POSTFAZIONE di Rüdiger Safranski

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POSTFAZIONE di Rüdiger Safranski
POSTFAZIONE
di
Rüdiger Safranski
Cees Nooteboom scrisse il romanzo Philip e gli altri nel
1954, a vent’anni, quando, come racconta egli stesso,
aveva visto ancora poco del mondo. Alla sua uscita il
libro fece scalpore per la sua giovanile freschezza e per il
suo romanticismo che prescindevano completamente
dalla tradizione realistica della letteratura nederlandese.
Si sprigionava da questo libro una magia che, evidentemente, agiva fino a una piccola cittadina del sudovest della Germania, Rottweil. Ero ancora giovane
anch’io – correva l’anno 1962 e frequentavo ancora le
scuole – quando in una piccola libreria mi imbattei in
quest’opera meravigliosa, intitolata nella traduzione di
allora Das Paradies ist nebenan, “Il paradiso è qui
accanto”. Subito ebbi la sensazione di non aver trovato
io un libro, ma che un libro avesse trovato me. Così del
resto dev’essere, per un’esperienza di lettura che ha la
forza del destino. Questo romanzo divenne il mio personale libro di culto. Trasmisi il contagio ai miei amici,
e ogni volta che mi innamoravo avevano inizio nuove
letture ad alta voce.
E. T. A. Hoffmann ha detto una volta che, dei libri
che amiamo, ci piace credere “che il buon Dio li abbia
fatti crescere come i funghi”. Questi stessi libri ti divorano a tal punto da volersi immaginare che anche l’autore
sia scomparso dentro essi. Io, in ogni caso, non seppi più
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nulla di Nooteboom per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Così lo diedi per morto. Non fa nulla, pensai, un
libro del genere vale l’opera di una vita.
Un giorno del 1988 mia moglie, a cui avevo letto
ad alta voce il Paradies, mi disse: “Ma lo sai che Nooteboom è ancora vivo? Stasera fa una lettura in libreria!” Nel frattempo erano usciti in Germania Rituali e
Le montagne dei Paesi Bassi, ma io non me n’ero
accorto. Mi affrettai dunque alla lettura pubblica, e al
termine della serata porsi all’autore il mio vecchio, consunto esemplare del Paradies perché lo firmasse. Lui
allora estrasse dalla borsa la mia biografia di Schopenhauer: l’aveva appena comprata nella libreria, naturalmente senza conoscermi. Quella sera ebbe inizio la
nostra amicizia nella realtà, dopo essere esistita – da
parte mia – già da tanti anni nell’immaginazione.
Che libro è mai questo, il cui magico effetto a
distanza ha fondato la nostra amicizia?
Un libro che racconta i viaggi in autostop di Philip
attraverso l’Europa, i suoi incontri con persone strane
mentre è alla ricerca di una ragazza dal volto cinese che
non ha mai visto e che conosce soltanto attraverso i racconti di un monaco che ha lasciato il convento. Alla
fine la troverà, ma solo per perderla. Un libro romantico, che ha scelto come epigrafe le parole di Paul Eluard
“Io sogno di sognare”. La narrazione viene qui presentata come l’arte di ritardare il risveglio. Trionfa l’assolutismo della poesia. Così la ragazza cinese racconta,
all’interno del racconto del monaco Maventer, all’interno del racconto di Philip, all’interno del racconto del
giovane Nooteboom... così, dunque, separata da una
triplice protezione dalla realtà esterna alla narrazione,
racconta le sue storie e nel frattempo disegna un cerchio
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nella sabbia, uno spazio incantato in cui “un’insopportabile frenesia s’impossessava del paesaggio e le cose
prendevano ad animarsi e a vivere con lei – insopportabile”. Per il monaco smonacato Maventer questo è
troppo: spezza il cerchio magico e la ragazza cinese non
può far altro che gridargli dietro: “Hai paura perché il
tuo mondo, il tuo mondo rassicurante, nel quale puoi
riconoscere le cose, è sparito, perché ora ti accorgi che le
cose si ricreano in ogni istante, e vivono. Voi pensate
sempre che il mondo reale sia il vostro, ma non è vero, è
il mio che è reale, è la vita che si cela dietro la realtà
immediata e visibile, una vita tangibile e vibrante – e
quello che vedi tu, quello che vedete voialtri è morto.
Morto.”
