“Poesia in forma di schermo: il cinema di Pier Paolo Pasolini”

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“Poesia in forma di schermo: il cinema di Pier Paolo Pasolini”
FILMOLOGIA MODULO II
a.a. 2006/2007
Prof. Sergio Bassetti
(Avvertenza: i presenti appunti, frutto di una trascrizione sintetica – e da me non particolarmente curata, sul piano formale – di quanto spiegato a lezione, NON sono da considerarsi testo “sufficiente” per sostenere l’esame, quanto piuttosto una possibile linea-guida utile
per l’approccio integrato alle altre fonti, ovvero: il Castoro Cinema di S. Murri, il testo di A.
Ferrero, e gli scritti sul cinema dello stesso Pasolini raccolti in Empirismo eretico. I nonfrequentanti sono invitati a consultare in bacheca la bibliografia aggiunta a loro destinata)
“Poesia in forma di schermo:
il cinema di Pier Paolo Pasolini”
I lezione: Accattone (1961):
Pier Paolo Pasolini esordisce nel mondo del cinema nel 1961 con il film Accattone. Grazie
al suo avvicinamento ad un mondo tanto diverso dal suo si scopre autore della propria opera d’espressione in ogni sua parte: è un artista che esalta l’autorialità, intesa come pieno responsabilità e pieno controllo della creazione.
Il cinema è il lavoro del singolo tradotto da varie “dita”: in un’intervista egli aveva affermato
“Le dita plasmano la mano, ma è la mano che le guida e che plasma l’opera!”.
Nel suo primo film, P. P. Pasolini sceglie di non seguire le regole del cinema tradizionale
(“cinema di prosa”, per usare le sue parole) per avvicinarsi al “cinema di poesia”. Questo è
caratterizzato dalla rottura dell’unità spazio-temporale del cinema narrativo e dalla scelta
di far percepire la presenza della macchina da presa (prendendo, quindi, anche le distanze dal montaggio del cinema classico di matrice hollywoodiana).
L’inadeguatezza delle trasposizioni di sue sceneggiature da parte di diversi registi (Bolognini, in primis, con La notte brava [1959] e La giornata balorda [1960]; ma anche, in seguito, l’insoddisfacente trasposizione per lo schermo di Una vita violenta [1962] da parte di
Paolo Heusch e Brunello rondi) potrebbe aver spinto Pasolini a mettersi – e poi a restare –
dietro la macchina da presa in prima persona.
Goffredo Fofi dice che Rossellini, Fellini e Pasolini sono gli unici registi italiani in grado di
inventare un nuovo modo di fare cinema, del tutto originale: se si vuole, un “cinema per la
critica”.
P.P.P. era un autore che credeva profondamente nella contraddizione e nello scandalo
tanto che può essere definito un “uomo contro”, sempre e soltanto al servizio della propria
ideologia.
Ragazzi di vita del 1955 e Una vita violenta del 1959 sono romanzi che riguardano il sottoproletariato, la classe sociale su cui l’autore proietta la speranza di un candore, di una
ingenuità verginale che sola può salvare il mondo. Il sottoproletariato, infatti, è portatore di
un’innocenza antica, e talvolta crudele, che è stata perduta dalle altre classi. Pasolini accusa la borghesia di considerarsi non solo classe dominante, ma addirittura l’unica classe
esistente; ciò avviene a scapito e con l’involontaria complicità della debolezza sottoproletaria, afflitta dalla totale mancanza di una consapevolezza della propria condizione e di una coscienza di classe: in questa “fascia” sociale è ancora possibile trovare individui che
considerano la società come un nemico contro cui ribellarsi.
P.P.P., fatalista e pessimista, ritiene che la società contemporanea sia basata su una
struttura sociale cristallizzata il cui modello è il proletariato (che ambisce a – e finirà fatalmente per – divenire a sua volta parte della borghesia).
In Accattone P.P.P. applica la sua visione epico-religiosa del mondo alla classe sottoproletaria. Questo mondo degradato, di diseredati, viene sublimato dalla musica “alta” (la musica di Bach viene impiegata dal regista quale accompagnamento e contrappunto alle risse) e dal modo “religioso” di utilizzare e muovere macchina da presa. Le inquadrature sono caratterizzate da una avvertibile intenzione figurativa: le immagini Masaccesche sono
adottate per esaltare la plasticità e la rotondità dei corpi, attorno ai quali il paesaggio è puro sfondo, quinta.
La fotografia ha una evidenza abbagliante: le “sgrammaticature” vengono impiegate per
far “sentire” la macchina da presa, a dar vita a un modello espressivo che Pasolini stesso
definisce soggettiva libera indiretta: si assume l’identità del personaggio, la sua visione
della realtà, il suo pensiero, i suoi caratteri linguistici. La macchina da presa viene quindi a
identificarsi con l’occhio del personaggio sul mondo, inquadrato s/oggettivamente.
P.P.P. adotta uno stile recitativo irrigidito, impacciato: non sceglie attori professionisti ma
personaggi che mettono in scena sé stessi. La rappresentazione del sottoproletariato non
è mai compiaciuta o pittoresca, ma piuttosto osservata con simpatia: del personaggio popolare viene riconosciuta e valorizzata la condizione emarginata e subalterna. Pasolini è
fortemente contrario al naturalismo tanto che non usa i piani-sequenza e fa doppiare i personaggi giocando sul rapporto volto/voce, che non è mai sincrono o “coerente” ma quasi
sempre a contrasto, e conferisce alla rappresentazione una sensazione – appunto – di rigidità. Non vuole assolutamente aderire al modello recitativo “del birignao”, cioè a un cinema rigidamente impostato, anche a costo di risultare legnoso.
L’autore utilizza pochi carrelli laterali, ma in questo film ce n’è uno, vistoso, nella scena in
cui la prostituta si apparta con i napoletani e viene successivamente malmenata. Altra soluzione molto rara è la panoramica a 180°, che Pasolini adotta come piano
d’ambientamento sulle baracche della borgata, fino ad inquadrare – alla fine della corsa di
180° – lo stesso Accattone che sopraggiunge a piedi lungo la strada; una panoramica appena meno estesa è presente nella scena in cui il protagonista cerca di vendere l’anello
agli amici.
I titoli di testa pasoliniani sono sempre cartelli bianchi su cui passano scritte nere, o viceversa, in caratteri Bodoni.
In Accattone troviamo la citazione del V canto del Purgatorio dantesco: Pasolini non si dichiara cristiano, né tantomeno cattolico, e tuttavia, profondo cultore di Dante e imbevuto
com’è d’una religiosità spontanea e intima, sebbene poco ortodossa, sembra voler trasmettere un messaggio di redenzione e riscatto. Il protagonista infatti raggiungerà la sua,
di redenzione, attraverso la compassione (cum + passio = soffrire con, soffrire assieme),
che si manifesta in nquella “lacrimuccia” che lo vediamo versare per Stella.
