generazioni.
7
Cfr. The squeezed middle - FT.com , con I grafici interattivi collegati
4
Uno sguardo a quello che è successo esattamente venti anni fa, nel terribile 1992, apre
una delle possibili prospettive per interpretare il presente e capire se stiamo
commettendo gli stessi errori, in una situazione oggettivamente più complessa perché
caratterizzata da vincoli ben più stringenti e da ritardi difficilmente recuperabili. Serve
anche per capire che esiste sempre un futuro diverso. I periodi di crisi nascondono spesso
grandi opportunità. Con il senno del poi, anche l’ultimo decennio del secolo scorso lo
conferma. Non per l’Italia, purtroppo.
1992: una panoramica.
I padroni dell’Europa sono due pesi massimi, François Mitterand in Francia e Helmut Kohl,
Cancelliere della nuova Germania appena unificata. Il primo lascia via libera
all’unificazione tedesca, a condizione che la Germania rinunci al marco e sia parte
fondamentale di una futura Europa Unita a partire dalla moneta, che dovrà sostituire
quelle nazionali entro il 1999. Generoso ma pessimo scambio, tra la concretezza
dell’immediato e l’ambizione di un sogno che si sarebbe trasformato in un incubo.
Certamente i due, a differenza di tanti contemporanei, rimarranno nella storia. Con il
Trattato di Maastricht8, firmato nel dicembre del ’91, vengono definite agenda e regole
per partecipare all’ambizioso progetto. Il muro di Berlino è caduto nell’89, l’Europa dell’est
è ancora in piena fase di transizione, in Russia regna il caos. In Yugoslavia sta per iniziare
una guerra civile che insanguinerà la maggior parte del decennio.
Negli Stati Uniti, il presidente George H.W.Bush sta per lasciare il passo a Bill Clinton, che
guiderà il paese negli otto anni successivi, un periodo che si sarebbe rivelato magico per
l’economia americana (Goldilocks Economy). Gli Usa, come l’Europa, arrancano per
uscire dalla profonda recessione del ’90-91, innescata dall’attacco di Saddam Ussein al
Kuwait nell’agosto del 1990. Alan Greenspan, già da qualche anno Governatore della
Fed, si è già distinto per il salvataggio delle casse di risparmio americane (le “Saving and
Loans”) e inocula nel sistema massicce dosi di droga monetaria, mantenendo i tassi a
breve su livelli del 3-3,5%. Viceversa, dall’altra parte dell’Atlantico, la Bundesbank, alle
prese con l’integrazione della vecchia Germania Est, tiene alto lo stendardo del rigore
monetario, con tassi oltre il 9%.
Guardando a quegli anni, con gli occhi di oggi, balza all’occhio una prima grande
differenza: è un periodo di grandi speranze e progetti planetari, sostenuti da condottieri
ambiziosi e visionari, che pur difendendo corposi interessi nazionali, sono capaci di
8
Da Wikipidia: Il trattato, sottoscritto il 7 febbraio 1992 dai 12 Stati membri della Comunità Europea (CE) è entrato in vigore il 1º
novembre 1993, dopo la ratificazione dei Parlamenti degli Stati membri. Aveva come obiettivo principale l'introduzione di un'unità
monetaria unica, l'euro. Al fine di raggiungere questa meta, erano state pianificate tre fasi: la prima, iniziata nel novembre 1993, ha
previsto l'adozione da parte dei singoli Stati membri, di programmi per la convergenza delle economie e per garantire la
liberalizzazione dei movimenti di capitale; la seconda, avviata il 1° gennaio 1994, ha portato alla formulazione delle condizioni da
rispettare nella futura adozione della valuta unica. Tali condizioni, formulate nel 1995, prevedevano l'adeguamento delle economie
dei singoli Stati a quattro parametri (rapporto tra deficit pubblico annuale e PIL non superiore al 3%, rapporto tra debito pubblico e
PIL non superiore al 60%, limiti al tasso d'inflazione e tassi a lungo termine), che si sarebbero rivelati molto difficili da raggiungere
per la maggior parte dei Paesi della Comunità. La terza fase, che - iniziata il 1° gennaio 1997 - doveva terminare non oltre il 1°
gennaio 1999, aveva come obiettivo con la fissazione definitiva della parità delle monete dei Paesi partecipanti e l'istituzione della
Banca Centrale Europea. Per il passaggio alla terza fase il Trattato dichiarava che era necessario l'adeguamento di almeno otto
degli Stati firmatari. Per quanto riguardava gli altri Stati, avrebbero potuto aderire all'Unione Economica e Monetaria solo nel
momento in cui le rispettive economie avessero completato il processo di risanamento della propria finanza pubblica. Il 2 maggio
1998, a Bruxelles, il Parlamento europeo ha sancito ufficialmente l'avvio dell'euro, la moneta unica europea, dal 1° gennaio 1999 e
l'ingresso nell'Unione di 11 Stati: Italia, Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e
Spagna; rimanevano esclusi, per propria scelta, Regno Unito, Danimarca e, in quanto non ancora in regola, Svezia e Grecia,
quest'ultima solo fino al 2001.
5
spendersi per rischiosi piani di lungo termine, a partire dai già citati Kohl e Mitterand, senza
dimenticare il velleitario Gorbaciof e lo stesso Clinton. Le scialbe figure di oggi
impallidiscono al confronto. Comunque, nel ’92 come ai nostri giorni, la strada dei grandi
progetti di lungo termine è costellata di mine, molti delle quali sono interrate nottetempo
dagli gnomi della finanza internazionale.
Il quadro economico dei principali paesi occidentali non è rassicurante. Giusto per dare
una rapida pennellata, l’inflazione viaggia attorno al 4-5% in Germania e Stati Uniti e a
livelli superiori nei “periferici” dell’epoca, che includono a buon diritto, il Regno Unito. I
tassi d’interesse a lungo termine sono elevati (tra il 7 e l’8-10%); la curva dei tassi ha
inclinazione fortemente positiva in Usa (testimone della politica espansiva della Fed) e
negativa in Europa (segno di quella restrittiva tedesca). Le attese di crescita rimangono
relativamente modeste. In Germania le prospettive di crescita del Pil sono all’1-2%, con la
componente della Germania est attesa a +10%, dopo il crollo del 30% nel 91.
