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Estratto da
Agatha Raisin e l’amore infernale
Titolo originale dell’opera
Agatha Raisin and the Love from Hell
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
© 2001 by M.C. Beaton
© 2015 astoria srl
corso C. Colombo 11 – 20144 Milano
Prima edizione: febbraio 2015
ISBN 978-88-98713-02-8
In copertina: illustrazione di Alice Tait
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Sarebbe dovuta essere la conclusione di un sogno, il matrimonio perfetto. Eccola lì la nostra Agatha Raisin, sposata con
l’uomo tanto agognato, tanto fantasticato. Il suo vicino, James
Lacey. Eppure Agatha era molto infelice.
I problemi erano cominciati con un incidente due settimane dopo il loro ritorno dalla luna di miele. Il viaggio a Vienna
e poi a Praga era stato all’insegna delle visite turistiche e del
sesso, quindi Agatha e James non avevano dovuto affrontare il
tran-tran della vita quotidiana. Agatha aveva tenuto per sé il
cottage accanto a quello di James nel villaggio di Carsely, nei
Cotswolds. L’idea era quella che il matrimonio fosse assolutamente moderno, e che ognuno lasciasse spazio all’altro.
Seduta nel suo cottage con una tazza di caffè nero stretta
tra le mani, Agatha rievocò il giorno in cui tutto aveva cominciato ad andare storto.
Smaniosa di essere la moglie perfetta, aveva raccolto un fagottone con tutta la biancheria e i vestiti sporchi, ignorando il
fatto che James teneva la sua roba da lavare in un cesto separato e preferiva farsi il bucato da solo. Era una frizzante giornata
di primavera con grandi nubi lanuginose che il vento a raffiche
trascinava su e giù per il cielo, come tanti galeoni maestosi.
Agatha aveva continuato a cantare mentre caricava tutti i pan1
ni sporchi nella sua capace lavatrice. Nella testa un campanellino d’allarme le stava dicendo che le vere casalinghe separavano il bucato bianco da quello colorato. Mise nella macchina
il detersivo e l’ammorbidente, e poi andò a sedersi in giardino
a guardare i due gatti che giocavano sul prato. Quando udì
la lavatrice fermarsi dopo un ultimo ruggito, Agatha si alzò,
aprì lo sportello della macchina e tirò fuori tutti i capi mettendoli in un grande cesto, in attesa di stenderli ad asciugare in
giardino. Si ritrovò a fissare una cesta di panni rosa. Non rosa
pallido, rosa shocking. Contrariata, frugò tra i capi, alla caccia
del colpevole, e alla fine lo trovò, un maglione rosa comprato
in un mercatino rionale a Praga. Tutto il bucato di James – le
camicie, la biancheria – adesso era di un rosa brillante.
Ma nell’aura rosata delle fresche nozze Agatha non si era
forse aspettata il perdono? Non si era immaginata che James
ne avrebbe riso con lei?
James si era imbestialito. Aveva schiumato di rabbia. Come
si era permessa Agatha di mettere le mani nel suo bucato?
Donna stolta e incapace. L’Agatha prematrimoniale gli avrebbe detto esattamente dove sarebbe dovuto andare, ma la nuova demoralizzata Agatha aveva umilmente implorato il perdono. Lei perdonava lui perché sapeva che era stato scapolo a
lungo e abituato a fare da sé.
L’incidente successivo si era verificato dopo che Agatha
aveva comprato da Marks & Spencer due piatti pronti da
scaldare al microonde, due vassoietti di lasagne. James aveva
punzecchiato con la forchetta quel che aveva nel piatto, commentando acidamente che, dato che lui era perfettamente in
grado di cucinare delle lasagne come si deve, magari in futuro
Agatha avrebbe fatto bene a lasciare a lui quell’incombenza.
E poi c’era la questione dell’abbigliamento di Agatha. Lei
si sentiva sciatta senza i tacchi alti. James aveva dichiarato
che, giacché vivevano in campagna, Agatha avrebbe potuto
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prendere in considerazione l’ipotesi di usare scarpe basse e di
piantarla di andare in giro conciata come una zoccola. Le sue
gonne erano troppo attillate, alcune delle sue scollature troppo profonde. E il trucco? Aveva proprio così tanto bisogno di
impiastricciarsi la faccia?
Sì, di notte facevano l’amore, ma solo di notte. Niente abbracci spontanei o baci improvvisi durante il giorno. Perplessa, Agatha cominciò a vagare avvolta in una nebbia di disapprovazione maschile.
Tuttavia non confessò a nessuno quanto fosse infelice il suo
matrimonio, neppure alla migliore amica, la signora Bloxby, la
moglie del pastore. La signora Bloxby non l’aveva forse messa
in guardia dallo sposare James? Agatha non tollerava di dover
ammettere la sconfitta.
Sospirò e guardò fuori dalla finestra della cucina. Eccola
lì nel suo cottage, nascosta in casa sua come una criminale
latitante. Il telefono squillò, facendola sussultare. Sollevò cautamente il ricevitore, magari era James, pronto a impartire
un’altra predica. Invece era Roy Silver. Roy in passato aveva
lavorato per Agatha, ai tempi in cui lei possedeva una società di pubbliche relazioni, e adesso lavorava per conto di una
grossa società di pr della City.