Uno dei temi portanti del film è quello della morte: inizialmente è presente sotto forma di
predestinazione (Accattone vuole sfidare la morte ma in realtà si limita a mettere in mostra
un’audacia di cui in realtà è privo, poiché è un vigliacco), poi viene ripreso nella scena del
funerale e del corteo funebre che gli passa dinanzi. Il successivo presagio di morte si può
individuare nella posizione coricata che Accattone assume sempore più spesso verso la
conclusione della vicenda; un altro richiamo, scoperto, si evidenzia infine nel suo volto coperto di sabbia dopo l’ennesima bravata sul greto del Tevere. La vitalità rabbiosa esplode
nelle risate forzate, proprio come quelle, simmetriche – e dettate dalla stessa “disperata
vitalità” pasoliniana –, che anticiperanno di qualche istante la morte di Accattone.
I napoletani sono portatori sia di una prospettiva luttuosa, mortifera, che di un atteggiamento di violenza, espresso in termini musicali attraverso la canzone popolare “Fenesta
ca’ lucive e cchiù non luce” (poi ripresa ne Il Decameron con lo stesso valore) che i 4 “mariuoli” napoletani fischiettano a più riprese.
Un altro motivo importante è quello dell’ opposizione del bene e del male: i personaggi si
chiedono se Gamberone, morto per indigestione, sia in paradiso o all’inferno, quindi insieme agli angeli o ai diavoli. Ciascun personaggio di quell’ambiente è idealmente conteso
dall’inferno e dal paradiso: tutti questi giovani sottoproletari sono malvagi e innocenti ad un
tempo, sospesi tra candore e crudeltà.
Il primo tema musicale è l’Adagio dal Concerto Brandeburghese n.1 di Bach associato al
rapporto tra Accattone e Maddalena, ma generalmente usato per indicare il tema della
prostituzione. L’Andante dal Concerto Brandeburghese n.2 di Bach è invece rappresentativo dell’amore puro tra Accattone e Stella. La donna è caratterizzata da una grazia goffa,
che la apparenta in qualche modo alla Gelsomina del felliniano La strada: è una donna
angelicata caratterizzata da una ineleganza, da una grossolanità particolare, e in qualche
modo disarmante.
L’accostamento della musica del Corale in do minore da La Passione secondo Matteo di
Bach alla sequenza della rissa in borgata destò forte scalpore poiché metteva in relazione
violenza belluina e degrado sociale con la musica “altissima” di Bach.
Il film ospita due piani sequenza con carrello a precedere che poi Pasolini replicherà in
Mamma Roma con modalità differenti.
• I piano sequenza: confronto tra Accattone e la moglie che esce dal lavoro: simboleggia il passato;
• II piano sequenza: Accattone e Stella passeggiano e discutono: simboleggia il presente. Quando Accattone vede arrivare Stella, arretra letteralmente, seguito dalla
macchina da presa: è lei il motivo per cui tenterà di fare un passo indietro, di cambiare vita, e ancora per lei verserà la “lacrimuccia” della citazione iniziale del purgatorio.
Accattone può essere definito una “sacra rappresentazione” profana o un’antica tragedia.
In entrambi i casi c’è la figura dell’oracolo che, come nella tragedia greca, anticipa al coro
(gli amici di Accattone) le profezie sul protagonista che puntualmente si realizzeranno.
II lezione : Mamma Roma (1962)
Pasolini infrange la sua regola di non lavorare con attori professionisti e affida il ruolo da
protagonista all'attrice Anna Magnani – incarnazione vivente d’una certa femminilità plebea ed emblema di Roma stessa –, che aveva ammirato in Roma città aperta e Bellissima.
Per il regista fare cinema e scrivere un romanzo è la stessa cosa, infatti non potrebbe mai
mettere in scena un suo libro, poiché vorrebbe dire scriverlo nuovamente.
Mamma Roma è considerata l'espressione individuale della protagonista che interpreta il
proprio personaggio. A. Magnani vorrebbe essere l'emblema di una genuinità popolare,
anche se in questo in film è "un pesce fuor d'acqua": si sente troppo la differenza tra chi
interpreta e chi – come gli altri “attori” pasoliniani – si limita ad essere sé stesso.
Nel film possiamo analizzare due registri che non presentano compenetrazione:
1) NATURALISTICO: A. Magnani vorrebbe dare l'impressione di essere spontanea, autentica, ma a tratti traspare il suo grande mestiere;
2) ETICO-RELIGIOSO: Pasolini eleva a livello religioso i suoi protagonisti.
Mamma Roma costituisce un passo in avanti per quanto riguarda la tecnica, rispetto ad
Accattone: P.P.P. realizza un doppio piano sequenza simmetrico di 4'32''che inquadra in
modo "costruito” la camminata dell'attrice preceduta dalla macchina da presa. La domanda sorge spontanea: "Questi piani sequenza sono necessari o sono un punto d'incontro, di
compromesso tra P. e la Magnani?". Magnani infatti aveva più volte denunciato la sua
sofferenza per la tecnica di Pasolini, che polverizzava le riprese in piani brevi, da assemblare poi a suo piacimento in fase di montaggio: questa procedura però frustrava le “necessità” interpretative dell’attrice, che lamentava l’impossibilità di disegnare un ritratto attendibile e articolato della figura di mamma Roma. In altre parole, Magnani mal si adattava
a riprese brevi e frammentate, e invocava riprese più lunghe che le permettessero di sviluppare in senso recitativo la definizione del personaggio.
Il regista mette in scena la storia di una prostituta (evidente il richiamo al mondo di Accattone, polato di puttane e protettori) che gradualmente prenderà coscienza della propria
condizione. Inizialmente, però, questa consapevolezza è del tutto assente: la sola ambizione della donna è quella di ritirarsi dal marciapiede per approdare a un decoro piccoloborghese come persona nuova, con una nuova “verginità” sociale: cambia città per cominciare una nuova vita ed offrire al figlio un futuro migliore.
Nella sua denuncia Pasolini individua tre livelli di responsabilità:



PERSONALE: ognuno è responsabile delle proprie azioni;
AMBIENTALE: che condiziona il comportamento dell'individuo posto
in relazione con il micro-ambiente entro cui vive;
SOCIALE: che condiziona il comportamento dell'individuo posto in
relazione con il macro-ambiente, la società tutta, entro cui vive;
Nella sceneggiatura originale A. Magnani dopo aver appreso della morte del figlio, urlava
tre volte "I responsabili!" con lo sguardo rivolto verso la città indifferente: la colpa è della
società, che non li ha saputi accettare per quelli che erano e li ha costretti a sentirsi diversi
ed emarginati. Questo atto di accusa è un richiamo al secondo, protratto piano-sequenza
in cui la protagonista, costretta a tornare sul marciapiede, parla di responsabilità.
Il sogno piccolo borghese della protagonista infatti fa una vittima, la persona che ama di
più al mondo, l'unica per cui sceglie di cambiare vita: il figlio Ettore (Ettore Garofalo). Su
questo personaggio dolce ed innocente, P. proietta la sua propria personalità: Mamma
Roma può essere anche considerata la rappresentazione di una mater dolorosa che ha un
rapporto complesso e appassionato con il figlio. Secondo la psicoanalisi freudiana, l'omosessualità porta ad individuare nella figura materna l'unica donna che può essere amata:
per non violare tale immagine idealizzata, l'uomo si orienterebbe verso una sessualità al
maschile.
