Fiumi, città, continenti: la “carta geografica sentimentale” di Miłosz

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Fiumi, città, continenti: la “carta geografica sentimentale” di Miłosz
Fiumi, città, continenti: la “carta geografica sentimentale” di Miłosz fra memoria e salvezza
Quella di Czesław Miłosz (1911-2004) sembra proprio la figura e l’opera di un uomo “chiamato” dalla
Storia e dalla sua lunga esistenza terrena a una visione “dall’alto” e che va col tempo ingigantendosi,
quando forse avrebbe voluto rimanere attaccato alla sua “piccola patria”, alle foreste, fiumi e paesaggi
collinosi di Lituania. In tal modo, visti dall’alto, i fiumi finiscono invece per incontrarsi tutti nel mare
oceano, i confini degli stati perdono visibilità e rilevanza, i continenti sembrano enormi isole, distinte,
sì, ma anche attaccate fra loro (come l’Eurasia), o separate da una sottile striscia di mare.
Dall’alto della Collina dell’Orso (Grizzly Peak) sulla Baia di San Francisco, dove abitò per quasi un
trentennio, e lungo i novantatre anni di una vita errante, fra la nativa Szetejnie-Šeteiniai e gli anni
universitari a Vilna-Wilno-Vilnius, e poi la Varsavia degli anni Trenta e dell’occupazione tedesca di quel
territorio (che i nazisti rinominarono Generalgouvernement e trasformarono in un enorme cumulo di
macerie fisiche e morali); poi la Washington e la Parigi del suo servizio diplomatico, prima, e del suo
esilio, dopo; fino alla California, che lo accolse come professore a Berkeley, ma che il poeta sentì
sempre come “un paese di grande solitudine”, arrivando a scrivere versi come: “Fingere tutta la vita che
il loro sia il mio mondo”…); e alla fine, più d’un decennio dopo il Premio Nobel (1980), il ritorno in
Polonia, stavolta a Cracovia, l’antica capitale, dove è sepolto – Miłosz non poteva che far propria una
concezione “spaziale” del tempo, e l’immagine del fiume – quello reale e quello di Eraclito – gli deve
essere spesso sembrata quella più adatta per esprimere il senso del suo scorrere attraverso luoghi, lingue
e su volti sempre gli stessi, eppure diversi; sempre diversi, eppure ancora quelli. E così, altalenando fra
stati d’animo estatici e pessimistici, tipici della lirica di Miłosz, possiamo leggervi versi come:
“Quando fa male torniamo su certi fiumi” (Dormo molto, 1962).
Oppure, come qui, lo scorrere tangibile del fiume coi suoi “inizi d’inquinamento” mette
“in guardia dalla nostalgia per i luoghi ideali sulla terra”, “eppure è lì, sul fiume, che ho provato piena
felicità …”.
Lo stesso si potrà leggere delle molte città dai vari nomi e senza nome in cui si è trovato a vivere nel
corso della sua lunga vita. La poesia di Miłosz è innanzitutto poesia della memoria (la parola finale di
questa Capri), testimonianza, compassione (per questo forse può risultare “antica”, “difficile”, e senza
dubbio “scomoda”, in questa nostra epoca della finta memoria, e in realtà dell’oblio, della ritrattazione e
dell’indifferenza).
Sulla sponda del fiume (Na brzegu rzeki) s’intitola la raccolta poetica del 1994 da cui è tratta questa lunga
lirica riflessiva intitolata a Capri, un’isola quanto mai reale e letteraria al tempo stesso, un’isola che non
c’è (più), o brilla in mezzo al mare solo per un attimo,
“un attimo di armonia con la frivolezza della nostra specie”.
