Untitled - Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
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Untitled - Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
LETTERa RIVISTA DI CLINICA E CULTURA PSICOANALITICA n. 1 – 2011 I LEGAMI E L’INCONSCIO comitato scientifico Laura Bazzicalupo (Università di Salerno), Giovanni Bottiroli (Università di Bergamo), Pierre Bruno (APJL – Parigi), Fulvio Carmagnola (Università di Milano-Bicocca), Simona Forti (Università del Piemonte Orientale), Costantino Gilardi (Association Lacanienne Internationale – Torino), Patrick Landman (Espace Analytique – Paris), Paola Mieli (Après-Coup Psychoanalytic Association – New York), Isabelle Morin (APJL – Bordeaux), Michel Plon (CNRS – Paris), Gérard Pommier (Espace Analytique – Università di Strasburgo), Massimo Recalcati (Associazione Lacaniana Italiana – Milano, Università di Pavia), Rocco Ronchi (Università dell’Aquila), Pieraldo Rovatti (Università di Trieste), Sarantis Thanopulos (Spi – Napoli), Silvia Vegetti Finzi (Università di Pavia). comitato di redazione Giovanni Mierolo (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Battistina Bertino, Federico Chicchi, Giorgia Fracca, Monica Manzotti, Antonella Ramassotto, Giancarlo Ricci. segreteria di redazione Federico Chicchi (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Daniele Benini, Doriana Di Dio, Micaela Riboldi, Claudia Rubini. traduzioni Costanza Costa, Giorgia Fracca, Anna Zanon. La redazione della rivista ha sede in via Irnerio 16 – 40126 Bologna Tel. 051 0452417 [email protected] www.alidipsicoanalisi.it/rivista-lettera Tutti i diritti riservati © 2011 et al. S.r.l. via Aristide de Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: ottobre 2011 ISBN 978-88-6463-056-4 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei titolari dei diritti e dell’editore. Progetto grafico della copertina di Davide Fornari In copertina: fotografia di Giovanni Mierolo www.etal-edizioni.it Sommario 1 Editoriale 5 monografia 7 Legami psicoanalitici e politiche della psicoanalisi: un’introduzione Francesco Giglio 11 Le aporie del desiderio Massimo Recalcati 20 Il contributo della nozione lacaniana di godimento alla psicopatologia contemporanea Patrick Landman 24 Essere lacaniani oggi… malgrado Lacan Mauro Milanaccio 32 Paradossi dell’identificazione nella formazione dell’analista María Teresa Rodríguez 43 Istoriare il reale. Sulla “contemporaneità” della psicoanalisi Giancarlo Ricci 53 “Je t’aime… moi non plus”. Breve storia di una rottura. Amore e odio tra Wladimir Granoff e Jacques Lacan Michel Plon 64 Transfert analitico e transfert istituzionale Franco Lolli 73 Freud, Jung: rottura e repliche Francesco Giglio 86 Logica del sinthomo e legame sociale: Freud, Joyce, Lacan Ramón Menéndez 96 Sì, ma non qui… Angelo Villa 109 La comunità che viene Giovanni Mierolo 119 formazione dello psicoanalista 121 Il bambino del tubo Fabio Tognassi 128 Dalla benda al nastro di Moebius. Passaggio dal furor sanandi a situare l’inguaribile Mariela Castrillejo 135 psicoanalisi implicata 137 Ricominciare dal simbolico. Singolarità e flessibilità nella concezione psicoanalitica del linguaggio Giovanni Bottiroli 155 Sguardo sulla storia, puntuazione sulla formazione. Venticinque anni di Après-Coup Paola Mieli 169 recensioni Editoriale il programma di lettera lettera vuole essere una rivista di clinica e di cultura psicoanalitica. Di clinica psicoanalitica, innanzitutto, perché non c’è psicoanalisi senza clinica, senza l’incontro particolare, unico e irripetibile, con il soggetto dell’inconscio. La clinica psicoanalitica non parla se non di quest’incontro. E gli psicoanalisti sanno bene che sarà da come questo incontro prenderà forma e consistenza che si giocherà non solo il destino di una cura, ma anche quello della psicoanalisi stessa, essendo che la sua dottrina si nutre, si corregge e si aggiorna permanentemente solo attraverso l’evento di quell’incontro. Nell’attualità del nostro tempo la psicoanalisi è chiamata a una nuova sfida; non si tratta solo di difendere lo specifico della sua esperienza dalla psicologizzazione imperante e brutale del soggetto. La posta in gioco è più alta e la si può sintetizzare in un interrogativo: riuscirà la psicoanalisi a impedire la soppressione definitiva della dimensione clinica che l’affermazione delle terapie cognitivo-comportamentali e della pratica abusata dello psicofarmaco – supportate dal potere delle tecnoscienze – intendono realizzare sostituendo la nozione di “sintomo” con quella, anonima e omogenea, di “disturbo”? La psicoanalisi saprà, in altre parole, salvare l’esperienza della clinica come esperienza del soggetto nella sua singolarità? Saprà preservare il significato della crisi e della malattia cosiddetta “mentale” come occasione di trasformazione e come esperienza di verità di fronte alla tendenza della psicopatologia dsm a ridurla a un mero disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero? 2 LETTERa Il peso di questa posta in gioco esige una presa di posizione. letnon indietreggia di fronte a questo compito: prende posizione schierandosi per il sintomo – come emergenza etica della singolarità –, contro ogni sua riduzione a disturbo; per la parola e l’ascolto contro l’uso inflazionato dello psicofarmaco; per la storicità irripetibile del soggetto contro la sua riduzione a “sintomo bersaglio”; per il disagio del desiderio singolare contro ogni apologia dell’adattamento; per l’etica dell’atto contro ogni standardizzazione protocollare della terapeutica; per il transfert come incontro e apertura dell’inconscio e del desiderio contro le pratiche psicoterapiche che rafforzano l’io attraverso il potere della suggestione; per l’incomparabilità di ciascun soggetto contro la pretesa scientista di trovare una misura universale a ogni esperienza singolare; per la formazione dell’analista come permanente e fondata sull’analisi personale e sul controllo della propria pratica clinica, contro ogni programma formativo di tipo universitario che vorrebbe ridurla a un processo di accumulazione di saperi specializzati. Questa presa di posizione rifiuta la riduzione della pratica analitica a una mera tecnica psicoterapeutica perché, come già indicava Freud, non c’è tecnica, non c’è psicoterapia che possa rimpiazzare la funzione del “desiderio dell’analista” come prodotto dell’esperienza soggettiva dell’analisi; rifiuta l’ideologia ipermoderna del benessere perché non vuole ignorare che l’eccesso del godimento è ciò che attrae irresistibilmente l’umano; sceglie l’opzione della pulsione di morte come autentica posta in gioco del pensiero freudiano ponendo nella sua soggettivazione il problema etico maggiore della clinica psicoanalitica; sostiene l’irriducibilità dell’esistenza al sapere eleggendo l’esperienza analitica come luogo cruciale della formazione dell’analista in grado di confrontarsi con il reale; opta con decisione per questo reale, senza il quale non c’è clinica possibile e senza il quale l’incontro tra gli umani, compreso quello che avviene nella stanza dell’analisi, si riduce a una mera farsa. lettera vuole però essere anche una rivista di cultura psicoanalitica perché la psicoanalisi, nel suo programma freudiano, ripreso da Lacan, è molto più di una semplice terapeutica. È una teoria critica della società (irriducibile a ogni finalità ortopedica di adattamento al principio di realtà) e un’etica del desiderio (irriducibile a ogni morale valoriale e a ogni teoria naturalistica dell’agire umano). Porta nel dibattito cultutera EDITORIALE 3 rale il rapporto scabroso che lega l’umano all’eccesso, a quella pietra dello scandalo che Freud ha nominato come pulsione di morte e che Lacan ha ripreso nella categoria di godimento. Nel programma di lettera è avvertita la necessità di fare uscire la psicoanalisi dalle cantine chiuse delle varie sette psicoanalitiche. Ogni contributo di qualità sarà pubblicato e parteciperà ad alimentare una effettiva cultura psicoanalitica. Ma non solo. Noi pensiamo che la psicoanalisi non sia affatto monopolio degli psicoanalisti. Ecco perché il comitato scientifico di lettera si nutre dell’appoggio di intellettuali sensibili alla lezione della psicoanalisi e che hanno dato negli anni prova di saper utilizzare la psicoanalisi per leggere i problemi del nostro tempo. La cultura psicoanalitica è una cultura che rifiuta tutti gli oscurantismi; quelli che animano ogni forma di integralismo ideologico (compreso quello di certe istituzioni psicoanalitiche). La cultura psicoanalitica è cultura della critica permanente al conformismo delle ideologie, è pratica dell’interrogazione senza dogma, riflette la dimensione autenticamente laica della psicoanalisi. Laico deriva infatti da laien che significa colui che ignora le verità e le dottrine ultime. La cultura della psicoanalisi rigetta l’idea che il testo di Freud e di Lacan possano essere esauriti da una sola lettura. Essi sono divenuti dei classici così come li definiva Italo Calvino, ovvero testi “inesauribili” per qualunque interpretazione e per qualunque lettura. La psicoanalisi non ha come mira quella di ridurre il sociale al familismo, né di applicare le sue categorie alla dialettica più ampia della cultura, né tantomeno di restringere la cosiddetta vita psichica al regime individualistico della pura interiorità, ma quella, come si esprimeva Lacan stesso, di porre l’inconscio stesso come sociale, agganciato topologicamente al luogo dell’Altro e alle sue trasformazioni storiche e politiche. La vocazione politica è propria della cultura psicoanalitica se per politica si considera l’arte di rendere possibile l’integrazione delle differenze in una comunità che non le abolisca ma sia in grado di ospitarle. lettera aspira a dialogare con tutti coloro che si interessano della forma storica e politica dei legami sociali. E in questo dialogo essa sostiene il fattore del desiderio singolare come fattore imprescindibile a ogni possibile pratica e a ogni possibile rappresentazione teorica della comunità. Non c’è infatti polis, comunità possibile, se non c’è esperienza della singolarità, della pluralità, del molteplice e dell’incomparabile. Comunità non è mai abolizione del- 4 LETTERa la differenza, non è mai comunione, non è soppressione del molteplice, non è apologia dell’Uno. La vocazione politica della psicoanalisi agisce come un antidoto nei confronti della tendenza al rifugio totalitario che abita l’umano; agisce come un antidoto alla comunione come liberazione, all’illusione del “fare e dell’essere Uno con l’Altro”, alla violenza che anima ogni programma di scrittura (impossibile) del rapporto sessuale. Massimo Recalcati Monografia Legami psicoanalitici e politiche della psicoanalisi: un’introduzione Francesco Giglio La questione “politica”, in una prospettiva psicoanalitica, incontra sviluppi fecondi in almeno tre distinte direzioni. Un primo fertile alveo di ricerca riguarda i modi della gestione del potere e le forme dei governi; il secondo vettore d’indagine, ugualmente promettente, concerne l’ambito delle politiche delle cure analitiche e delle finalità più generali della psicoanalisi, e infine, non meno istruttiva e significativa, è l’indagine del campo dei rapporti tra i differenti orientamenti analitici raccolti in scuole e associazioni psicoanalitiche, il vaglio dei loro legami reciproci di collaborazione, competizione e conflitto, la disamina delle loro capacità e difficoltà nel sostenere l’incisione del discorso dello psicoanalista nelle società contemporanee. Per quanto attiene il capitolo della questione politica più generale, s’incontrano qui le tesi lacaniane sul capitalismo e sul potere. L’intervento fatto da Lacan a Milano nel 1972 pone la questione del “discorso del capitalista”, come perversione dei discorsi. Questo discorso, “consumando tutto sino a consunzione”, si articola in via esclusiva al godimento della dissipazione e alla pulsione di morte, operando così contro il legame sociale. “Il discorso del capitalista” è, in definitiva, un antidiscorso, incollando soggetto e oggetto di consumo si contrappone al legame in quanto tale, produce un effetto inverso rispetto a quello sostenuto dai discorsi del padrone, dell’isterica, dell’università e dell’analista, tutti e quattro tesi, a vario titolo e in differenti modi, 8 FRANCESCO GIGLIO al sostegno e alla salvaguardia del legame umano. Le tesi più innovative sul potere di Lacan sono proposte a partire dal Seminario xvii. Il rovescio della psicoanalisi, dove egli ribadisce, come già sostenuto da Freud, che il legame sociale può prodursi soltanto in perdita di godimento. La cristallizzazione dei discorsi, in particolare di quello del padrone (del capo unico) e dell’università (della burocrazia) fanno scadere l’istituzione nell’autoritarismo. L’antidoto al deterioramento totalitario coincide con la libera circolazione dei discorsi, con la loro alternanza. Circolazione e alternanza dei discorsi che, prendendo nel gioco l’insoddisfazione e la volontà di sapere dell’isterica e il desiderio dell’analista, possono dare aria nuova all’istituzione e conservare diffusa la partecipazione, il desiderio di esserci e di permanere in un legame istituzionale capace di offrire un posto particolarizzato alle diverse peculiarità soggettive. La questione della politica della cura psicoanalitica, della sua strategia e della sua tattica, costituiscono il grande capitolo degli effetti generali dell’esistenza della psicoanalisi. La politica rinvia qui alle finalità più generali della psicoanalisi, la sua strategia, la sua tattica, i modi per perseguire i suoi propri obiettivi. Sun Tzu, (autore dell’Arte della guerra, manuale di strategia militare, v secolo a.C.) dichiara: “La tattica senza strategia è il rumore che precede la sconfitta”. In generale la politica disegna gli scenari, la strategia coincide con il domandarsi perché si fa qualcosa e la tattica con il come farlo. La politica comprende dunque le riflessioni e le spiegazioni relative alle finalità stesse della cura. In generale chiama in causa la conclusione della cura, e più in particolare la formazione dell’analista. Si può