Il rapporto tra i due protagonisti è piuttosto contrastato: all'inizio è pieno d'amore reciproco
tanto che la scena del ballo (caratterizzata da uno scavalcamento di campo) è pervasa da
una dolcezza infinita. Nella seconda parte del film, invece, Ettore scopre l'amore e quindi
mette in secondo piano sua madre: per fare un regalo a Bruna, sceglierà di vendere il disco della mamma su cui era incisa la canzone (Violino tzigano) che avevano ballato insieme (emblema di una unità della piccola famiglia). Il modo di ripresa della scena – la
“soggettiva libera indiretta” (sorta di monologo interiore per immagini) teorizzata da Pasolini nel suo Empirismo eretico – è una "soggettiva non trasparente", che cioè non è transitiva ma autoriflessiva, nel senso che richiama l'attenzione su di sé, facendo comunque percepire allo spettatore la presenza della macchina da presa.
P. riutilizza la stessa tecnica, già usata in Accattone, di accostare la musica alta ad immagini di degrado, sostituendo però Vivaldi a Bach: stavolta però lo scalpore della soluzione
non viene avvertito, poichè questa "sa di già sentito" e non costituisce scandalo alcuno.
In questo film P. fa del pasolinismo: la scena degli omosessuali, per esempio, si distingue
per l'esasperazione del comportamento omosessuale delle figure delle due “checche”.
Il secondo film pasoliniano è stato anche definito una parabola negativa che si conclude
con la morte dell'unico personaggio innocente.
I protagonisti dei suoi primi quattro film finiscono per morire nel segno della croce: in Accattone l'amico Balilla si fa confusamente il segno della croce sul corpo ormai inanimato
del protagonista; in Mamma Roma Ettore muore in posizione crocefissa – sebbene orizzontale – quasi a replicare l’immagine del Cristo morto di Mantegna; ed infine ne La ricotta
Stracci muore d'indigestione mentre è crocifisso, e su una croce vera, per esigenze di copione.
Le citazioni pittoriche di P. nascono dalla volontà di prendere spunto dall'idea di pittura di
cui i pittori che “cita” erano titolari: il regista non si limita a copiare, ma interpreta. Egli infatti vuole, come i formalisti russi, usare l'immagine come una pasta da modellare. Troviamo una citazione di Caravaggio nella scena in cui Ettore trova lavoro come cameriere in
un ristorante borghese e porta il cesto di frutta ad un tavolo, mentre il richiamo a Michelangelo si esplicita nella scena del ricatto di Mamma Roma al proprietario della trattoria
scoperto in compagnia di una prostituta. (Questi poggia la sua mano sulla guancia, proprio
come un dannato rappresentato nella Cappella Sistina ). Altri riferimenti pittorici sono, come in Accattone, Masaccio e Piero della Francesca.
P. lavora sulla frontalità e sulla centralità dei personaggi: nella scena che ritrae il dialogo
tra madre e figlio troviamo la donna più ravvicinata perchè nel prologo è già stato detto
qualcosa di lei, mentre Ettore è raffigurato a figura intera, in un campo più lungo, perchè lo
spettatore non sa ancora niente di lui.
Torna il tema della donna angelicata già presente in Accattone: Bruna è il personaggio a
cui viene affidato il ruolo di ragazza ad un tempo innocente e crudele che farà innamorare
Ettore. Gli farà scoprire l'amore e, successivamente, gli farà provare anche le relative pene. La scena che rende meglio l'idea è quella della rissa ai danni del ragazzo: invece di
preoccuparsi del ragazzo steso a terra e col naso sanguinante, Bruna preferisce appartarsi con gli altri ragazzi, e lo abbandona senza grandi patemi d’animo. Il tema musicale dell'amore per la ragazza (il Larghetto dal Concerto in Re minore di Vivaldi) non viene usato
solo quando la ragazza è in scena, ma anche come sua evocazione. Uno dei riferimenti al
rapporto tra i due adolescenti è il simbolo fallico di un rudere presente sullo sfondo.
La storia è ambientata nella periferia della periferia (i pratoni) che è caratterizzata da ruderi sparsi e lontani: questi rinviano al mondo pre-borghese, e questo è il luogo d'appartenenza del sottoproletariato, identificabile col mito, per P., poiché ha resistito, anche se per
poco, all'avvento della borghesia. Da Uccellacci e uccellini però, P. non farà più cinema
nazional-popolare perchè quel sottoproletariato cui credeva di rivolgersi è definitivamente
scomparso: quella classe di diseredati si è omologata alla borghesia, divenendone la
componente più infima. Quello pasoliniano diverrà quindi un cinema d'elite, cioè rivolto a
una elite non meglio identificata.
In un'intervista P. afferma: "Io amo il paesaggio non lo sfondo perchè l'attore è il protagonista, non l'ambiente!".
Il tema della morte è prefigurato già nella posizione coricata di Ettore (come era già avvenuto per Accattone) che anticipa l'inquadratura finale della sua morte. Il corpo del ragazzo
legato è oggetto di tre movimenti della macchina da presa, definite da P. stesso, "tre dolly
in forma di carezza".
Il motivo del destino (il Largo del Concerto in Do maggiore di Vivaldi) è presente due volte
nella storia: quando il pappone, Citti, si presenta alla porta della nuova casa della Magnani; ritorna poi quando lei è costretta a tornare a battere il marciapiede (non abbandonando
però il banco della frutta) per inseguire quella condizione di decoro – soprattutto economico, e di emancipazione dal vecchio protettore – che nelle sue intenzioni dovrebbe fare la
felicità del figlio.
Il debito di P. verso il cinema neorealista è individuabile nella scena del furto in ospedale: il
malato è Maggiorani, il protagonista di Ladri di biciclette: Pasolini qui si diverte a giocare
sui contrasti: è il ladro di allora, di quel capolavoro di quasi vent’anni addietro, ad essere
derubato stavolta.
III Lezione: Il Vangelo secondo Matteo (1964):
Pasolini respinge l’idea di divinità del Cristo. Contatta poeti e letterati per far loro interpretare la parte del figlio di Dio. L’attore scelto è Enrique Irazoqui caratterizzato da un volto
cupo e duro, tanto da sembrare un Cristo non benevolo, che sembra mediato dalla pittura
di El Greco. Egli, infatti, è fuori dai ranghi: irregolare, logico-razionale, poetico e furente,
ma con slanci affettivi per poveri e bambini.
L’autore lavora sulla stratificazione delle interpretazioni di Cristo che si sono susseguite in
circa 2000 anni. Utilizza per i costumi il riferimento a Piero Della Francesca, per la musica
fa riferimento a Bach e Mozart, canti rivoluzionari russi e spirituals, Prokofiev e la Misa Luba, etc, oltre alle (poche) musiche originali di luis Bacalov.