L’integrazione ha azzerato l’obsoleta industria orientale e creato milioni di disoccupati.
Ovviamente il deficit pubblico schizza verso l’alto, considerati
gli enormi costi
dell’integrazione; le rivendicazioni salariali sono alle stelle e gli scioperi continui. In giro c’è
chi afferma che la Germania, assorbendo la vecchia DDR, diventerà un paese molto più
fragile, simile all’Italia: un paese duale. Previsioni, come spesso succede, scritte nella
sabbia.
L’amplio differenziale dei tassi tra blocco europeo, dove la Bundesbank detta la linea, e
gli Stati Uniti, alimenta una costante pressione ribassista sul dollaro, che a Washington
avversano a parole ma promuovono con i fatti. Le configgenti politiche economiche
eccitano la speculazione che mantiene condizioni di forte instabilità su valute, azioni e
obbligazioni governative.
1992: “euro follia”, la versione originale.
Il 2 giugno del 1992 gli elettori danesi dicono “no” alla ratifica del trattato di Maastricht.
Sono i titoli di testa di un grande film drammatico il cui remake, arrangiato con attori
ormai bolliti, ma con tanti nuovi colpi di scena, stiamo proiettando in questi anni.
Il “no” danese, in un contesto finanziario internazionale caratterizzato, come visto, da
diverse criticità, viene visto dagli operatori come un elemento di forte disturbo della
nascente convergenza e prospettica integrazione finanziaria dei 12 iniziali candidati alla
partecipazione all’UEM (Unione Monetaria Europea). I mercati si preoccupano anche
perché sanno che, a breve, saranno indetti analoghi referendum in Irlanda e Francia.
Sono ragionevolmente sicuri che i fondamentali (inflazione, costo del lavoro, saldi
commercial, saldi di bilancio), rimarranno largamente fuori controllo; dubitano che possa
essere mantenuta la parità dei tassi di cambio concordata, con oscillazioni reciproche
costrette attorno al più o meno 2,25% rispetto al livello centrale fissato; puntano, infine,
con crescente arroganza, a far saltare il banco delle parità di cambio concordate. Nel
breve volgere di cinque drammatici mesi vincono la partita; lira e sterlina sono costrette a
gettare la spugna, si procede a un riallineamento generale e si riparte verso il sole
dell’avvenire: l’agognato Euro.
Il nostro paese entra nel 1992 governato dal settimo (e ultimo) governo Andreotti.
Segretario della democrazia Cristiana è Arnaldo Forlani.9 La Prima Repubblica è ormai al
9
Ci sembra divertente riportare una sarcastica dichiarazione del 22 luglio 1989 dell’allora giovane radicale Francesco
Rutelli, in sede di fiducia al sesto governo Andreotti: "Nel 1972 Richard Nixon era presidente degli Stati Uniti, Leonid
Breznev segretario del partito comunista sovietico, .... in Germania era cancelliere Willy Brandt, in Francia il presidente
della repubblica era George Pompidou,… in Spagna governava il caudillo Francesco Franco, in Grecia c'era la dittatura
6
crepuscolo, affossata dalla perenne crisi economica e dal montante discredito che
coinvolge il sistema istituzionale e la classe politica. Allora come ora, nessuno nel corso del
tempo aveva avuto la forza e il coraggio di affrontare i nodi strutturali che, vent’anni
dopo, sono ancora tutti sul tappeto. E’ istruttivo rileggere le cronache di quei giorni: lascia
allibiti la incredibile analogia delle situazioni; si rimane basiti nel confrontare
comportamenti pubblici identici; va valutato, in prospettiva, il percorso seguito per uscire,
provvisoriamente, dalla crisi, non fosse altro per evitare, se possibile, gli stessi errori.
Ma il copione sembra essere sempre lo stesso. Tanto per cominciare diamo un rapido
sguardo alla situazione dei conti pubblici all’inizio del 1992. Poi passiamo a quattro dati
sulla competitività del paese. Le analogie con la situazione attuale sono impressionanti.
Nel 1991 sono state inventate ben quattro manovre di aggiustamento dei conti pubblici,
per un importo figurativo di circa 37 miliardi di euro attuali10 (una cifra spaventosa, per
l’epoca), ovviamente non finalizzate (siete sorpresi? Guardate al 2011…). Il rapporto
deficit/Pil è al 10,6%, quello debito/Pil al 102%. Il debito in valore assoluto ammonta a circa
730 miliardi di euro attuali e l’onere per interessi a 72 miliardi di euro.11
Sul fronte della competitività, considerando anno base il 1985 e fatto uguale a 100 il livello
degli indicatori considerati, alla fine del 1991 la situazione italiana era la seguente:12
prezzi al
Prezzi
Costo unitario
Cambio reale
consumo
produzione
lavoro
Italia
140,3
121,7
131,2
117,2
Germania
110,7
103,4
115
126,8
Francia
120
105,8
114
100,6
UK
141,2
133
133,5
98,3
USA
125,5
116,3
103,5
56,6
Giappone
111,8
97,3
101,7
116,1
1992: Italia, cronaca di un anno terribile.
 17 febbraio: l’arresto di Mario Chiesa, deciso dal procuratore Antonio Di Pietro, segna
l’avvio di “Mani pulite” e fa emergere uno dei cancri che mina la competitività del
paese; segue il progressivo discredito della classe politica e il sostanziale salvataggio di
quella imprenditoriale, che forse, avrebbe meritato peggior fine.
 12 marzo: viene assassinato Salvo Lima, plenipotenziario andreottiano in Sicilia.
 6 aprile: elezioni politiche, le ultime della cosiddetta prima repubblica; grande
successo della Lega Nord e della Rete, movimenti che cavalcano la protesta
antipartiti; il primo con pulsioni indipendentiste e antistataliste. Nominato il nuovo
parlamento che, in breve, diventerà il “ parlamento degli inquisiti”.