Una decisa dichiarazione di fede nella forza magica
della poesia che nelle successive narrazioni di Cees
Nooteboom non si ritroverà più espressa nello stesso
modo. La nostalgia, il desiderio di scomparire nelle
proprie immagini diventano in seguito ironia, un’ironia
attraverso la quale realtà e poesia si relativizzano reciprocamente. Si potrebbe dire che il destino del romanticismo storico si sia compiuto ancora una volta nel
moderno autore Nooteboom: l’oscillazione tra la
Sehnsucht, la nostalgia romantica, e l’altrettanto
romantica Ironie.
“Nel momento in cui dò a ciò che è usuale un
aspetto misterioso, lo rendo romantico”, ha detto Novalis, svelando così il segreto di fabbrica di tutto il romanticismo. Il romanticismo è innamorato del misterioso e
del meraviglioso, ma sa anche che mistero e meraviglia
non devono essere trovati, ma inventati. L’ironia è la
consapevolezza di inventare quando, ingenuamente,
crediamo invece di avere trovato qualcosa.
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Il narratore di Philip e gli altri si rapporta ancora
all’alternativa trovare/inventare non con ironia, ma con
malinconia. Vorrebbe che la magia risiedesse veramente
nelle cose e nelle persone e non che vi venisse solamente
posta. Che la realtà dietro la realtà esista forse solo nella
nostra capacità di immaginazione è per lui una scoperta
deludente. I romantici hanno interpretato questa tensione tra realtà e immaginazione come “duplicità di tutto
l’essere”: questa è la formulazione di E. T. A. Hoffmann, il quale rappresenta spesso personaggi non del
tutto solidi e che sfuggono dunque nell’immaginario.
Spesso accade loro di innamorarsi, come accade al Philip di Nooteboom, di una donna di cui hanno solo sentito parlare o di cui hanno visto l’immagine. È un motivo romantico il modo in cui Philip viene a conoscere la
ragazza cinese attraverso i racconti dell’ex monaco
Maventer per poi cercarla nella realtà.
La “duplicità di tutto l’essere”, la tensione tra fantasia e realtà, fa della vita un esercizio di equilibrismo: in
qualsiasi momento si può precipitare. Più raramente
nell’ermetico mondo dell’immaginazione, nella follia
poetica, in un chiuso mondo fantastico: ci si lascia allora irretire nei mondi della propria forza di immaginazione e si tenta di tenere fuori la realtà, si traccia attorno
a sé un cerchio magico, un sistema immunitario che filtri ed elimini le pretese del reale.
Oppure, più spesso, si precipita nel mondo altrettanto ermetico, ma molto più angusto, di un disincantato
principio di realtà, che conosce soltanto le costrizioni
del mondo esteriore. È questa allora la ragionevole follia dell’adeguatezza alla realtà.
Gli uni si perdono nella fantasia, gli altri nella
realtà, non riuscendo a sostenere la lacerante tensione
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tra le due, quella “duplicità” che E. T. A. Hoffmann ha
così descritto: “C’è un mondo interiore e c’è la forza
spirituale di contemplarlo in piena chiarezza, nel più
perfetto splendore della vita più viva, ma rientra nella
nostra eredità terrena il fatto che proprio il mondo esterno, nel quale siamo inseriti, agisca come leva che mette
in moto tale forza. I fenomeni interiori si manifestano
all’interno del cerchio che quelli esteriori ci formano
attorno, e al di sopra del quale lo spirito riesce a elevarsi
solo in oscure e misteriose intuizioni.”
Il romanzo Philip e gli altri è segnato dalla consapevolezza di questa “duplicità”: la realtà non viene tradita
a favore della fantasia e la fantasia non viene tradita a
favore della realtà, la tensione permane e viene sostenuta con il sentimento della malinconia. Lo spirito di
questo romanzo è ancora troppo permeato da un’amabile serietà per consentire una distaccata ironia sulle
dolorose contraddizioni.
Lo stravagante zio Antonin Alexander, con il suo
zucchetto e i suoi anelli, di un oro che è soltanto rame, e
i cui rubini e smeraldi non sono che pietre rosse e verdi,
impartisce al ragazzo già alla sua prima visita una lezione che non dimenticherà mai: siamo degli dèi mal riusciti, dice, “siamo nati per diventare dèi e al tempo stesso per morire, è pazzesco... finiamo sempre per arenarci
da qualche parte”. Lo zio tace, poi, dopo un po’, si alza
e dice: “Vieni, andiamo a far festa!” E poi si celebra
una di quelle “feste” di cui il romanzo è cosparso come
da tanti fiori.
