Tra Mosca e Riad: il grande gioco del petrolio di Edward L. Morse

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Tra Mosca e Riad: il grande gioco del petrolio di Edward L. Morse
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Le vie del Petrolio
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Tra Mosca e Riad:
il grande gioco
del petrolio
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Dopo l’11 set- Dopo avere sostenuto, in un famotembre, il pro- so articolo su Foreign Affairs, che
blema della sicu- la geopolitica del petrolio è ormai
rezza dei riforni- caratterizzata da una competizione
menti energetici per il dominio fra Arabia Saudita e
è tornato al cen- Russia, l’esperto americano sviluptro dell’attenzio- pa questo tema, sottolineando che
ne nella maggior marginalizzare l’Arabia Saudita
parte dei Paesi sarà tutt’altro che semplice. Il granimportatori
di de gioco del petrolio, fra piani
petrolio. Le ra- americani sull’Iraq, scelte politiche
gioni sono molte. e industriali della Russia, potere di
Da un lato, si po- riserva di Riad.
ne la questione della stabilità a medio termine dell’Arabia
Saudita e di altri Paesi mediorientali produttori di petrolio (inclusa la volontà dei loro governi di aumentare la produzione
per far fronte alla domanda mondiale prevista). Dall’altro c’è il
rischio, per i maggiori paesi industrializzati (Stati Uniti inclusi), di avere una politica estera dipendente e resa vulnerabile
dalle pretese dei più importanti produttori di petrolio del
Medio Oriente.
Parallelamente, la rinascita dell’industria petrolifera russa,
che ha coinciso con lo sviluppo delle risorse petrolifere in alcuni degli altri Stati nati dalla dissoluzione dell’Unione
Sovietica, specialmente nel bacino del Caspio, ha permesso a
Mosca di ridefinire i propri rapporti con gli Stati Uniti e
l’Unione europea. La Russia ha cominciato a offrire sicurezza
energetica a lungo termine, proponendosi come partner più affidabile dell’Arabia Saudita e di altri produttori mediorientali.
Ci si può chiedere, allora, fino a che punto siano cambiate le
grandi linee che definiscono la geopolitica energetica. È davvero plausibile parlare di cambiamenti tali da configurare un
assetto globalmente diverso delle vie del petrolio?
Quanto crescerà la domanda? La questione della sicurez-
za dei rifornimenti è spesso legata all’analisi delle dimensioni
e della distribuzione delle riserve petrolifere globali, così come
dell’andamento della crescita e della distribuzione della domanda futura. Mentre la questione della sostenibilità dello
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sfruttamento a lungo termine delle riserve globali di idrocarburi continua a essere controversa, la discussione attuale si focalizza sul ritmo di crescita della domanda globale e sui fabbisogni di capitale per la costruzione di una capacità produttiva
di petrolio in grado di far fronte alla crescita prevista.
Il modello di riferimento per la domanda globale è regolarmente fornito dall’Agenzia internazionale dell’energia di Parigi
e dall’Energy Information Administration del Dipartimento
americano per l’energia. Le loro stime sono abbastanza simili.
Le ultime proiezioni prevedono un aumento della domanda
globale di petrolio da 74,9 milioni di barili al giorno del 1999
a 118,6 milioni nel 2020. La maggior parte dei 44,5 milioni di
barili al giorno di aumento deriva dal raddoppio della domanda nei Paesi in via di sviluppo (da 25,5 a 50,7 milioni di barili), con una concentrazione della crescita in Asia. Si prevede
che le economie di Cina, India, Sud Corea e di altri Paesi asiatici in via di sviluppo crescano a una media annua del 3,7%
(contro una crescita globale del 2,2%) e con volumi totali di
fabbisogno energetico in aumento da 13,3 a 28,8 milioni di ba3
rili di petrolio al giorno.