L’idea di girare questo film è dovuta a pulsioni diverse, e a differenti matrici di pensiero,
ma Pasolini nega – e continuerà a negare – di essere cristiano e cattolico; si riconosce però nella figura di Cristo non considerato come figlio di Dio, ma come essere umano che
assurge alla divinità grazie alla sua straordinaria umanità.
Sceglie inoltre il Vangelo di Matteo perché è quello più vicino al mondo contadino: attraverso un gioco di affinità e analogie sceglie di ambientarlo nel sud Italia unendo così passato e contemporaneità (altro esempio: gli sgherri di Erode indossano abiti fascisti).
Fino a Mamma Roma P.P.P. si era preoccupato della sacralità delle figure dei sottoproletari, ma adesso capisce che una materia già sacra per sé non può essere ulteriormente
sacralizzata.
Il film è tutto giocato sui silenzi e sui suoni naturali: la parte dialogica comincia con la nascita di Cristo: fin lì parole e dialoghi sono ridotti all’osso. P. non elimina i miracoli ma i
prodigi: rifiuta il discorso dell’aldilà ritenendo che la vita si concluda con la morte. Auerbach prefigura la teoria pasoliniana secondo la quale gli uomini acquistano valore attraverso la morte perché questa dà retrospettivamente significato e valore ai fatti vissuti ma
“non definitivi” della vita di ciascuno. Solo la morte, con la sua definitività, ci permette di
interpretare e dare significato alla vita di un individuo. Pasolini crea, da par suo, una affinità tra la morte e il montaggio definitivo di un film, che è fatto di una scelta accurata di eventi, suggellati dall’atto del regista/montatore, e che grazie a questa procedura acquistano senso, e valore.
L’identificazione tra attore e figura diviene inscindibile. Pasolini usa gli obiettivi a focale
lunga da 300 mm (tipo reportage) mettendosi alle spalle della folla (come nel cinema verità): usa insomma tecniche atte a desacralizzare e svuotare di aura ultraterrena ciò che
viene ripreso, per non correre il rischio di un eccessivo misticismo.
Il Vangelo secondo Matteo è un film prettamente autobiografico: la Vergine Maria è interpretata da Susanna Pasolini (la vera madre del regista) che viene respinta dalla solitudine
del suo stesso figlio, ed emette un urlo muto sotto la croce dove è crocifissa la carne della
sua carne. Inoltre Cristo scambia uno sguardo intenerito, ma non motivat,o con il pastore
interpretato da Ninetto Davoli (che diverrà in seguito attore-feticcio di P.). In un’intervista
Pasolini dirà che il Cristo nudo e crocifisso gli provocava un effetto di attrazione, cioè che
l’idea della crocifissione provocava in lui un tumulto erotico.
Nel film troviamo due brani contrapposti:
• LA PASSIONE DI BACH: musica alta _ colta
• LA MISSA LUBA-ZAIRESE: messa popolare dei diseredati _ umile.
La melodia usata al momento della presentazione di Gesù ai Re Magi, e ripresa in seguito
nella scena del battesimo, è lo spiritual Sometimes I feel like a motherless child (A volte mi
sento come un bambino senza madre).
IV lezione: Uccellacci e uccellini (1966):
Uccellacci e uccellini è il film che segue l’episodio La Ricotta ed appartiene già alla fase
del cinema d’èlite. Quest’ultimo si rivolge a una “categoria” non ancora esistente, che non
è tuttavia da identificarsi con l’elite degli intellettuali: infatti nel film il dotto dantista viene
deriso e l’autore gli fa dirigere un’orchestra inesistente, a dirne il soliloquio e vaniloquio. P.
si rispecchia nell’intellighenzia del suo tempo, ma la disprezza profondamente.
P.P.P. nel 1965 vive una crisi ideologica e politica poiché dubita dell’esistenza, e persistenza, di un pubblico nazional-popolare: secondo lui i sottoproletari stanno entrando a far
parte della borghesia e di conseguenza gli individui stanno perdendo i propri diritti, porimo
fra tutti quello a un’identità non omologata, non appiattita su schemi e modelli imposti dal
potere. L’episodio dei due sottoproletari suicidi allude, in questo senso, alla scomparsa di
quella fascia sociale. Inoltre, anche il partito comunista, che tanto aveva appoggiato, non è
più considerato come una forza alternativa che agisce sulla realtà, perché non ha più la
volontà di cambiare le cose. Si limita a incarnare un contropotere tutto sommato innocuo.
Il regista odiava la tv perché la considerava il mezzo più omologante dell’epoca. In
un’intervista disse che “la televisione è il vero fascismo che penetra in ognuno di noi e ci
rende tutti uguali”.
Questo film è considerato un apologo poiché P. preferisce simbolismi e allegorie piuttosto
che rendere espliciti i contenuti didattici del suo cinema. Effettivamente è basato sul nulla
e sull’ambiguità: è un cinema di poesia perché non conferisce certezze ma ognuno ha la
possibilità di farsi un’idea propria.
Uccellacci e uccellini è ambientato in un dopostoria (la storia è terminata) e racconta la
fiaba picaresca di due ex-sottoproletari che non si sa da dove vengono, ne dove sono diretti, e che affrontano diverse avventure. Durante il viaggio incontrano un corvo parlante,
emblema dell’ideologia, (e dell’intellettuale di sinistra, ovvero P. stesso) che non incide
sulle loro azioni e finirà per essere mangiato. P. stava lanciando un messaggio: la politica
non interpreta né fa più sue le esigenze degli individui.
Il titolo del film è riferibile all’episodio dei due frati a cui San Francesco affida la missione di
evangelizzare passerotti e falchi. Ovviamente le metafore si riferiscono all’ambito sociale e
ideologico: i passerotti sono i membri delle classi “deboli” , i proletari e i sottoproletari,
mentre la classe “forte” dei falchi è quella borghese. Nonostante il tempo e la fatica impiegati per riuscire a capire il linguaggio dei differenti volatili, e successivamente a comunicare con loro attraverso esso, i falchi continuano a mangiare i passerotti e, a loro volta, i
passerotti ad essere aggrediti dai falchi. Al motivo dello scontro tra le classi, troviamo un
richiamo in Totò che fa il prepotente con i “cinesi” (ovvero i poveri inquilini che abitano il
locale da lui affittato), ma che alla fine verrà “sottomesso” e a sua volta angariato
dall’ingegnere. P. lancia un ulteriore messaggio politico: la lotta di classe non è capita
dalla religione; la Chiesa infatti sa solo proporre una conciliazione fondata sul reciproco
amore: che è un’utopia in conflitto aperto con la realtà della natura umana e della lotta di
classe. Lo scontro tra natura e cultura è dovuto al fatto che le idee e le esigenze (anche
quelle più basse) della prima non corrispondono alla “offerta” della seconda, che quindi
non incide sulla realtà.
La musica di Ennio Morricone – alla sua prima collaborazione con il regista– costituisce una variazione sui temi preesistenti. Famosa anche la canzone dei titoli di testa che vengono cantati da Domenico Modugno.
Uccellacci e uccellini è stato definito dal regista stesso un film ideo-comico con tributi al cinema muto, in particolare a Buster Keaton e a Charlie Chaplin (citati anche attraverso
l’uso dell’accelerazione).
