1 - Dalla società delle case operaie (1852)

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1 - Dalla società delle case operaie (1852)
1 - Dalla società
delle case operaie (1852)
alle prime case IACP (1907-1945)
Alessandra Bargetto
A. Bargetto
Dalla società delle case operaie (1852) alle prime case IACP (1907-1945)
Il dibattito pubblico sulle case operaie si apre a Torino intorno al 1850, sollevato dal grave problema del
risanamento delle abitazioni in vari sobborghi della città.
Sono gli anni in cui nascono le Commissioni di sanità (nel 1848 in Inghilterra il Public Health Act) che
attraverso varie disposizioni legislative hanno il compito di combattere sporcizia, malattie, (come la tubercolosi) degrado, attraverso accorgimenti quali maggior soleggiamento, o corretta esposizione, evitando
l’affollamento e la promiscuità, creando aree verdi, promuovendo la costruzione di città-giardino, e coordinando con piani regionali molto estesi un programma edilizio che trasferisse gradualmente le classi
lavoratrici dalla campagna alla città.
A Torino, con l’appoggio del Comune nel 1852 viene istituita una Commissione per le Case Operaie con lo
scopo di costruire case comode, economiche, e salubri alle classi meno abbienti.
Nel 1863 si istituisce un comitato promotore per le case operaie, che fonda lo stesso anno la Società delle
Case Operaie in Torino, con l’ambizioso programma di costruire in vari punti della città piccole e grandi
abitazioni; nel 1864 la Società acquista un vasto appezzamento di terreno situato nell’isolato tra le attuali
vie Gioberti, Legnano, e San Secondo, e viene iniziata la costruzione dell’edificio, ma nel 1866, dopo la
realizzazione di 70 camere, insorgono difficoltà economiche per il mancato pagamento delle azioni e il
sussidio non concesso dal Comune per terminare la costruzione; la Società viene sciolta nel 1869.
Tra il 1888 e il 1902 viene costruito dalla Martini e Rossi, su progetto dell’ingegner Camillo Riccio, un gruppo di tre edifici di case economiche, situate all’esterno della cinta daziaria tra le attuali via A. Pigafetta e G.
da Terrazzano, in prossimità della via Caboto.
L’ingegner Riccio predilige la tipologia dei fabbricati isolati, allineati perpendicolarmente alla strada e separati da cortili longitudinali; gli edifici sono a quattro piani fuori terra, ognuno con due corpi scala che
servono due alloggi per piano; gli alloggi sono esclusivamente di due o tre vani, con servizi igienici interni,
talora abbinati; al piano strada, sulle testate si trovano negozi e botteghe.
La struttura è quella tradizionale, a murature portanti e orizzontamenti voltati, copertura in legno e manto
in coppi; le facciate, indifferenziate su quattro prospetti, con alternanza di finestre e balconi, presentano
una decorazione sobria con cornici marcapiano intorno alle finestrature, e bugne graffite all’ultimo piano.
La società La Cooperante, fondata nel 1888, inizia nel 1889 la costruzione di 34 case operaie su un terreno
di circa 3.500 mq., situato all’estremità di corso Regina Margherita e corso Lungo Po (borgo Meschino).
Gli edifici, su progetto dell’ingegner Carlo Losio, sono impostati secondo rigorosi criteri igienici: ogni abitazione, di due piani fuori terra fa corpo a sé ed è completamente indipendente e libera anche nei confronti
delle abitazioni adiacenti; ogni socio (della Società) possiede due camere, una cantina e un orto; gli alloggi
con una soluzione a duplex, sono dotati di gabinetto con latrina, ubicato nel pianerottolo del primo piano,
in modo da essere utilizzabile anche dal piano terreno; ricerca di soleggiamento ed esposizione uguale per
tutti gli alloggi; piano terra rialzato per consentire l’aerazione delle cantine, e, sottotetto non utilizzabile
per motivi igienici, accessibile dall’esterno a mezzo di abbaino. Le abitazioni sono aggregate a gruppi di
otto-dieci in corpi di fabbrica in serie lineare, con composizione unitaria delle fronti esterne.
Il medesimo tema delle unità abitative aggregabili in linea, è sviluppato in una “casa modello” realizzata
dall’ingegner R. Bianchini nel 1900, in via Mottarone 9, alla barriera di Milano; l’edificio si configura come
casa operaia per due famiglie, con scala interna comune, cantine, due alloggi identici di due stanze e servizi
(latrine, camerino per lavatoio e doccia accessibili dal balcone sul fronte verso cortile), e rappresenta il
prototipo di una tipologia in seguito ampiamente diffusa in questa zona di Torino.