L’unica maniera per soddisfare una crescita della domanda di
tale portata è quella di aumentare drasticamente gli investimenti e la capacità produttiva di petrolio dei Paesi del Medio
Oriente che fanno parte dell’Opec. Il modello di riferimento –
tenendo conto della crescita prevista di produzione nei Paesi
non Opec – indica che l’Opec dovrebbe aumentare la propria
capacità produttiva da 31,4 milioni di barili al giorno del
2000, a 60,2 milioni di barili al giorno nel 2002. Si prevede
che la sola Arabia Saudita aumenterà la propria capacità da
9,4 a 22,1 milioni di barili al giorno, volume corrispondente
alla produzione totale dell’Opec durante gran parte dell’ultimo
decennio.
Saranno in grado i Paesi dell’Opec di fare gli investimenti necessari? e saranno disposti a farli? Un aumento così radicale
della dipendenza dalle forniture dell’Opec, del Medio Oriente
e, soprattutto, dell’Arabia Saudita, non è rischioso in termini di
vulnerabilità economica e politica? La dipendenza di Cina e di
altri importatori asiatici dal Medio Oriente implica che i governi dell’area Asia-Pacifico graviteranno politicamente verso
il Medio Oriente?
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Edward L. Morse è executive adviser della Hess
4 Energy Trading Company. Dal 1979 al 1981 è
stato sottosegretario USA
alle Politiche energetiche.
Tutte queste domande, dopo l’11 settembre, sono state esaminate attentamente. La Cina e l’India, i due mercati emergenti
più grandi, hanno cominciato a programmare lo stoccaggio di
scorte strategiche da utilizzare per salvaguardare le proprie
economie dall’impatto provocato da un’eventuale interruzione
delle forniture. La Cina è andata oltre: si è anche chiesta se sia
politicamente sensato fare affidamento su forniture di petrolio
trasportato via mare, a grandi distanze, dal Medio Oriente. Ha
quindi accelerato la ricerca su come sostituire il petrolio con il
gas naturale e altri combustibili, per migliorare l’efficienza
dell’utilizzazione dell’energia e per trovare in futuro fornitori di
gas e petrolio più vicini. Per non dover dipendere esclusivamente dal greggio mediorientale, la Cina sta guardando alla
Russia e ai Paesi dell’Asia centrale.
Ma queste proiezioni standard non permettono conclusioni sicure. Può succedere, infatti, che la domanda non si materializzi con il ritmo previsto. Il modello di riferimento, per esempio,
prevede che la domanda globale cresca del 2,2% all’anno:
3,3% nei Paesi in via di sviluppo, 3,2% nell’Europa dell’Est e
nell’ex Unione Sovietica e 1,1% nel mondo industrializzato
(0,6% in Europa e 0,7% in Giappone). Cosa succederebbe se
la domanda non crescesse con questi ritmi? I segnali di possibile rallentamento sono numerosi. Sembra persino che sia improbabile che la domanda raggiunga il livello previsto nell’ipotesi minima (106 milioni di barili al giorno). La storia recente
ci dice che la domanda globale di petrolio è cresciuta negli ultimi sette anni meno dell’1%. Casi concreti forniscono altre
prove in questo senso. In Cina e in Russia, per esempio, la domanda petrolifera non è cresciuta alla velocità prevista o è persino diminuita negli ultimi anni, anche se, in ambedue i casi,
la crescita economica annua si è mantenuta fra il 7 e il 12%.
Sembra che la ragione stia nel fatto che in questi Paesi l’eliminazione dei sussidi sui prezzi e l’offerta al consumatore di prodotti petroliferi ai livelli del mercato mondiale (al netto delle
tasse) abbiano portato a un uso molto più efficiente dell’energia. Questo tipo di risposta l’hanno data non solo i consumatori con le loro scelte, ma anche gli investitori, che hanno appunto attuato investimenti nel risparmio energetico.