 25 aprile: Cossiga, il presidente picconatore, rassegna le dimissioni.
 23 maggio: strage di Capaci.
 25 maggio: Oscar Luigi Scalfaro viene eletto presidente della repubblica.
dei colonnelli. In Italia era Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti e segretario della Democrazia Cristiana
Arnaldo Forlani”. Citazione da “L’Italia degli anni di fango”, Indro Montanelli, Mario Cervi, Editore, anno, pag. 255.
10
D’ora in poi, per semplicità d’analisi, convertiremo gli importi in lire dell’epoca in Euro correnti, senza inflazionare i
valori per l’aumento dei prezzi avvenuto negli ultimi venti anni. Ciò significa sottostimare di una larga misura il peso
degli interventi in termini monetari dell’epoca.
11 Oggi con un debito di circa 2000 mld., l’onere per interessi viaggia sui 90 mld. €; questo è l’unico “windfall” della
moneta unica, che però non ci ha impedito di continuare ad aumentare la spesa pubblica.
12
Financial Times, International Economic Indicators, 1992.
7
 2 giugno: la Danimarca vota no alla ratifica del trattato di Maastricht. E’ l’avvio della
crisi finanziaria. Nel corso del mese di giugno lo spread (eccolo, appare per la prima
volta…) tra titoli italiani e tedeschi sale e si posiziona su livelli superiori al 5 per cento. Le
banche centrali dei paesi con le valute sotto attacco iniziano ad alzare i tassi
d’intervento.
 7 giugno: in un round amministrativo parziale crollano Dc, PSI e PDS. Segue la crisi del
settimo Governo Andreotti.
 28 giugno: giura il Governo Amato, al quale è assegnata una sfida impossibile. Nel giro
di un mese i tassi pronto/termine di Banca d’Italia schizzano al 14,8%; i BTP decennali
rendono il 13,6%.
Figura 3 possibili opzioni manovra correzione 92. fonte: il Mondo.
 1 luglio: girano voci di declassamento del debito da parte di Moodys.
 19 luglio: viene assassinato Paolo Borsellino.
 20 luglio: è il classico “Black Monday” sui mercati finanziari di tutto il mondo, con un
avvitamento del dollaro; a fine giornata intervengono le banche centrali a sostegno
della divisa Usa, la borsa italiana perde oltre il 5% con l’indice COMIT che precipita a
419, crollano anche i prezzi dei BTP; il tasso overnight schizza oltre il 17% e la lira viene
schiacciata sui minimi della banda di oscillazione a 761,28 lire per marco.
 24 luglio: il Presidente Amato presenta la “madre di tutte le manovre”, quella che
rimarrà impressa nella memoria storica del paese per la “rapina” del prelievo
straordinario dello 0,6% sui conti correnti.13 Amato porta a casa abolizione della scala
mobile; i mercati respirano.
13
E’ ma manovra monstre da 93.000 miliardi di lire, che presenta analogie storiche quasi ridicole con la manovra
“Salva Italia” dell’attuale Governo Monti e di quelle precedenti di Giulio Tremonti. A parte la solita grandinata di tasse,
8
 13 agosto: Moodys riduce il rating del debito italiano da AA1 a AA3 (vent’anni fa
erano di manica molto più larga).
 25 agosto: il Governatore della Banca d’Italia Ciampi esclude qualsiasi ipotesi di
svalutazione.
 1 settembre: i tassi overnight sfondano il 30%, in un disperato tentativo di proteggere la
lira.
 3 settembre: il Regno Unito si indebita in marchi in un altrettanto disperato tentativo di
difendere la credibilità della sterlina.
 4 settembre: Banca d’Italia alza il tasso di sconto dell’ 1,75% al 15%, in presenza di
enormi perdite di riserve valutarie.
 Mercoledì 9 settembre: a margine di un inconcludente Consiglio dei Ministri, Giuliano
Amato dichiara “ il baratro e più vicino, che Dio ci assista”.
 Venerdì 11 settembre: i tassi overnight schizzano al 35% e la lira non si schioda dal
margine minimo della banda di oscillazione. Nel fine settimana funzionari della
Bundesbank scendono a Roma e costringono il governo ad accettare una
svalutazione del 7%, che ben presto si rivelerà del tutto inadeguata.
 15 settembre: è il giorno di festa per George Soros: il finanziere guadagna più di un
miliardo di dollari in una sola notte: anche la Bank of England è costretta a svalutare la
sterlina.
 5 ottobre: per i mercati non basta. La lira cede un altro 5% e tocca quota 940 contro
marco. Ma tutti i cambi sono ancora sotto attacco. I BTP decennali toccano il
rendimento di 14,62%, massimo storico. La borsa crolla ai minimi degli ultimi otto anni,
con l’indice Comit sotto quota 400.
 3 novembre: Bill Clinton diventa presidente degli Stati Uniti
 15 dicembre: Bettino Craxi viene raggiunto da un avviso di garanzia; sembra la fine
della “partitocrazia”.
 18 aprile 1993: referendum sulla legge elettorale.
 28 aprile: nuovo governo tecnico presieduto da Carlo Azeglio Ciampi.
 29 aprile: il parlamento nega l’ autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi;
seguono le immediate dimissioni di vari ministri di area.
 Il 6 giugno ancora elezioni amministrative.
 20-23 luglio 1993: gli emblematici suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini segnano
forse la fine dell’”innamoramento” per “mani pulite”.
 6 agosto 1993: il parlamento approva una nuova legge elettorale. Inizia la “Seconda
Repubblica”.
 Primavera 1994: Silvio Berlusconi vince a mani basse le elezioni politiche con un
programma di riforme liberali e antistataliste. Giulio Tremonti, eletto nelle liste del PPI,
cambia casacca e viene nominato Ministro delle Finanze nel primo Governo del
Cavaliere. Dà alle stampe l’ormai famigerato “Libro bianco” che rimarrà nella storia
come il libro dei sogni irrealizzati del ventennio successivo.14
balzelli, aumento bolli, aumento dei contributi previdenziali, riduzione trasferimenti agli enti locali, minipatrimoniali,
inclusa un’imposta straordinaria sugli immobili e la revisione degli estimi (sic!), si presentano quattro leggi delega sulla
previdenza, sanità, pubblico impiego e finanza locale. Inoltre si apre il “tavolo” della concertazione con i sindacati sulla
“riforma del costo del lavoro”.