Miłosz, poeta quanto mai sensuale, e sempre più in vecchiaia (“Le spalle denudate delle donne, la mano
che muove l’archetto tra vestiti da sera…”), fa i suoi conti anche qui, come spesso altrove, con la
“chiamata”: un termine paolino – credo –, ripreso da Agostino, Tommaso e più volte anche da Dante
(Rm 8,30: “quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche
giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati”), che sta a indicare la vocazione naturalmente
“religiosa” dell’essere umano, la sua vera salvezza (altro termine chiave della poetica miłosziana, fin dal
volume di poesie di guerra, intitolato proprio Salvezza, 1945), una religione del tutto laica e professata da
Miłosz in tutte le possibili accezioni etimologiche: rileggere (il mondo), riunire (la forma e la sostanza della
vita), vincolare (il Singolo a un’idea spirituale dell’esistenza), relegare (ciò che ci è “sacro” in spazi
inviolabili – isole? intermittenze? – del tempo e del cuore) e rieleggere (la Realtà interiore a senso vero
dell’essere: “la vera presenza della Divinità nel nostro corpo e nel nostro sangue…”).
“E non è colpa mia – scriverà orgogliosamente nel saggio filosofico La terra di Ulro (1977) – se la
letteratura contemporanea non si è avventurata in acque così vaste e profonde…”.
La geografia spirituale di Miłosz è dunque innanzitutto uno spazio dell’immaginazione e della memoria
culturale, al cui centro, forse stanno la nativa Szetejnie e il fiume Niewiaża, intesi però come metafore, o
piuttosto metonimie, parti di un tutto che per Miłosz è senza dubbio la tradizione antica, umanistica e
“religiosa” nei sensi detti sopra, quel “fiume” a cui, nonostante tutto, proprio in quanto esiliato e uomo
della globalizzazione (“in volo da San Francisco a Francoforte e Roma” verso Capri e la sua “sagra del
perpetuo rinnovamento”) sente profondamente di appartenere:
“Ovunque io abbia vagato, su qualunque continente, il mio viso è sempre stato rivolto al Fiume” (A
Szetejnie, 1994)
C’è un brano del suo saggio autobiografico Rodzinna Europa (1959), in italiano tradotto due volte come
Europa familiare e La mia Europa, in cui Miłosz spiega in modo straordinariamente lucido e commovente
la sua concezione memoriale e immaginaria, e soprattutto etica, il suo punto di vista “alto” sulle fratture
e le ferite – quelle collettive e quelle individuali – del tempo e dello spazio. Vale la pena di citarlo alla
fine, nella traduzione del mio amico e Collega Pietro Marchesani (1942-2011), che fu sensibile
interprete della poesia e della prosa di Czesław Miłosz, oltre che di tanti altri scrittori e poeti polacchi, e
alla cui memoria vorrei dedicare questo breve scritto:
«A poco a poco smisi di preoccuparmi di tutta la mitologia dell’esilio, di questa e di quella parte. La
Polonia e la Dordogne, la Lituania e la Savoia, le viuzze di Vilna e quelle del Quartiere Latino si
confondevano in un tutt’uno, non ero in fin dei conti che un greco trasferitosi da una città in un’altra.
La mia Europa nativa dimorava in me con le sue motagne, le sue foreste e le sue capitali, e questa carta
geografica sentimentale velava preoccupazioni troppo immediate. Dopo alcuni anni di cammino senza
luce, di nuovo il mio piede poggiava sulla terraferma e riacquistavo la capacità di vivere nel presente,
nell’istante, e in esso, superiori a ogni possibile Apocalisse, intrecciati, si arricchivano a vicenda il
passato e il futuro».
(Luigi Marinelli)
Czesław Miłosz, Capri
Sono il bambino che riceve la Prima Comunione a Vilna, e dopo beve cacao offerto da zelanti signore
cattoliche.
Sono il vecchio che ricorda quel mattino di giugno: euforia d’esser senza peccato, bianche tovaglie e
sole su vasi pieni di peonie.
Qu’as tu fait, qu’as tu fait de ta vie? – chiamano voci nelle varie lingue collezionate errando per due
continenti. Che hai fatto della tua vita, che hai fatto?
