Abbiamo raggiunto il picco del debito pubblico? Dipende da molte

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Abbiamo raggiunto il picco del debito pubblico? Dipende da molte
Abbiamo raggiunto il picco del debito
pubblico? Dipende da molte variabili.
Il rapporto debito pubblico – PIL è per noi italiani l’indicatore più delicato, poiché, se
escludiamo la Grecia, il nostro è il livello più elevato tra tutti i paesi europei. Il governo
sostiene che questo sarà l’anno della svolta, nel senso che il debito, al 132,8% a fine 2015,
comincerà a ridursi, dapprima lentamente ma poi sempre più velocemente. Probabilmente
il governo ha ragione, ma una piena certezza non c’è: le variabili e i rischi sono numerosi.
Il rapporto debito pubblico – PIL è per noi italiani l’indicatore più delicato, poiché, se
escludiamo la Grecia, il nostro è il livello più elevato tra tutti i paesi europei. Il governo
sostiene che questo sarà l’anno della svolta, nel senso che il debito, al 132,8% a fine 2015,
comincerà a ridursi, dapprima lentamente ma poi sempre più velocemente.
Probabilmente il governo ha ragione, ma una piena certezza non c’è. Per capire meglio,
dobbiamo vedere le variabili in gioco. La prima è ovviamente il debito ad inizio 2016;
ancora manca un dato ufficiale, ma se non sarà 132,8% sarà 133%, più o meno lo stesso. La
seconda variabile è il deficit del 2016, sul quale, come è noto, si è acceso un fiero braccio di
ferro tra Governo italiano e Commissione europea. Renzi vuole arrivare al 2,4%, rispetto al
2,2% che (forse) gli sarebbe consentito, mentre le ultime previsione della Commissione
paventano un possibile 2,5%, un pelo sotto il deficit del 2015 (2,6%).
Il flusso del deficit si somma allo stock del debito, e lo fa crescere; ma bisogna vedere come
cresce il denominatore del rapporto, cioè il PIL nominale. Secondo le previsioni del
governo la crescita reale dovrebbe raddoppiare rispetto all’anno scorso, portandosi all’1,6%
e l’inflazione risalire all’1%, per una crescita del PIL monetario del 2,6%. Se i dati sono
questi, allora il rapporto debito –PIL scenderà di un punto percentuale, assestandosi al
131,8%.
Ma supponiamo che la crescita reale sia più bassa, dato che la Commissione, che prevedeva
1,5%, ha leggermente abbassato la sua stima (1,4%), e sappiamo che il FMI è ancora più
cauto: 1,3%. Supponiamo poi che l’inflazione sia più lenta a risalire, assestandosi ad un
valore dimezzato (0,5%). L’ipotesi non è irrealistica, dato che il prezzo del petrolio è ben
più basso di quello (54 dollari a barile) alla base delle previsioni del MEF. Insomma
supponiamo che la crescita del PIL monetario sia di 1,9%, e che il deficit arrivi invece a
2,5%. Ebbene, in questo caso il rapporto debito-PIL rimarrebbe inchiodato a 132,8%.
Allora sarebbe preferibile che il rapporto debito-PIL di fine 2015 fosse leggermente più alto
(133,1%), perché in questo caso una, sia pur quasi impercettibile, riduzione ci sarebbe
(133,07%). Insomma occorre una crescita del PIL nominale almeno pari al 2%.
Comunque, anche con ipotesi pessimistiche su indicate, sarebbero in ogni caso le
privatizzazioni a determinare una riduzione del rapporto debito-PIL; secondo il
Documento Programmatico di Bilancio 2016 del MEF gli incassi da privatizzazioni
dovrebbero assicurare una riduzione dello 0,5% quest’anno e nei due successivi. Tuttavia il
fatto che solo con le privatizzazioni si riesce a far scendere il debito non è un messaggio
molto positivo per i mercati finanziari, per l’ovvia ragione che le privatizzazioni non
possono durare per sempre.
Che dire poi dei due anni successivi? Ricordiamo che il governo ha spostato in avanti, ma
ha comunque l’obiettivo di raggiungimento del pareggio di bilancio; per una valutazione
critica del Documento Programmatico del MEF si rinvia al XIII Rapporto Nens su
“Andamenti e prospettive della finanza Pubblica italiana”. Qui è sufficiente sottolineare
che la tipologia di interventi dal lato delle entrate e delle spese assume una notevole
importanza, in quanto una letteratura ormai molto vasta ha raggiunto alcuni risultati in
tema di effetti moltiplicativi delle manovre fiscali sui quali ormai vi è un generale
consenso. Ad esempio il fatto che i moltiplicatori delle variazioni di entrate hanno effetti
minori (anche della metà) rispetto ai moltiplicatori delle variazioni di spese
d’investimento.
Il motivo è facilmente intuibile: le spese d’investimento di tipo infrastrutturale, sul
territorio e sugli edifici è prevalentemente a valore aggiunto interno, cioè hanno una bassa
percentuale di importazioni. I consumi, dovuti a variazioni di reddito disponibile delle
famiglie, hanno al contrario un elevato contenuto d’importazioni. Ma anche nell’ambito del
prelievo, vi sono differenze tra gli effetti moltiplicativi: le imposte sul consumo hanno un
effetto più forte rispetto alle imposte sul reddito o sugli immobili. Quindi il fatto che la
legge di Stabilità abbia disinnescato per il 2016 gli aumenti delle imposte indirette, è
certamente un fatto positivo, ma i sei miliardi di riduzione delle imposte sugli immobili o
sulle imprese non avranno, molto probabilmente, un impatto significativo sui consumi. Se
fossero stati investiti in spese d’investimento (difesa del territorio, scuole, ricerca) gli
argomenti del governo rispetto a Bruxelles sarebbero stati più solidi.
Ruggero Paladini
www.ilcampodelleidee.it