A questo punto è plausibile chiedersi quali sarebbero le conseguenze, in termini geopolitici, se la domanda crescesse meno
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del previsto, per esempio l’1,1% all’anno e non il 2,2% del modello di riferimento. Una delle conseguenze più importanti sarebbe uno scenario geopolitico radicalmente diverso. I mercati
sarebbero molto più deboli. Alla paura dei Paesi importatori di
una eccessiva dipendenza dal Medio Oriente si sostituirebbe
l’insicurezza dei Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente
e degli altri Paesi Opec, la loro paura di minori entrate e di perdita dei mercati, e quindi di influenza sullo scacchiere mondiale. In questo scenario, infatti, i produttori di petrolio non Opec,
e in particolare la Russia e gli altri Stati dell’ex Unione
Sovietica, così come i produttori di petrolio dell’Africa occidentale, sarebbero quasi certamente capaci di soddisfare la maggior parte dell’aumento della domanda globale.
Il potere di riserva dell’Arabia Saudita. Non c’è dubbio
che l’Arabia Saudita sia stata, nell’ultimo quarto di secolo, il
cardine del sistema petrolifero globale, ed è probabile che possa mantenere questo ruolo ancora per un certo tempo.
L’influenza internazionale dell’Arabia Saudita non dipende solo dalla dimensione delle sue risorse petrolifere, ma dal modo 5
in cui tali risorse vengono utilizzate per rafforzare il suo ruolo
di potenza globale. Con i suoi 261,8 miliardi di barili, l’Arabia
Saudita possiede il 24,9% delle risorse di petrolio mondiali conosciute. Il Paese detiene anche il 30% della capacità produttiva dell’Opec e ha la capacità di gran lunga maggiore al mondo – circa 10 milioni di barili al giorno quando la Russia, il secondo produttore, ne produce 7,4.
La posizione dominante detenuta dall’Arabia Saudita è dovuta anche alla capacità produttiva di riserva. Per più di un decennio, la politica governativa dell’Arabia Saudita è stata
quella di usare la capacità produttiva di riserva come chiave
di volta della propria politica petrolifera, il che le ha dato la
possibilità di raggiungere alcuni fondamentali obiettivi politici. Capacità produttiva di riserva significa avere abbastanza
capacità produttiva da potere rimpiazzare, da sola, le esportazioni di ogni altro grande singolo produttore che venisse a
mancare sui mercati mondiali. Una eventualità che può dipendere da cause accidentali (una lotta politica interna), o volute, come la decisione di Bagdad di generare tensioni sul
mercato internazionale.
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Dato che l’Arabia Saudita è l’unico produttore di petrolio in
grado di mantenere una grande capacità di riserva, essa è in
grado di esercitare un’enorme influenza sui mercati petroliferi.
Da sola può, nel breve termine, impedire che i prezzi salgano
troppo o troppo rapidamente, mettendo a rischio la crescita
economica globale. Così facendo, il Paese protegge i suoi principali mercati e nello stesso tempo le sue entrate. Grazie a questo potere, l’Arabia Saudita ha una posizione chiave in termini
di salute complessiva dell’economia mondiale. Il fatto che essa sia in grado di impedire un rialzo del prezzo del petrolio significa evidentemente che altri governi – preoccupati per l’andamento dell’economia mondiale, il livello di inflazione e il potenziale di crescita economica – dipendano da quanto assennatamente l’Arabia Saudita esercita questo ruolo.
La capacità di riserva è utile anche per altri scopi, dal momento che il potere di impedire l’aumento dei prezzi è anche il potere di diminuirli. Si tratta di uno strumento politico cruciale
per il regno saudita. Il fatto che altri Paesi sappiano che se sfidano la quota di mercato dell’Arabia Saudita, essa può decidere di aprire i rubinetti del petrolio e far scendere sia i prezzi che
le entrate degli sfidanti, spiega in che modo l’Arabia Saudita sia
in grado di mantenere la disciplina del mercato. Questo potere
esiste sia all’interno che al di fuori dell’Opec, dove il regno è
ugualmente in grado di sfidare produttori indipendenti che cerchino di guadagnare quote di mercato più alte a spese
dell’Arabia Saudita. La storia dell’uso dell’“arma del petrolio”
da parte dei sauditi dà a tutti gli altri la certezza tangibile che
il regno non esiterebbe a tenere i prezzi bassi – talora bassissimi – pur di proteggere la propria posizione sul mercato petrolifero. I sauditi hanno optato per strategie basate sulla quota di
mercato nel 1985, nel 1989 e nel 1997, la prima e l’ultima volta con effetti devastanti per gli altri produttori, dal momento che
i prezzi sono crollati a 10 dollari il barile o meno.