Che cos’è una “festa”? È un piccolo rituale segreto,
capace di catturare “le misteriose intuizioni” di cui parlava Hoffmann, una cosa che è al tempo stesso immensa
e tenera, sublime e semplice; un esempio è quel che
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Philip desidera: “Andare in autobus di sera tardi, o di
notte… stare seduto in riva all’acqua e camminare sotto
la pioggia, e a volte baciare qualcuno.”
La sua prima festa, dunque, Philip la celebra con lo
zio Antonin Alexander, e l’ultima con la ragazza cinese.
Al Nyhaven, a Copenaghen, i due salgono di notte su
una barca. Si danno nuovi nomi e accolgono il loro
seguito: i poeti e i compositori che amano. Alla fine si
trovano circondati da barche su cui siedono signori
all’antica, una piccola orchestra, e al chiaro di luna si
distingue qui Vivaldi con i suoi capelli rossi, là Scarlatti
con la sua parrucca argentea. Quando la musica si spegne si sentono gli uomini mormorare nelle barche, “e al
mattino, quando la città cominciava a sbiadire, le barche se ne sono andate, e noi siamo tornati lungo il
mare, verso gli uomini.”
Quanta realtà c’è in queste “feste”?
In questo primo romanzo le “feste” sono eventi che
vivono grazie alla forza della fantasia e che vengono per
così dire ritagliati nella consuetudine della quotidianità.
Il cerchio che la ragazza cinese disegna attorno a sé nella
sabbia ne è il simbolo.
L’immaginazione tuttavia può essere ancora più
potente: non solo traccia i suoi cerchi magici, ma contamina a tal punto la realtà che alla fine ciò che è stato
inventato e sognato è qualcosa che non può essere
rimesso in discussione senza provocare un crollo della
realtà stessa. Questa scoperta caratterizza le opere successive di Nooteboom. Come potrebbero le persone
reali, così si domanda in un saggio sulla letteratura
europea, “rendersi reciprocamente comprensibili i problemi della loro breve vita passeggera, se non avessero a
disposizione le parole chiave che i personaggi inventati
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offrono loro costantemente sotto forma dei loro nomi?
Si potrebbe parlare ancora del dubbio senza risvegliare
Amleto dal suo sonno? Sarebbe ancora possibile nominare certe forme di promiscuità, se Don Giovanni non
fosse pronto a fare gli straordinari giorno e notte? Non
c’è Josef K. dietro ogni giornalista di terza classe che si
sente in dovere di affermare qualcosa sulla burocrazia o
sul terrore dello Stato totalitario?”
Appunto: non possiamo separare la nostra natura
dalla nostra cultura. Ciò che viviamo e facciamo, anche
la nostra personale relazione con noi stessi, si muove
nell’orizzonte delle grandi invenzioni, i cui effetti su di
noi consideriamo il nostro stesso sé. Fino a un istante fa
abbiamo citato la mitica invenzione di Edipo per dare
forma alle nostre oscure ossessioni e ai nostri complessi,
e non sapremo mai se in assenza di Edipo ci sarebbe
mai stato il complesso di Edipo. Non solo nella psiche,
anche nella politica domina l’invenzione. Il socialismo
reale o il fascismo furono grandi, crudeli invenzioni,
miti che organizzarono e sopraffecero la realtà. Dovunque volgiamo lo sguardo non vediamo altro che immaginazioni. E in che mondo vivono, del resto, quelli che
da mattina a sera stanno seduti davanti allo schermo?
Quanto reale è la realtà nell’era della telecomunicazione? L’universo delle invenzioni si espande, ed è forse per
questo che la forza inventiva della poesia si trova ora in
una difficile posizione: perché deve affrontare una concorrenza così massiccia, per quanto mediocre.
Quando Nooteboom, nel suo libro sulla Spagna
Verso Santiago, riflette su Cervantes, rievoca l’epoca
eroica della poesia, quando era ancora regina incontrastata nel mondo delle invenzioni. Racconta di aver
voluto seguire le tracce di Cervantes e di essere però
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sempre stato ricondotto sulle tracce di Don Chisciotte,
di Dulcinea e di Sancho Panza, come se loro sì fossero
realmente vissuti, ma non Cervantes. Sta di fatto che
conosciamo l’aspetto fisico di Don Chisciotte, ma non
quello di Cervantes, e la casa di Dulcinea si può visitare
ancora oggi, con il suo arredamento conservato con
cura. “Per uno la cui vita è lo scrivere, un momento
indimenticabile. Entrare nella vera casa di qualcuno
che non è mai esistito non è cosa da poco.”