“Come sta la signora Lacey, sposa felice?” chiese Roy.
“Continuo a chiamarmi Agatha Raisin,” lo rimbeccò Agatha. Usare il suo nome le era parso l’ultimo brandello d’indipendenza rimastole. Non si era ben resa conto che l’utilizzo
del cognome del defunto marito, da lei cordialmente disprezzato, non era proprio un gesto libertario.
“Oh, che scelta moderna,” sentenziò Roy.
“Cosa c’è, cosa vuoi?”
“Niente. È che dopo le nozze non ti ho più sentita. Com’era Vienna?”
“Non mi è parsa un granché eccitante. Non c’era tutta
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questa vita. Praga mi è piaciuta. Sei sicuro che la tua sia solo
una telefonata amichevole? Non hai un secondo fine?”
“Secondo me c’è una cosa che potrebbe interessarti.”
“Lo sospettavo. Di che si tratta?”
“Aprono un nuovo calzaturificio a Mircester. Il cliente lo
seguiamo noi. Non si tratta di un cliente grosso, ma vogliono
un addetto alle pubbliche relazioni che lanci la nuova linea
di scarpe che uscirà dalla loro nuova fabbrica. Si chiama Impronta Cotswold.”
“E sarebbe a dire?”
“Quegli scarponacci grossolani che piacciono ai giovani,
per non parlare di quanto piacciono ai veri camminatori che
imperversano nelle campagne. Sarebbe un contratto a breve
scadenza, e il cliente è proprio dietro casa.”
Agatha stava per rispondere che lei era una donna felicemente sposata e non aveva tempo per nient’altro. Non faceva
che ripetere a tutti, nel villaggio, di essere felice, felicissima.
Ma all’improvviso provò un disperato bisogno di identità. Sapeva convincere la gente, nelle pubbliche relazioni ci sapeva
fare. Come casalinga poteva essere un fallimento, ma delle sue
doti di donna d’affari era certissima.
“Sembra interessante,” disse con cautela. “Come si chiama
l’azienda?”
“La Scarpetta.”
“Oh, che nome, sembra che vendano sughi pronti o pane
surgelato.”
“Allora ti posso fissare un colloquio?”
“Perché no? Prima si fa e meglio è.”
“Di solito mi tocca insistere per secoli prima di convincerti
a tornare al lavoro,” disse Roy. “Sei sicura che il tuo matrimonio vada bene?”
“Ma certo. Però James durante il giorno scrive e non mi
vuole tra i piedi.”
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“Mhm. Ti ho cercata a casa sua e lui mi ha detto di provare al tuo vecchio numero.”
“Mi sono tenuta il cottage. Queste casette possono essere
claustrofobiche. In questo modo abbiamo tutto doppio. Due
cucine, due bagni e così via.”
“D’accordo. Fisserò un appuntamento e ti farò sapere.”
Dopo aver riappeso, Agatha si accese una sigaretta, abitudine che James detestava, e rimase lì con lo sguardo perso
nel vuoto. Come avrebbe reagito James nel sapere che stava
tornando a far parte della forza-lavoro? Nonostante una certa
apprensione, Agatha sentì rassodarsi i muscoli emotivi. Caro
James, o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Agatha
Raisin torna in sella!
Agatha in effetti non aveva pensato che James avrebbe trovato davvero da ridire. Nessun marito, neppure James, poteva
essere così all’antica. Quando Roy comunicò di essere riuscito
a fissarle un appuntamento per l’indomani pomeriggio alle
tre, Agatha chiamò i gatti e, seguita da Hodge e Boswell, marciò sul cottage di James, che era di fianco al suo. Non sarà mai
il nostro cottage, pensò tristemente mentre apriva la porta e
spingeva dentro i gatti.
James era seduto al computer e lo stava fissando accigliato.
Era riuscito a farsi pubblicare un volume di storia militare e
si era cullato nella certezza che l’opera successiva gli sarebbe
riuscita facile, e invece passava le sue giornate a fissare corrucciato uno schermo su cui stava scritto solo capitolo uno, e
nient’altro. Aveva la mano sulla fronte, come se avesse mal di
testa.
“Ho trovato lavoro,” disse Agatha.
James le sorrise. Strizzò gli occhi azzurri sul viso abbronzato in quel modo che riusciva ancora a far fare le capriole
al cuore di Agatha. “Di che si tratta?” chiese, spegnendo il
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computer. “Ti preparo del caffè e mi racconti.” Si avviò verso
la cucina.
L’infelicità matrimoniale di Agatha svaporò del tutto. L’animo le si illuminò della vecchia speranza che loro due stessero
semplicemente attraversando alcune difficoltà di adattamento.
James tornò in sala con due tazze di caffè. “È decaffeinato,”
disse. “Ne bevi troppo di quello vero e non fa bene alla salute.
I tuoi vestiti puzzano di fumo. Credevo che avessi smesso.”