I nomi divertenti delle strade invece di essere dedicati a personaggi celebri sono altrettanti
epitaffi per quel sottoproletariato cui P. sta dando il suo addio. Qualche esempio: “Via Benito La Lacrima disoccupato” oppure “Via Lillo Strappalenzuola scappato di casa a 12 anni”, ecc, ecc.. La nostalgia per gli ideali traditi è individuabile anche nel canto partigiano Fischia il vento che compare insieme all’entrata in scena del corvo, e torna anche sulla folla
muta alle spalle di Totò e Ninetto che osservano lo spettacolo dei saltimbanchi (inquadratura rivolta solo ai piedi delle “partigiani” sullo sfondo).
I cartelli indicatori sono invece soltanto due: Instambul e Cuba: segno tangibile che P.P.P.
sta già guardando al terzo mondo, innocente e primitivo, e/o a quello antico.
I giovani che ballano e perdono l’autobus non sono più i buoni-malvagi di Accattone; i bulli
sono presenti soltanto nell’episodio dei frati che devono evangelizzare gli animali. La storia
di frate Ciccillo e frate Ninetto è narrata dal corvo e si colloca nel 1200: il tema (che sembra mozartiano) che ricompare durante il funerale di Togliatti si riferisce al pensiero pasoliniano per il quale la religione è l’ideologia, come rivelato dal medesimo richiamo musicale.
S. Francesco annuncia l’arrivo di un uomo con gli occhi azzurri che cambierà il mondo:
Marx. A ciò va collegato anche la via in cui vive il corvo: “Via Carl Marx numero 70 volte
7”: formula che riprende le parole di Cristo già ascoltate nel Vangelo secondo Matteo.
P. rende un ultimo omaggio al cinema neorealista, per distaccarsene definitivamente, attraverso il riferimento a:
1. FELLINI: i girovaghi della strada;
2. ROSSELLINI: Francesco giullare di Dio.
Uccellacci uccellini è uno dei film più autobiografici di P. e quello che il regista – irrazionalmente, per sua stessa ammissione – preferisce in assoluto: è una fiaba, e come tale le
incongruenze storiche non sono importanti. Nelle prime inquadrature, l’autore gioca sui
campi, forse volendo isolare i personaggi: a sinistra Totò; stacco, a destra Ninetto Davoli.
V lezione: La Ricotta (1963):
La Ricotta è un mediometraggio di 35 minuti che costituisce un episodio del film
Ro.Go.Pa.G. Il breve episodio è considerato la prova generale del futuro Il Vangelo se-
condo Matteo. E’ il primo esperimento di P. con il colore ed è una variazione sui motivi di
Accattone e Mamma Roma, proprio come un allegro lo è di un adagio.
La storia è la rappresentazione di una sacra passione in cui il regista Orson Welles (scelto
per il suo ruolo di marginalità, di irregolarità nel cinema hollywoodiano: che rinvierebbe alla
irregolarità di P. rispetto al cinema italiano corrente) rappresenta l’alter ego di P.. Questa
doppia chiave è usata dall’autore per prendere in giro se stesso, poiché Welles nella vicenda narrata vuole essere il mediatore tra manierismo (possibilità di riproduzione cinematografica) e la musica classica che fa innalzare il tono ed il valore delle immagini. Tale
uso formalistico di immagini e musica, verrà evitato da P. ne Il Vangelo.
Ne La Ricotta è presente la critica alla società borghese: nei primi due film pasoliniani la
borghesia non compariva neppure e la visione dei sottoproletari era mitizzata; questo invece, mettendola in scena, si propone come opera più dialettica, e quindi più marxista.
In questo film vengono confrontate due vite diverse:
•
•
VITA REALE: viene raccontata la messinscena della passione di un povero cristo,
Stracci;
VITA DEL CINEMA: messinscena di quadri famosi (per esempio Pontormo, Rosso
Fiorentino) con uso del colore: dunque, formalizzazione e manierismo.
P.P.P. in Accattone parlava di un povero diavolo; ne La Ricotta parla di un povero cristo, e
ne Il Vangelo secondo Matteo parlerà di Cristo stesso: è come una graduale progressione.
In questo film Stracci (emblema del terzo mondo) muore d’indigestione ma viene crocifisso
per esigenze di copione: egli recitava la parte del ladrone pentito alla destra del figlio di
Dio: è dunque un Cristo laico.
P. mette a confronto pagine musicali differenti:
1. TEMA SCARLATTIANO: tableau vivant estetizzante ma “sabotato” dalla irriverenza delle comparse;
2. TEMA DIES IRAE: pagina liturgica affidata alla fisarmonica, genuinamente popolare, autentica.
L’autore adotta per la prima volta l’uso dell’accelerazione evocativo delle comiche: sebbene metta in scena la morte di un uomo, non vuole scadere nel pietismo. Stracci viene deriso e maltrattato ma per non farci commuovere: P. trova modi espressivi per farcene distaccare.
L’idea pasoliniana di evangelizzazione laica dava fastidio: fa iniziare il film con due citazioni del Vangelo di Marco e di Giovanni, ma il film verrà comunque sequestrato. Nel contesto di una sacra rappresentazione ci sono, infatti, richiami al tema dell’omosessualità:
“Non esiste niente di nascosto che non si debba manifestare: e niente accade occultamente, ma perché si manifesti: se qualcuno ha orecchi per intendere, intenda..”
Vangelo secondo S. Marco.
Inoltre la sacralità (in senso formale e quindi vuoto) viene oltraggiata dal comportamento
degli attori: gli ex-sottoproletari sono i commedianti, mentre i borghesi sono gli spettatori.
Ne consegue un effetto di volgarità.
Il film di P. e quello di Welles alla fine coincidono: inquadrano la crocifissione per poi interromperla. La battuta finale originale diceva ”Il suo unico modo di fare la rivoluzione era
morire!”.
La Terra vista dalla luna (1967):
In questo film P.P.P. prende le distanze dalla realtà perché si riallaccia all’apologo di Uccellacci e uccellini. I protagonisti sono gli stessi, Totò e Ninetto Davoli, e la realtà è scomparsa perché la rappresentazione è ancora una volta una fiaba. Insieme a Che cosa sono
le nuvole? P. avvia una nuova fase della sua carriera di regista: capisce che per fare un
buon film deve saper far ridere e suggestionare.
La storia parla di un padre, Totò, ed un figlio, Ninetto, che provengono da un altrove e
vanno in cerca di una moglie ed una madre. L’unica donna disposta a ricoprire questo
ruolo è Assurdina, una sordomuta che, a causa della mancanza di denaro, decide di recitare la parte dell’aspirante suicida in cima al Colosseo, così da poter raggranellare – con la
complicità di Totò e Ninetto e di altri compari – un po’ di denaro in elemosina. La folla riunitasi per fermare la donna, che minaccia di gettarsi nel vuoto, è disposta ad offrire qualche soldo per aiutarla. Convintasi a non commettere il preteso “insano gesto”, la donna
scivola sulla buccia di una banana lasciata cadere da un buffo borghese (in realtà l’attrice
Laura Betti) e muore. Dopo aver versato fiumi di lacrime gli uomini tornano a casa e trovano la cena pronta. Assuntina, nonostante la morte, può continuare a svolgere i suoi doveri
di moglie e madre.