Don Chisciotte, com’è noto, si è lasciato ingannare
dalla forza dell’immaginazione: i mulini a vento li ha
presi per dei giganti. Visto però che questo cavaliere
dalla triste figura è nel frattempo divenuto più reale del
suo inventore, alla fine è comunque la forza dell’immaginazione a trionfare. Come un eroe dell’immaginazione, Don Chisciotte ha infine avuto ragione seguendo la
deviazione che passa per la storia della ricezione: certo
che erano giganti e non mulini a vento. E lui li ha vinti.
Tali pensieri sviluppa un Nooteboom che, intanto, è
pervenuto all’altro lato del romanticismo: dalla malinconia all’ironia distaccata.
*
Era giunto a questo punto del suo percorso quando l’ho
conosciuto di persona. Rimasi comunque sorpreso dal
distacco con cui parlava del suo primo libro. Un libro
“dai toni esaltati”, lo definì. Sentii il bisogno di difendere il romanzo dal suo autore. Venni poi a sapere che era
accaduto qualcosa di analogo con gli studenti di Berkeley: “Erano persino arrabbiati con me”, mi raccontò,
“ed ebbi a un tratto la sensazione che il giovane autore
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di allora sedesse in mezzo a loro e si fosse alleato con
loro contro di me, l’autore vecchio.”
Cos’era successo nel frattempo? Nooteboom mi raccontò come ebbe origine questo libro e cosa ne scaturì.
Aveva lasciato anzitempo la scuola di un convento
cattolico (per questo monaci smonacati e no si aggirano
nelle sue narrazioni, e da qui deriva anche il gioco con
la metafisica). Non era “idoneo”, come dice lui: lo
attraeva il cerimoniale, ma non il dogma. Lavorando in
una banca di Hilversum aveva guadagnato i suoi primi
soldi. Dopo un viaggio in autostop attraverso la Francia, nel 1953, scrisse di getto il primo capitolo di Philip
e gli altri. Un editore si mostrò interessato e gli versò un
anticipo. Poté così portare a termine il romanzo, che poi
suscitò in Olanda grande scalpore.
Con questo “libro innocente”, quindi, Cees Nooteboom era diventato improvvisamente uno scrittore.
Abbastanza famoso e osannato se ne andava in giro per
Amsterdam, un “dandy senza soldi”, come dice lui, in
giacca di velluto, sciarpa colorata e con un bastone da
passeggio. Ben presto però sparisce: in un certo senso
segue le orme dell’eroe del suo romanzo, per amore di
una ragazza del Suriname si imbarca infatti come semplice marinaio e naviga alla volta dei Caraibi, scrive
poesie, reportage, racconti brevi. Ma quel primo libro
dalla poesia leggera pesava molto su di lui. Provo a
capire: la pubblicazione può anche essere una forma di
espropriazione. Quel che una volta è uscito da una persona le ritorna ora incontro dall’esterno come costrizione a scrivere, e questo solo perché una volta si è cominciato a farlo. Scabroso traffico di frontiera tra letteratura
e menzogna, esercizio in proprio delle proprie personali
ossessioni. Comunque Cees Nooteboom si sarebbe libe-
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rato da questo primo romanzo scrivendone nel 1963 un
secondo, che ha abbastanza esplicitamente per tema il
disgusto per la letteratura: Il cavaliere è morto. Un
“commiato dalla letteratura”, definisce Nooteboom
questo romanzo. “Pensavo: ora è stato detto tutto, non
c’è più niente che vada”.
Ciò che non andava più era lo scrivere romanzi: per
diciassette anni. In compenso però pubblicò poesie e
soprattutto poetici libri di viaggio, un genere a cui ha
conferito nuovo splendore.