includere qui il capitolo dell’orientamento politico della cura psicoanalitica, e la scelta di campo lacaniana collocata dal lato dell’inconscio e del desiderio soggettivo, del suo rinvenimento, della ripulitura e del sostegno offerto al desiderio singolare. È qui del tutto evidente il conflitto politico e la distanza siderale dalle mire di altri modelli clinici. Dal modello cognitivo comportamentale certo, ma pure dalla psicologia psicoanalitica del Sé d’ispirazione nord americana, la cui mira fondamentale corrisponde al mero adattamento del singolo al sistema sociale. Tale pratica clinica, evidentemente, non può sostenere il desiderio soggettivo, poiché, a suo pieno diritto, il desiderio è strutturalmente molto lontano dal puro e semplice adattamento del soggetto alla volontà dell’Altro. LEGAMI PSICOANALITICI… 9 La strategia coincide con il piano complessivo della conduzione dell’analisi permeato della mira al desiderio del soggetto. È questo l’ambito nel quale lo psicoanalista, nel contesto della cura, giunge a incarnare il sembiante d’oggetto. Dunque si può collocare il transfert a livello della strategia, strategia che è anche ciò che consente di osservare il piano complessivo del progetto, quasi come lo si guardasse dall’alto. Incontriamo infine il livello della tattica, dei mezzi operativi utili a perseguire la strategia, degli strumenti: possiamo allocare qui l’interpretazione. L’interpretazione fa parte della tattica della cura, implica il porsi la domanda sulla finalità dell’intervento rispetto a ciò che l’analista nell’esercizio della sua funzione dice e fa, il chiedersi se l’interpretazione è in linea con l’obiettivo strategico che si vuole raggiungere. Infine abbiamo il grande capitolo della politica incentrato sul rapporto fra psicoanalisi e società e sul rapporto fra i diversi orientamenti della psicoanalisi. Il conflitto fra Lacan e l’Associazione internazionale di psicoanalisi è parte integrante di questo ambito di ricerca che è il campo delle continue scissioni, delle rotture e delle diaspore, che sin dalle più remote origini marcano la storia del movimento psicoanalitico. Questi avvenimenti, continuamente ripetuti non incontrano chiarificazioni esaustive e, per la verità, neppure appena soddisfacenti. Si ascoltano spiegazioni della reiterata inclinazione alla frantumazione dei legami analitici che non chiariscono, solo giustificano le rotture da uno dei punti di vista in gioco con usuali, vetuste e comode giustificazioni utili per tutte le stagioni. Ciò che spesso non è preso in considerazione sono le marche dell’inconscio spesso presenti fatte di fissazioni e ripetizioni e che restano in una certa misura oscure. Proprio la scontentezza rispetto a quanto si sa su tutto questo, ha spinto l’Associazione Lacaniana Italiana a dedicare il primo convegno e il primo numero della rivista a questo tema, con la mira di coinvolgere l’intera comunità analitica a uno sforzo collettivo di riflessione che per un verso ci conduca su un terreno di comprensione più profonda e condivisa, e che dall’altra parte consenta un rafforzamento della psicoanalisi nel suo insieme per una comune opera d’incisione politica e sociale a difesa dell’inconscio e dell’umano. Se contiene del vero la critica indirizzata a Lacan secondo la quale egli, divenuto caposcuola nel 1964, guida l’istituzione psicoanalitica 10 FRANCESCO GIGLIO da lui fondata con una modalità autoritaria fatta di accentramento di tutto il potere nelle sue mani, demonizzazione di ogni rilievo critico e rigetto di qualunque seppur minimo dissenso, nonché rifiuto di sottomettersi ad alcuna regola istituzionale, incluse quelle proposte da lui stesso, è pur vero, d’altro canto, che le tesi lacaniane contengono pietre preziose, tesori che è bene fuoriescano dagli ambiti ristretti in cui sono conservati per contaminare il mondo e la psicoanalisi nel suo insieme. Tra i grandi meriti teorici e clinici di Lacan cogliamo il suo aver rifondato la psicoanalisi su rigorose basi filosofiche, la sua capacità di rigore e innovazione che gli consentono di conservare, rivitalizzare e attualizzare l’inconscio freudiano, fornendo al campo psicoanalitico strumenti formidabili per la comprensione e il trattamento delle psicosi. Lacan inoltre salvaguarda e mette in valore il concetto di soggetto in contrapposizione alle derive conformistiche e dell’adattamento sociale. Oggi valorizzare le tesi di Lacan vuole dire pure, in una certa misura, desacralizzarlo. L’inclinazione ad avvolgere nel sacro tutta la parola e tutti gli atti di Lacan nel nostro tempo ostacola la penetrazione delle tesi lacaniane nell’alveo della psicoanalisi e la rivitalizzazione dell’inconscio freudiano. Tale sacralizzazione è all’origine del conflitto fra il rifiuto e la completa scotomizzazione dell’opera di Lacan da parte di alcuni ambienti psicoanalitici e le tesi cieche dell’ortodossia lacaniana che – come ogni ortodossia – censura, edulcora, trascura e modifica tutto ciò che ne contraddice le argomentazioni. Miriamo ad andare oltre. Le aporie del desiderio Massimo Recalcati 1. Voglio seguire alla lettera la domanda che orienta la nostra sessione di apertura: cosa significa essere lacaniani oggi? Per me Lacan è stato un vero incontro, una tyché. Qualcosa che ha rotto, alterato, smosso il sonno routinario dell’automaton. Qual’era allora, al tempo del mio primo incontro con Lacan, l’automaton che governava la mia vita? Era l’automaton del discorso universitario entro il quale mi ero immerso. Ero stato fabbricato per diventare un professore di filosofia. Avevo avuto i migliori maestri. Avevo la passione per il sapere e un talento sufficiente. Insomma tutto era stato predisposto perché prendessi la via della carriera universitaria. Lacan per me è stato innanzitutto l’incontro che ha interrotto il sonno del discorso universitario e la mia carriera di filosofo. Nell’estate che avrebbe dovuto precedere la mia partenza per svolgere un dottorato in filosofia presso la Normale di Pisa o l’Università di Francoforte incontrai qualcosa che non trovava posto nel discorso universitario: l’evidenza scabrosa della mia nevrosi e della mia angoscia. Fu un incontro che non mi lasciò scampo. I miei sintomi gridavano una verità che esigeva di essere ascoltata. In quella stessa contingenza temporale incontrai il testo di Lacan. Sempre nell’estate del 1985 subito dopo la discussione della mia prima tesi di laurea. Anche quel testo, come la mia angoscia, non trovava posto nel discorso universitario. Una strana analogia univa i miei sintomi, ai miei occhi indecifrabili, al carattere cifrato degli Écrits di Lacan: non ci capivo niente! Scoprii solo più 12 MASSIMO RECALCATI tardi che ero di fronte al cuore del metodo di Lacan: lo stile esoterico del suo insegnamento – la sua “tortuosità” come egli stesso la definì – mirava ad assomigliare all’oggetto verso il quale esso si indirizzava e cioè al soggetto dell’inconscio. Ero dunque in quell’estate del 1985 preso tra due muri. Da una parte il muro dei miei sintomi depressivi e dall’altra il muro del testo di Lacan. Il mio transfert su quel testo era animato dalla sofferenza che mi provocavano quei sintomi. Ma questi muri – entrambi questi muri – mi apparivano anche come delle porte. Il mio transfert sul testo di Lacan veniva promosso dai miei sintomi: là, in quel testo indecifrabile, c’era qualcuno, un soggetto supposto sapere, che io ritenevo capace di leggere la loro lingua straniera. La filosofia lasciava il posto a un nuovo cammino. Non mi sarei ritratto di fronte alla sfida dell’angoscia, di fronte a quello “smarrimento assoluto” – come si esprime Lacan stesso nel Seminario x – che essa mi provocava. Il mio desiderio non era più di sapere la verità universale dell’ontologia, ma di sapere la verità più scabrosa e più infima del mio essere particolare. Non era più solo il lavoro del concetto in gioco, ma un lavoro sulla mia stessa esistenza. Lasciai perdere Pisa e Francoforte e iniziai la mia prima analisi. Scelsi allora il mio analista sulla base di un unico criterio: esigevo avesse fatto l’analisi con Lacan. Ai miei occhi di ragazzo questa mi pareva una garanzia alla quale non volevo rinunciare. Anche nella scelta dell’analista, così come nella scelta del mio avvenire, il transfert su Lacan continuava ad agire potentemente. 2. Cosa del testo di Lacan, del mio incontro con il testo di Lacan, con la sua parola, con il suo insegnamento mi fece dire: ebbene sì, in quella parola, in quell’insegnamento, c’è qualcosa che mi aspira, che mi chiama in modo irresistibile, che mi tocca, che mi concerne, qualcosa, insomma, che riguarda il mio essere? Quando, davvero, mi scoprii lacaniano? Voglio ricordare due frasi di Lacan che hanno avuto per me il ruolo di due vere e proprie rivelazioni. Non casualmente entrambe hanno a che fare con il tema del desiderio che a me pare essere il tema cruciale dell’insegnamento di Lacan. La prima si trova nell’ultima seduta del Seminario vii ed è divenuta una citazione abusata in ambito lacaniano e non. Essa recita così: “l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli è di aver ceduto sul proprio desiderio”. LE APORIE DEL DESIDERIO 13 Cosa incontrai di così dirompente in quella formula? Tre cose essenziali. La prima e la più immediata da intendere: il desiderio non è il peccato, non è il male da emendare, né è al di là del bene e del male, ma è ciò che fonda la Legge. Perché se non ci fosse desiderio non ci sarebbe nemmeno il senso della Legge. Perché, come Lacan spiega in differenti modi e occasioni, il desiderio e la Legge sono due facce della stessa medaglia. Questa era la prima cosa che mi colpiva e che Lacan ricollega a una verità profonda della predicazione cristiana di San Paolo. La seconda cosa che incontrai nel detto di Lacan mi pareva ancora più radicale. Esisteva una Legge del desiderio la cui infrazione, il cui “tradimento”, come affermava Lacan, anima la colpevolezza nevrotica. Questo significava che il desiderio non è mai la semplice infrazione trasgressiva della Legge – come una certa letteratura filosofica di matrice batailliana mi aveva insegnato –, ma implica l’esistenza di un’altra Legge rispetto a quella censoria e persecutoria del Super-io. Ciò che incontravo nel detto di Lacan era l’emancipazione radicale dell’etica dalla morale, dell’agire da principi valoriali dati una volta per tutte e vi vedevo soprattutto una sottrazione drastica dell’etica dal regime del sacrificio, dall’ombra spessa della colpa morale. Non è la realizzazione del desiderio che provoca la colpa in quanto evade la Legge, ma l’evasione del compito etico della sua assunzione soggettiva. Era ai miei occhi un rovesciamento decisivo della prospettiva morale che aveva caratterizzato non solo secoli di filosofia ma anche la mia vita di nevrotico. La terza cosa che mi colpiva era l’emergenza di una vera e propria etica nella quale la responsabilità radicale del soggetto – “il soggetto è sempre responsabile” afferma Lacan – si disgiungeva da ogni miraggio di padronanza. In gioco era una nuova etica dove la responsabilità si trovava confrontata direttamente con l’impossibile. Il desiderio di cui Lacan invita a farsi responsabili, al quale viene riconosciuto una funzione di imperativo etico, non può essere governato dal soggetto dell’intenzionalità; piuttosto è sempre il soggetto che si trova a essere assoggettato al desiderio. È il soggetto che è asujet. Dunque vedevo aprirsi la problematica che accompagna l’esperienza singolare dell’analisi: come possiamo essere responsabili di ciò che ci oltrepassa, come possiamo assumere, soggettivare, ciò che ci guida, ciò che ci orienta a nostra insaputa? Problematica che definisce il cuore dell’analisi e 14 MASSIMO RECALCATI che si ricongiungeva a ciò che i miei studi di giovane filosofo avevano scoperto in Nietzsche e in Sartre; la libertà umana può avvenire solo sullo sfondo di uno spossessamento fondamentale, di una assenza di autodeterminazione. Io non sono libero di istituire la mia esistenza come un ens causa sui, ma solo di fare qualcosa di tutte le determinazioni significanti che l’hanno fatta. Troviamo qui una prima fondamentale aporia del desiderio. Da una parte il desiderio, così come Lacan lo ritrae in La significazione del fallo, è “sfuggente”, “erratico”, “eccessivo”, “deviante”, dall’altra appare anche come un imperativo, un compito etico. Se cancelliamo questa aporia cancelliamo la dimensione più propria della responsabilità per la psicoanalisi e si rischia di avallare il carattere monologico della pulsione, ovvero la dimensione cinico-materialistica del godimento senza responsabilità che informa il disagio attuale della civiltà. Oggi in quella formula che fu per me rivelatrice vi leggo qualcosa di ulteriore. Col tempo mi è parso sempre più chiaro che con questa formula Lacan avanzasse anche una nuova versione dell’inconscio. L’apertura del Seminario xi riprende idealmente in modo ampio questo tema dell’assunzione etica del proprio desiderio inconscio che conclude il Seminario vii. Lacan lo precisa con grande puntualità e fermezza; l’inconscio non è solo un “sistema di segni”, il luogo del rimosso, il contenitore delle tracce mnestiche di una vita, non è solo strutturato come un linguaggio, come una memoria, non è solo “bisaccia”, l’inconscio lacaniano è innanzitutto atto, taglio, discontinuità, beanza, tyché, incontro contingente, non “bisaccia” ma “nassa”. Se infatti il desiderio inconscio esige la sua assunzione, la sua soggettivazione, questo significa che questa assunzione può naufragare, può non realizzarsi, può essere evasa. L’inconscio non è allora solo dell’ordine della ripetizione necessaria di ciò che è già stato, ma anche dell’ordine, come si esprime Lacan nel Seminario xi, del “non ancora realizzato”, dell’evento “inatteso”. Il desiderio non è solo determinato dalla matrice ripetitiva del fantasma, non è solo automaton, ma è anche trovata, sporgenza, apertura imprevista, tyché. 