La banana funge da trait d’union per situazioni e motivi differenti:
1. L’INCONTRO TRA TOTO’ E ASSURDINA
2. MOTIVO DI MORTE PER ASSURDINA
3. ALLEGORIA DELLA BORGHESIA COLONIALISTA
La morale de La terra vista dalla luna è che essere vivi o morti è la stessa cosa: i personaggi, infatti, sembrano assimilabili a fumetti, che non possono morire. Alcuni critici hanno
individuato la ragione di quella morale nella frase detta da Totò in Uccellacci e uccellini: “I
poveracci passano da una morte all’altra”.
Che cosa sono le nuvole?:
Questo cortometraggio mette in scena una rappresentazione teatrale della vicenda di Otello. Il mondo diventa teatro (emblema del destino dell’individuo che deve recitare parti
che non sono state scritte per lui) raccontato anche dalla musica: non a caso la canzone
iniziale e finale, affidata al cantante Domenico Modugno, è tratta dal testo dell’Otello shakespeariano con l’aggiunta di musiche originali dello stesso cantante.
Questo film è pieno di frasi significative:
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Totò – Iago: “La vita è un sogno e gli ideali stanno qui (sotto le scarpe)”;
Otello: “Perché dobbiamo essere così diversi da ciò che siamo?”
Otello: “Qual’è la verità? Quella che dico io? Quella che dice la gente? O quella che
dice lui? (il burattinaio)”
Il film è permeato da un velo sottile di ottimismo: la platea interrompe la tragedia di Otello,
prima che egli uccida Desdemona accusata di tradimento.
P. però ci lascia con un interrogativo finale: “A cosa allude la discarica? Al mondo esterno?”. Lo spettatore è libero di interpretarla come vuole, la risposta non è razionale.
VI lezione: Edipo Re (1967):
Edipo Re costituisce una svolta nella produzione pasoliniana: è il primo lungometraggio a
colori caratterizzato da un numero ridotto di imperfezioni e legnosità. Il film è basato sulla
divisione in tre parti della tragedia sofoclea:
1. Nucleo: storia mitica di Edipo;
2. Prologo nel passato: ambientato a Casarsa, luogo di nascita di Pasolini;
3. Epilogo nel presente: rimanda alla vita di P.P.P. stesso
Questo è il film più autobiografico di tutta la produzione di Pasolini: proprio in esso egli deciderà di comparire fisicamente come attore, nel punto esatto in cui ha inizio la tragedia
sofoclea, come ad assumere sulle sue spalle la responsabilità di quanto fin lì filmato.
Il dramma di Sofocle viene infatti trasformato in modo personale e soggettiva: esso inizia
con la rappresentazione di una pestilenza ma soltanto quando Pasolini stesso entra in
scena inizia la vera tragedia; tutto ciò che viene rappresentato prima, è una libertà del regista che trasforma in immagini ciò che nell’opera originale era enunciato a parole. Infatti,
in questa fase della sua carriera cinematografica, P.P.P. realizza opere che fanno sempre
meno ricorso alla parola. Qui troviamo il ricorso a cartelli o ad intertitoli come nel cinema
muto: la parola ha un significato minore perché spesso ha connotazione letteraria.
La sfinge che Edipo dovrà sconfiggere per divenire il marito di Giocasta, la regina di Tebe,
sua vera madre, non gli rivolgerà una domanda sull’uomo, come nell’opera di Sofocle, ma
su lui stesso, su Edipo stesso. La voce della creatura, inoltre, è la stessa di Edipo.
Il ritorno di Edipo poeta a Bologna, infatti, è stato scelto in riferimento al luogo in cui
l’autore si era integrato meglio.
La “colpevolezza dell’innocenza” si riferisce a colui che è inconsapevole poiché rifiuta la
conoscenza. Edipo è interpretato come un intellettuale che non vuole scoprire la verità: è
un innocente che ha a portata di mano la veridicità ma si rifiuta di conoscerla.
Edipo Re viene ambientato in epoca barbarica e pre-storica (antica Grecia): l’autore reinventa l’antichità ricercata in Marocco, poiché nel terzo mondo trova un luogo ancora incontaminato di purezza. In un primo momento, il regista voleva girare il film in Romania,
ma si era accorto che questa nazione era già troppo vicina al mondo occidentale. Decide
comunque di utilizzare le musiche etniche di quel paese, che compaioni nel film in forma di
un breve coro.
Il mito viene consegnato direttamente alla storia: i paesaggi e le ambientazioni barbariche,
la popolazione marocchina, la musica di fonti eterogenee ma meno ad effetto, sono tutti
segni tangibili di una precisione quasi chirurgica. La decontestualizzazione conferisce
un’aura mitica, fuori del tempo, alla vicenda.
Il quartetto detto delle dissonanze (K435) di Mozart diviene il tema della figura materna:
indica una “dissonanza malata”, un segno di sottile malessere: la donna trasmette contemporaneamente armonia e tristezza. Successivamente a questa melodia viene associato il suono del flauto, emblema del poeta, qui incarnato dal veggente cieco Tiresia.
In questo film troviamo più richiami al mondo teatrale: tra le partecipazioni d’attore ci sono
Carmelo Bene e il creatore del Living Theatre, Julian Beck, nella parte di Tiresia stesso.
La prima parte del lungometraggio è basata sul tema dello sguardo: il bambino si copre gli
occhi per non vedere l’accoppiamento dei genitori, e spesso è adottata la soggettiva del
piccolo, come nella panoramica di circa 360° che coincide col suo primo sguardo sul mondo. Nella seconda parte, invece, Edipo si copre spesso gli occhi, e nelle soggettive il sole
copre parte della sua visuale: l’idea dell’accecamento è sempre più ricorrente, e viene accompagnata dalla volontà di non voler vedere.
Le uccisioni vengono tutte eclissate dalla luce solare perché nella tragedia greca la morte
non poteva essere rappresentata. Il protagonista diviene vittima di un furore cieco: isola gli
inseguitori e li uccide singolarmente.
Ci sono due colori con connotazioni simboliche:
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Ocra – giallo: colori dell’antichità;
Verde: colore predominante nella prima parte del film.
La tecnica pasoliniana raggiunge risultati molto più raffinati di quelli realizzati in precedenza. Usa la soggettiva libera indiretta nella scena in cui la madre tiene in braccio il figlio e
guarda verso la macchina da presa: il suo sguardo dolce si rabbuia per un attimo, è forse
una premonizione?
Fa ricorso anche alla panoramica a 360° sugli alberi: come si è detto è il primo sguardo
del bambino verso il mondo esterno. Pasolini produce, poi, uno stacco ellittico per analogia che ricorda il lancio dell’osso di 2001: Odissea nello spazio nella scena in cui il servo
porta il bambino appeso per le caviglie con l’intento di ucciderlo. I piedi sono un simbolo
sessuale. l’atto di afferrare il bambino per le caviglie, compiuto dal padre, è simbolo di castrazione. Edipo significa, infatti, piedi gonfi.