14
E’ un libro nel quale il “fervore mercatista (dell’epoca - n.d..r.) …trova sublimazione. E’ un manifesto di un certo
spessore intellettuale e contiene un programma di riforme innovative che avrebbero posto l’Italia all’avanguardia nella
definizione di un fisco efficiente e non vessatorio. E’ …la lista di tutto ciò in cui lui (Tremonti – n.d.r.) in fondo ha
dimostrato con i fatti di non credere e di tutti i provvedimenti che non ha mai portato a termine”. Cit. da G. Castellotti,
F. Scacciavillani, “Tremonti, il timoniere del Titanic”, editori Riuniti Internazionali, novembre 2011, pag, 81.
9
Italia, gatto(pardo) di marmo: vent’anni buttati.
Ripercorrere le cronache italiane del terribile 1992 e' un'esperienza istruttiva. Le analogie
con i fatti di oggi sono impressionanti. Spesso gli attori in commedia sono ancora gli stessi,
come identico è lo spartito suonato dall’orchestra dei mercati. Diciamo che sono simili le
modalità, diverse le dimensioni dei fenomeni. Dopo vent’anni di globalizzazione finanziaria
e quindici di moneta unica, la permeabilità e la fragilità dei sistemi bancari nazionali è
massima. Rimangono però largamente domestici i controlli, come rimangono spesso
inalterate le specificità dei sistemi paese. Reagire a crisi globali è diventato quindi
terribilmente più complesso.
Lo è anche per il nostro paese, oggi colpito da una dura recessione economica, che
segue, a soli tre anni di distanza, quella globale del 2009. Rispetto al 1992 il tessuto
economico e sociale del paese si è fortemente indebolito. Non solo in termini relativi, ma
anche come grandezze assolute (cfr. figura 4).
Figura 4: tassi di crescita reale del Pil dal 2003. fonte Thompson Reuters.
Rispetto ad allora solo il deficit pubblico è a livelli più contenuti, ma al prezzo di
dissanguare imprese e famiglie con una pressione fiscale ai massimi storici. Malgrado ciò,
comunque, la zavorra del debito pubblico è cresciuta di altri 20 punti percentuali sul PIL,
prevalentemente per gli effetti indiretti della crisi finanziaria del 2008-2009.15
Comunque la più inossidabile continuità di comportamento è quella relativa alla crescita
della spesa pubblica in valore assoluto; è vero che per qualche anno, dopo la crisi del
’92-’93, non fosse altro che per centrare l’obiettivo di entrare nell’Euro, il tasso di crescita
della spesa si è ridotto.
15
Le ultime stime del Governo, presentate con il DEF (documento di Economia e Finanza 2012), proiettano il
rapporto al 123,4 nel 2012 e al 121,6 nel 2013, al lordo dell’aumento causato dall’intervento agli strumenti si
salvataggio europei che vale tra il 4 e il 4,6%.
10
Figura 5: il trend del debito pubblico. Fonte: Filippo Tadddei, Nfa, presentazione a Roma, 29/02/2012
Ma già dalla fine degli anni ’90, con i governi di centrosinistra, l’andazzo è tornato ad
essere quello precedente (cfr. fig. 6).
Figura 6: l'insostenibile cavalcata della spesa. Fonte CSC, presentazione a Roma, 15/12/2011.
Infine i livelli di produttività e di competitività internazionale hanno continuato a
deteriorarsi per tutto il periodo della moneta unica. Lungi dal convergere, come sarebbe
stato necessario, la tendenza è quella di una netta divergenza rispetto ai nostri partners,
analoga a quella degli anni ’80; la scappatoia della svalutazione oggi, però, non è più a
portata di mano16 (cfr. graf. 7). 17
16
Martin Wolf in “Why the Bundesbank is wrong” Financial Times, April 10, 2012, che Portogallo e Grecia per tornare
competitive, dovrebbero svalutare del 30-35%, la spagna del 20% e l’Italia del 10-15%.
11
Figura 7: produttività totale dei fattori: fonte EU-Klems
Inoltre, e questo è un fenomeno “nuovo”, mentre il costo del lavoro per unità di prodotto
continua a crescere (cfr graf. 8)18, le retribuzioni reali sono stabili o calanti, in parallelo con
la crescita reale del reddito pro capite, che è negativa nell’ultimo decennio (fig. 9).19
Figura 8: var.% costo lavoro unitario 2002-2010. Fonte: Michele Boldrin e Sandro Trento, Presentazione a Roma
28/02/2012.
17
periodo 1995 – 2007 la produttività totale dei fattori è precipitata in Italia del 3,77%. Fonte: Andrea Ricci, Mirella
Damiani e Fabrizio Pompei) scaricabile da http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002558-351.html.
18
Secondo il rapporto Ocse : “'Taxing wages” il rapporto tra salario netto e lordo medio di un single senza figli a carico
è pari al 69%; includendo anche gli oneri sociali a carico dell’impresa, il cuneo fiscale, cioè la differenza % tra costo del
lavoro e retribuzione netta, è del 47,6% .
19
Diventa sicuramente tale se la serie storica comprendesse anche gli ultimi quattro anni.
12
Crescita PIL pro-capite, OCSE
Filippo Taddei –
www.carloalberto.org
Figura 9: crescita pil pro-capite. Fonte: Filippo Tadddei, Nfa, presentazione a Roma, 29/02/2012.