Nel 1901 viene delineato il progetto Pagliani-Bianchini, per la costruzione di case economiche a nuclei
separati, secondo una tipologia “a villino”, come aggregazione in serie lineare di edifici costituiti da gruppi
di servizio dei corpi scala e delle latrine.
La proposta delle “case Bianchini” viene sviluppata e concretizzata alcuni anni dopo nel gruppo di abitazioni costruito nella zona della cascina Crocetta dalla Società torinese per abitazioni popolari (Stap); tale
società, costituita nel giugno del 1902 con lo scopo di costruire o acquistare abitazioni popolari igieniche
ed economiche, acquista grazie a contributi del Comune e di sottoscrizioni private, un terreno di 4.600
metri quadrati, compreso tra via M. Polo, A. Pigafetta, Dego e G. da Verrazzano, nei pressi delle già citate
case della Martini e Rossi.
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Il complesso, progettato da Pietro Fenoglio e Marco Vicari e realizzato tra il 1903 e il 1907, è costituito
da tre caseggiati in linea, alloggi da due a quattro vani, non più di due alloggi per piano, con distanza tra
gli edifici inferiore all’altezza delle fronti; la superficie libera del lotto, superiore alla superficie coperta, è
alberata. Questo complesso, che si può forse considerare la prima importante realizzazione torinese nel
campo dell’edilizia popolare, venne a rappresentare, per l’aspetto distributivo, urbanistico e costruttivo
l’esempio per le future realizzazioni dell’Istituto per le case popolari, oltre ad essere uno dei primi esempi
di edilizia multipiano economica impostata su criteri igienici (in alternativa alla tipologia di casetta isolata
o in linea).
Nel 1910 viene realizzato dalla Stap il complesso (due edifici in linea) di via Lucerna, sempre su progetto di
Fenoglio e Vicari nel quale si ripete l’impostazione architettonica e urbanistica di via M. Polo.
Il problema della casa popolare fu in Italia per la prima volta legalmente considerato dalla legge Luzzati del
31 maggio 1903, con lo scopo di promuovere, coordinare, incoraggiare le precedenti iniziative di privati o
autorità non statali
A Torino l’Istituto per le Case Popolari inizia la propria attività nel 1907 con un patrimonio costituito da
contributi del Comune, delle Opere Pie San Paolo e della Cassa di Risparmio.
Tra il 1908 e il 1912 vengono realizzati otto complessi, tutti della dimensione di un isolato urbano; a causa
dell’alto costo di edificazione vengono realizzate costruzioni intensive a grandi caseggiati di quattro o cinque piani fuori terra. Le aree, generalmente molto periferiche, vengono donate dal Comune.
I singoli interventi sono di dimensioni contenute, da un minimo di 370 camere ad un massimo di 860
camere; sono costituiti da due o più edifici in linea che possono essere collegati fra loro da altri corpi di
fabbrica di due piani a completamento dei fronti verso via.
Lo schema di distribuzione è a blocchi compatti con molte scale, secondo il criterio igienico di ridurre allo
stretto indispensabile i vani e i passaggi comuni per evitare occasioni di promiscuità; gli alloggi sono di taglio medio-piccolo, con tipologie da una tre stanze relativamente grandi; sono tutti dotati di un gabinetto,
e tutte le camere sono fornite di una propria canna di esalazione; ogni edificio, con sottotetto aerato e copertura a falde, presenta un piano cantinato aerato dall’esterno e talora il piano terra è destinato a negozi.
Le tecniche costruttive adottate sono costanti per tutti gli interventi; muri esterni e muro centrale di spina
portanti, orizzontamenti voltati e struttura del tetto in legno. La decorazione esterna è variata: si tratta di
semplici disegni realizzati con la tecnica del graffito, di bugne spruzzate, di modanature in cemento che
presentano sempre caratteristiche di stabilità e duratura.
L’area del lotto è completamente recintata, e gli accessi carrai sono controllati dalle portinerie; i corpi scala
si aprono tutti verso l’interno, sugli spazi comuni; questi talora sono cortili alberati, o, più spesso, semplici
spazi liberi la cui utilizzazione è riservata agli abitanti dei complessi e nei quali spesso vengono edificati
locali per lavatoi o altri servizi comuni.