Parte della critica osservò che, in questo film, è più importante il parricidio dell’incesto,
perché quest’ultimo è considerato più “naturale” dall’autore. Pasolini risponde che l’amore
per la madre è sempre stato più latente del sentimento di amore e odio che nutriva per il
padre. Il primo corrisponde ad un rapporto privato, è metastorico poiché non incide nella
storia; il secondo invece la produce: è la lotta tra padri e figli che incide sul corso degli eventi.
Nella frase “la vita finisce dove comincia” troviamo un esplicito richiamo alla circolarità di
Uccellacci e uccellini: il paesaggio boschivo iniziale, del primo sguardo del bambino, torna
anche alla fine del film. Ne La Ricotta il poeta si definiva un feto adulto, simbolo dell’unione
perfetta tra madre e bambino.
VII lezione: Il Decameron (1971):
Il capitolo Edipo Re continua con Medea e successivamente con Porcile e Teorema (anche se in modo meno popolare, sempre più simbolico) delineandosi in modo scuro e disperato, e dedicato ad una elite che esclude il pubblico nazional-popolare. E’ una fase in
cui P.P.P. produce “cinema di complessa leggibilità”, ovvero un cinema non consumabile.
Il periodo successivo può considerarsi un ritorno al cinema popolare? In un’intervista, Pasolini racconta che durante un viaggio in Turchia decise di avvicinarsi a Boccaccio, liberando però le sue novelle da tutto ciò che di letterale, aulico e borghese le permeava: adattandole quindi per un pubblico plebeo, cui avrebbe raccontato un Decameron a sua
volta plebeo. Per riuscire nell’intento l’autore trasforma il fiorentino parlato nel dialetto napoletano, e l’ambientazione si trasferisce in Campania. E’ in quella fase che Pasolini afferma come la vecchiaia incipiente gli tolga si speranza, ma anche il peso del futuro, e
come quindi il suo atteggiamento verso la vita sia ora improntato a una inedita allegrezza
P.P.P. sceglie di ambientare i racconti a Napoli perché questa città è considerata una sacca storica: i napoletani, cioè, rimangono quelli che erano e scelgono di “lasciarsi morire”.
Hanno, infatti, una forte radice nel proprio passato: il terzo mondo viene soppiantato da un
passato remoto mitizzato in cui vengono reintrodotti i “buoni malvagi” che erano già presenti ai tempi di Accattone. Esistono dunque delle parentele tra i personaggi di questo film
e quelli de Il Decameron: il personaggio interpretato da Citti, per esempio, ed il relativo episodio-fotocopia (mentre si trova a tavola con i napoletani, si sente male e cade con la testa sul tavolo) dimostrano come Accattone abbia trovato esatte corrispondenze in questo
Medioevo mitizzato. Pasolini recupera brani del patrimonio partenopeo, per modificarli e
rielaborarli in seguito con l’aiuto di Ennio Morricone e Carpitella.
La scelta delle novelle è dovuta a due motivi principali:
SESSUALITA’ INGORDA E SFRONTATA;
MORTE RIMOSSA MA SEMPRE PRESENTE.
Il Decameron è un film recitato che svela i meccanismi della recitazione, tanto che l’autore
ammette che “questa è la prima volta che “gioca” con la realtà che scherza con se stessa”.
Il regista pretende una recitazione molto schematica per tutti i personaggi, ad eccezione di
uno: Andreuccio, ovvero Ninetto Davoli, che è considerato più una macchietta vicina
all’universo pasoliniano, che personaggio vero e proprio. Quando questi vede il sacerdote
morto esclama: “Mortacci tua quanto sei brutto!”, battuta che verrà tagliata quando il film
sarà trasmesso in tv, per una postulata mancanza di rispetto verso la Chiesa.
Questo film vince l’Orso d’Argento nel 1971, ed innesca un filone che si allontana dalle idee pasoliniane, ma che riesce a riempire le sale dei cinema. Scatena però un doppio equivoco:
1. ricerca delle sensazioni forti e dell’esibizione del sesso da parte della platea,
perché considerate qualcosa di nuovo. Per P., invece, è semplicemente la rappresentazione degli aspetti più bassi e genuini della natura;
2. eliminazione di ogni menzione alla rappresentazione del sesso da parte della
critica: per l’artista invece il sesso è importante poiché è il simbolo dell’innocenza e
dell’inconsapevolezza.
Il film viene denunciato e tagliato ma, malgrado ciò, viene comunque assimilato dal pubblico benpensante, e soprattutto dal potere: Pasolini finisce quindi per fare suo malgrado il
gioco di una società che si nasconde dietro agli equivoci: l’oscenità non è tale se “appartiene” a un’opera riconosciuta “dell’ingegno”, alta; Il Decameron verrà a sua volta definito
opera d’arte, e quindi proiettato e accettato.
L’autore propone un’estetica diversa con l’intento di rinnegare l’omologazione: per contrastare i volti televisivi utilizza quelli naturali, imperfetti, dei contadini; per contestare una
certa idea di corporeità ufficiale ed “estetica”, espone corpi grassi e sfatti, etc.
Quest’opera cinematografica è considerata una ribellione del regista contro la realtà del
suo tempo, ovvero quello che lui stesso definiva l’”universo orrendo”: P.P.P. propone una
realtà sempre più fittizia ed inventata. I racconti di Canterbury, film successivo, sarà considerato una variazione del film tratto da Boccaccio, dove verrà ugualmente esaltata la
gioia di vivere e della sessualità, ma in cui sarà sempre incombente la presenza della
morte. Nel Decameron gli episodi che dimostrano meglio la presenza di questi caratteri
sono:
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Episodio di Elisabetta: i fratelli scoprono il suo amore segreto per un lavoratore
sicilano e lo uccidono seppellendolo in giardino. La ragazza taglia la testa al cadavere e la nasconde in un vaso della sua camera;
Episodio di Andreuccio: (Ninetto Davoli) viene derubato da una bella ragazza.
Cacciato dalla casa viene costretto da due briganti a recuperare un costoso anello
nella tomba di un cardinale appena defunto. Alla fine ne diverrà l’unico possessore;
Episodio di Ciappelletto: (Citti) un delinquente, mandato a compiere una nuova
malefatta, si sente male e non confessa peccati commessi, ma si attribuisce invece
virtù mai possedute, dinanzi a un importante sacerdote della città: grazie a ciò, verrà considerato santo. Questa vicenda rimanda a Sant’Infame, una storia che P. aveva scritto in precedenza: vi prevale l’idea di una santità labile, in cui le circostanze (oltre al detto e al non-detto) possono rendere santa una persona.
Il Decameron fa uso del colore ed è ricco di riferimenti pittorici: Piero della Francesca, i
Nordici (in particolare Bosch e Bruegel) e la terla de Il giudizio universale di Giotto, dove
però, nella rilettura pasoliniana, al centro della composizione c’è la Madonna (Silvana Magano) e non Cristo giudice. L’importanza di tale modifica è da ricercarsi nel valore che il
ruolo e la figura della madre rivestivano nella personalità dell’artista.