“Oh, una sigarettina e basta, l’ho appena fumata,” disse
Agatha sulla difensiva, sebbene ne avesse fumate cinque. Ma
quando si sarebbe decisa la gente a cogliere la semplice verità che se volevi che un fumatore smettesse di fumare dovevi
evitare di dargli il tormento e di farlo sentire in colpa? Al pubblico viene detto, quando si ha a che fare con gli alcolizzati, di
non fare cenno al fatto che bevono e di non rovesciare le bottiglie nel lavandino, perché questo non farebbe che impedire al
beone di riflettere sul suo problema. Però i fumatori venivano
braccati e rimproverati, e questo provocava la tipica ribellione
del drogato incallito.
“A ogni modo,” disse James, passandole una tazza di caffè e
sedendosi di fronte a lei, “che lavoro è? Per chi raccogli fondi,
questa volta?”
“Non è una cosa che riguarda il villaggio,” disse Agatha.
“Sto per firmare un contratto per promuovere delle nuove
scarpe, o sarebbe meglio chiamarli scarponi, per conto di
un’azienda di Mircester.”
“Un lavoro vero, intendi dire?”
“Ma sì, certo, un lavoro vero. È ovvio.”
“Non abbiamo bisogno di soldi,” disse James, piatto.
“I soldi fanno sempre comodo,” disse allegramente Agatha. E poi il suo sorriso svanì perché vide l’espressione arrabbiata di James.
“Oh, e adesso cosa c’è?” chiese stancamente.
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“Non hai bisogno di lavorare. Dovresti lasciare il lavoro a
chi ne ha bisogno.”
“Senti, io ne ho bisogno. C’ho bisogno di un’identità.”
“Risparmiami le psicochiacchiere. Esprimiti in inglese corretto, grazie.”
Agatha esplose. “In inglese corretto,” ululò, “io ho bisogno di
qualcosa che sostenga il mio ego, che tu hai fatto del tuo meglio
per distruggere. Non fai che pignoleggiare tutto il santo giorno.
E bla, e bla, e bla. ‘Non fare questo e non fare quello.’ Bene, sai
che c’è? Vai a farti friggere, amico. Io torno a lavorare.”
James si alzò di scatto e si diresse alla porta. “Dove stai
andando?” chiese Agatha. Ma l’unica risposta fu una porta
sbattuta.
L’indomani Agatha optò per un tailleur pantalone grigio
antracite, compiaciuta nel constatare che le stava largo in vita.
L’infelicità coniugale qualche beneficio lo portava. James era
stato fuori casa tutto il giorno ed era rientrato solo quando
Agatha era ormai scivolata in un sonno inquieto. La colazione
era stata un momento sciagurato e silenzioso. Agatha sentì venire meno le forze. Aveva preparato da mangiare ma era andato tutto storto. Il pane tostato si era carbonizzato e le uova
strapazzate erano gommose e piene di grumi. E lei sentiva che
quell’atmosfera la stava fiaccando. Avrebbe tanto voluto dire:
“Lascia perdere. Hai ragione. Non accetterò l’incarico”. Ma
recuperò da qualche parte un briciolo di coraggio che l’aiutò
a ignorare il muso di James.
Salì in macchina e si avviò lungo la Fosse in direzione di
Mircester, in quella che era un’altra bella giornata di fine primavera. Seguendo le indicazioni di Roy, prima di entrare in
città deviò verso un complesso industriale dei sobborghi. Si
trattava di un nucleo nuovo, il terreno davanti alle fabbriche
era nudo, spoglio.
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Ad Agatha parve un buon segno che non l’avessero fatta
aspettare. L’esperienza le diceva che solo gli sfigati in affari avevano bisogno di massaggiarsi l’ego tenendo la gente ad aspettare. A farla accomodare in una saletta riunioni fu un’efficiente
segretaria di mezza età: un altro buon segno, agli occhi di Agatha. Le presentarono l’amministratore delegato, il responsabile
della pubblicità, il direttore vendite e vari altri dirigenti.
In mezzo al tavolo della sala riunioni troneggiava uno
scarpone in cuoio. L’amministratore delegato, il signor Piercy,
andò dritto al punto. “Allora, signora Raisin, quello scarpone
sul tavolo è il nostro modello Impronta Cotswold. Desideriamo promuoverlo. Il signor Hardy, responsabile della pubblicità, ci suggerisce di scegliere una delle associazioni di camminatori e di equipaggiarla con le nostre scarpe.”
“Non funzionerà,” disse subito Agatha. “Da queste parti i
camminatori sono visti come militanti rozzi e irsuti. Quanto
costa un paio di scarpe?”
“Novantanove sterline e novantanove.”
“Un po’ caruccio per il mercato giovanile e sono i giovani
che vanno a comprarsi scarpe del genere.”
“Abbiamo calcolato i costi di produzione e non possiamo
scendere con il prezzo.”
“Che ne dite della pubblicità televisiva?”
“Siamo una piccola azienda,” disse il signor Piercy. “Vogliamo puntare su un lancio semplice e poi la scarpa venderà
per i suoi pregi intrinseci.”
“In altre parole,” disse brutalmente Agatha, “non vi potete
permettere un gran battage pubblicitario.”
“Possiamo permetterci di investire una certa cifra ma non
una copertura a livello nazionale.”
Agatha si spremette le meningi. E poi disse: “A Gloucester
c’è un nuova band che si chiama Fuori Strada. Ne avete sentito parlare?”.
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Tutto attorno ci fu uno scuotere di teste.