3. La seconda formula che mi ha fatto scoprire lacaniano e che ho trovato in Lacan quando la mia pratica di analista era già avviata da diversi anni è meno nota. Appare come una meteora in una conferenza sull’etica tenuta a Lovanio nel 1960 e rivolta ai cattolici. Essa LE APORIE DEL DESIDERIO 15 definisce in modo non scolastico il desiderio dell’analista a partire da un raro quanto preziosissimo riferimento di Lacan alla propria vita e alla propria pratica di psicoanalista. Cito: […] chi vi parla è entrato nella psicoanalisi molto tardi […] ma è nella psicoanalisi già da parecchio tempo per poter dire che presto avrà passato metà della sua vita ad ascoltare vite che si raccontano, che si confessano. Egli ascolta; io ascolto. Io non sono niente per poter misurare il valore delle vite che da quasi quattro settenari ascolto confessarsi dinnanzi a me. E uno degli scopi del silenzio che costituisce la regola del mio ascolto è proprio quello di tacere l’amore.1 Potremmo, ci fosse il tempo, fare un commento passo passo di questa citazione e penso potrebbe essere produttivo. Come si vede in primo piano è qui il movimento che va dall’“egli” (il francese riporta più propriamente il “ça” impersonale) – che ascolta – all’io singolare, a una soggettività incarnata – al “je” – che ascolta. Questa singolarizzazione incarnata dell’ascolto – “io ascolto” – in cui consiste l’attività fondamentale dell’analista non ha, precisa Lacan opportunamente, come obbiettivo quello di “misurare il valore delle vite” di chi parla; ogni riferimento alla misura universale – oggi alla moda nella cosiddetta psicologia scientifica – resta totalmente estraneo alla pratica della psicoanalisi. Lacan vi insiste in più modi. Per esempio quando nel Seminario vii definisce la misura del desiderio come “infinita”, impossibile, appunto, da misurare. L’analista, il suo ascolto, non pretende mai di misurare le vite degli altri. L’analista non si pone come un principio di realtà o di normalità al quale i suoi pazienti devono uniformarsi come a una misura ideale. Ma il passaggio che mi ha scosso non fu questo. Qui Lacan ci dice qualcosa di veramente inaudito anche per il suo stesso uditorio abituale. Ci dice che l’analista può esercitare la sua funzione, può ascoltare, solo perché sa tacere l’amore. Ecco ciò che mi colpì nel vivo. Questo “tacere l’amore” che è davvero la sovversione del misurare. Ma è anche la sovversione della dichiarazione retorica del proprio amore come accade a chi si trova nella posizione di leader, di capo delle masse, di oggetto ideale. Ogni tiranno dichiara in effetti l’amore per il proprio 1 Jacques Lacan, Conferenze sull’etica della psicoanalisi (1960), in “La Psicoanalisi”, n. 16, Astrolabio, Roma 1994, p. 16. 16 MASSIMO RECALCATI popolo. Solo un tiranno può davvero pensare di fondare un partito dell’amore. Ogni tiranno non sa tacere l’amore, non sa rispettare la differenza assoluta del soggetto, perché non rinuncia al potere che il transfert immaginario gli attribuisce. Quando lessi per la prima volta questa frase – “tacere l’amore” – mi sono detto: “ecco la ragione per cui sono diventato lacaniano!”. Ecco cosa significa per me, ridotta all’osso, la pratica della psicoanalisi. Tacere l’amore dice qualcosa della posizione dell’analista, del desiderio dell’analista come desiderio “più forte”, come lo definirà Lacan nel Seminario viii. Per preservare l’incognita della sua enunciazione l’analista è tenuto a tacere l’amore. Il che significa che nel lavoro dell’analista e nella posizione che egli occupa c’è dell’amore in gioco, tolto il quale non avrebbe ovviamente senso alludere alla necessità di tacerne. Di che natura è allora l’amore in gioco sul lato dell’analista? Ecco una domanda che concerne nel vivo la nostra pratica. Di che natura è questo amore di cui Lacan sostiene sia necessario tacere? Non ha ovviamente nulla a che fare col rispecchiamento narcisistico dell’empatia, con la fusionalità controtransferale di cui la psicoanalisi post-freudiana ha parlato. Questo amore che sostiene la posizione dell’analista e sul quale si deve tacere non è amore per lo stesso, non è rispecchiamento, non è seduzione immaginaria, ma è, come direbbe ancora Lacan, “amore per il nome”, amore per il soggetto come pura differenza, amore per la disidentificazione, amore per la separazione. Lacan ha insegnato agli analisti quando fosse necessario che la loro pratica non si smarisse nei meandri di una reciprocità immaginaria, di una pura immedesimazione tra io, ma sapesse preservare l’asimmetria del luogo dell’Altro da cui deriva la possibilità di enunciazione del soggetto dell’inconscio. Il fraintendimento è stato però quello di considerare che questo appello alla neutralità, all’impassibilità, alla disumanità, alla cadaverizzazione dell’analista sostenesse la funzione dell’analista come funzione puramente logica finendo così per dare luogo a una scolastica della funzione analitica che vorrebbe prescindere astrattamente dalla necessità della sua incarnazione singolare. L’analista come morto, come pura funzione significante, totalmente disincarnato è solo un’aberrazione dogmatica del lacanismo. “Noi non possiamo mai essere uguali alla nostra funzione”, ripete Lacan ai suoi allievi nel Seminario viii dedicato al tema del transfert. Con la formula folgorante “tacere l’amore” l’analista riappare pienamente co- LE APORIE DEL DESIDERIO 17 me funzione incarnata, come soggettività; tacere l’amore indica una implicazione, una presenza reale, un essere testimone, e, al tempo stesso, una rinuncia, una perdita di godimento, una sottrazione della quale la soggettività dell’analista deve poter testimoniare. Tacere l’amore è allora una indicazione preziosa che mette in valore la parola del soggetto all’interno di una dialettica che ha come fondamento il riconoscimento del paziente come soggetto singolare e la dimensione dell’incontro come irriducibile agli standard universali della misura e della valutazione. L’amore sul quale l’analista è tenuto a tacere è l’amore per il soggetto singolare, per la sua differenza assoluta in quanto, appunto, incommensurabile. Ma in questa formula ritroviamo anche la ragione profonda che spinge Lacan a disgiungere nettamente transfert e ripetizione e a porre nel transfert non solo l’oscenità di una minorizzazione acefala del soggetto – è il versante immaginario e regressivo del transfert come figura derivata direttamente dalla suggestione e dall’ipnosi – che ripete la sua dipendenza dalle matrici familiari, ma come un nuovo incontro, come un’apertura, come la possibilità di un amore nuovo, come spostamento inedito dell’oggetto piccolo (a) nel campo dell’Altro, dunque come condizione per la riattivazione del desiderio del soggetto. 4. Ho raccontato come sono diventato lacaniano attraverso l’incontro con due frasi di Lacan. Vorrei adesso poter dire qualcosa sul perché sono rimasto lacaniano sino a oggi. Innanzitutto perché le promesse che intravedevo in queste due formule sono state mantenute. La fedeltà al padre non significa però l’obbedienza senza riserve al padre. Significa soggettivare il debito simbolico di cui siamo eredi. Ma ogni volta, come direbbe Freud attraverso Goethe, è necessario uno sforzo di riconquista soggettiva per ereditare davvero quello che i padri ci hanno lasciato. È necessario, direbbe Lacan, servirsene per poterne fare a meno. Lacan lo sapeva e interpellava col suo testo i suoi allievi affinché gli rispondessero soggettivamente senza fargli il verso. Si lamentava di non essere sufficientemente letto da coloro che lo seguivano come maestro. Ma cosa significa leggere Lacan? Per alcuni leggere Lacan significa distinguere il vero dal falso Lacan, stabilire la lettura giusta di Lacan, definirne la genealogia, insomma, irrigidire il Verbo in una scolastica. Se però questo accade non ci si può più servire del padre perché non si riesce mai a farne a meno. È il punto cieco di ogni presunta ortodossia. Non 18 MASSIMO RECALCATI potersi servire del padre perché non se ne può fare a meno. Posizione che rovescia quella ingenuamente rivoltosa: pretendere di fare a meno del padre senza servirsene. Sono due modi speculari di fallire l’ereditare. Penso che leggere Lacan significa rispondere soggettivamente a Lacan, significa usare il testo di Lacan per fare esistere la psicoanalisi oggi. Penso che anche nella lettura di Lacan il problema sia ancora una volta quello della tensione tra ripetizione e incontro, tra necessità e contingenza, memoria e oblio. 5. Riprendo in chiusura il tema delle aporie del desiderio. La figura del desiderio appare come totalmente adombrata nei maggiori lettori attuali di Lacan. Tutto sembra ruotare attorno alla nozione di godimento e non senza una certa ragione. Basti pensare a come il riferimento al desiderio si eclissi progressivamente nell’insegnamento di Lacan sino, dopo la pubblicazione degli Scritti, a brillare semplicemente per la sua assenza. A rovescio un termine come quello di godimento, raramente presente negli Scritti, assume progressivamente sempre maggior peso. Il mio maestro Jacques-Alain Miller ha promosso con rigore questo orientamento della lettura del testo di Lacan. Si tratta di un orientamento teleologico: dall’immaginario del narcisismo, attraverso il simbolico del grande Altro, fino all’apice del reale del godimento. Il circuito del godimento tende alla chiusura autistica, al non rapporto, all’Uno. Il movimento del desiderio è aporetico perché da una parte sembra vincolato all’Altro, ma d’altra punta a se stesso, ad alimentare metonimicamente il suo stesso movimento; da un lato s’interseca alla dialettica del riconoscimento dall’altro è ciò che vi si sottrae; da una parte è articolato al linguaggio dall’altra è l’inarticolabile per eccellenza; da una parte è vincolato alla legge della castrazione, dall’altra parte è ciò che fa saltare questa Legge manifestandosi come metonimia pura; da una parte implica il soggetto diviso dall’altra l’oggetto piccolo (a) come oggetto causa del desiderio. Per entrare con profitto in queste aporie dovremmo isolare in primo luogo il volto nichilistico del desiderio che consiste nella sua spinta a ripetere la stessa insoddisfazione sino a consumarsi in questa ripetizione metonimica. È il punto dove le acque del desiderio si mescolano con quelle del godimento. Il pifferaio magico dell’iperedonismo – oggi egemone – esalta questa dimensione metonimica del desiderio. LE APORIE DEL DESIDERIO 19 In secondo luogo dovremmo mostrare l’eccedenza del desiderio rispetto a questa sua versione nichilistica. Dovremmo poter parlare del desiderio come differenza assoluta, come condizione assoluta, come assoluto singolare. Mentre il primo volto ci mostra lo smarrimento del nesso che vincola il desiderio alla Legge, nel secondo volto del desiderio questo nesso resta centrale. Potremmo dire così: lo sviluppo del desiderio come metonimia della mancanza a essere conduce Lacan alla nozione di godimento. Esiste un carattere nocivo, di pura dépense (dispendio) del desiderio; esiste una dimensione nociva del desiderio che lo conduce alla consumazione di se stesso. Lo sviluppo del desiderio come desiderio dell’Altro ci conduce invece verso l’amore come supplenza all’inesistenza del rapporto sessuale, al non rapporto tra i sessi. Non a caso in chiusura del Seminario xx Lacan recupera proprio la contingenza dell’incontro amoroso riutilizzando nuovamente il concetto di riconoscimento; l’amore è il riconoscimento dell’Altro non come oggetto ma come pura singolarità. Mi chiedo: tutto lo sforzo che Lacan compie nel pensare un godimento Altro – quello proprio della sessuazione femminile – rispetto a quello dell’Uno non è un modo per provare a recuperare la lezione del desiderio implicato, e non in alternativa, a quello di godimento? L’insegnamento dell’Altro sesso non è forse quello di minare la tenuta stagna del godimento uniano. Concludo con un altro interrogativo: come si può spezzare l’eterno ritorno dell’eguale del godimento? Come si può oltrepassare l’orizzonte mortifero del godimento dell’Uno? Essere lacaniani è sponsorizzare il cinismo materialistico della pulsione che il discorso del capitalista promuove sopprimendo l’esperienza singolare del desiderio? È autorizzare il carattere monologico del godimento uniano? Rispondere a Lacan, nel nostro tempo, nel tempo dell’iperedonismo del discorso del capitalista, non significa invece provare a riconsiderare in tutta la sua forza la sua lezione sul desiderio? L’aporia del desiderio deve essere preservata contro il rischio di un’involontaria collusione del lacanismo con il discorso cinico del capitalista che sponsorizza il godimento come unico valore possibile. Se la pulsione monologica prevale non c’è comunità, non c’è legame, nemmeno tra analisti. L’amore è ciò che mantiene convergenti il desiderio e il godimento, afferma Lacan nel Seminario x. Si tratta di continuare a porre il problema della continuità della lezione sul desiderio con quella del godimento, su come l’autismo uniano del godimento necessiti di Eros per non generare Il contributo della nozione lacaniana di godimento alla psicopatologia contemporanea Patrick Landman Mi sembra che il concetto lacaniano di godimento nelle sue diverse “componenti” abbia un valore euristico innegabile che ci permette di chiarire i fenomeni clinici osservabili nelle nostre società “post-moderne”. Anzitutto alcune ipotesi sui cambiamenti in corso nell’economia soggettiva. Il grande Altro, luogo del linguaggio, luogo di riferimento simbolico per eccellenza, rappresenta l’istanza privilegiata con la quale il soggetto dialoga nella sua psiche. L’Altro gli preesiste, è la fonte del desiderio del soggetto che in esso troverà i significanti organizzatori di questo desiderio. È un’istanza terza che s’interpone tra il soggetto e l’altro suo simile. Il grande Altro s’incarna nella persona degli adulti di riferimento, in particolare la madre, nel quadro della cellula familiare, ma ha anche un’esistenza sociale sotto la forma di ciò che potremmo riassumere con il termine “Legge”. Il soggetto contrae un debito nei confronti dell’Altro, debito simbolico che è una figura della castrazione, almeno nella nevrosi. L’Altro rappresenta l’alterità stessa, è inaccessibile e mantiene la sua parte di mistero. Il soggetto paga il suo debito cedendo un oggetto all’Altro, l’oggetto a. Il soggetto domanderà all’Altro d’illuminarlo sul suo desiderio, gli domanda cosa deve fare, ma l’Altro non risponde mai, tranne che nella psicosi, o piuttosto risponde con il famoso: “Che vuoi?”