Al di sopra di questo elemento chiave della politica saudita del
petrolio ci sono altri moventi politici, alcuni in contraddizione
con altri: a) mantenere la competitività internazionale tenendo
i prezzi al di sotto di 30 dollari il barile; b) assicurare le entrate del regno tenendo i prezzi superiori a 22 dollari al barile,
puntando su una produzione di almeno 8 milioni di barili al
giorno; c) proteggere il ruolo del regno quale primo fornitore
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mondiale; d) salvaguardare l’impegno di Washington per l’integrità sovrana dell’Arabia Saudita rimanendo il fornitore numero uno del mercato americano, fornendo il combustibile all’apparato militare americano e assicurando che i prezzi della benzina siano contenuti; e) favorire la crescita economica globale
attraverso la stabilità e il contenimento dei prezzi; f) usare il
petrolio per promuovere obiettivi di politica estera verso i
Paesi islamici destinando petrolio sovvenzionato o sostegni finanziari a istituzioni islamiche e governi come quelli di
Bahrain, Pakistan e Afghanistan.
Dopo l’11 settembre questa posizione dell’Arabia Saudita è stata messa realmente in discussione? E come? Un fattore cruciale è il riesame dei legami fra Arabia Saudita e Stati Uniti, che
si è aperto sia a Riad che a Washington. Un processo che era già
cominciato prima dell’11 settembre, date le divergenze con
Washington su come mettere fine al conflitto fra israeliani e palestinesi. L’importanza dei legami fra i due Paesi ha finora prevalso su drastici cambiamenti. Il regno saudita ha riaffermato
l’importanza di Washington per la propria sicurezza, ma ha anche preso notevoli distanze dagli Stati Uniti su questioni cru- 7
ciali. Ha continuato, da una parte, a impegnarsi per rimanere il
fornitore numero uno del mercato americano, confermando il
proprio interesse a mantenere prezzi contenuti e a non usare
l’“arma del petrolio” contro nessun Paese, imponendo l’embargo o trattenendo l’immissione del proprio petrolio sul mercato.
Parallelamente, Riad ha assunto un atteggiamento cauto e quasi ossessivo nei confronti della Russia. Mentre pubblicamente
si afferma che i legami fra la Russia e l’Arabia Saudita sono
buoni e che i due Paesi stanno cooperando sui mercati petroliferi, in realtà Riad sta regolando la propria produzione sulla
crescita di produzione russa, così da garantire che il regno rimanga il principale produttore mondiale. Per questo, l’Arabia
Saudita è anche pronta a contrastare qualsiasi acquisto russo
di quote di mercato che vada contro i suoi interessi.
Il processo di riesame successivo all’11 settembre – per quel
che riguarda la posizione saudita – rimane quindi, almeno in
parte, un puro esercizio intellettuale. Non è detto comunque
che non emergano nuovi scenari, che possano mettere più concretamente in discussione la posizione dell’Arabia Saudita e la
geopolitica del petrolio.
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La sfida russa. Il Paese che ha tratto maggiori vantaggi dal
cambiamento del quadro geopolitico è stato la Russia, dove sia
il governo che le società petrolifere hanno tratto profitto dalla
capacità di produzione petrolifera in rapida crescita. Il momento è stato estremamente vantaggioso per Mosca, visto che l’11
settembre è arrivato proprio quando la produzione russa era aumentata, per due anni consecutivi, di circa 500.000 barili (con
un aumento analogo previsto per almeno un altro anno).