Le due parti film sono incorniciate da due episodi chiave:
1. Episodio di Ciappelletto: comprende tre novelle di Boccaccio;
2. Episodio dell’allievo di Giotto: interpretato dallo stesso Pasolini e comprendente
quattro novelle
Il richiamo al cinema muto è sempre costante: per esempio troviamo la citazione di un film
di Keaton nel quale crolla la facciata d’una casa ma il protagonista viene salvato dall’anta
della porta; Chaplin e a sua volta alluso negli allegri saltelli di Andreuccio.
Il Decameron costituisce un diverso orientamento rispetto a Il Vangelo secondo Matteo: se
lì veniva negata l’idea dell’aldilà, di una vita ultraterrena, adesso Pasolini propone una
“sopravvivenza” dei morti che risorgono o comunicano in sogno con i vivi (anche soltanto
per consigliare dei numeri da giocare).
La conclusione è sospesa: l’allievo di Giotto dirà: “Perché realizzare un’opera d’arte
quand’è così bello sognarla?”. Il legame regista-pittore, insomma, è sempre presente.
VIII lezione: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975):
Pasolini abiura alla “trilogia della vita” (pur non pentendosi di averla fatta) e passa al capitolo più cupo della sua carriera cinematografica: Salò o le 120 giornate di Sodoma. Egli odia sempre più ferocemente il presente perché, se prima era compensato (e sostituito, almeno idealmente) da un passato incontaminato, o almeno dalla possibilità di rievocarlo,
adesso non è più possibile: la degenerazione dei nuovi giovani omologati ha infatti assunto un valore retroattivo.
In un’intervista dirà: “La società è omologata ed i giovani non hanno altri valori oltre quelli
borghesi. I ragazzi del sottoproletariato italiano (de Il Decameron e de Il fiore delle mille e
una notte) erano degli imbecilli costretti ad essere adorabili e falsamente innocenti. (...) La
vita è un mucchio di insignificanti rovine. (...)L’abiura mi conduce all’adattamento. (Salò?)”.
L’ultimo film pasoliniano si dispiega su un piano di metafore più complesse di quelle della
trilogia, aprendo la strada a letture diverse:
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Autobiografismo: odio e disprezzo per i nuovi giovani;
Politica (Scritti corsari): risentimento sempre più esasperato verso la società.
Salò parla soprattutto della relazione che si instaura tra individuo e potere: vuole mostrare
come quest’ultimo può trasformare gli individui in oggetti, “reificati” secondo una visione
marxista. Questo film è basato sui rapporti anali e sodomiti tra individui diversi, considerati
una forma meccanica non riproduttiva, che non può assecondare la procreazione. In questo senso sterili, fini a sé stessi, portatori di morte invece che di vita.
L’opera cinematografica è imperniata dalla ricorrenza del numero quattro:
1. Gironi: Antinferno- Girone delle manie- Girone della merda- Girone del sangue;
2. Categorie dei personaggi: vittime- carnefici/soldati- collaborazionisti- servitù;
3. Personaggi maschili: presidente di banca- alto prelato- presidente di tribunaleduca;
4. Personaggi femminili: tre megere + una pianista.
5. Fonti del potere: bancario- ecclesiastico- giudiziario- aristocratico.
Salò non viene però ambientato nel post-Illuminismo o durante la Rivoluzione Francese
poiché P.P.P. nega l’evoluzione della storia: la sua visione ciclica, di eterno ritorno, presuppone una perdita della memoria che si proietta sull’oggetto. La società quindi, si sviluppa ma non progredisce: sviluppo, quindi, ma nessun progresso inteso come avanzamento. La villa infatti, è vista come il luogo dell’esercizio dell’anarchia da parte di un potere
che coltiva il proprio capriccio, il proprio arbitrio assoluto, trasformandolo in regola.
Il sesso diviene metafora del potere, proprio come il titolo di un “fondo” pasoliniano: la trilogia della vita è concepita come un compenso alla repressione, quindi come una denuncia di tutto il presente.
Molto importante il richiamo al teatro di rivista (visibile nell’abbigliamento sfarzoso della
megera che scende le scale, e nella scelta delle pagine musicali) per due motivi:
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Potere vuoto: “bolla di sapone blindata” _ umorismo vuoto;
Umorismo fuori posto: non fa ridere gli spettatori: le battute servono piuttosto a
disorientarlo.
Le canzoni sono tutte d’epoca tranne il brano finale suonato dalla pianista: la musica che
affianca ed è solidale con l’orrore è destinata a soccombere. Non appena terminata la
performance, infatti, la pianista si butterà dalla finestra.
L’ultimo lungometraggio pasoliniano venne sequestrato non per la violenza delle immagini,
ma per la scelta di accostare l’inno della Brigata alpina Iulia (Sul ponte di Perati) ad una
scena di violenza sessuale.
Pasolini, a questo punto, diventa apocalittico: la morte del 2 novembre all’Idroscalo di Ostia non fa che suggellare una caduta in un abisso senza speranza. Salò è un film disperato, ma non è – né avrebbe inteso essere – il suo testamento. Non c’è nessun presentimento di morte, tanto che l’autore sta già pensando ai suoi due film successivi: Bestemmia
che avrebbe dovuto parlare della maledizione di San Paolo ( in cui la Chiesa sarebbe stata
vista come azienda e non come religione); e Porno-Teo-Kolossal, in cui P.P.P. avrebbe
voluto esprimere la sua idea sempre più piratesca del sesso. Per l’autore la pornografia va
lasciata libera: “gli artisti devono fare opere estremistiche contrarie anche al nuovo potere”, aveva detto.
Salò esce a Parigi tre settimane dopo la sua morte: il regista non aveva potuto completare
la post-produzione. Realizza comunque un “film maledetto”: la violenza della rappresentazione mostra il suo odio per la tolleranza al potere, e la sua intenzione di andare oltre i limiti, così che il potere stesso non possa tollerarlo, assimilarlo, renderlo inoffensivo. Riallacciandosi alla tecnica di un combattimento orientale secondo la quale se un avversario
sta per colpirti, devi lasciarlo fare, il potere dominante asseconda la forza d’urto degli irregolari per lasciarli crollare sotto la spinta del loro stesso peso: Pasolini intende rendere
questa tattica impraticabile, e per far questo va oltre la misura, va verso l’insostenibile.
Nella sceneggiatura originale erano presenti tre possibili finali:
1. Ballo dei due soldati: finale mantenuto;
2. Danza di tutta la troupe tranne che dei quattro potenti: sconfinamento metafilmico e svelamento della finzione;
3. Bandiere rosse: finale ideologico: Pasolini nega il potere salvifico delle ideologie e
della religione.
Il finale del film è lugubre e pessimistico: i due soldati che ballano non simboleggiano una
rinascita, ma soltanto – verosimilmente – l’indifferenza alla violenza che li circonda.