. Gli IL CONTRIBUTO DELLA NOZIONE LACANIANA… 21 rimanda la questione perché il soggetto interroghi il proprio desiderio. Che cosa constatiamo attualmente? Un indebolimento, una progressiva scomparsa della funzione dell’Altro nella società. Come? La società aveva a sua disposizione grandi racconti, grandi testi, pensiamo a Omero, Sofocle, i grandi filosofi, la Bibbia o Karl Marx. Oggi non servono più da riferimento, l’idea di un testo di riferimento si allontana, è la fine delle utopie. Da questo, una delegittimazione dell’Altro, la referenzialità è creata su misura, nell’urgenza, ha più lo statuto di oggetto che lo statuto di Altro. L’Altro può essere rappresentato anche dal “consenso sociale”, ovvero la media delle opinioni dei piccoli altri. Nel campo giuridico si osserva che le leggi sono sempre più dettate dal consenso sociale, e sempre meno applicate e che i contratti (legame giuridico tra i piccoli altri) hanno sempre più la tendenza a sostituirsi alla legge. Il villaggio planetario, Internet e la sua orizzontalità aboliscono le differenze e riducono l’alterità, mentre le innovazioni scientifiche o tecniche basate sullo scientismo, se non addirittura sull’integralismo scientista o semplicemente sull’immaginario positivista, fanno sparire la parte di mistero che era legata all’Altro, per esempio nel campo delle immagini cerebrali, della procreazione con il controllo della riproduzione, la clonazione, la genetica ecc. Sparisce la mancanza nell’Altro e con essa l’Altro tutto intero. Quale impatto sul soggetto? Il soggetto ha un rapporto di godimento con l’Altro, principalmente il suo Super-io, istanza paradossale interdittrice di alcuni godimenti specifici e, allo stesso tempo, ingiunzione, imperativo a godere in modo indeterminato. Ma il soggetto attribuisce anche all’Altro un potere di godimento: è il godimento dell’Altro. Per evitare di essere inghiottito da questo godimento dell’Altro (figura del godimento incestuoso) il soggetto si appoggia sul Nome del Padre, la cui funzione è di annodare, di limitare il godimento dell’Altro. Nella psicosi, quando il Nome del Padre è forcluso, per riprendere la formula di Lacan, il soggetto è consegnato al godimento dell’Altro che lo perseguita, perché la mancanza nell’Altro non può essere chiusa dal gioco dei significanti. Penso che l’indebolimento della figura dell’Altro porti a conseguenze differenti sulle soggettività, conseguenze che proverò a schematizzare. 22 PATRICK LANDMAN L’Altro può essere percepito come mancante oltre il sopportabile e il soggetto si sforzerà di colmare questa mancanza non con dei significanti ma con il suo essere, con condotte di sacrificio, di dono dell’essere: è la via classica del misticismo, ma alla quale d’ora innanzi si aggiunge la via del fanatismo. Il fanatismo è sempre esistito ma oggi prende valore di sintomo del disagio nella cultura. Altrove è il dispositivo del godimento a essere sregolato, il soggetto si trova sottomesso all’imperativo del godimento in un contesto dove il suo eccesso non solo è permesso ma è considerato come la norma. “Dio è morto, tutto è permesso” diceva Dostoevskij. Si potrebbe aggiungere: il grande Altro sparisce, l’eccesso di godimento diventa la norma. L’eccesso si manifesterà soprattutto nel campo del godimento dell’oggetto, come le dipendenze. Vediamo anche dei soggetti che danno agli altri, ai simili, la funzione esclusiva di referente. Gli altri prendono il posto dell’Altro, entrando in gruppi all’occorrenza virtuali che privilegiano le reti sociali (Facebook) con il fantasma di una distribuzione democratica del godimento, o in fenomeni d’isteria collettiva – nel senso di partecipare a una comunità nel nome di un antenato supposto comune che è stato leso e per il quale la comunità si fa testimone di questo danno vissuto come una mancanza a godere, e allo stesso tempo ne richiede riconoscimento e riparazione. Esistono forme di comunitarismo più radicali, fondate su delle società costituite esclusivamente da padroni/maestri che in nome del rifiuto del posto del padrone e del suo discorso rifiutano l’alterità e quindi l’Altro, una società di padroni in cui il denominatore comune del godimento si basa sul rifiuto degli altri (identità negativa). L’altro grande cambiamento potrebbe essere definito come la promozione infinita, l’invasione degli oggetti gadgets. Gli oggetti gadgets sono onnipresenti, permettono di comunicare in tempo reale, soprattutto sono portatori di un valore di godimento, e nel momento in cui questo valore si esaurisce diventano degli scarti. Lacan ha paragonato questi oggetti gadgets agli oggetti a. Per gli ecologisti l’inquinamento proviene in parte dal fatto che viviamo in mezzo ai nostri rifiuti, per il soggetto “l’inquinamento psichico” consiste nel vivere in mezzo agli oggetti a. Ma, soprattutto nella logica del capitalismo, il soggetto diventa lui stesso un oggetto a, il cui valore nei confronti del sociale è indipen- IL CONTRIBUTO DELLA NOZIONE LACANIANA… 23 dente dal suo saper fare o dalla sua competenza, ma dipende dagli eventi imprevedibili della vita economica e dai progressi della tecnologia. L’uomo ha un valore commerciale e se si trova nell’incapacità di “vendersi”, la sanzione può essere la depressione. La depressione non è più solo in rapporto al valore che l’Altro mi attribuisce, bensì al mio valore commerciale. La generalizzazione dei gadgets toglie alla maggior parte degli oggetti la loro funzione di sembiante fallico, come l’automobile che Lacan chiamava “falsa donna o falso sintomo”. Gli oggetti permettono un godimento oggettuale che afferra l’oggetto stesso in modo diretto, senza la dimensione del sembiante, che esiste nel godimento fallico, in cui il soggetto gode appunto di un sembiante del fallo. Ne consegue una svalorizzazione del sapere in particolare nei maschi, perché il sapere va di pari passo con la dimensione del sembiante fallico e procura meno piacere dell’oggetto gadget reale che assomiglia a un oggetto pulsionale. È a causa del suo carattere pulsionale, dunque dell’insoddisfazione e del fallimento del suo scopo, che l’oggetto gadget suscita avidità e repulsione come un processo di bulimia-anoressia. Tra questi oggetti, un posto a parte va agli psicotropi. Percepiti come un rimedio al dolore di esistere, essi mantengono per alcuni l’illusione che esisterebbe un rimedio al dolore di esistere, assumendo così interamente il ruolo di droghe legali, oggetti gadgets muniti di una funzione di pharmakon. Infine evocherei una modificazione del rapporto interno/esterno quando, grazie al virtuale, il soggetto può far entrare il mondo esterno dentro casa sua: c’è l’abolizione della barriera interiorità/esteriorità o per lo meno modificazione di questa barriera. È possibile che l’aumento della prevalenza delle fobie scolastiche sia in rapporto con questo fenomeno. Per concludere, attribuisco un valore ipotetico ovvero problematico a ciò che propongo, ma forse alcune affermazioni avranno in voi una risonanza attraverso la vostra clinica e susciteranno una discussione. Essere lacaniani oggi… malgrado Lacan Mauro Milanaccio Vorrei aprire questo mio intervento con una precisazione sul titolo, precisazione che formulo con una domanda: si tratta, per essere lacaniani oggi, di esserlo… malgrado Lacan? Lacan è lo psicoanalista che più di tutti si è dedicato ad attaccare l’Uno, a smontare il meccanismo che via identificazione all’Ideale conduce all’Uno: ha barrato il soggetto, ci ha insegnato a barrare il soggetto; ha barrato l’Altro, ci ha insegnato a barrare l’Altro.1 D’altra parte ha lasciato che potesse essere identificato, lui, come il maestro assoluto, come l’unico. È uno psicoanalista con una densità immaginaria senza eguali. E questo vale sia per i lacaniani che per i detrattori (a cui basta questa consistenza immaginaria capovolta per rinunciare a leggerlo). Per dirla fino in fondo è colui che più di tutti ha incarnato l’Uno. Noi lacaniani facciamo fatica a leggere altri psicoanalisti, anche i grandi della psicoanalisi sono letti poco, tanto che l’impresa a cui si sta dedicando Massimo Recalcati, quella di dialogare con psicoanalisti non lacaniani che stanno anche all’interno dell’ipa, è un’anomalia nel panorama lacaniano. Ecco allora l’empasse e la sfida a cui siamo chiamati: essere laca1 La nostra associazione riprende questa posizione anche nel logo utilizzando la L di Lacaniana per barrare la A di Associazione, monito a non cadere nella trappola di crederci Uno. ESSERE LACANIANI OGGI 25 niani al di là della figura di Lacan, cimentarci con l’opera di Lacan senza cadere nella trappola immaginaria di crederla assoluta o, per dirlo in un altro modo, senza credere che vi sia un modo giusto di leggerla. Ma cosa vuol dire dichiararsi lacaniani oggi? Teniamo presente che nel 1980, un anno prima di morire, al congresso di Caracas davanti ai suoi allievi latinoamericani Lacan rilancia la causa freudiana e dice: “Tocca a voi essere lacaniani, se volete. Io sono freudiano”.2 Aveva quasi ottant’anni, ma non è che fosse uscito di senno, almeno non su questo. È anzi una lunga storia, coerente con una messa in discussione del proprio pensiero. Ne ricordo due momenti. Il primo quando a Roma, nel 1974, in occasione del vii convegno dell’EFP3 in un intervento che si chiama La terza dice: “prendete esempio, non imitatemi”.4 Sembra enigmatico ma non lo è per niente: si tratta di cogliere l’originalità del suo lavoro, di assumerne l’esemplarità non sul versante ideale ma piuttosto sul versante della contingenza personale, sul versante dell’apertura e dell’inedito. Il secondo momento quando nel 1966, intervistato da Paolo Caruso, alla domanda: “beh, in ogni caso lei non ritiene di essere solo un esegeta, un interprete di Freud…” Lacan lo interrompe: “Senta, se poi io non fossi semplicemente questo, sta a lei, sta agli altri giudicarlo. Io ritengo che questo mi debba bastare”.5 Nel novembre del 1966 Lacan è all’avvio del quattordicesimo anno del suo seminario, dunque non proprio all’inizio. Possiamo dire che era già Lacan per il posto che occupava nel panorama europeo della psicoanalisi, grazie anche alla pubblicazione dei suoi scritti che avviene proprio nel 1966. Dunque, nonostante ciò, proverò a dirvi cosa è per me, essere lacaniano. Per farlo vi propongo di orientare lo sguardo di sbieco, verso una zona d’ombra che contiene un mistero, un enigma. Non si tratta di illuminarla, di fare chiarezza, di comprendere, perché comprendere costituisce uno svilimento della portata analitica insita nell’enigma. L’enigma in forma di domanda ve lo propongo così: “quale conce Jacques Lacan, Il seminario di Caracas (1980), in “La Psicoanalisi”, 2000, n. 28, p. 11. École Freudienne de Paris. 4 Jacques Lacan, La terza (1974), in “La Psicoanalisi”, 1992, n. 12, p. 17. 5 Paolo Caruso, Intervista con Jacques Lacan (1966), in “Psicoterapia e scienze umane”, 2010, n. 1, anno xliv, p. 79. 2 3 26 MAURO MILANACCIO zione della cura e quale legame tra analisti sono resi possibili dal concetto lacaniano di desiderio dell’analista?”. Per far questo intendo partire da una indicazione che ci ha dato Massimo Recalcati nella sua lettera di apertura al dibattito dell’Associazione Lacaniana Italiana: “la psicoanalisi è un’esperienza di libertà. Cosa significa? Significa che ogni analizzante nella sua analisi ha a suo modo incontrato l’impossibilità di delegare ad altri il suo desiderio e la sua realizzazione”.6 Il posto della libertà in psicoanalisi è stato pensato da Lacan in una forma radicale. Ci ha ammoniti che il precludere lo spazio analitico di almeno un “poco di libertà” comporta il rischio di ridurre la pratica analitica a una truffa. Ma, d’altra parte, lo stesso Lacan ci richiama alla cautela nel promuovere la libertà ricordandoci che la libertà trova nella follia la sua più fedele compagna.7 Insomma il discorso della libertà si articola con una certa esigenza di indipendenza dell’individuo da ogni padrone, da ogni dio, ma questo diritto all’autonomia può evocare un discorso delirante. Come aprire a un’esperienza di libertà dal desiderio dell’Altro senza che questa si converta in un discorso delirante? Come accogliere la libertà di enunciarsi del soggetto senza che questa enunciazione scivoli fino a quel punto estremo che rasenta la follia? Anche perché, come indica Lacan alla fine del Seminario vii dedicato all’etica, la fine dell’analisi più che nella prospettiva del comfort è da inscrivere nella dimensione dello “smarrimento assoluto”, nello sconforto di sapersi da soli in quel rapporto con se stessi che è la propria morte.8 Ecco la mia idea: condizione affinché si dia un poco di libertà, un margine di libertà, è che si introduca del nuovo, che ci sia un atto creativo che apra al non dato, al non ancora conosciuto a ciò che non cessa di non scriversi affinché trovi posto nella storia del soggetto. Considerato che la causalità psichica è sempre problematica in quanto opera in assenza di tempo,9 possiamo anche pensare che il margine di libertà non è che il punto di partenza per produrre del 6 Massimo Recalcati, lettera di apertura al dibattito dell’Associazione Lacaniana Italiana, inedito. 7 Jacques Lacan, Discorso sulla causalità psichica (1946), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. i, p. 170. 8 Id., Il seminario. Libro vii, L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 1994, p. 381. 