Infine vale la pena di segnalare la dinamica della ricchezza del paese al netto del debito
pubblico (fig. 10), sia complessiva che pro-capite. Anche qui siamo in presenza di un calo,
ma solo a partire dal 2007-2008. Nei prossimi anni la caduta proseguirà, soprattutto per la
scontata riduzione dei valori immobiliari. Rimane il fatto che il paese ha uno stato
patrimoniale ancora relativamente florido, anche nel confronto internazionale; a maggior
ragione se consideriamo anche la ricchezza “sommersa” non dichiarata estera.20
Figura 10: Andamento della ricchezza netta in Italia, 1965-2010 (numero indice dei valore a prezziAndamento della ricchezza
netta in Italia, 1965-2010 (numero indice dei valore a prezzi costanti; base 1965 =100). Fonte: Banca d’Italia, “Ricchezza e
disuguaglianza.
20 Secondo Banca d’Italia i capitali non dichiarati esteri degli Italiani erano stimabili tra i 124 e i 194 miliardi di
euro, alla fine del 2008. Cfr. Valeria Pellegrini, Enrico Tosti “Alla ricerca dei capitali perduti: una stima delle attività
all’estero non dichiarate dagli italiani”, Banca D’Italia, Occasional Paper N. 97, luglio 2011.
13
Bastano quattro cifre approssimative di confronto con la Germania (tab. successiva) per
capire che lo stock di ricchezza accumulato nel paese fino ad epoche recenti è di tutto
rispetto.
Quantita’
Finanziaria trilioni €
immobiliare
Debito pubblico
N. abitanti ( milioni)
Finanz. Pro capite €
Immob. Pro capite
Debito pubblico pro capite
Germania
Italia
4,7
5,0
2,1
82,3
57.100
60.750
25.500
3,6
5,9
1,9
60,1
59.900
98.170
31.600
Tirando le somme, l’Italia si è trovata ad affrontare l’epocale crisi finanziaria del 2008-2009
in condizioni economiche non dissimili da quelle dei primi anni ’90, a parte un po’ di
grasso in più. Malgrado un crollo del PIL del 5,5% nel 2009, sotto il profilo finanziario e della
tenuta sociale, è riuscita a reggere per un paio d’anni, grazie al fatto che i conti pubblici
(il deficit) erano in ordine”21. Successivamente, proprio quando la deriva dell’ Eurozona è
diventata incontrollabile, l’apparente stabilità politica veniva messa a dura prova da un
progressivo delirante sfilacciamento all’interno della maggioranza, che in una situazione
di incontrollabile fragilità, era alla fine costretta a gettare la spugna. Proprio come nel ’92.
Netta è la percezione di assoluta immobilità delle istituzioni e della inesauribile
inadeguatezza della classe dirigente del paese. Nel ’92 la gravissima crisi economico
finanziaria aveva messo a nudo le croniche inadeguatezze della classe dirigente
dell’epoca, apparentemente spazzata via da “tangentopoli”. Si è pensato e creduto
che quella che sarebbe diventata la “Seconda Repubblica” avrebbe finalmente
permesso al paese di rinnovarsi. Purtroppo non è stato così e anche nell’ultimo ventennio
il paese non ha visto la tanto auspicata “rivoluzione liberare” o anche, solo, una vera
alternativa. La mancanza di alternanza, non tanto e solo politica, ma soprattutto
culturale, è il primo motivo per cui l’Italia sembra sempre uguale a se stessa. E' il DNA del
paese che e' infetto. La prima metaforica immagine che viene alla mente e' quella di un
gatto-pardo di marmo. Anche quando apparentemente si cambia, il fine - questo sì
sempre raggiunto - è quello di ribaltare tutto per non cambiare nulla. E’ uno dei tanti
luoghi comuni sul nostro paese, purtroppo confermati dalla storia recente o meno. Il
percorso è sempre lo stesso: monta tra i cittadini un afflato velleitario e effimero di
rinnovamento che porta all’apparente azzeramento del ceto politico dominante,
osannato con fervore e deferenza fino a poco prima. In mezzo troviamo sempre una fase
emergenziale con il suo corollario di lacrime e sangue, nel quale si mischiano, in un
cocktail micidiale, misure di breve respiro totalmente incoerenti rispetto alle necessarie e
promesse “riforme”, mai realizzate. Poi si riparte, con le redini in mano agli stessi attori e in
breve tutto ricomincia come prima. Questa volta sarà diverso?
Parigi – Atene – Roma, 6 maggio 2012. I nuovi mostri
François Holland vince le elezioni presidenziali francesi, vuole più crescita e la difesa dello
stato sociale; intanto un terzo dell’elettorato vota per le “estreme”. In Grecia quasi un
quarto degli aventi diritto al voto si astiene, la maggioranza dei voti validi è rastrellata da
21
In tal senso le ripetute affermazioni del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
14
un’accozzaglia di gruppi e partiti, vecchi e nuovi, uniti solo dal rifiuto del programma di
bail out già negoziato con l’Europa. In Italia, alle amministrative, cresce la rivolta
“antipartiti” e perde la vecchia coalizione di centrodestra. In precedenza era caduto il
governo olandese, quindi di un paese della “Core Europe”, per la mancata approvazione
delle misure per riportare il rapporto deficit/pil al di sotto del 3% concordato con la
Commissione Europea.
Dall’inizio della seconda ondata della crisi finanziaria, in Europa sono ormai saltati 11
governi; nessuno di quelli al potere è riuscito ad essere rieletto. Da una parte brillano i
clamorosi fallimenti delle non meglio definibili “destre”. “Zero tituli” è il ricco bottino nel
carniere dei due più prestigiosi rappresentanti di questo schieramento, Sarkozy e
Berlusconi, entrambi omaggiati di larghissime maggioranze parlamentari: entrambi hanno
clamorosamente fallito sul terreno delle riforme “strutturali”, le cosiddette riforme
dell’“offerta”, quelle che secondo gli esegeti del liberismo più o meno radicale
considerano la panacea di tutti i mali (liberalizzazione del mercato del lavoro, riforma del
sistema pensionistico, riduzione della spesa pubblica, riduzione del prelievo fiscale, ecc.).