“Su ‘Midlands Today’ ho visto un documentario su di
loro,” disse Agatha. “Sono un gruppo pop emergente – tre
ragazzi, tre ragazze – tutti pulitini, una bella immagine. Di recente hanno pubblicato un disco che è arrivato alla posizione
numero 62 in classifica, ma gira voce che diventeranno vere
star, in futuro. Se potessimo contattarli alla svelta, fornirli di
scarpe, e convincerli a scrivere una canzone sulle passeggiate
in campagna – sono cantautori, loro – e a organizzare un
concerto, riuscireste ad accaparrarveli proprio alle soglie della
fama. E a quel punto le vostre scarpe verrebbero associate a
un’idea di successo.”
Prese la parola il responsabile della pubblicità. “E lei, signora Raisin, come fa a sapere di questo gruppo?”
“È un mio passatempo,” disse Agatha. “Mi viene istintivo
andare a scovare chi diventerà famoso. Ci azzecco sempre.”
Discussero a fondo dell’idea di Agatha, che li incalzava
come un bulldozer quando quelli sembravano inclini a tirarsi
indietro. Nel profondo del cuore rimpiangeva di non essere
stata assunta da una grossa azienda, invece che da quei calzatori di contadinotti, come lei li aveva etichettati in segreto.
Rimpiangeva di non avere qualcosa in grado di fare colpo su
James. Ma nulla di quello che faccio io potrebbe mai far colpo
su James, pensò mestamente Agatha.
Alla fine decisero di accettare la sua proposta. “Una sola
cosa ancora, signora Raisin,” disse il signor Piercy. “Ci avevano parlato di lei come della signora Lacey.”
“Sono io.”
“Non usa questo cognome?”
“No, ho usato il cognome Raisin per anni, sul lavoro. È più
semplice continuare a farlo.”
“Benone, signora Raisin. Desidera avere un suo ufficio
qui?”
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“No, lavorerò da casa. Cercherò di combinare qualcosa con
il gruppo pop e di fissare un incontro con voi per domani.”
Agatha tornò a Carsely sentendosi al settimo cielo. Ma
non appena l’auto cominciò a scendere la strada a tornanti
che portava al villaggio passando sotto una volta di alberi, il
suo umore cominciò a incupirsi. Entrò nel suo cottage dove
continuava a tenere i documenti di lavoro e il computer. Aveva memorizzato su quel computer il nome del gruppo pop e
quello del loro manager, una sorta di riflesso condizionato da
esperta di pubbliche relazioni. Poi andò a una pila di elenchi
telefonici. Scelse quello di Gloucester e cominciò a cercare il
nome del manager, Harry Best. Gli H. Best erano parecchi.
Era pronta a chiamarli tutti. Uno degli H. Best in elenco si
rivelò essere il padre dell’uomo che stava cercando. Questi le
diede il numero di Harry Best e Agatha lo chiamò. Gli espose
concisamente il piano per fare pubblicità allo scarpone Impronta Cotswold.
“Nonzò,” disse Harry Best, con quell’accento dell’Estuario
che Agatha trovava così deprimente. “Siamo tanta roba. Vi
costerà un bel po’.”
Agatha fece un respiro profondo. “Ne dobbiamo discutere
di persona,” disse con fermezza. “Verrò a Gloucester. Mi dia
il suo indirizzo.”
Best le dettò un indirizzo di Churchdown, che in realtà è
fuori Gloucester. Nel ripartire, passando di nuovo davanti al
cottage di James, davanti alla macchia pallida e sfuocata che
era il viso di lui dietro la finestra, Agatha rifletté che non sarebbe rientrata in tempo per cena. Una brava moglie avrebbe
telefonato per avvertire del ritardo.
“Però io non sono più una brava moglie,” disse Agatha ad
alta voce, stringendo forte il volante.
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Il traffico era intenso e dovette lottare non solo contro i
lavori in corso sulla A40, ma anche con parecchi conducenti
che in stato di letargia guidavano trattori a dieci miglia all’ora.
Quando finalmente trovò l’indirizzo di Harry, Agatha si sentiva ormai fiacca e abbacchiata. Avrebbe voluto mandare a quel
paese tutto quanto e tornare da James, cercare di rabbonirlo,
cercare di far funzionare in qualche modo quel matrimonio
d’inferno. Ma ad attenderla davanti a un villino scalcinato
c’era un tizio esile e quasi calvo, con i pochi capelli superstiti
raccolti in una coda di cavallo.
Agatha lo studiò, nell’andargli incontro. Aveva occhialetti a
mezzaluna appollaiati su un naso a becco la cui curva puntava
su una boccuccia increspata. Agatha lo giudicò sulla quarantina, per quanto Harry esibisse il tipico completo da eterno giovanotto, con stivali da cowboy, jeans e giubbotto in pelle nera.
Se Harry Best fece ben poco colpo su Agatha, Agatha ne
fece ben poco su di lui. Best vide una donna tarchiata con i
capelli castani lucidi raccolti in uno chignon. La faccia tonda
di Agatha esibiva una bella bocca e un naso regolare, ma gli
occhi erano guardinghi, castani e simili a quelli di un orsetto.