9 Sigmund Freud, L’inconscio, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. viii, p. 71. ESSERE LACANIANI OGGI 27 nuovo, è la condizione affinché sia possibile un atto aperto verso il non ancora dato, il non conosciuto. Provo ora ad approfondire questa idea. Il margine di libertà come effetto di un’analisi è la condizione affinché una psicoanalisi non sia una truffa. Questo margine di libertà è individuabile nella presenza di uno scarto tra il desiderio del soggetto e il desiderio dell’Altro, è uno spazio dove i giochi non sono ancora fatti – o più precisamente non sono più fatti – dove il soggetto può situarsi a condizione di inventare qualcosa di singolare, a condizione di sovvertire ciò che l’Altro ha tracciato come coordinate per la sua esistenza. Ecco, in questa accezione, il margine di libertà è in relazione con la possibilità di un incontro e, a partire da questo incontro, con la possibilità della produzione di un’esperienza singolare. La problematicità di questa idea risiede nello statuto psicoanalitico del nuovo, cioè cos’è il nuovo in psicoanalisi. Lo affronterò lungo due direttrici: la direttrice clinica e la direttrice del legame tra analisti. direttrice clinica Su questo terreno l’analista con cosa opera? Sostengo che per favorire il margine di libertà, l’analista deve sopportare il posto del soggetto supposto sapere (sopportare perché è lì che viene collocato inevitabilmente da un domandante). Da lì può assistere lo sforzo dell’analizzante – assistere nel duplice significato di esserne spettatore e di portare assistenza – di rendere in parole ciò che gli succede. Pensieri, emozioni, vissuti vengono tradotti (e dunque un po’ traditi) in una catena significante nell’auspicio che l’analista comprenda e nell’inquietudine che l’analista fraintenda. È sufficiente tutto ciò per produrre un margine di libertà? Forse no, perché questa dinamica ha un limite in quanto l’esplorazione è orientata da una supposizione dell’analizzante di un sapere da scoprire. È la dimensione archeologica della relazione analitica: ci sono dei frammenti da ricomporre, una trama di senso da recuperare, un senso già dato, come un destino, e lì in fondo ci sarebbe l’analista ad attenderlo. Questa dinamica, motore iniziale dell’analisi, condizione del transfert, è importante ma dev’essere annodata, in senso topologico, a un’altra dimensione. Una dimensione che appare grazie a una sostituzione: dal soggetto supposto sapere al desiderio dell’analista. 28 MAURO MILANACCIO Il desiderio dell’analista a mio parere è un concetto cardine e allo stesso tempo velato nell’opera lacaniana, un concetto su cui Lacan è intervenuto esplicitamente molte volte,10 ma mai in modo sistematico. È anche un concetto nuovo,11 mai nessuno prima di Lacan aveva usato quest’espressione. Lacan introduce per la prima volta il concetto desiderio dell’analista nel 1958 nello scritto La direzione della cura e i principi del suo potere12 dove ne parla in due frangenti. Il primo all’interno della sezione intitolata “come agire con il proprio essere” e ne parla in relazione alla necessità di formulare un’etica in grado di dar corpo alle conquiste freudiane sul desiderio. Il secondo frangente è in chiusura, proprio all’ultima pagina, dove si chiede che cosa dev’essere dell’analista – dell’essere dell’analista – quanto al suo desiderio e richiama la portata del lascito freudiano, del suo instancabile operare marchiato da un fiume di fuoco nell’interrogare la vita e nel ritrovare nella morte l’emergere del desiderio. Evito di ripercorrere le citazioni di Lacan su il desiderio dell’analista per dirvi direttamente cosa ne ho ricavato, premettendo che è un concetto che considero fondamentale nell’orientare la direzione della cura oltre la decifrazione. Il desiderio dell’analista viene a occupare il posto del desiderio dell’Altro e si configura come un enigma poiché l’analista tace sull’amore.13 Tace sull’amore è uno dei modi di non rispondere alla domanda e l’analista non risponde alla domanda non perché sia un sadico o si diverta a occupare il posto della sfinge. Non risponde alla domanda perché altrimenti il desiderio dell’analista non opererebbe più come tale ma si porrebbe nella serie del desiderio dell’Altro ed eliminerebbe quello scarto tra il desiderio del soggetto e il desiderio dell’Altro che abbiamo visto essere la condizione per l’aprirsi di uno spazio di libertà. Vi propongo due declinazioni nella clinica di Lacan dove possiamo a 10 Per la precisione ho trovato 51 citazioni della locuzione “desiderio dell’analista” considerando come bibliografia i testi presenti in Scritti e tutti i volumi del Seminario. 11 Dal punto di vista dell’epistemologia strutturalista, poiché i significanti sono considerati come pura differenza, possiamo chiederci cosa succede al sapere psicoanalitico quando viene introdotto un concetto nuovo e rintracciare lo spostamento reciproco che subiscono i concetti già presenti fino all’eventuale punto limite di ritrovare al margine ciò che prima era centrale o viceversa. 12 Jacques Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. ii, pp. 580-642. 13 Id., Conferenze sull’etica della psicoanalisi, in “La Psicoanalisi”, n. 16, 1994. ESSERE LACANIANI OGGI 29 mio parere ritrovare in azione questa logica: la centralità dell’atto analitico rispetto all’interpretazione classica e l’introduzione del taglio della seduta che produce una durata variabile della seduta stessa (preferisco mantenere questa denominazione piuttosto che seduta cosiddetta breve per evitare di introdurre questioni relative al tempo in analisi). Sono innovazioni della tecnica che Lacan introduce, secondo me, per far fronte in primis alla sterilità di certe impostazioni dogmatiche del setting ma anche per reagire alla decadenza della speculazione e alla foga di comprendere. Il suo sforzo mira ad aprire alla possibilità di pensare. Pensare e comprendere non vanno di pari passo, anzi sono disgiunti poiché nel comprendere il pensiero è fermo a ciò che è già stato pensato. Con questo orizzonte di riferimento sostengo che il desiderio dell’analista apre alla possibilità di abitare l’inedito, di attraversare territori psichici non ancora conosciuti e lì generare il nuovo. Su questo punto troviamo un interessante avvicinamento al concetto di capacità negativa che Bion aveva ripreso dal poeta John Keats14 indicando con questo concetto la capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare a una agitata ricerca di fatti e ragioni. Se la capacità negativa trova la sua forza nell’ossimoro, anche il desiderio dell’analista, su questo versante, manifesta la sua portata quando incontra il non desiderio dell’analista e richiede che l’analista ci sappia fare con la sua mancanza a essere soprattutto per ciò che riguarda la fine del trattamento. Sostengo inoltre che il desiderio dell’analista è un concetto operativo, alla stregua di altri concetti come il Nome del Padre. Si potrebbe verificare la tenuta di un parallelismo del Desiderio dell’Analista con il Nome del Padre, in relazione alle rispettive sostituzioni che operano. Nell’Edipo lacaniano l’azione del Nome del Padre si articola come una metafora al Desiderio della Madre.15 Seguendo il parallelismo potremmo chiederci se il Desiderio dell’Analista sta al soggetto supposto sapere come il Nome del Padre sta al Desiderio della Madre in un’articolazione di ordine metaforico. Provo a fare un passo ulteriore circa il nuovo e proporvi cosa intendo con questo concetto in psicoanalisi. Lettera di John Keats a George e a Thomas Keats, 21 dicembre 1817, citata in W.R. Bion, Attenzione e interpretazione (1970), Armando, Roma 1973, p. 169. 15 Sulla metafora paterna, in riferimento a quanto qui sostenuto, si veda Jacques Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi (1965), in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. ii, p. 553. 14 30 MAURO MILANACCIO Sul lato dell’analizzante il nuovo interviene a livello psichico: una trasmutazione che interviene come una rottura di ciò che la ripetizione sintomatica ha inciso nell’economia pulsionale del soggetto e gli consente di organizzare in modo differente la sua storia. Per semplificare un po’ potrei dirlo così: saperci fare con la ripetizione. È un bucle, un loop: mi sono accorto che sto dicendo che il nuovo è saperci fare con il vecchio… il nuovo non nasce ex nihilo, piuttosto trova la sua possibilità nel già dato ma emerge quando il conosciuto è almeno un po’ perduto. Sul lato dell’analista se effetto di un’analisi è di dar vita al nuovo, all’inedito, anche l’analista dovrà disporsi ad accoglierlo, altrimenti che cosa c’è di nuovo? Sarebbe tutto già scritto e non c’è posto per quell’incontro con il reale che può così, almeno per un attimo, cessare di non scriversi e farsi contingenza.16 Sul lato dell’analista è centrale la posizione di ascolto liberamente fluttuante assunta fino alla sua radicalità: non per ricondurre la contingenza, la singolarità alla teoria ma all’opposto per aprire a ciò che non è ancora stato pensato e mettere la teoria alla prova della clinica. Qui ritroviamo il valore dell’uno per uno, della singolarità di ogni domandante e ancora più radicalmente della singolarità di ogni seduta: la psicoanalisi richiede un ascolto disposto all’incontro con l’evento inatteso al punto che ogni seduta è la prima. Riprendo un passo di Elvio Fachinelli, che su questo punto si rivela lungimirante. Dice Fachinelli: “sono del parere che se nell’analisi non c’è sorpresa, e in ciascuno dei due interlocutori, non c’è analisi affatto. C’è soltanto il ritrovamento di qualcosa che è già stato trovato, niente di nuovo”.17 direttrice del legame tra analisi Su questo terreno l’analista con cosa opera? In che modo declinare qui il concetto di “desiderio dell’analista” e di produzione del nuovo? Come punto di partenza assumo che anche nel legame tra analisti, 16 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xx. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 1983, pp. 92 e 145. 17 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68: un’antologia di testi, a cura di Marco Conci e Francesco Marchioro, Massari, Bolsena 1998, p. 219. ESSERE LACANIANI OGGI 31 nel loro associarsi possa essere pensato il “desiderio dell’analista” come motore per la produzione del nuovo. A partire da questa assunzione vi propongo due osservazioni, due spunti di lavoro. Prima osservazione. Se nella clinica, sul lato analizzante, il nuovo interviene come saperci fare con la ripetizione, saperci fare con il vecchio e incontrare la possibilità di abitare in modo inedito la propria storia, proviamo a trasporre queste considerazioni sul lato del legame e vi propongo di farlo con una domanda: in che rapporto ci poniamo con la storia delle istituzioni, dei gruppi psicoanalitici lacaniani che ci hanno preceduto o che esistono nell’attualità? Ancora una volta cito Elvio Fachinelli, in omaggio al sostegno che abbiamo trovato in lui in questi mesi di riflessione nell’indicarci i pericoli lungo la strada che stiamo aprendo ancora una volta, quante volte lo abbiamo visto! È il lato cattivo della ripetizione che sembra dominare. Quale la ragione? Si può intuirla in ciò che è caratteristico di queste iniziative: quasi un vento d’ebbrezza, un eccesso di grazia, la facilità dei gesti all’opera, con la continua minaccia di veder sorgere all’orizzonte, e poi dentro di sé, quel negativo che essa intendeva eliminare. Il passato è troppo duro, aboliamolo dal programma del presente e del futuro: ma il passato abolito con un gesto ritorna come un fantasma che distrugge quel programma”.18 Seconda osservazione. Nella formazione degli analisti e nella trasmissione della psicoanalisi, il nuovo è ancora più difficile da introdurre. Si apre una sfida permanente, una sfida impossibile, ed è proprio per questo che freudianamente vale la pena assumerla: promuovere, inventare, una forma di legame tra soggetto e istituzione capace di tenere in tensione solitudine e collettivo. La solitudine di ciascuno nell’analisi e nella clinica e il desiderio di accomunarci, di mettere in comune. Su questa sfida una indicazione preziosa che faccio mia ci è venuta da Mariela Castrillejo durante il confronto che ci ha costituiti: proviamo ad assumere anche rispetto al sapere da formalizzare la posizione dell’analizzante, poiché non c’è formazione senza stupore. Ivi, p. 186. 18 Paradossi dell’identificazione nella formazione dell’analista María Teresa Rodríguez introduzione Nel discorso di fondazione dell’École Française de Psychanalyse,1 il 21 giugno 1964 e nella Proposta del 9 ottobre 1967,2 Lacan pone il problema della formazione degli analisti come questione centrale (della quale già Freud si era occupato, per esempio ne La questione dell’analisi laica) che esige e giustifica l’esistenza di un legame associativo tra analisti.3 Come verranno formati i nuovi psicoanalisti e che prove dovranno dare della propria formazione? Lo statuto della nostra associazione afferma al riguardo: la finalità dell’ Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi è quella di promuovere la formazione dello psicoanalista come formazione permanente. Il suo riferimento dottrinale è l’opera di Jacques Lacan e il suo fondamento freudiano. Da quest’opera e dal suo fondamento si evince che la formazione dello psicoanalista avviene attraverso tre direttrici fondamentali: la direttrice dell’essere che implica l’analisi personale; la direttrice dell’esperienza del controllo che implica la verifica della propria pratica clinica orientata analiticamente; la direttrice del sapere che senza rispondere a criteri curriculari di tipo 1 Jacques Lacan, Atto di fondazione, in “La Psicoanalisi”, n. 30-31, Astrolabio, Roma 2002, pp. 9-16. 2 Id., Proposta del 9 ottobre 1967 (prima versione), in “La Psicoanalisi”, n. 15, Astrolabio, Roma 1994, p. 11. 