Destino non diverso è toccato anche ai “sinistri” alla Zapatero, apprendisti stregoni di
“gioiose macchine da guerra” evocate fuori tempo massimo, il quale ha avuto il torto di
non accorgersi della impressionante bolla immobiliare che stava montando. Almeno la
Spagna e, in parte la Grecia, hanno avuto il merito di attaccarsi impudicamente alle
mammelle comunitarie per modernizzare le infrastrutture del paese (l’Italia neppure
questo è riuscita a fare).
Verrebbe da dire: un nuovo mostro si aggira per l’Europa! La marea montante della
rabbia e della frustrazione travolge le deboli difese della tradizionali forze politiche,
screditate dall’incapacità, prima di tutto culturale, di affrontare una crisi epocale con
nuove strategie, idee, strumenti. Sono in ballo gli interessi di un ceto medio sempre meno
abbiente, la cui coesione sociale si sta sgretolando. Da una parte, tutti coloro che si
abbeverano a uno stato sociale sempre meno difendibile economicamente; dall’altro un
“piccolo mondo antico” di piccoli imprenditori, commercianti e artigiani travolto dalla
marea montante della crisi e dalla voracità del fisco.
Non è più solo un problema italiano, evidentemente. La seconda repubblica è al
tramonto come la prima, con un auspicabile azzeramento delle consorterie politiche che
hanno dominato gli ultimi due decenni. Siamo passati, per metterla sul ridere, da
“tangentopoli” a “partitopoli” o, “puttanopoli”, dalla P2 alla P4, da Craxi a Berlusconi,
dalla tragedia alla farsa. Ma c’è poco da scherzare. Anche da noi, questi sono giorni che
rischiano di diventare drammatici Il paese è percorso da fremiti di rabbia e disperazione,
forse amplificati ad arte da media, sempre meno credibili. Ma la crisi economica, questa
volta è drammatica: sono almeno sei i milioni di persone senza lavoro o senza speranza di
trovarne uno e che quindi non lo cercano più.
Il tecnico Mario Monti ha lo stesso compito di Giuliano Amato22 nel ’92 e di Azeglio Ciampi
nel ’93. Traghettare l’Italia fuori dalla tempesta e indirizzarla su un percorso virtuoso di
medio termine. Purtroppo il suo tempo è limitato e rischia di commettere, pur
consapevole, gli stessi errori (forse inevitabili) dei suoi predecessori. Il più grave di tutti è
sempre lo stesso: l’incoerenza tra le misure emergenziali di brevissimo termine e quelle
strutturali che possono cambiare il paese. Il secondo: la ricerca a tutti i costi del consenso
sociale.
22
Che tecnico non era ma di fatto ne ha dovuto assumere le caratteristiche.
15
2012, Roma, 18 aprile. Le buone intenzioni del Presidente Mario Monti.
Il Presidente del Consiglio Mario Monti, presenta al paese il DEF (documento di Economia
e Finanza 2012), il cui preambolo23 inequivocalmente è stato redatto in prima persona.
Monti è forse il più convinto esegeta dell’europeismo spinto e non lo nasconde. La sua
stella polare è l’Europa; da sempre è convinto che senza la “protezione” europea l’Italia
non ce la potrebbe mai fare. L’incipit è coerente: “…Strategia Europa 2020 (qualcuno di
voi ne ha mai sentito parlare? N.d.R.) costituisce parte integrante dell’agenda
nazionale…essa fissa obiettivi di lungo periodo che l’Italia dovrebbe porsi in ogni caso…il
filo rosso che lega le riforme della strategia Europa 2020 è costruire a livello europeo una
economia sociale di mercato altamente competitiva…”. Monti prosegue riconoscendo
che “…la crisi nasce da fattori esterni all’economia italiana…, ma anche dal fatto che
per lungo tempo non sono state affrontate debolezze strutturali di fondo della nostra
economia…per questo l’Italia ha subito un impatto più forte dalla crisi…”. Il Presidente
delinea poi il quadro strategico, basato su due elementi, risanamento delle finanze
pubbliche e promozione della crescita, “…un’agenda di riforme che ha tre principi
ispiratori: rigore, crescita, equità”. Il documento non è privo di ovvie contraddizioni, non
foss’altro perché sposare rigore, crescita e equità è una evidente “mission impossibile” e
Mario Monti non ha il physique du rôle di Tom Cruise. Soprattutto è carente in termini di
coerenza tra azioni di breve termine e strategie di lungo andare.24 Ancora una volta,
come con il Governo Amato nel ‘92, malgrado la buona volontà e le immaginifiche
visioni di lungo termine, le azioni di politica economica e fiscale assunte nel nostro paese
sono imposte dalla brutale e primaria necessità di sopravvivere senza fare default; sono
state imposte dall’esterno, non possono essere né “eque” né “neutrali”. I “piccoli passi
presi ora” 25 di brutale rigore fiscale sono incoerenti con le strategie di lungo termine che il
Presidente Monti in primis considera necessarie per ridurre i problemi strutturali del nostro
paese, in particolare quelli legati alla competitività internazionale delle nostre imprese.
Sono solo la risposta al ricatto tedesco.
Italia- Europa 2012: collegare i puntini, parte 2.
 La moneta unica avrebbe dovuto essere il fine, non il mezzo per raggiungere
l’integrazione economica in Europa; è stata impropriamente considerata lo strumento
per forzare la convergenza all’interno dell’Eurozona. E’ diventata, viceversa, il
grimaldello per consolidare la (meritata) supremazia tedesca. L’idea della moneta
23
Il titolo, evocativo, del preambolo è: “Italia 2020: rigore, crescita ed equità”.