“Sono Agatha Raisin.” Agatha scosse con vigore una delle
mani molli e sudaticce dell’uomo. “Possiamo entrare a parlare
di affari?”
“Ma certo. Mi segua.”
La stanza in cui lui la condusse mostrava segni di pulizie
domestiche affrettate e lacunose. Un cestino della carta straccia rigurgitava lattine di Coca-Cola vuote. Sotto il cuscino di
una poltrona Agatha adocchiò una pila di giornali e riviste che
qualcuno aveva ficcato lì perché non si vedessero.
Agatha andò al sodo. Spiegò l’idea della promozione, parlò
della canzone che si sarebbe dovuta scrivere per accompagnare i nuovi scarponi, e poi i due mercanteggiarono sul prezzo.
Best cercò di tirare al rialzo dicendo che, se il gruppo avesse
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pubblicizzato qualcosa, la gente ne avrebbe dedotto che di
successo dovesse averne poco. Agatha gli fece notare che molte pop star di successo erano comparse in campagne pubblicitarie. “Che mi dice di Michael Jackson?” chiese in tono acido.
Harry Best cominciò a vacillare palesemente sotto gli assalti furiosi di Agatha. Lei gli ricordava sua nonna, una donna energica, il terrore della prima infanzia di Best. Alla fine
l’accordo fu siglato. L’unica cosa buona che il manager sentì
di aver cavato da Agatha era che lei aveva acconsentito ad affittare una sala prove, il che veniva giusto a puntino visto che
di lì a poco sarebbero stati sfrattati dal garage che un amico
della band aveva loro concesso fino a quel momento.
Quando Agatha finalmente se ne andò, si era fatto buio,
era tardi e lei era affamata. Si fermò in un pub lungo la strada
per una cena frugale e un bicchier d’acqua. E adesso bisognava affrontare James.
Gli abitanti di Carsely, che stavano portando a passeggio i
cani lungo Lilac Lane, dove Agatha e James avevano i rispettivi cottage, in seguito avrebbero riferito di aver sentito le urla
di Agatha, e poi un rumore di piatti fracassati. James aveva
deciso di farsi valere. Aveva detto ad Agatha fuori dai denti
che lei avrebbe dovuto mollare il suo stupido lavoro e cercare
invece di comportarsi come una donna maritata.
Se James a quel punto fosse stato in preda alla rabbia, Agatha forse, e ribadiamo forse, avrebbe potuto cedere. Ma a farle
saltare i nervi fu il calmo disprezzo nella voce di suo marito.
James pareva infastidito, come se lei gli stesse provocando un
altro mal di testa. In precedenza non si era mai immaginata
come una donna capace di fracassare piatti, ma la lite ebbe
luogo in cucina e così Agatha con una manata abbatté un
intero scaffale di piatti e poi danzò con rabbia sui frammenti.
“Mi disgusti,” disse freddamente James. E dopo un attimo
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se n’era andato, lasciando Agatha rossa in faccia, ansimante,
e del tutto demoralizzata.
Raccolse stancamente ciò che le apparteneva in quella casa
e lo riportò nel suo cottage. Tornò da James e ripulì il caos di
porcellane in frantumi, lo mise in uno scatolone e lo depositò
fuori per la raccolta dell’immondizia. Dal servizio che aveva in
casa prelevò un numero di piatti pari a quello che aveva fatto
fuori, e li mise sullo scaffale della cucina di James. Poi chiamò
i gatti e quelli la seguirono, con il pelo irto che stava appena
cominciando a riassestarsi dopo lo spavento provocato dalla scenata chiassosa della padrona. Una volta tornata a casa,
Agatha si sforzò di recuperare la calma. Avrebbe chiesto scusa
a James per il massacro di stoviglie.
L’indomani Agatha ebbe parecchio da fare: riferire i risultati
all’azienda produttrice di scarpe, prenotare una sala prove e
incontrare la band. Agatha si era occupata in passato di gruppi
pop e i Fuori Strada le parvero piacevoli e rinfrancanti. La band
era composta da tre giovanotti e tre ragazze. Erano tutti sotto i
vent’anni. Avevano un’aria pulita e felice. Agatha sentì di averla
azzeccata. Si tuffò nel lavoro, ma in fondo al cuore continuava
ad avere una nube nera d’infelicità. Se solo avesse potuto confidarsi con qualcuno… ma nessuno, nessuno, doveva sapere che il
matrimonio di Agatha era un fallimento.
Ebbe più volte la tentazione di telefonare a James, di dissipare le nubi, di chiedere scusa. Ma ogni volta si trattenne.
Come diavolo poteva essere così retrogrado? Epperò, epperò,
pensò stancamente Agatha, io ho fatto una scenataccia, gli
ho fracassato un servizio di porcellana, mi sono comportata
come una pescivendola. Perché la gente continuava a tacciare
le pescivendole di violenze e turpiloquio? si chiese. E quali
pescivendole, poi? Probabilmente era un retaggio dei vecchi
tempi del mercato del pesce di Billingsgate.
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Harry Best la osservò attentamente. Che donna, pensò.
Guarda come si è data da fare e come ha aiutato a trasportare
l’attrezzatura nella sala prove. Guarda come ha stabilito un
rapporto con i ragazzi. E non era una dura come gli era parsa
all’inizio. In effetti, pensò, a volte sembra quasi sull’orlo delle
lacrime. Buffa creatura.