3 Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico (1914) – Il problema dell’analisi condotta dai non medici (1926), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 2005. PARADOSSI DELL’IDENTIFICAZIONE… 33 universitario impegna l’analista in formazione in una attività di ricerca teorica continua nella forma della partecipazione a seminari, conferenze, corsi, e soprattutto nella partecipazione alle attività di gruppi di lavoro.4 Tre direttrici quindi: analisi, controllo, partecipazione all’attività associativa. Tralasciando in questa occasione il tema del controllo, che necessiterebbe di una più approfondita disamina, intendo articolare l’analisi personale e la partecipazione all’associazione di psicoanalisti, attraverso il concetto di identificazione. analisi Per quanto riguarda l’esigenza dell’analisi personale, nella nostra associazione, come in tutte quelle orientate dall’insegnamento di Lacan, non ci sono i didatti. Ma questa figura a noi sconosciuta continua a esistere e a svolgere una funzione in un’ampia parte della galassia psicoanalitica mondiale. La Società Psicoanalitica Italiana (spi) e l’Associazione Italiana di Psicoanalisi (aipsi), collegate all’International Psychoanalytic Association fondata da Freud nel 1910, hanno dato un’interpretazione parecchio burocratica alla questione della formazione dell’analista, regolamentando in modo rigido una certa quantità di ore di sedute di analisi con un analista didatta, di ore di controllo e di ore di studio teorico. La selezione principale dei candidati si effettua ancora oggi all’inizio del percorso, sulla base della documentazione presentata e dei colloqui di valutazione con alcuni analisti didatti indicati dall’associazione. Gli aspiranti giudicati idonei vengono invitati a scegliere, all’interno di un elenco fornito dalla scuola, un analista didatta per un’analisi personale. Tale analisi è propedeutica all’ammissione alle attività formative. Per fare questa selezione si parte dall’idea che ci siano due tipi di domanda di analisi: quella terapeutica, finalizzata alla guarigione dei sintomi, e quella didattica, finalizzata a diventare psicoanalista. Di conseguenza ci sono due tipi di analisti, i didatti e i terapeuti. I didatti chiamati a pronunciarsi sulla questione delle “attitudini 4 Cfr. stralcio dello statuto dell’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi, in www.alidipsicoanalisi.it. 34 MARÍA TERESA RODRÍGUEZ analitiche” del candidato devono possedere spiccate doti divinatorie, in quanto questa selezione si fa a monte, prima dell’inizio del percorso analitico e accademico del futuro psicoanalista (che si svolgerà nei successivi sei – sette anni). Ma quando il candidato viene ammesso e inserito nel macchinario la strada è già tracciata. L’analisi personale dovrà essere condotta con la frequenza di quattro o cinque sedute settimanali effettuate in giorni diversi, della durata di quarantacinque o cinquanta minuti. Corsivo mio, perché in questa precisazione vedevo un riferimento esplicito a una pratica abituale in ambito lacaniano, messa in atto quando analista e analizzante risiedono in città diverse, e mi chiedevo se l’ipa giudicherebbe accettabile finire una seduta alle ore 23.59 e iniziare quella successiva a mezzanotte e un minuto, visto che si tratta di giorni diversi.5 la psicoanalisi pura Questa distribuzione delle domande, dei candidati e degli analisti era l’unica esistente fino agli anni sessanta, quando Lacan sbaraglia questo assetto sostenendo che la domanda di diventare analisti è una domanda come un’altra e non si vede perché dovrebbe avere uno statuto particolare. Per Lacan non si può sapere all’inizio di un’analisi se qualcuno diventerà analista, e men che mai decidere in merito.6 Se ogni analisi tende a questo, non è garantito che raggiunga la meta. Un analista, sostiene Lacan, è il risultato di un’analisi portata fino alla sua fine logica. Un’analisi quindi produce un analista, vale a dire qualcuno in grado di occupare il posto di analista per un altro soggetto, ma non è detto che chi è arrivato alla fine della sua analisi decida di esercitare la professione di analista. L’aver attraversato un’analisi non è la condizione sufficiente per diventare analista, ma solo la condizione necessaria. Perché qualcuno che è appena uscito o sta per uscire dall’esperienza dell’analisi, e sa cosa diventa l’analista in questa congiuntura, potrebbe desiderare di trovarsi egli stesso a sostenere la funzione dell’analista per altri? Nella Nota italiana Lacan dice che il sapere non è fatto per una presunta umanità, “giacché essa non lo desidera”. Se a qualcuno viene 5 6 Per approfondimenti si vedano i siti www.spiweb.it e www.aipsi.it. Si veda Jacques Lacan, Varianti della cura tipo, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 317. PARADOSSI DELL’IDENTIFICAZIONE… 35 questo desiderio di sapere che lo rende analista, “già per questo egli è lo scarto della suddetta umanità. […] C’è analista solo a condizione che questo desiderio gli venga”. 7 “L’analista […] deve aver isolato la causa del suo orrore, la causa del suo proprio – di lui – orrore di sapere, staccato da quello di tutti. […] Se non ne è portato all’entusiasmo, può anche esserci stata analisi, ma di analista nessuna possibilità”.8 È necessario aver circoscritto la causa del proprio orrore di sapere per diventare analista. Che l’analisi sia stata didattica è qualcosa che si può sapere solo alla fine; anzi, il fatto che l’analizzante diventi analista rende didatta colui che ha analizzato quel soggetto. Si tratta di un’abilitazione di fatto che, inserita in questi termini nell’Atto di fondazione dell’École Française de Psychanalyse, fu poi lasciata cadere in quanto la distinzione tra didatta e terapeuta sfumò fino a sparire nella scuola di Lacan. L’analisi didattica, per Lacan, è l’analisi tout court. È quello che chiama psicoanalisi pura. Mentre l’analisi terapeutica viene considerata un’applicazione, che procede smorzando il potere della psicoanalisi alla misura degli effetti analitici che il soggetto è in grado di tollerare e in genere si ferma alla risoluzione dei sintomi. Quando il soggetto è felice di vivere bisogna lasciarlo andare. lo scopo dell’analisi Freud considerava l’analisi del futuro analista come l’esperienza che gli faceva provare su se stesso gli effetti dell’inconscio, gli permetteva di verificare il potere dell’inconscio, e avrebbe prodotto in lui la convinzione dell’esistenza dell’inconscio. Per Lacan si tratta piuttosto di produrre una “trasformazione soggettiva”; l’esperienza va portata più avanti. L’elaborazione deve continuare. Lacan ha dato diverse versioni della fine dell’analisi. A seconda del periodo del suo insegnamento, l’ha concettualizzata come desoggettivazione, caduta delle identificazioni, attraversamento del fantasma, identificazione al sinthomo. Sono diverse aspetti della trasformazione soggettiva che ci si 7 8 Id., Nota italiana, in “La Psicoanalisi”, n. 29, Astrolabio, Roma 2001, p. 11. Ibidem. 36 MARÍA TERESA RODRÍGUEZ attende quando l’analisi raggiunge la sua fine logica (e quindi produce un analista), che non si escludono ma piuttosto si articolano. Al fine di questo lavoro mi interessa riprendere la questione della caduta delle identificazioni. Nella sua Psicologia delle masse Freud illustra due tipi di identificazione, mostrando come la massa è costituita da individui che si identificano l’uno con l’altro (orizzontalmente) sulla base del tratto condiviso di un’identificazione comune (verticale).9 Questa è la struttura di ogni aggregazione, di ogni legame sociale, oppure esiste un tipo di legame non fondato sull’identificazione? Questione cruciale per noi, perché se alla fine dell’analisi le identificazioni di un soggetto sono cadute, quindi il soggetto è disidentificato, come potrebbe fare parte di un’associazione? quale aggregazione? In questo senso, il nostro documento di fondazione afferma che La scommessa dell’Associazione Italiana di psicoanalisi tiene conto di una preoccupazione che già Lacan aveva formulato ne L’étourdit, nel 1972: “La mia impresa sembra disperata perché è impossibile che gli analisti formino gruppo. Ciononostante quello psicoanalitico è proprio il discorso che può fondare un legame sociale ripulito da qualsiasi necessità di gruppo”.10 La forma del legame associativo che l’Associazione Lacaniana Italiana propone “punta a sostenere il desiderio singolare e a limitare le derive immaginarie del collettivo”.11 L’apprendere che l’impresa di istituire un legame sociale tra analisti sembrava disperata a Lacan scoraggia un po’… E se è vero che il discorso psicoanalitico fonda un legame sociale minimale, è nella cura dove troviamo questo legame ripulito da ogni “oscenità gruppale”, come la definisce Lacan. Non è così chiaro come questo stesso genere di legame potrebbe fondare una comunità di analisti. 9 Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), in Opere, Boringhieri, Torino 1977. 10 Jacques Lacan, Lo stordito (1972), in Scilicet n. 4, Rivista dell’École Freudienne de Paris, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 349-392. 11 Testo di presentazione dell’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi. Si veda www.alidipsicoanalisi.it. PARADOSSI DELL’IDENTIFICAZIONE… 37 istituzioni e discorsi Se l’impresa di creare un legame tra gli analisti è impossibile, vuol dire che lì c’è qualcosa del reale da discernere. E d’altronde, quando mai abbiamo indietreggiato di fronte a compiti e mestieri impossibili? Il nostro è solo l’ultimo arrivato tra quelli elencati da Freud (governare, educare, analizzare).12 Se mettiamo insieme anche il far desiderare, tipico del discorso dell’isterica, coincidono con i quattro discorsi di Lacan.13 La prevalenza di un solo tipo di discorso in seno a un’istituzione provoca effetti deleteri, come ha affermato Massimo Recalcati: “un’istituzione in salute fa girare i discorsi, un’istituzione malata si irrigidisce in un discorso”. 14 imitare o prendere esempio L’ingiunzione di Lacan “Prendete esempio, e non imitatemi” mi era sembrata enigmatica la prima volta che l’ho letta, molti anni fa.15 Mi chiedevo perplessa come si potesse fare come qualcun altro senza imitarlo. Molte letture dopo ho imparato a distinguere l’identificazione immaginaria da quella simbolica. Lo renderò semplice con una metafora edipica: l’interpretazione immaginaria dell’Edipo comporta, per il bambino, l’idea che sia il padre a proibirgli la madre, donde l’aggressività immaginaria e il desiderio di mettersi al posto del padre, eliminandolo e prendendosi la madre. La versione simbolica distingue i posti: la madre è una madre per il bambino, ma per il padre è una donna. Neanche al padre è permesso il commercio sessuale con la propria madre. Anche il padre è sottoposto alla legge. Anche il padre ha dovuto rinunciare alla propria madre per poter accedere a una donna. Seguire l’esempio del padre comporta che il soggetto si trovi una Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Jacques Lacan, Il seminario, Libro xvii. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001. 14 Intervento all’viii Seminario Nazionale di Jonas Onlus, dal titolo Gli scacchi della cura analitica, Rapallo, 30 aprile-2 maggio 2010. 15 Jacques Lacan, Nota italiana, in “La Psicoanalisi”, n. 29, Astrolabio, Roma 2001. 12 13 38 MARÍA TERESA RODRÍGUEZ donna al di fuori del proprio ambito famigliare, così come ha fatto il padre, ed è sostenuto da un’identificazione simbolica, un’identificazione a un significante. Imitare il padre è qui sinonimo di mimarlo, di scimmiottarlo, di cercare di ripetere esattamente la sua vita, di mettersi al suo posto, clonarsi a sua immagine e somiglianza. Prendere esempio, invece, significa prendere ispirazione, raccoglierne l’insegnamento, ma comporta sempre una variazione. Dice Lacan: “Tocca a voi essere lacaniani, se volete. Io sono freudiano”.16 Non possiamo quindi essere freudiani come Lacan perché Lacan c’è già stato. Infatti l’operazione realizzata da Lacan sul testo freudiano lo trasforma, il testo non è più quello di prima, nel senso che non è più possibile leggerlo come se Lacan non fosse esistito. Quindi, prendere esempio è quanto di più lontano dalla ripetizione pedissequa degli aforismi lacaniani. leggere Mi aveva colpito un commento di Lacan nel Seminario xx, dove parla di due suoi detrattori che lo avevano letto così bene come nessuno dei suoi allievi era mai riuscito a farlo.17 È che per leggere bene un testo, per scorgere la sua logica, i suoi ragionamenti, e anche le sue impasse, è necessaria la dessupposizione di sapere nei confronti dell’autore. Perché la supposizione di sapere è alla base del transfert e quindi comporta l’amore. Amore per il sapere. Così come il transfert analitico è amore per il sapere inconscio, che Lacan definisce come un sapere supposto. Per avere un accesso al sapere, per poter leggere un autore, questo transfert deve cadere, perché il desiderio di sapere inizia al di là dell’amore per il sapere. Il desiderio di sapere comporta una relazione diversa con il testo, una relazione di verifica, di confutazione, di messa alla prova, come quella che animava i detrattori di Lacan nella lettura precisa e puntuale del suo testo. Id., Il seminario di Caracas, in “La Psicoanalisi”, n. 28, Astrolabio, Roma 2001. Id., Il seminario, Libro xx, Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 1983. 