Il bambino soldato che tagliava le mani ai nemici

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Il bambino soldato che tagliava le mani ai nemici
Il bambino soldato che tagliava le mani ai nemici
Arruolato a 10 anni in Sierra Leone ora vive alla periferia di Roma Ha 24 anni e
nessun amico: “Hanno paura che torni ad essere violento”. Di Niccolò Zancan
per la Stampa.
14-10-2013
La maestra di vita di Papani Kamara si chiamava Adama «cut hands». Adama taglia mani. Tutti i bambini la
conoscevano così. «Ci ripeteva sempre che i machete dovevano essere ben affilati. Era importante. Perché
se il taglio era netto, le persone svenivano. Altrimenti il polso o il gomito rimanevano attaccati al resto del
braccio con un lembo di carne. Era terribile. Perché in questi casi le persone si trasformavano, urlavano,
rantolavano per terra, facevano pipì...». Quando era soltanto un bambino di dieci anni e viveva nel villaggio
di Baomahun, Sierra Leone, Papani Kamara era un soldato del Ruf, il Rebel United Front. «Passavano con
la siringa già carica. Ci drogavano qui sul braccio. Eravamo un mucchio di cani ammassati. Ci usavano
come attrezzi per i loro affari personali. Prima di incendiare le case del villaggio, il nostro comandante
faceva uscire tutti. Costringeva il figlio a violentare la madre. Dovevamo assistere. Io sentivo le grida e
guardavo il fucile affondare nel collo del ragazzo.
Sapevo che se avessero rifiutato sarebbero morti, ma poi morivano ammazzati lo stesso. Quando i bambini
disobbedivano, venivano freddati all'istante. Lo facevano per educarci...».
Questi pezzi di incubo messi in fila piangendo, durante mesi di colloqui, sono raccolti nella relazione
psicologica su Papani Kamara. Come nota a fondo pagina, la sua psicoterapeuta si è premurata di
spiegare: «Si tratta di informazioni confermate da osservatori internazionali. L'uso di droghe, arrivate
attraverso il contrabbando di diamanti, era uno degli strumenti usati dal Ruf per portare avanti le sue
missioni. Nel corso della guerra, arriveranno a marchiare i bambini come capi di bestiame».
Oggi l'ex soldato bambino ha 24 anni. Soffre di depressione e sindrome post traumatica grave. Vive in
miseria alla periferia di Roma. Ha una stanza dentro un palazzo occupato con altre cento persone
emarginate dalla crisi. Sono italiani, cinesi e africani come lui, fanno i turni per le pulizie e per la guardia al
cancello. Papani è scappato dalla guerra in Sierra Leone. Ha vissuto sette anni in Costa d'Avorio, prima di
attraversare il deserto del Niger su un camion carico di sigarette di contrabbando. Poi è scappato anche
dalla guerra in Libia. «Volevano arruolarmi nell'esercito di Gheddafi - racconta - mi sfottevano: "Voi della
Sierra Leone siete bravi a combattere..."». Papani è sbarcato a Lampedusa durante l'emergenza Nord
Africa, nella primavera 2011. Era convinto di trovare requie, ma il suo passato lo insegue anche qui. «Tutti
hanno paura di me. Pensano che io possa cambiare all'improvviso, tornare a fare qualcosa di male. Ma non
è così. Vorrei dirlo al mondo: era per colpa della droga se ho fatto quelle cose. Quando me la iniettavano
non capivo più niente, non riconoscevo più nessuno, neppure i miei genitori».
Papà Momodou era il capo villaggio, sua madre si chiamava Fatou. Sono stati sterminati in un incendio
appiccato con la benzina. Tutto brucia ancora nella vita di Papani. «Un piccolo lavoro - dice fissando il
muro - ecco quello che sogno. Imparare un mestiere. Stare sereno, potermi fare una famiglia». Ma questi
due anni italiani sono stati un fallimento. «Per me le cose peggiorano di giorno in giorno. Non lavoro, non
studio. Per poter iscrivermi a un corso di italiano mi hanno chiesto 100 euro». Il tempo vuoto è spaventoso,
specie quando sei circondato dai tuoi ricordi. Sulla parete c'è una madonna. Decoder e cavi posticci. Un
piccolo cagnetto guaisce alla catena dal palazzo di fronte.
Papani racconta per la prima volta quello che lo fa piangere a dirotto: «Adama mi ha chiesto di tagliare le
mani del mio migliore amico. Io mi sono rifiutato. Guardavo Moses negli occhi, tremava e mi supplicava.
Allora Adama mi ha picchiato come non aveva mai fatto prima, mi ha puntato il coltello alla gola... Mi ha
detto di tagliare come mi aveva insegnato...». Questo preciso momento, nel rapporto psicologico su Papani
Kamara, viene definito la scelta impossibile: «Una delle tecniche di tortura più atroci, utilizzata come rito di
passaggio e prova di affiliazione ai Ruf. L'obbligo di tagliare il braccio di Moses mirava a separarlo
definitivamente dal suo passato e dai suoi affetti...». Papani piange su un piumino rosa recuperato nella
spazzatura. Non ha mai avuto una fidanzata. Nel telefonino tiene immagini di donne nude che ispirano i
suoi sogni. Dice che certe sere beve cinque birre perché è l'unico modo in cui riesce a non pensare: «Fino
a quando non chiederò perdono a Moses per quello che gli ho fatto, non potrò stare in pace...». E quando
gli effetti alcolici virano da ritmi reggae a suoni molto più spaventosi, tutto si mischia in un gigantesco
caleidoscopio dell'orrore: le urla di Moses che si contorce a terra, un gommone nero carico di persone che
pregano e vomitavano in mezzo al mare, le rivolte nel Cara di Bari, le notti da solo alla stazione Termini.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari di Papani Kamara sta per scadere. Non ha soldi per
rinnovarlo. Il ministero dell'Interno non ha ritenuto di concedergli lo status di rifugiato politico: «Non si
rinvengono ipotesi di rischio di danno grave in caso di rimpatrio». Papani si asciuga gli occhi. Per un attimo
prova a immaginare un colpo di fortuna. Sa fare il piastrellista, accetterebbe qualsiasi lavoro. «Purtroppo
non ho trovato persone amichevoli qui in Italia, mi dispiace per quello che sto dicendo. Ho cercato amici,
qualcuno con cui parlare, ma non ho trovato nessuno». In verità tre donne hanno cercato di prendersi cura
di lui. Una psicologa, un'avvocatessa e una maestra di italiano che si chiama Cecilia. Quest'ultima ha
scritto una lettera che Papani Kamara tiene sempre in tasca come un passaporto: «Ti conosco da poco ma
sento che sei un bravo ragazzo...». Nessuno l'aveva mai detto prima all'ex soldato bambino.
La guerra dei diamanti
Il Ruf (Revolutionary United Front) è stato l'esercito ribelle che dal 1990 al 2002 ha combattuto una guerra
civile nel tentativo di prendere il potere in Sierra Leone. Nato con l'intento di «ridare prosperità al popolo»,
si è trasformato in uno dei più sanguinosi gruppi armati della storia. L'impiego di soldati bambini e l'uso
sistematico di torture ebbero fama internazionale. Le crudeltà del Ruf sono state raccontate nel film «Blood
Diamond» del 2006 con protagonista Leonardo Di Caprio. Diamanti insanguinati. La principale fonte di
reddito del Paese. Alla fine: più di 43 mila vittime, più di 2000 bambini spariti e un esercito di reduci che ha
visto in faccia l'orrore.
Tratto da: La Stampa