Quando la lunga giornata finì, Agatha ne fu dispiaciuta. Due dei giovanotti erano già al lavoro su una specie di
canzone pop sul trekking. “Non abbiate paura di sembrare
all’antica,” li aveva pungolati Agatha. “Sforzatevi di tirare
fuori qualcosa di allegro, qualcosa che la gente avrà voglia
di fischiettare mentre passeggia lungo una strada di campagna.”
Durante il viaggio di ritorno a Carsely si preparò ad affrontare lo scontro con James. Ma quando entrò nel cottage
– quella casa lei non l’aveva mai sentita come loro, in fondo
apparteneva solo a James – lo trovò buio e silenzioso. Con il
cuore in tumulto corse in camera da letto e guardò nell’armadio. I vestiti di James erano ancora tutti lì.
Si sedette sul letto, interrogandosi sul da farsi. Dove poteva
essere andato James? Al pub, probabilmente.
Forse raggiungerlo lì poteva essere una buona idea. Non
potrà farmi una scenataccia di fronte ai compaesani, pensò
Agatha, dimenticandosi che quella che faceva le scenate di
solito era lei.
Passò dal suo cottage a cambiarsi, scelse un completo pantalone chiaro in seta e si drappeggiò sulle spalle una stola in
lana d’agnello color bronzo carico, poi s’incamminò lentamente verso il pub. Si sarebbe comportata con leggerezza,
con allegria, come se non fosse successo nulla.
Il fatto di prendere in qualche modo l’iniziativa la rasserenò immensamente mentre percorreva il vicolo sotto la ricca
fioritura di lillà che gli dava il nome. Il vero punto debole di
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Agatha era che nemmeno per un istante avrebbe ammesso di
aver paura di James. Avrebbe magari ammesso di avere paura
di perderlo, ma dopo essersi corazzata l’animo nel corso degli
anni con strati e strati di durezza, non poteva neppure prendere in considerazione l’ipotesi che lui l’intimorisse davvero.
E non era neppure in grado di rendersi conto che l’amore
l’aveva spinta quasi ad accettare l’inaccettabile: le umiliazioni, il disprezzo, i silenzi, la mancanza di affetto e di intimità
amichevole.
Agatha fece il suo ingresso nel Leone Rosso con un sorriso
stampato in faccia.
Il sorriso svanì.
James era seduto a un tavolo d’angolo, accanto al caminetto e rideva e sorrideva a una donna bionda e snella che Agatha riconobbe come Melissa Sheppard. E mentre Agatha era
lì a guardare, Melissa si sporse in avanti e diede una strizzatina
alla mano di James.
Come avrebbe riferito in seguito la signorina Simms, segretaria della Società delle Dame di Carsely, Agatha Raisin “si
incazzò come una biscia”. L’acido della gelosia le salì alla gola
come bile. Nel giro di pochi secondi l’infelicità che era stata
costretta a sopportare le balenò rapida in mente. Attraversò il
pub con passo marziale e affrontò la stupefatta Melissa. “Giù
le mani da mio marito, puttanaccia!”
Melissa si alzò, arraffò la borsetta e sgusciò via passando
davanti ad Agatha e si diresse alla porta. Agatha si sporse sul
tavolo. “Bastarda che non sei altro,” urlò. “Ucciderò te e quel
donnaiolo schifoso!”
James si alzò, la faccia incupita dall’ira. Afferrò Agatha per
i polsi. “Piantala qui con queste scene,” sibilò.
Agatha si liberò dalla stretta, prese il boccale di birra mezzo vuoto di James, glielo rovesciò sulla testa e poi si voltò e
fuggì. Corse per tutta la strada fino al cottage, inciampando
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sull’acciottolato. Una volta in salvo dentro casa, si sedette in
cucina e pianse e pianse.
Poi salì al piano di sopra e si lavò con cura la faccia con
acqua fredda, e si rifece il trucco. James sarebbe passato per
continuare la rissa e lei voleva farsi trovare corazzata contro
di lui.
Si sentì lo squillo del campanello. Agatha si diede un colpetto all’acconciatura, raddrizzò le spalle e scese le scale con
passo marziale.
“Eccoti qui, dunque…” esordì mentre apriva la porta. Ma
l’uomo che si trovò di fronte non era James, bensì il vecchio
amico sir Charles Fraith.
“Ero passato qui di fianco ma James mi ha detto che ti
avrei trovata a casa tua,” disse Charles. “Posso entrare?”
“Perché no?” disse Agatha, senza entusiasmo, e rientrò nel
cottage, lasciando che lui la seguisse.
“Che succede?” volle sapere Charles, entrando con lei in
cucina. “Non mi dire che il matrimonio è già andato a catafascio.”
“Non essere sciocco,” disse Agatha. “Siamo felici come due
pasque. Ti va di bere qualcosa?”
“Whisky, se ne hai.”
Agatha era lacerata, da una parte avrebbe voluto dirgli di
andarsene perché magari sarebbe arrivato James, dall’altra le
faceva piacere che Charles stesse lì perché magari James non
sarebbe arrivato. Gli fece strada in salotto, accese il caminetto
che aveva già preparato, e versò per entrambi una dose generosa di whisky al malto.