Per il governo russo, l’offerta di maggiore sicurezza nei rifornimenti, per Europa e Stati Uniti, è stata perfettamente coerente
all’obiettivo di una più piena integrazione nel sistema economico e di sicurezza occidentale. Proponendosi come un’alternativa alle forniture provenienti dai Paesi del Medio Oriente,
Mosca è anche riuscita a superare, nei rapporti con
Washington, la tendenza a un gioco a somma zero fra i rispettivi interessi nel Caspio. Più in generale, il post 11 settembre ha
accelerato il riavvicinamento Russia-Occidente. Non è casuale il fatto che Mosca sia diventata membro a pieno titolo del
gruppo del G8, e nemmeno che il G8 abbia ora un gruppo di lavoro sull’energia (e che la prossima riunione del G8 si tenga
nella capitale russa). Il G8 rappresenta simbolicamente il centro del sistema di sicurezza energetica, che associa i maggiori
Paesi occidentali nell’Agenzia Internazionale dell’Energia, con
i loro meccanismi di condivisione del petrolio e di riserve strategiche petrolifere.
La svolta dell’industria petrolifera russa preoccupa enormemente l’Arabia Saudita e l’Opec. Esistono ancora tesi scettiche
sulla capacità del settore petrolifero russo di aumentare la propria produzione, come è avvenuto negli ultimi due anni, di
500.000 barili al giorno. Ma risulta anche sempre più evidente che le risorse russe di petrolio sono molto maggiori di quanto si credesse; appare anche sempre più chiaro che le compagnie russe hanno i mezzi per trasformare il cash flow in nuovi
investimenti. La preoccupazione nei confronti della Russia va
messa in rapporto alla questione dell’aumento possibile della
domanda. Quali saranno le conseguenze per l’Arabia Saudita
se la domanda continuerà ad aumentare a livello globale di
600.000 barili al giorno (come è accaduto dal 1995 in poi), se
la Russia e i produttori del Caspio aumenteranno la loro capacità produttiva allo stesso ritmo e se anche altri produttori Opec
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(come l’Algeria e la Nigeria) aumenteranno la propria capacità
di offerta?
La Russia potrebbe costituire per l’Opec una sfida potenziale
anche se l’andamento della domanda fosse diverso da quello
appena ipotizzato. E questo perché le compagnie russe e il governo russo hanno la capacità di trasformare quello che è stato fino a oggi, essenzialmente, un fornitore europeo in un vero
e proprio attore globale sul mercato petrolifero. In realtà, questo sta già avvenendo.
La Russia è stata a lungo un fornitore di petrolio e di gas naturale solo per l’Europa (dove è il maggiore fornitore di entrambi). Eppure, per volume, la Russia è già diventata il secondo
più grande venditore di petrolio nel mondo, con 3,6 milioni di
barili di greggio durante la prima metà dell’anno in corso, contro i 6 milioni esportati dall’Arabia Saudita. La ragione per cui
le vendite russe si sono limitate all’Europa dipende dal fatto
che la Russia non ha sbocchi di produzione petrolifera altrove
e che non ha porti con fondali profondi. Le esportazioni russe
si sono quindi limitate a destinazioni non troppo lontane; da un
punto di vista economico, non è redditizio trasportare il petro- 9
lio dall’Europa ad altre zone, come l’emisfero occidentale, in
navi di piccole dimensioni.
Ma già a partire dalla primavera del 2002, le compagnie russe
hanno cominciato a esportare maggiori quantità di petrolio verso gli Stati Uniti. La Yukos, per esempio, trasporta il petrolio
fino al Mediterraneo e poi carica il greggio in una super petroliera che può trasportare 2 milioni di barili (a costi molto più
bassi) fino all’Atlantico. Altre compagnie stanno facendo la
stessa cosa, per cui le esportazioni russe verso gli Stati Uniti
sono ora aumentate da praticamente zero a 250.000 barili al
giorno. Fra breve, il livello delle forniture russe agli Stati Uniti
potrebbe raggiungere 1 milione di barili al giorno: un decimo
del mercato americano di importazione. Le compagnie russe
hanno tutto l’interesse a muoversi in questo senso, visto che la
loro produzione in rapido sviluppo si rivolge a un mercato,
l’Europa, dove la domanda è rimasta stagnante per un decennio. Se continuassero ad aumentare le vendite nel solo mercato europeo, i prezzi si ridurrebbero. Stornando parte della produzione dal mercato europeo, e destinandolo agli Stati Uniti, le
compagnie russe proteggono quindi la loro posizione di merca-
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to nell’area di maggior vendita (il mercato europeo) e al tempo
stesso sviluppano altrove livelli di vendite crescenti.