Basta la citazione di un ulteriore passaggio per evidenziare la macroscopica contraddizione tra le azioni messe in
campo (in particolare con il decreto “Salva Italia”) e gli obiettivi di lungo termine: “…Il sistema fiscale deve essere
più flessibile, innovativo e capace di dare incentivi agli investimenti nei nuovi settori portatori di crescita. Le regole
fiscali devono essere semplificate per rendere più facili la vita al cittadino-contribuente onesto”
25
A proposito di “piccoli passi presi ora che determineranno il nostro futuro” (coerenti o meno) è illuminante la
posizione della Bundesbank, illustrata dal suo presidente in una prolusione tenuta di recente nel tempio della
finanza americana. Per lui i piccoli passi sono il rigore fiscale “a prescindere” e Monti lo segue. Jens Weidmann,
“Global Economic Outlook – What is the best policy mix?”, Speech at the Economic Club of New York in New York,
Monday, 23 April 2012. Citiamo: “…I have already said: each small step we take now will determine where we stand
in the future…. But in the end, the current crisis is, to a large degree, a crisis of confidence. And if alreadyannounced consolidation and reforms were to be delayed, would people not lose even more confidence in
policymakers’ ability to get to the root of the crisis? We can only win back confidence if we bring down excessive
deficits and boost competitiveness. And it is precisely because these things are unpopular that makes it so tempting
for politicians to rely instead on monetary accommodation. It is true that consolidation, in particular, might, under
normal circumstances, dampen aggregate demand and economic growth. But the question is: are these normal
circumstances?...”.
24
16
unica è stata un’ambiziosa sfida a uno dei pochi principi basilari della teoria
economica che non sia stato ancora falsificato dall’esperienza: un’unione monetaria
senza unione fiscale e politica non ha senso economico. L’Euro ha retto negli anni
delle “vacche grasse”, ma avrebbe ceduto di schianto alle prime difficoltà, come nel
92, se oggi non fosse impossibile smantellarlo senza enormi danni collaterali. Questa
volta non c’è via d’uscita: se allora un feroce riallineamento dei tassi di cambio ha
livellato il campo di gioco per arrivare all’Unione, oggi questa opzione non è più
disponibile.
 In Europa è in corso una guerra, combattuta con armi non convenzionali. Le armate in
campo sono quelle dei “sistemi paese”, per chi ha il merito di averli costruiti, delle
tecnocrazie bancarie, delle burocrazie sovranazionali. Dietro il velo degli ideali
europeisti si nascondono corposi interessi economici e finanziari. In primo luogo quelli
tedeschi. Come afferma Lucrezia Reichlin26 “ Le nuove regole di bilancio europee, il
cosiddetto fiscal compact, lungi dall’essere il frutto di un’analisi economica sbagliata,
come spesso afferma la stampa anglosassone, sono funzionali agli interessi strategici di
Berlino come potenza economica globale”.
 Rispetto al ’92 il sistema bancario europeo è molto più interconnesso ma anche, forse
per questo, terribilmente più fragile. Al suo interno cresce una pressione centripeta
che, alla fine, rischia di diventare determinante: i sistemi finanziari della periferia
sentono il
sangue (la moneta) defluire verso il “cuore” dell’Europa.
Figura 11: crediti/debiti netti delle banche centrali nell'Eurosistema. Fonte: Gavyn Davies.
La Germania, nell’ultimo decennio, ha accumulato quasi un trilione di euro di crediti
verso la periferia. Le banche del Clubmed subiscono una continua emorragia di
depositi (cfr. fig. 11). Questo è uno dei motivi per cui la Germania non può accettare il
break-up dell’Euro. Il suo sistema bancario si spappolerebbe. Il “tessuto” economico
periferico rischia di andare in ischemia, non più irrorato dal “sangue monetario”. Il
deflusso dei depositi, insieme alla parallela paralisi del credito, non è stato interrotto
26
Cfr. Lucrezia Reichlin, “Perché a Berlino conviene una debole periferia d’Europa”, Il Sole 24 Ore 13 febbraio
2012. “Gli interessi economici della Germania sono sempre più diversi da quelli del resto dell'Europa. La chiave per
capirlo è pensare all'area euro non come a un'economia chiusa agli scambi intra Unione, ma come a un'economia
aperta al commercio con il resto del mondo. Ricordiamo qualche fatto. Il primo è che per la Germania solo il 40%
delle esportazioni sono verso l'area dell'euro e, dal 1999, il suo surplus commerciale si è accresciuto soprattutto
grazie all'export verso i Paesi extra Unione: Cina, Paesi del Centro ed Est Europa e Paesi produttori di petrolio.
Secondo, la perdita di competitività di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (i cosiddetti Giips) rispetto al
resto del mondo è dovuta soprattutto all'apprezzamento del tasso di cambio nominale più che alla dinamica dei
prezzi. Terzo, dal 1999, il deficit commerciale di questi Paesi si è accresciuto soprattutto nei confronti dei Paesi fuori
dall'area euro. Questi dati suggeriscono che il problema dell'instabilità dell'euro non sia dovuto agli squilibri
interni, ma ad una diversa capacità dei Paesi dell'Unione di competere nel mondo”.
17
neppure dai giganteschi prestiti a tre anni concessi alle banche da una BCE che, per
statuto, non può essere prestatore di ultima istanza (cfr. fig. 12). Questa è la malattia
che farà crollare la Grecia e potrà contagiare nel brevissimo termine il resto della
periferia.
Figura 12: chi ha utilizzato LTRO di BCE. Fonte Barckays research.
Come salvarsi
Bisogna capire che l’Italia è in “guerra” ed è necessario attivare una strategia
parallela, rispetto a quella che privilegia la cooperazione in Europa. Da una parte si
deve insistere per opzioni europee “pro-crescita” (scorporo dal deficit target degli
investimenti pubblici, diversa contabilizzazione del debito commerciale del settore
pubblico verso le imprese, finanziamento comunitario degli investimenti in infrastrutture,
eurobond ecc.), dall’altra il dovere della nostra classe dirigente è quello di prepararsi
per un possibile evento catastrofico (e.g. breakup) riuscendo a mantenere
l’indipendenza economica del paese, anche con scelte drastiche. Si tratta del già
citato il piano “B”, cioè di una strategia a medio termine che 1) ci protegga da
potenziali eventi catastrofici anche imminenti (uscita di Grecia e Portogallo) 2)
mantenga una rotta precisa e coerente, fin da ora, di progressiva diminuzione in
termini assoluti della spesa pubblica 3) metta le basi per fronteggiare le nuove sfide
della globalizzazione e, infine, 4) lasci all’Italia l’opzione di “scegliere” l’uscita dall’Euro,
avendo la possibilità e il diritto di rimanerci.27
 L’unica vera fragilità critica del paese, nell’immediato, è rappresentata dalla mole del
debito pubblico28 e dal rischio che, per cause esterne (a partire dall’uscita della Grecia

27
Si veda in proposito il già citato saggio di Paolo Savona.