Nell’immediato dopoguerra vengono costruiti in prevalenza complessi di tipo semintensivo, con piccoli
corpi di fabbrica a tre-quattro piani fuori terra (alcuni gruppi, come quello di corso Dante, corso Lecce e
via Cigna sono stati successivamente sopraelevati), entro ampi cortili con buone caratteristiche di illuminazione e ventilazione: ogni lotto è recintato sul perimetro, e dall’ingresso, per viali interni, si accede alle
varie palazzine disposte sui bordi dell’isolato; l’area centrale è sistemata a giardino con le aiuole e alberi
d’alto fusto. Per diminuire al minimo gli effetti di promiscuità da agglomerato ogni palazzina contiene due
o al massimo tre corpi-scala; gli alloggi, sempre due per ogni piano, hanno da due a quattro camere, e vi
compaiono vani di disimpegno che danno accesso, dall’interno dell’alloggio, ai servizi igienici; pochi sono i
negozi situati al piano terreno. Le facciate, sempre intonacate, sono decorate con semplici motivi a graffito,
con disegni variati anche tra gli stessi fabbricati del medesimo gruppo.
Tra il 1924 e il 1930 i complessi sono realizzati secondo svariate conformazioni e differenti tipologie di alloggio: mentre infatti sino alla fine degli anni venti i destinatari degli alloggi Iacp erano in prevalenza operai
e impiegati, con l’affermarsi del corporativismo fascista e l’accesso alla casa “popolare” di specifiche e diffe-
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renziate categorie socio-economiche, gli interventi si diversificarono nei tipi e nei modi costruttivi. Alcuni
quartieri rispecchiano ancora la tipologia del “casermone” del primo periodo, come le case destinate alle
Tramvie Municipali, mentre altre anticipano l’uso di nuovi tipi e tecniche costruttive, e propongono una
maggiore dotazione di servizi sia per gli alloggi, che presentano maggiore articolazione interna e tagli fino
a cinque, sei camere, sia per il quartiere, con la dotazione dei primi impianti di riscaldamento centralizzati
e di servizi sociali, come asili nido, locali per lavatoio e stenditoi comuni.
La principale variazione strutturale, rispetto alle costruzioni precedenti, è l’introduzione del solaio piano,
con putrelle in ferro e tabelloni laterizi in luogo delle volte in muratura.
Nel patrimonio edificato tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40 vi è un netta prevalenza di costruzioni con tipologie di casette singole o allineate a due piani a uno o due alloggi (Città Giardino e il Villaggio
Rurale).
Tali tipologie, proprie delle case operaie di fine ‘800, concretizzano il revival dell’utopia urbanistica città/
campagna.
Di questo periodo sono anche le case ancor più popolari, cioè quelle destinate a famiglie con reddito inferiore alle vecchie 600 lire; sono costituite da alloggi di una camera con cucina e servizio, di complessivamente mq 25: l’esempio tipico è il complesso in via Biglieri, le cosiddette “Bulgare”, costituito da due corpi
centrali in linea, cui sono collegati per mezzo delle scale i blocchi isolati comprendenti ciascuno due alloggi
per piano. Dalle facciate scompare ogni traccia di decorazione, e gli elementi costruttivi sono ridotti all’essenziale: le facciate esterne sono intonacate, e gli effetti compositivi sono ricercati nel taglio delle logge o
nei volumi dei balconi (rifiniti con parapetti di muro intonacato e copertine di cemento).
La completa ristrutturazione delle Bulgare, effettuata nel 1977-’78, ha profondamente modificato la struttura tipologica degli alloggi, cambiando l’immagine con l’inserimento di infissi con avvolgibile in luogo
delle persiane, il tamponamento vetrato delle scale e l’uso di ferro e vetro per i parapetti dei balconi.
Le tecniche costruttive del periodo 1940-’45 sono sempre quelle di una struttura continua portante perimetrale e longitudinale centrale (nel caso di manica doppia), su cui poggiano solai piani, e copertura con
struttura lignea; le murature portanti passano gradualmente da strutture piene a strutture a cassa vuota
(con pilastri pieni sempre di mattoni); per gli orizzontamenti la struttura di putrelle e tabelloni laterizi viene
sostituita, verso la fine degli anni ’30, da solai in calcestruzzo armato alleggeriti con blocchi in laterizio.
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