16 17 PARADOSSI DELL’IDENTIFICAZIONE… 39 piérre ménard Cosa penseremmo se un analista particolarmente ligio e prolisso, nell’intento di rispettare il proprio maestro, aprisse la bocca solo per ripetere quanto ha detto Lacan? Sarebbe l’effetto Pierre Ménard: Borges dimostra che il secondo Chisciotte non è uguale al primo per molti motivi, ma soprattutto perché il primo c’era già.18 Più si è fedeli e rispettosi nei confronti del testo, più il testo diventa vangelo. Più lo si ama, meno lo si legge veramente. Il riconoscimento del debito simbolico con il maestro non consiste nel ripeterlo. Ripetere Lacan sarebbe veramente tradirlo, perché sarebbe dimenticare l’enunciazione dietro l’enunciato, o nei termini de Lo stordito, dimenticare che per far esistere un detto bisogna che si dica: ci vuole un atto.19 Il significante, quando si ripete, fa differenza. Non possiamo dire la stessa cosa che ha detto Lacan, perché egli lo ha già detto: c’è un impossibile in gioco. deviazioni La necessità di reinventare la psicoanalisi, con la sua esigenza di soggettivazione propugnata da Lacan per ogni analista può dare origine a certi atteggiamenti errati. Vediamo alcune delle più note deviazioni: a. L’analista ignorante Lacan dice che l’analista deve ignorare ciò che sa, ma lo dice in riferimento alla cura.20 È sottinteso che qualcosa deve pur sapere: Lacan non ha mica detto che l’analista deve essere un ignorante… Non ripetere i maestri è compatibile con il fatto di studiarli e conoscerli. b. L’analista naïf La soggettivazione della psicoanalisi è correlata al fatto che ogni analista deve reinventarla. L’insegnamento della psicoanalisi è la messa in moto di questo processo. Non si trasmette tanto un sapere quanto Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, in Finzioni, Einaudi, Torino 1995. Jacques Lacan, Lo stordito, cit. 20 Id., Varianti della cura tipo, cit. 18 19 40 MARÍA TERESA RODRÍGUEZ un desiderio: il desiderio di sapere. Reinventare la psicoanalisi non autorizza alcuna deriva naïf, l’invenzione non consiste nello slancio di una spontaneità inconsistente, ma forse, soltanto, nell’ordinare gli elementi in modo diverso. c. L’autoanalista Lo psicoanalista si autorizza solo da se stesso, dice Lacan nella Nota italiana, ma precisa: “Bisogna vegliare perché ad autorizzarsi sia un analista e non chiunque”.21 L’autorizzazione, come al solito, viene dall’Altro: nessuna possibilità di analisti autodidatti, autoanalizzati, auto-autorizzati… dal lavoro di transfert in analisi al transfert di lavoro al di là dell’analisi22 Il lavoro del transfert porta alla fine, alla caduta, dell’amore per il sapere, ma questa non è la fine del sapere, anzi, è piuttosto la fine del culto del sapere. È la fine del culto del sapere ignorato, che si appoggia sull’orrore di sapere. In questo senso l’amore per il sapere è il velo dell’orrore per il sapere. Se l’analista deve saper ignorare ciò che sa nell’ambito dell’esperienza analitica, per accogliere ogni caso come se fosse il primo, questo non lo autorizza a scansare il sapere al di fuori di essa. In questo senso, prendere l’esempio di Lacan senza imitarlo comporterebbe il prendere il testimone del suo desiderio di sapere: solo il desiderio di sapere spinge al lavoro, l’amore per il sapere consente di oziare, perché c’è un altro che lavora o ha lavorato al posto nostro. Il transfert di lavoro è il modo nel quale, afferma Lacan nell’Atto di fondazione dell’École Française de Psychanalyse, si trasmette da un soggetto all’altro l’insegnamento della psicoanalisi: “L’insegnamento della psicoanalisi non può trasmettersi da un soggetto all’altro che attraverso un transfert di lavoro.”23 Id., Nota italiana, cit. Per una trattazione estesa dell’argomento, si veda Jacques-Alain Miller, Transferencia de trabajo, in El banquete de los analistas, Paidós, Buenos Aires 2000, p. 179-195. 23 Jacques Lacan, Atto di fondazione, in “La Psicoanalisi”, n. 30-31, Astrolabio, Roma 2002, pp. 9-16. 21 22 PARADOSSI DELL’IDENTIFICAZIONE… 41 Ma che cos’è il transfert di lavoro? Il padrone fa lavorare, ma senza lavorare egli stesso; il padrone non vuole sapere nulla, è quello che sta a braccia conserte e fa lavorare tutti gli altri mentre si bea della propria ignoranza. Lacan propone un modo diverso di far lavorare, che è quello di dare l’esempio. Solo così è possibile trasmettere il lavoro, attraverso il transfert, perché solo chi lavora produce transfert di lavoro. indurre al lavoro Se in una istituzione analitica il transfert di lavoro funziona, tutti si sentono chiamati a occupare un posto e tutti lavorano. Una parte del lavoro dell’analista nella sua associazione consiste nell’indurre al lavoro, nel produrre un movimento con il proprio movimento, che crea onde. Non si tratta di produrre lavoro alla maniera del padrone, che è come l’analista fa lavorare l’analizzante durante la cura. Infatti nel dispositivo analitico l’analista occupa il posto del padrone del discorso, anche se non deve e non può identificarsi al padrone. Il transfert di lavoro è un altra cosa, che riguarda come trasmettere da un soggetto a un altro quello che la psicoanalisi insegna. E per questo il transfert di lavoro riguarda la formazione dell’analista. Lacan voleva trasmettere uno stile, e questo non significa qualcosa che riguarda l’immagine, per esempio come si vestiva o si pettinava o la sua marca favorita di sigari. come lacan Ma fare come faceva Lacan (prendere esempio e non imitarlo, come egli ha preso esempio da Freud e senz’altro non l’ha imitato) è un’identificazione? Comporta l’identificazione con Lacan? Dipende: se pensiamo che un analista è il prodotto, il risultato, di un’analisi, si diventa analisti con qualcosa che si è ottenuto nella propria analisi. Non, quindi, sulla base di un’identificazione con un altro, chiunque esso sia, per la semplice ragione che ciascuno ottiene dalla propria analisi qualcosa di diverso. Una associazione di analisti è allora un rifugio per disidentificati, per quelli che non credono più al proprio fan- 42 MARÍA TERESA RODRÍGUEZ tasma, per quelli che sanno dell’inesistenza dell’Altro e che se hanno ancora un’identificazione è solo quella al proprio sinthomo, e che malgrado tutte queste sciagure che li rendono scarti dell’umanità hanno ancora voglia di fare, di lavorare, di sapere… paradossi Se siamo tutti disidentificati, non è che ci riconosciamo l’un l’altro proprio per questo? Il tratto comune non è proprio il fatto che al posto dell’identificazione c’è un vuoto? Siamo identificabili per il dettaglio di non essere soggetti a un’identificazione precisa? O forse bisogna disidentificarsi per potersi servire dell’identificazione? Certo che l’accozzaglia dei disidentificati non fa gruppo allo stesso modo dei tifosi di una squadra di calcio, ed è forse per questo che è così difficile: si tratta di fare legame senza fare gruppo. Se un soggetto analizzato è abbastanza disidentificato da entrare a far parte di un’associazione di analisti, il fatto di diventare membro dell’associazione xyz non costituisce comunque un’identificazione? Allora dovrebbe uscire immediatamente: non è abbastanza disidentificato da poter farne parte. Insomma se è fuori dovrebbe chiedere di entrare, se è dentro dovrebbe uscire… Si tratta di una questione logica, quindi simbolica: un’associazione di psicoanalisti ripropone il problema del barbiere che rade tutti gli uomini che non si radono da soli…24 Un’associazione di psicoanalisti ha la struttura del paradosso, la struttura del catalogo dei cataloghi che non includono se stessi.25 È in gioco l’impossibile. Eppure ci proviamo e ci proveremo… ancora. Per il paradosso di Bertrand Russell si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_barbiere. 25 Il paradosso del bibliotecario è una versione del paradosso di Russell: nella stesura dei cataloghi di una biblioteca si constata che alcuni cataloghi riportano se stessi come libri appartenenti alla propria categoria, ma la maggior parte no. È opportuno allora fare il catalogo di tutti i cataloghi che non includono se stessi. Ma un simile catalogo, deve includere se stesso oppure no? 24 Istoriare il reale. Sulla “contemporaneità” della psicoanalisi Giancarlo Ricci Contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere.1 Giorgio Agamben Mentre il senso comune celebra il tramonto della psicoanalisi, situandola nel migliore dei casi come un’invenzione seppur rilevante del secolo scorso, mai quanto nella nostra epoca essa sembra attraversata da un particolare smarrimento. La nostra epoca sembra aver smarrito il senso stesso della contemporaneità. È in gioco la questione della memoria, di ciò che è presente e di ciò che è attuale, ma soprattutto una certa idea di storicità. Come rileva Giorgio Agamben nel suo breve saggio Che cos’è il contemporaneo,2 la contemporaneità comporta una singolare relazione con il proprio tempo: avvertiamo la contemporaneità attraverso una sfasatura, un anacronismo, una discrepanza tra ciò che riteniamo essere passato e accaduto, e ciò che, ancora, si ripropone pressoché negli stessi termini, quindi in una parvenza di ripetizione. Interrogarci sulla contemporaneità significa, dalla nostra angolatura, interrogarci sull’esistenza e sull’attualità della psicoanalisi oggi: la sua incidenza sulla società e nelle istituzioni, la sua pratica nella clinica e più in generale il suo contributo nell’ambito della produzione e del dibattito culturali. Tutto ciò assume una dimensione storica. Che si specifica anche, o forse soprattutto, con quei tratti o tendenze che si ripropongono o si ripetono, o con quelle istanze teoriche che sembrano rimanere nell’ombra fino a scomparire. Proviamo a rove Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 31. Ivi, pp. 19-32. 1 2 44 GIANCARLO RICCI sciare la questione: quella stagione che in qualche modo celebrava il trionfo della psicoanalisi, non era forse una celebrazione per infossare la psicoanalisi, un rituale mediatico per neutralizzarla, per dismettere l’inconscio? Sarebbe interessante riscrivere la storia della psicoanalisi come se questa coincidesse con la storia stessa del rifiuto che ha incontrato o dei tentativi per edulcorarla. In questo dovremmo includere, purtroppo, alcuni funzionamenti e modalità relative alle stesse istituzioni psicoanalitiche.3 Ma questo ci porterebbe lontano. Per parlare della contemporaneità della psicoanalisi non si può che partire dal presente, da come oggi esiste la psicoanalisi, nel sociale, nella cultura, nelle pratiche cliniche, nelle associazioni psicoanalitiche. Indubbiamente, “come” esiste la psicoanalisi oggi dipende dalla sua storia nel nostro paese. Certo, la psicoanalisi viene ritenuta anacronistica rispetto al tempo dell’ipermodernità, ma ciò andrebbe letto alla rovescia: è la società a risultare ormai anacronistica rispetto all’attualità della psicoanalisi. La clinica lo dimostra abbondantemente e talvolta drammaticamente attraverso i cosiddetti “nuovi sintomi”, dove “nuovi” va inteso in questo caso come ciò che nuovamente fa capolino e irrompe in uno scenario sociale o istituzionale che credeva di aver controllato e bonificato l’inconscio. Lungo queste veloci considerazioni ci sembra appropriato interrogarci intorno alla logica della resistenza, tenendo presente i due termini che Freud utilizza: Resistenz e Widerstand, propriamente resistenza e contrapposizione. Che da sempre la contrapposizione (Widerstand) alla psicoanalisi abbia assunto varie forme e coniugazioni, ben sappiamo. Per quanto riguarda la Resistenz due notazioni. La prima, a carattere clinico, è quando Freud, a proposito della trasformazione nel corso del lavoro analitico osserva, per marcare la distanza dalla suggestione, che maggiore è la resistenza (Resistenz) maggiore è la trasformazione. La seconda notazione, più a carattere storico, riguarda l’affermazione di Freud in Per la storia del movimento psicoanalitico (1914), secondo cui “la battaglia decisiva per le sorti dell’analisi non può che avvenire là dove si è prodotta la massima resistenza, e cioè negli antichi centri della cultura”.4 Cfr. il paragrafo Critica delle istituzioni psicanalitiche in Élisabeth Roudinesco, Perché la psicanalisi?, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 145-156. Le notazioni si riferiscono alla situazione della psicoanalisi francese. 4 Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico, in Opere, Boringhieri, Torino 1975, vol. vii, p. 405. 3 ISTORIARE IL REALE 45 Proprio questo duplice volto della resistenza – il versante clinico e soggettivo e quello invece sociale e storico – ci permette di interrogare un punto centrale della pratica analitica. La quale, ci ricorda Freud, procede “fin dall’inizio” nella resistenza (Resistenz). Del resto c’è resistenza perché c’è rimozione. E la rimozione proprio in quanto non può essere abolita comporta che la resistenza assuma una funzione ineliminabile. La nostra epoca, in effetti, pare piuttosto essere pervasa dalla modalità della sconfessione, da quel rinnegamento (Verleugnung) che caratterizza la posizione perversa e che comporta, più che resistenza, contrapposizione (Widerstand). Sempre più gli attacchi verso la psicoanalisi hanno un’impronta perversa, procedono pertanto da una sconfessione più che da una rimozione. Il nodo rimane ciò che ancora la psicoanalisi ha da dire in merito al nostro tempo, nonostante e grazie alla resistenza che incontra. Ed è parecchio ciò che rimane da dire, ma anche e soprattutto da portare in evidenza, da mostrare, da leggere, da interrogare, da interpretare in merito alle istanze più critiche e problematiche del nostro tempo. Se si tratta davvero di psicoanalisi, come non accorgersi che il nostro tempo è già, simultaneamente, un altro tempo? La contemporaneità è abitata dalla cifra dell’altrove. La contemporaneità è il tempo di un’alterità che occorre quanto meno rilevare e segnalare, non per svelarla ma per segnarne la presenza. Per segnalare in definitiva che non si guarisce dall’inconscio, che “l’altra scena” è attiva e compresente alla “stessa” scena della contemporaneità. Dal Romanzo familiare del nevrotico (1907) a quello che lui stesso definisce un “romanzo storico”,5 ossia il saggio L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1938), Freud avvertiva che anche la temporalità, cioè quella convenzionale distinzione che gli umani operano tra presente, passato e futuro, appartiene alla logica dell’inconscio. Proprio in questo testo riprende la distinzione tra “verità materiale” e “verità storica”, 5 “Se tuttavia io, che non sono né un ricercatore storico né artista, definisco uno dei miei lavori come un ‘romanzo storico’, ciò significa che questo termine consente ancora un altro impiego [...]. Valore di realtà esso [tale romanzo storico] non ne possiede alcuno, o ne ha solo uno indeterminato, poiché una verosimiglianza, per quanto elevata, non coincide con la verità. La verità è spesso molto inverosimile e solo in misura esigua le prove effettive possono essere sostituite da deduzioni e congetture”, in Sigmund Freud, Avvertenza editoriale a L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. xi, p. 335. 