È chiaro che le compagnie russe devono a questo punto trovare il modo per trasportare il petrolio da porti a fondali profondi. Si sta parlando di costruire vari oleodotti fino al
Mediterraneo, uno dei quali arriverebbe, attraverso la
Bulgaria, al porto greco di Alexandropolis. Quando avranno a
disposizione strutture portuali in acque profonde, le imprese
russe potranno vendere maggiori quantitativi di petrolio nell’emisfero occidentale, a condizioni più favorevoli: la Russia sarà
pronta a diventare un fornitore globale.
Al petrolio russo mancano, naturalmente, gli sbocchi asiatici.
Ma anche questo gap sarà presto colmato. Esistono i due importanti progetti di Sakhalin, gestiti dalla ExxonMobil e dalla
Royal Dutch Shell. Questi progetti, che si basano sul gas naturale, avranno a metà del decennio una produzione consistente
di petrolio e di condensati, raggiungendo probabilmente i
400.000-500.000 barili al giorno. Ma il salto di qualità più significativo si avrà quando si comincerà a estrarre dalle riserve
russe ancora inesplorate della Siberia centrale e orientale. La
Yukos ha proposto di costruire un oleodotto da 600.000 barili
al giorno che raggiunga la Cina, mentre la compagnia statale
Transneft, che vuole conservare il proprio monopolio logistico,
ha progettato un oleodotto da 1 milione di barili che, partendo
da Angarsk, in Siberia orientale, arrivi a terminali vicini a
Nakhodka, sulla costa dell’estremo oriente russo. Non si tratta,
insomma, di vedere se verrà costruito un oleodotto verso l’Asia,
ma di capire quale sarà costruito per primo. Al momento, sembra che l’oleodotto della Transneft abbia più chance. Ciò fornirebbe alla Russia, entro il 2006-2007, un porto ad acque profonde, agibile tutto l’anno, rivolto verso i mercati asiatici.
Nell’arco di un decennio, in conclusione, la Russia diventerà
un fornitore globale di petrolio della stessa statura dell’Arabia
Saudita e con capacità produttive maggiori di qualsiasi altro
produttore del Medio Oriente in grado di esportare a livello
globale, come l’Iran, l’Iraq, Abu Dhabi e il Kuwait. I produttori russi ricaveranno da questo sviluppo molteplici vantaggi, fra
cui quello di guadagnare posizioni come leader naturale dei
mercati di greggio in Europa e Asia, dove il petrolio russo potrebbe coprire la domanda di base.
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Detto questo, mancherà alla Russia una caratteristica essenziale dell’Arabia Saudita. Solo l’Arabia Saudita, infatti, continuerà ad avere una capacità produttiva di riserva, con tutto il
potere che ciò comporta. In ogni caso, una Russia che, insieme
ai Paesi del Caspio, produca 10 milioni di barili al giorno e ne
esporti i due terzi diventerà un attore essenziale della geopolitica del petrolio.
Il petrolio iracheno senza Saddam. Nel momento in cui
scrivo appare evidente che il governo americano ha deciso di
liberarsi del regime iracheno. Ma l’Iraq non è un Paese qualsiasi e tanto meno un Paese produttore di petrolio qualsiasi.
Possiede infatti risorse petrolifere pari a quelle dell’Arabia
Saudita. Con una capacità di produzione che alla vigilia della
guerra del Golfo del 1991 raggiungeva i 3,6 milioni di barili al
giorno, l’Iraq ha le potenzialità per raddoppiare la sua capacità produttiva. A impedirlo sono la mancanza di investimenti di
capitale nelle infrastrutture e la mancanza di sistemi di trasporto per portare il greggio da questo Paese – quasi privo di
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sbocchi al mare – fino ai mercati globali.