Pian piano, ponderatamente, ora che è compiuto il destino, m’inoltro tra le vedute del tempo andato,
Del mio secolo nel quale, e in nessun altro, mi fu detto di nascere, lavorare e lasciare un segno.
Eppure quelle signore cattoliche esistevano, e se tornassi là, identico, ma con altra consapevolezza, per
fermarli, mi fisserei sui loro volti evanescenti.
E ancora carri e dorsi di cavalli rischiarati da un lampo o dal bagliore pulsante della lontana artiglieria.
Catapecchie col fumo volteggiante sui loro tetti e ampie strade sabbiose nelle pinete.
Terre e città che devono restare senza nome – a chi potrei infatti spiegare perché e quante volte gli
hanno cambiato bandiere e insegne?
Riceviamo per tempo la chiamata, ma rimane incompresa, e non subito risulta quanto l’abbiamo
seguìta.
La corrente del fiume scorre come un giorno sotto la chiesa di San Giacomo, e sono lì, con la mia
stoltezza, che mi dà vergogna, ma quand’anche fossi stato più saggio, lo stesso non sarebbe servito.
Ora lo so che le intenzioni quali che siano hanno bisogno di stoltezza, per compiersi, di traverso e non
completamente.
E questo fiume, assieme ai resti d’immondizia e agli inizi d’inquinamento, scorre attraverso la mia
gioventù, mettendo in guardia dalla nostalgia per i luoghi ideali sulla terra.
Eppure è lì, sul fiume, che ho provato piena felicità, che è estasi oltre ogni pensiero e apprensione, e
che perdura fin qui nel mio corpo.
Così come la felicità sul piccolo fiume della mia infanzia, nel parco dove querce e tigli sarebbero stati
abbattuti per volontà di barbarici conquistatori.
Vi benedico fiumi, pronuncio i vostri nomi, come li pronunciava mia madre, con devozione e affetto.
Chi oserà dire: sono stato chiamato, e per questo la Forza mi ha salvato dalle pallottole che fendevano
la sabbia accanto a me o disegnavano il muro vicino alla mia testa?
Dall’arresto nel sonno fino alla presa di coscienza che finisce col viaggio in un carro bestiame là da
dove non tornano i vivi?
Dal seguire l’ordine di registrarsi, allorché si salvano i disobbedienti?
Sì, ma loro, ma ognuno di loro non pregava forse il proprio Dio, supplicandolo: salvami!?
E il sole sorgeva sui campi di tortura, e fino ad ora coi loro occhi lo vedo che sorge.
Mi avvicino agli ottant’anni, in volo da San Francisco a Francoforte e Roma, passeggero che un tempo
viaggiava in calesse per tre giorni da Szetejnie a Vilna.
Il volo è Lufthansa, che hostess gentile, loro qui sono così civili che non sarebbe il caso di ricordare chi
erano.
A Capri un’umanità esultante e banchettante m’invita a prender parte alla sagra del perpetuo
rinnovamento.
Le spalle denudate delle donne, la mano che muove l’archetto tra vestiti da sera, luminescenze e flash,
dischiudono per me un attimo di armonia con la frivolezza della nostra specie.
La fede nel Cielo e nell’Inferno, i labirinti della filosofia, la mortificazione del corpo coi digiuni, non gli
servono.
E tuttavia temono il segno che si appressa inesorabilmente: il nodulo al seno, il sangue nell’urina, la
pressione troppo alta.
Allora sanno per certo che siamo chiamati tutti, ciascuno e ciascuna medita sull’eccezionalità del destino
individuale.
Assieme alla mia epoca me ne vado, pronto alla sentenza che mi conteggerà tra i suoi spettri.
Se io, fanciullo devoto, qualcosa ho fatto, è stato solo inseguendo sotto travestimento la perduta
Realtà.
La vera presenza della Divinità nel nostro corpo e sangue, che sono al tempo stesso il pane e il vino.
La chiamata del Singolo, che ingigantisce in onta alla legge terrena dell’annullamento della memoria.
(trad. Luigi Marinelli e Michele Sganga)