Charles si sedette sul divano e scrutò Agatha, che si era
accasciata su una poltrona di fronte a lui.
“Hai pianto?”
“No. Cioè sì, volevo dire. Mi sono tagliata.”
“Dove?”
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“Cosa vorresti dire, con ‘dove’?”
“Aggie, senti, piantala di raccontare scempiaggini. Questa
tua interpretazione del ruolo di sposa felice ti sta uccidendo,
mi pare.”
Lei lo guardò in silenzio. Era seduto nel salotto di Agatha
come era accaduto tanto spesso in passato, pulitino, impeccabile, ben vestito e compassato come un gatto.
Agatha scrollò stancamente le spalle. “Okay, tanto vale che
tu lo sappia. Il matrimonio va che è un disastro.”
“Eviterò di dire che te l’avevo detto.”
“Non ci provare neanche.”
“Immagino che il problema sia che James è il solito scapolone, e che desidera mantenere il suo solito stile di vita e tu
gli sei d’impiccio con la tua pessima cucina e le tue schifose
sigarette. Ha già criticato il tuo abbigliamento?”
“Non smette mai. Come fai a saperlo?”
“È ben noto che gli uomini banali e noiosi, una volta che
hanno sposato l’oggetto del desiderio, cominciano a criticare proprio quello stile di abbigliamento che li aveva attratti
inizialmente. Scommetto che ti ha ordinato di non indossare
i tacchi alti, e che ha detto che ti trucchi in modo troppo pesante.”
“Ma che razza di stupida sono? Avrei dovuto saperlo. Ma
mi pareva che avessimo molte cose in comune.”
Charles bevve un sorso di whisky e la guardò con comprensione.
“La gente non si rende mai conto che l’amore è proprio
cieco. L’amato appare come un’anima gemella. Quell’orribile solitudine spirituale è sparita. Adesso sono in due contro
il resto del mondo. Così si sposano, e che accade? Dopo un
po’ di tempo, seduti uno di fronte all’altro al tavolo della colazione, entrambi scoprono di avere davanti agli occhi un estraneo.”
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“Però esistono matrimoni felici. Lo sai anche tu che esistono.”
“Alcuni sono fortunati; la maggior parte si adatta a un
compromesso.”
“Insomma, mi stai dicendo che dovrei vestirmi come piace
a James e vivere la mia vita secondo i desideri di James?”
“Se vuoi continuare a essere una donna sposata. Oppure
rivolgiti a uno di quei terapeuti di coppia.”
“Non capisco come uno scapolo come te possa sapere
qualcosa dei matrimoni.”
“Osservazione intelligente.”
Agatha si afferrò una ciocca di capelli. “Non so che fare.
Ho fatto una scenataccia dentro il pub. James stava facendo il
galletto con una certa Melissa e si dà il caso che io sappia che
quei due hanno avuto una storia.”
“James non è cattivo, sai. Probabilmente lo prendi contropelo. Sei un po’ prepotente.”
“Non hai ancora sentito tutta la storia. Non vuole che io
lavori!”
“E tu lo stai facendo? Lavori?”
“Ho un contratto a breve scadenza con un calzaturificio di
Mircester. James si è imbestialito. Ha detto che dovrei lasciare
il lavoro a chi ne ha bisogno.”
“Forse voi due dovreste tornare a vivere ognuno per conto
proprio e vedervi di tanto in tanto.”
“Lo farò funzionare,” esclamò improvvisamente Agatha.
“Io amo James. Bisogna costringerlo a ragionare.”
“Lui si confida con qualcuno, parla dei suoi problemi?”
Agatha rise. “James! Manco per idea.”
James in quel momento era nel salotto della canonica, seduto di fronte alla moglie del pastore, la signora Bloxby.
“Non è tardi per una visita?” stava chiedendo James.
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“No, affatto,” disse la signora Bloxby, divertita dal fatto che
James non sembrava essersi reso conto di avere davanti una
donna in camicia da notte e vestaglia.
“Non so proprio cosa fare con Agatha,” disse James. “Sono
un uomo in gravi ambasce.”
“Che succede? Le andrebbe una tazza di tè o qualcosa di
più forte?”
“No, sento che se non parlo con qualcuno finirò per esplodere. Lei è amica di Agatha.”
“E spero di essere un’ottima amica.”
“Le ha detto qualcosa riguardo al nostro matrimonio?”
“Se fosse venuta a lamentarsi con me, non lo spiffererei a
lei, James. Ma in realtà non lo ha fatto. Qual è stato il motivo
di quella scenata al pub? Ne parla tutto il villaggio.”
“Sono andato al pub e Melissa era lì, e così ci siamo bevuti
una cosa insieme. Agatha è entrata e ha fatto una piazzata di
gelosia.”
“Mi pare comprensibile. Nel villaggio è risaputo che lei ha
avuto un… ehm… trascorso con Melissa, prima di sposare
Agatha.”
“Insomma, poi c’è tutto il resto. Come casalinga è un disastro.”
“Agatha fa venire Doris Simpson a fare le pulizie nel suo
cottage, insomma il suo personale. Perché non lasciare che sia
Doris a tenere in ordine il vostro?”