L’Iraq, quindi, costituisce una incognita e una minaccia potenziale alla posizione di dominio dell’Arabia Saudita ancora più
grave della Russia. Questo è tanto più vero se partiamo dall’assunto che un Iraq post Saddam, quale che sia il nuovo governo, si sentirà incoraggiato a produrre più petrolio possibile,
a qualunque livello di prezzi.
La geopolitica del petrolio, applicata all’Iraq, comporta una
doppia domanda: a) quali potranno essere le conseguenze, sui
mercati del petrolio, di una guerra contro l’Iraq che abbia come obiettivo quello di cambiare il regime politico del paese? b)
quali potranno essere le conseguenze di uno sforzo illimitato da
parte di un nuovo regime politico iracheno per massimizzare la
produzione petrolifera?
Rispondere oggi è impossibile, viste le incertezze sulla premessa: il quando, il come e gli esiti di una guerra. In caso di
conflitto, in ogni caso, si avrà prima un aumento dei prezzi e
poi una fase di grosso assestamento del mercato, con tutte le
implicazioni geopolitiche dovute all’emergere di un competitore maggiore dell’Arabia Saudita.
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Quanto è nuova la mappa geopolitica? Se una nuova
geopolitica del petrolio esiste, è ancora in fase di sviluppo. I
suoi elementi fondanti potrebbero essere così riassunti:
• l’esistenza di nuove preoccupazioni – negli Stati Uniti, in
Europa e nei mercati asiatici emergenti, specialmente Cina e
India – circa il livello di dipendenza petrolifera dai Paesi islamici del Medio Oriente – con l’apertura di un esteso dibattito
su come ridurre la dipendenza;
• la rinascita dell’industria petrolifera russa: tale dato si consoliderà nella misura in cui aumenteranno gli investimenti interni e cresceranno le joint ventures fra imprese russe e imprese internazionali, sia in Russia che all’estero. La Russia ed i
Paesi del Caspio potrebbero costituire insieme il più importante fornitore aggiuntivo dei mercati globali per un decennio e
forse più a lungo;
• l’aspirazione politica della Russia, della Cina e degli Stati
Uniti di ridefinire gli schieramenti energetici e creare nuove
intese di mercato.
Per un cambiamento radicale del sistema geopolitico attuale,
tuttavia, questi elementi non bastano. In assenza di cambiamenti traumatici in Arabia Saudita, resterà infatti difficilissimo
marginalizzare il più grande produttore mondiale di petrolio e
il detentore delle maggiori risorse di base. L’Arabia Saudita
non rinuncerà probabilmente mai alla sua quota di mercato.
Un’inversione di rotta potrebbe avvenire solo nel caso in cui il
regime saudita venisse deposto e se una significativa parte del
petrolio saudita non entrasse più nel mercato mondiale per un
lungo periodo. Per quanto un evento del genere sia improbabile, è vero che tutte le volte che c’è stata una rivoluzione in un
paese produttore di petrolio si è avuta una caduta della capacità produttiva.
L’esempio più recente è quello dell’Iran, che prima della rivoluzione produceva 6,5 milioni di barili al giorno e che da allora non è stato più in grado nemmeno di produrre 4 milioni di
barili. Ma il potenziale evento scatenante può anche essere diverso da una rivoluzione, e avere segno opposto. Il regno saudita potrebbe ad esempio decidere di accelerare lo sviluppo
delle sue risorse petrolifere, cosa che potrebbe fare da solo o
con l’aiuto di investimenti di compagnie internazionali.
Un’Arabia Saudita che producesse 20 milioni di barili al gior-
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no, con o senza investitori stranieri, farebbe una enorme differenza per la geopolitica dell’energia.
Un altro cambiamento di fondo potrebbe derivare da una decisione degli Stati Uniti e di altri Paesi importatori di petrolio di
creare una propria comunità di interessi, limitando l’accesso a
tale comunità ai produttori esterni che, com’è il caso
dell’Arabia Saudita, non permettono investimenti reciproci nei
loro settori petroliferi. Nella prospettiva odierna, una scelta di
questo genere appare altamente improbabile; ma nella geopolitica dell’energia post 11 settembre vi sono elementi che vanno in realtà in questa direzione.
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