Precisiamo che l’elevato debito italiano , malgrado i tanti profeti di sventura, è tecnicamente sostenibile e può
agevolmente percorrere una traiettoria di rientro verso il 60% del PIL come richiesto dal nuovo trattato fiscale
europea. Ovviamente seno necessari il pareggio di bilancio e/o saldi primari positivi, in presenza di tassi d’interesse
accettabili. Ma basta il solo pareggio di bilancio per fermare la crescita in termini assoluti e un po’ di inflazione (che
c’è) per gonfiare il denominatore (il PIL). Il punto non è tanto la “sostenibilità” o meno del debito, quanto l’aumento
di fragilità che la sua presenza comporta in fasi critiche di mercato.
28
18
dall’Euro) i tassi d’interesse tornino a schizzare verso l’alto, ammazzando il sistema
bancario domestico e gonfiando gli oneri per interessi. Bisogna azzerare questo tipo di
rischio, bloccare il potenziale contagio e prepararci a farlo con le nostre forze. L’unica
possibilità è ridurre subito il debito, il nostro ventre molle, di almeno 200- 300 miliardi con
una o più operazioni di finanza straordinaria “di mercato”. Non ci sono alternative,
questa è l’unica via per ridurre la fragilità finanziaria e la dipendenza dai mercati
esteri29.
 Il nostro sistema produttivo non è quella parodia spesso ironicamente descritta dagli
analisti anglosassoni, moda, design, turismo e poco altro30. La piccola media impresa
sembra relativamente competitiva. I problemi, ben noti, sono, comunque, quelli della
latitanza nei settori trainanti e dello strutturale nanismo che caratterizza il tessuto
industriale (cfr. fig. 13)
Figura 13: % di imprese con più di 10 addetti. La differenza al 100% rappresenta la % di quelle con meno di 10 addetti.
Non bisogna dimenticare che l’Italia è un paese duale, simile alla Baviera il nord,
uguale alla Grecia dal Garigliano in giù. E’ fondamentale proteggere nel brevissimo
termine la nostra rete di piccole aziende. In parallelo bisogna far emergere il debito
commerciale degli enti pubblici verso il sistema produttivo, pagando i creditori privati.
La prima esigenza vitale del paese è quella di mantenere in vita il tessuto produttivo
che, per quanto fragile e complessivamente inadeguato per le prossime sfide della
globalizzazione, rimane l’elemento essenziale senza il quale tutto crolla. Questo è
anche il motivo per intervenire subito sul debito secondo modalità che non
danneggino il sistema bancario domestico e la fiducia dei risparmiatori. I flussi finanziari
verso la piccola media impresa devono essere garantiti.
 E’ necessario finalmente, distruggere il mostro di una spesa pubblica sempre crescente.
Si devono e creare le condizioni (che purtroppo sono politiche) affinchè la spesa
29
Una operazione sul debito è considerata con attenzione anche dal MEF, sia pure in via riservata. Nel frattempo sono
state presentate diverse ipotesi per realizzare un drastico taglio. Fra le tante c’è quella di Salerno – Monorchio. Cfr La
proposta Salerno-Monorchio, ricomprarsi il debito per guardare al futuro , 14 Ottobre 2011 di Angela Lamboglia.
30
Secondo uno studio di Lexjus Sinacta e dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne la produttività delle PMI italiane (nel
campione aziende con meno di 250 addetti) sarebbe migliore di quelle tedesche, considerando il fatturato per
addetto per aziende segmentate per numero di dipendenti. M.F. “Le PMI italiane migliori di quelle tedesche”, 4
maggio 2012.
19
pubblica per consumi e trasferimenti si riduca in valore assoluto e non solo rispetto alla
deriva tendenziale, anno per anno, almeno per i prossimi cinque, dieci anni. Su questo
fronte il governo per ora è stato timido31, ma non va dimenticata la riforma del sistema
pensionistico.32 Come latitante è stato sul fronte delle privatizzazioni, altra via per ridurre
il debito, sia pure in misura marginale. Dopo, e solo dopo, si potrà, se Dio vorrà, ridurre
l’imposizione fiscale.
 Rimane infine un punto cruciale: le politiche di breve termine devono essere coerenti
nella misura massima possibile con quelle di lungo termine. E qui, va detto chiaro, ci
vuole non solo “meno stato”, ma anche “più stato”. L’Italia ha perso il treno della
globalizzazione dell’ultimo ventennio. Ora si deve mettere in condizione di provare a
salire sul prossimo. Deve riattivare gli “animal spirits” e per farlo deve investire
massicciamente, più che in infrastrutture fisiche, in beni “immateriali”, sulla
“conoscenza”, sulla banda larga, sulla ricerca universitaria, sulla digitalizzazione della
pubblica amministrazione. A partire da università e tribunali.
 Per concludere l’Italia ha davanti tre scenari: 1) il più probabile rimane quello della
prosecuzione del declino. Usciamo, come nel 92-93 dalla crisi senza una sconfitta del
composito blocco sociale e politico che tiene il paese nell’immobilità (probabilità 60?)
2)una lunga e dolorosa risalita verso il recupero dell’indipendenza economica e della
dignità perduta (vogliamo essere ottimisti e la diamo al 30%!) 3) Il crollo, non più
determinato da noi, ma indotto da una crisi terminale dell’Euro (10%?).
31
Si veda il documento sulla “spending review” “Elementi per una revisione della spesa pubblica”, versione del 1
maggio 2012, P. Giarda.
32 La riforma Fornero permetterà, rispetto all’ultima ipotesi normativa precedente, di ridurre la spesa pubblica
pensionistica sul pil al di sotto del 15% nel periodo compreso tra il 2020 e il 2030, risparmiando 150-200 miliardi
nel decennio.
20
21