Con il suo temporaneo congedo dal romanzo aveva
creato il distacco che gli era necessario per poter tornare
al romanzo con rinnovata leggerezza, con saggezza e,
appunto, con ironia. Se tutto è stato detto, si può allora
provare a dire cosa effettivamente è stato detto. Nel
1980 uscì Rituali. In Olanda si parlò allora di un ritorno del romanziere Cees Nooteboom. Questo romanzo,
la cui arte è stata paragonata da Mary McCarthy a
quella di Nabokov, ha per lo stesso Nooteboom il significato di un opus magnum. Il progetto originale era
più ampio: comprendeva il racconto Il canto dell’essere e dell’apparire e molto altro materiale poi tralasciato. Tra il giovanile colpo di genio di Philip e gli altri e
Rituali, scritto venticinque anni dopo, c’è rottura, ma
anche continuità. La rottura si manifesta nell’atteggiamento: nostagia e malinconia non sono del tutto scomparse, ma sono trattenute. La continuità è visibile nel
tema del rituale. Il primo romanzo celebrava il rituale
della festa poetica, mentre ora si narra di come persone
dei nostri giorni estraggano dalla vita isole di significato
– proprio questo sono i rituali – e le fortifichino contro
il tempo che scorre, impetuoso o inerte, riassorbendo
tutto dentro di sé. Qualsiasi cosa accada in questo
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romanzo, rimane sempre percepibile una sorta di fruscio
di fondo dell’esistenza, dal quale si staccano le diverse
melodie della vita. Il romanzo è una sottile variazione,
eseguita con virtuosismo narrativo, sul tema: l’essere e il
nulla.
Nooteboom mi ha raccontato che una volta, nel sud
del Marocco, ai margini del deserto, fu pervaso da un
inaudito terrore i cui effetti si sono fatti sentire ancora
per molti anni: l’improvviso spavento all’idea che ci
dibattiamo in un vuoto sconfinato. Minuscoli, insignificanti, eppure ridicolmente, scandalosamente convinti
della nostra importanza.
In Philip e gli altri venivamo coinvolti in tenere e
fragili feste, potevamo partecipare per un attimo, quando cielo e terra si toccano. In Rituali invece assistiamo
al gioco dal di fuori, ci si presenta una rassegna di modi
più o meno spasmodici di attribuire significato a ciò che
non ce l’ha. Nell’“universo bello e vuoto” un personaggio si aggrappa, nemico del resto del mondo, al suo piccolo io, e lo racchiude in un rigido rituale che deve
opporre resistenza al tempo che scorre. Una ribellione
contro le pretese del mondo. Un altro vuole liberarsi
anche del proprio sé, cerca il vuoto, il Tao. Una ribellione contro la pretesa di dover essere un io. Una tazza
da tè vuota non è ancora vuota abbastanza: la rompe e
quindi si uccide. La voce narrante del romanzo appartiene a un uomo che si è riconciliato con la vita sopravvivendo a se stesso. Così si trascina nello scenario della
Amsterdam degli anni Settanta, osserva i rituali degli
altri, percepisce il vortice che emana da loro e il piacere
di resistergli. Rituali non è certo un libro “dai toni esaltati”, ma in certi punti viene da scommettere che Philip
stia per fare la sua comparsa insieme alla ragazza cinese.
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Per me, in ogni caso, questo Philip del primo
romanzo magico non è ancora morto. Lo vedo sempre
aggirarsi nell’opera di Nooteboom, soprattutto dove vi
sono giochi, rituali, feste: è uno spettro che ritorna.
Certo, è diventato più vecchio, ha la stessa età, per
esempio, del narratore nel romanzo Le montagne dei
Paesi Bassi. Con uno sforzo si era infilato nel banco di
un’aula scolastica vuota, aveva messo per iscritto il suo
racconto e ora temeva che i bambini potessero improvvisamente tornare dalle vacanze, vederlo lì seduto, contagiato dalla vecchiaia, lui “che forse già puzzava un po’
di morte”, e proprio per questo voleva vivere in un
mondo “in cui le sordide leggi dei vecchi non vigevano
ancora, dove l’esistenza non era ancora un racconto
coerente, ma un mondo in cui tutto doveva ancora
accadere”.
Il narratore esce nel cortile della scuola. Lì i bambini hanno disegnato per terra con il gesso i quadrati del
gioco del mondo. Alfonso Tiburon de Mendoza, così si
chiama il narratore, non sa più di preciso come si giochi
a quel gioco. Si mette a saltellare, sui riquadri del
mondo, con la felice sensazione di poter continuare a
tessere all’infinito una storia finita.
Sì, un giorno gli piacerebbe scrivere di Dio, mi ha
detto Nooteboom una domenica pomeriggio, mentre
stavamo accovacciati sulla sabbia del Brandeburgo e
parlavamo del suo primo romanzo. E mentre lo diceva
strizzava gli occhi, non so con certezza se per via del sole
o dell’ironia.
Traduzione di Stefano Ganci
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