“Ma dovrebbe provvedere Agatha.”
“Lei è molto all’antica, James. Non può pretendere che
una donna che ha avuto successo sul lavoro e che ha sempre
pagato qualcuno perché le facesse le pulizie adesso venga a
pulire casa sua.”
James proseguì imperterrito, come se la signora Bloxby non
avesse parlato. “E poi Agatha lo sa che io detesto il fumo di
sigaretta. Puzza di sigarette.”
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“La signora Raisin fumava quando vi siete conosciuti, e
anche quando vi siete sposati.”
“Ma mi aveva promesso che avrebbe rinunciato al vizio. Lo
aveva detto. E aveva detto che non avrebbe mai fumato dentro
il mio cottage. E invece vedo che soffia quando pensa che io
non stia guardando.”
“Lei ha detto ‘il mio cottage’. È un matrimonio ben strano,
il vostro. Perché ha incoraggiato la signora Raisin a tenersi
una casa propria?”
“Perché la mia è troppo piccola.”
“Tra tutti e due certamente disponete di denaro a sufficienza per vendere le due case e traslocare in una più grande.”
“Forse. Adesso ha accettato un lavoro. Un lavoro di pubbliche relazioni per una qualche azienda produttrice di scarpe
di Mircester.”
“E cosa c’è che non va?”
“Agatha non ha bisogno di lavorare.”
“Io penso che la signora Raisin ogni tanto abbia bisogno
di lavorare. Forse questo matrimonio la fa sentire una moglie
fallita. James, si lamenta molto, lei?”
“Solo quando fa qualcosa che non va, e dopo Agatha mi
guarda sempre storto e mi dice qualche villania.”
“E capita spesso che faccia qualcosa che non va?”
“In continuazione… cucina male, non tiene la casa, si veste
come una meretrice…”
La signora Bloxby alzò una mano. “Aspetti un minuto. La
signora Raisin si veste come una meretrice? Davvero non posso permettere che si dica una cosa del genere. È sempre vestita
con eleganza. E mi pare che lei, James, si lagni molto e non
sia disposto a fare compromessi su nulla. So che lei è stato uno
scapolo incallito, ma adesso si è sposato, e qualche concessione
deve farla. Perché è così arrabbiato e reattivo?”
Ci fu un lungo silenzio e poi James fece un sospiro. “C’è
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dell’altro. Da un po’ soffrivo di emicranie ricorrenti, così sono
andato a fare una tac. È venuto fuori che ho un tumore al
cervello. Tra poco dovrò sottopormi alle terapie.”
“Oh, poveretto. È operabile?”
“Prima proveranno con la chemioterapia.”
“La signora Raisin sarà molto turbata.”
“Non lo sa, e lei non glielo andrà a dire, mi raccomando.”
“Ma glielo deve dire, James. L’essenza del matrimonio è proprio questa: condividere i momenti difficili come quelli buoni.”
“Sento che, dicendoglielo, in qualche modo non avrei più
speranze. Renderebbe reale, molto reale, il tumore al cervello.
Devo farcela da solo.”
“Però vedo che tutta questa storia la sta stressando parecchio, James. In effetti, non dicendo nulla alla signora Raisin
lei sta rovinando il vostro matrimonio.”
“Non glielo deve dire! Mi prometta che non le dirà nulla!”
“D’accordo. Ma la prego di rifletterci su ancora. La signora Raisin non merita il trattamento che lei le sta infliggendo.
Glielo dica, James.”
Lui scosse la testa. “È la mia croce e la devo portare da
solo. Agatha è molto indipendente. Insomma, continua a usare il suo vecchio cognome anche da sposata, come se il mio
non fosse all’altezza. Persino lei, signora Bloxby, la chiama tuttora signora Raisin.”
“Perché me lo ha chiesto Agatha. Vede, magari sua moglie
le avrebbe dato retta se lei si fosse lamentato solo per questa
cosa, ma a quanto pare l’ha ricoperta di critiche.”
“È colpa di Agatha,” ripeté ostinatamente James. “Ora è
meglio se vado.”
“La prego, resti qui ancora un po’. Immagino che sia terribilmente spaventato e preoccupato.”
James, che era già quasi in piedi, si lasciò ricadere sulla
poltrona prendendosi la testa tra le mani.
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“La signora Raisin potrebbe esserle di grande aiuto,” disse
gentilmente la signora Bloxby.
“Non avrei mai dovuto sposarla,” borbottò James.
“Suppongo che lei si fosse innamorato, James.”
“Oh, sì, ma è una pasticciona ed è così irritante.”
“Io credo che a renderla così duro nei confronti di Agatha
siano solo la paura e la malattia.”
James si alzò. “Ci rifletterò su.”
Mentre camminava verso casa, James pensò, sentendosi in
colpa, di aver esagerato continuando a parlare dei difetti di
Agatha. Adesso c’era una sola cosa da fare: spiegarle cosa gli
stava succedendo. Ma quando svoltò in Lilac Lane, riconobbe
l’auto parcheggiata davanti al cottage di sua moglie. Sir Charles Fraith. Sempre tra i piedi! Agatha era tornata ai suoi vecchi
vizi. Le si poteva ben rendere pan per focaccia!
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