46 GIANCARLO RICCI appena per rilevare che il reale della storia diverge dal racconto. Che, in definitiva, il racconto non raggiunge mai il reale della storia. Che ne è di questo scarto? Dove si inscrive se non giunge mai a iscriversi? Oggi bisognerebbe riconoscere che la nostra contemporaneità è attraversata da una sorta di perversione temporale: le cose sono già accadute perché già confezionate dai media, il disagio ha già un nome ancor prima di essere esplorato, il nuovo viene sempre sospettato di essere una ripetizione di qualcosa di già visto. In definitiva nulla può accadere che non sia già inscritto in una rete simbolica prestabilita che nomina le cose ancor prima che accadano. È come se ciò costituisse il risvolto, nel mondo dell’informazione e della comunicazione, dello scientismo ossia di un’onnipotenza (immaginaria) che vorrebbe attuare un monopolio sul reale. memoria storica e temporalità Dunque l’“altra scena” della contemporaneità non corrisponde semplicemente al passato, ma è il luogo in cui si sono stratificate le vicissitudini della logica del fantasma, delle identificazioni, delle rimozioni o delle sconfessioni che sono accadute e si sono inscritte nello psichico. E che pertanto ancora risultano attive, attuali. Fanno sentire la loro voce. Avvicinarsi alla contemporaneità comporta l’arte di saper individuare la differenza nella ripetizione, ossia di cogliere la breccia di una significazione che apre una nuova temporalità. La contemporaneità della psicoanalisi coincide già con la psicoanalisi all’opera, al lavoro. L’attuale, ossia ciò che ancora e nonostante tutto (il tempo trascorso) è in atto, risulta un’istanza imprescindibile della psicoanalisi. Quando Freud parla dello svolgimento del transfert e della trasformazione del sintomo nel corso del processo analitico, dice che la “malattia” va considerata “come un organismo vivente”.6 Cioè come una struttura dinamica che persiste a vivere e a trasformarsi lungo le 6 “Non dimentichiamo che la malattia del paziente che prendiamo in analisi non è qualcosa di concluso, di cristallizzato, ma qualcosa che continua a crescere e svilupparsi come un essere vivente”, in Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1976, vol. viii, p. 593. ISTORIARE IL REALE 47 parole che vengono dette e nella relazione con l’Altro. Il transfert è la dimensione in cui l’attuale interviene come una figura dell’anacronismo. L’attuale è qui ma è anche altrove. Qualcosa c’è, si presentifica adesso, ritorna ora, ma non appartiene al tempo presente. Si tratta dello stesso anacronismo evocato da Freud quando dice che“le cose venute al mondo, tendono tenacemente a rimanerci”. E conclude: “Talora verrebbe perfino da dubitare che i draghi preistorici si siano davvero estinti”.7 Ma ce ne accorgiamo? O accade come la lettera di Dupin che nel racconto di Poe rimane sul tavolo talmente in vista da risultare invisibile? Il lavoro analitico in effetti procede lungo un attraversamento della memoria storica soggettiva, è un lavoro rivolto a individuare i probabili sentieri che consentono di avvicinarsi a un nucleo di verità storica. L’emblema di Edipo in tal senso è esemplare. Si tratta della vicenda che porta un soggetto a interrogarsi intorno alla propria storia, a metterla in questione, a interpellarla partendo dal proprio desiderio e dal proprio godimento. In definitiva a fare i conti con il tema della castrazione e ad assumerla in quanto soggettivazione. Se questo incontro risulta mancato, ossia se rimane una sorta di zona d’ombra o di menzogna a livello della “verità storica” del soggetto, è la pulsione di morte a prevalere. È sorprendente come Lacan nel seminario L’etica della psicoanalisi (1959-1960), quando esplora la pulsione di morte, indichi ripetutamente come la pulsione, in generale, non vada intesa in senso energetico ma, comporti una dimensione storica. Essa è “contrassegnata dall’insistenza con la quale si presenta, poiché si riferisce a qualcosa di memorabile perché memorizzato. La rimemorazione, la storicizzazione, è coestensiva al funzionamento della pulsione in ciò che viene chiamato lo psichico umano”.8 E poco dopo: “La pulsione di morte va collocata in un ambito storico, in quanto essa si articola a un livello definibile soltanto in funzione della catena significante”.9 Dunque “la storicizzazione è coestensiva al funzionamento della pulsione”. In un certo senso è un’affermazione che raggiunge il cuore Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile, in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. xi, p. 512. 8 Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 1994, p. 266. 9 Ivi, p. 268. 7 48 GIANCARLO RICCI stesso del transfert. Che mette in luce, come ogni interrogazione intorno alla propria probabile storia, chiama in causa la vita pulsionale del soggetto. Il suo particolare modo di desiderare, di testimoniare, di ritrovare nella propria memoria la traccia di un debito che ancora rimane aperto e che pare quasi inestinguibile. La clinica è la via regia che, all’ascolto dello psicoanalista, si presenta come un reticolo di implicazioni che rinviano ad Altro, che si strutturano a partire dall’Altro e che si enunciano in una differenza. Nella pratica clinica il racconto di ciò che è accaduto spesso risulta incongruente e lacerato da un non senso che dissolve la storicità. È interessante ripercorrere la ricchezza semantica della parola storia. Partiamo dall’aggettivo historikos: il primo significato classico è “ciò che riguarda la scienza di una cosa” e più tardi indica “ciò che riguarda la storia”. Plutarco ne parla con un’espressione traducibile con “i segni (grammata) conformi alla visione delle cose (pragmata) che illustrano come sono andate le cose”. Il verbo historeo significa investigo, esploro, ricerco, osservo, interrogo. E poi: vengo a sapere, imparo, conosco dopo ricerche. Infine: espongo a voce o per iscritto quanto ho investigato; racconto, narro, descrivo, dipingo (il nostro istoriare). Per concludere, histor: colui che conosce le leggi e il diritto, è il giudice, l’arbitro, il testimone.10 Sia pur nella loro referenza linguistica e filologica, queste notazioni gettano una luce particolare sulla figura centrale dell’elaborazione di Freud, quella di Edipo. La sua interrogazione “storica” intorno alla propria vicenda chiama in causa una nozione di verità che sembra scaturire, in una posizione terza, tra l’ambito della scienza e quello del diritto. Ma al tempo stesso rappresenta una testimonianza. Non certo gratuita, se il debito che con essa è assunto viene pagato a perdita d’occhio. È un pagamento retroattivo. retroattività e transfert Il tema cruciale della memoria è per Freud un terreno inaugurale: i ricordi di copertura, il déja-vu, la teoria del trauma, fino alla logica del sintomo, del transfert e della ripetizione. In definitiva il nodo è costituito dall’inganno della memoria. È un dato reperibile nella clinica: Cfr. Carlo Sini, I segni dell’anima, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 118-119. 10 ISTORIARE IL REALE 49 ciò che è presente è attuale, ossia in atto, ma non viceversa. Ciò che è attuale non necessariamente è presente. In questo divario, in questa non coincidenza si apre il vasto campo dell’ipotesi dell’inconscio e delle sue logiche. Se presente, passato e futuro sono attraversati “dal filo del desiderio”, solo il presente può considerarsi come coincidente con il reale, con ciò che è qui, nel suo accadere che persiste ad accadere. Il passato e il futuro sembrano appartenere a due ambiti immaginari. Questo reale del presente si tratta di dirlo, di renderlo simbolizzabile, di istoriarlo, di illustrarlo, esattamente come procede il lavoro onirico nel suo lavoro di figurazione.11 Ma il tema della memoria – dicevamo così cruciale per Freud – si svolge nel corso degli anni lungo un’elaborazione intorno alla temporalità. Fino a giungere, nella sua piena formulazione, al concetto di retroattività, in tedesco Nachträglichkeit.12 La retroattività freudiana, tradotta impropriamente nella versione anglofona con il termine di “azione differita” o con “posterità”, riguarda l’effetto di senso che interviene solo e soltanto dopo, a cose fatte o a cose dette. È importante sottolineare che non si tratta di causazione ma di significazione.13 È un effetto di senso che si effettua in una temporalità dominata dal “dopo”. Solo in un “dopo” il soggetto intende ciò che egli stesso voleva o ha voluto dire. Nella vita psichica la temporalità, il lavoro di storicizzazione, di “costruzione” della soggettività non prescindono dalla retroattività. Tra parentesi: la parola è quella strana attività che non prescinde dal fatto che il soggetto nel contempo è costretto ad ascoltare ciò che sta dicendo. Anche per questo semplice motivo passato, presente e futuro non costituiscono un continuum cronologico. 11 “È lecito dire che la raffigurazione del lavoro onirico, che non si propone certo d’essere compresa, non presenta al traduttore difficoltà maggiori di quelle offerte ai loro lettori dagli antichi scrittori di geroglifici”, in Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere, Boringhieri, Torino 1967, vol. iii, p. 314. 12 Ci sembra che tradurre questo termine con retroattività risulti ancora la soluzione migliore. Alla lettera sarebbe: ciò che viene portato dopo. È anche curioso che nella lingua tedesca vi siano altri termini che indicano la posizione del soggetto rispetto a qualcosa di già accaduto: Nachträglichkeit (die) significa carattere vendicativo. Oppure l’aggettivo nachtragend significa colui che non perdona, che è rancoroso o permaloso. 13 Questa notazione è ben evidenziata nell’importante articolo Nachträglichkeit di Fausta Ferraro e Alessandro Garella uscito su “Rivista di Psicoanalisi”, gennaio-marzo 2001, Borla, Roma 2001, pp. 79-106. 50 GIANCARLO RICCI Dove emerge per la prima volta in Freud il concetto di retroattività? Non a caso a proposito dell’isteria. Esattamente quando egli assimila la logica del sintomo isterico alla figura retorica del proton pseudos, ossia alla falsa supposizione: da una falsa premessa si approda a una conclusione vera. Nell’epoca in cui abbandona la teoria della seduzione che in definitiva si fondava sul nesso deterministico tra verità materiale e verità storica, Freud afferma per esempio che “viene rimosso un ricordo il quale è diventato un trauma solamente più tardi”.14 È indicativo che nei testi freudiani la comparsa del sostantivo Nachträglichkeit, laddove prima trovavamo solo l’aggettivo nachträglich, coincide con l’abbandono della teoria della seduzione ovvero coincide con la convinzione che tra fantasia e realtà, tra percezione del desiderio e rappresentazione del desiderio vi sia una divisione incolmabile. In seguito la letteratura psicanalitica situerà questa divisione come l’effetto della logica del fantasma. Ma ancora ritroviamo il tema della retroattività negli ultimi scritti di Freud, per esempio in Analisi terminabile e interminabile quando precisa che “il risultato vero e proprio della terapia analitica consisterebbe nella rettifica retroattiva dell’originario processo di rimozione”.15 In questo senso la logica del lavoro analitico – lavoro del ricordare, ripetere, rielaborare – può intendersi come un’incessante rettifica della soggettivazione mediante cui il soggetto fa i conti con il proprio inconscio. Fa i conti, anche, con l’atto di rimozione e con il ritorno del rimosso, in un movimento tra un dopo (après-coup) e un prima (avantcoup), tra un contraccolpo di senso che sorprendentemente getta in avanti e che, al tempo stesso, riporta inspiegabilmente all’indietro. La memoria in definitiva è tutt’altro che un archivio,16 non coincide con un elenco di ciò che è accaduto nel passato. La psicoanalisi teorizza che il passato non sempre “passa”, che il futuro ci viene incontro frontalmente, che il presente è strutturato come un ricordo e dunque è sempre altro. La realtà psichica è strutturata da questa dinamica. Per Lacan è il gioco della dialettica tra “troppo presto” e del “troppo tardi”. Il suo celebre grafo del desiderio mostra come il sog Sigmund Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere, Boringhieri, Torino 1968, vol. ii, p. 256. 15 Id., Analisi terminabile e interminabile, cit., p. 510. 16 Notevole a tal proposito il lavoro di Jacques Derrida, Mal d’archivio, Filema, Napoli 1996. 14 ISTORIARE IL REALE 51 getto rimanga sempre barrato in quanto la logica del fantasma gioca sempre in anticipo. La “contemporaneità” del soggetto può essere forse quella in cui egli si interroga sul futuro anteriore della propria vicenda: che cosa sarà stato? Che cosa sarà stato del mio desiderio o del mio godimento? Se l’Io non è padrone in casa propria e se il soggetto risulta un effetto a posteriori, il futuro anteriore, il “ciò che sarà stato” della sua storia, apre la prospettiva in cui si delinea l’ambito di una verità soggettiva. È un accadimento che mostra l’altro versante della memoria, la sua zona d’ombra che cresce e lambisce il tempo presente. Questa logica temporale della retroattività non riguarda direttamente la ripetizione. Eppure qualcosa si ripete nella retroattività. Ciò che si ripete è il movimento che proviene da qualcosa che pare trascorso e che fa irruzione nell’attualità, qui nel presente. Ciò che è trascorso non rimane identico a prima. È un altro senso a imporsi. Questo movimento permette di accostare il concetto di retroattività a quello di transfert. C’è un’immediata parentela significante tra Nachträglichkeit (retroattività) e Übertragung (transfert), quasi fossero due dispositivi omologhi, il primo relativo alla temporalità e il secondo alla traducibilità. Che cosa hanno in comune? Si tratta della parola tragen, portare. Nel caso del transfert: portare oltre (über), sopra, trasferire, trasporre. Nella retroattività: portare dietro (nach), aggiungere dopo, riportare. Questo movimento che porta e trasporta la lettera, riguarda l’istanza della lettera nell’inconscio (Lacan) ed è il cuore stesso del lavoro dell’inconscio: il portare, lo spostare (rimozione e resistenza), il trasporre, il prendere e trasferire altrove (inversione temporale, il ricordo di copertura, il falso nesso). Si tratta delle formazioni dell’inconscio. Del resto Freud lo annota a proposito della sua teoria dell’oggetto: ogni nuovo oggetto d’amore è un ritrovamento. Il nuovo non può che scaturire da un movimento retroattivo. In altri termini: il nuovo non irrompe come eventualità di un incontro nudo e crudo con il reale, ma risulta quale effetto di attraversamento di una dimensione storica (pertanto simbolica) che costituisce il tessuto della soggettività. Anche il lavoro onirico risente di questa logica. Non a caso le ultime righe dell’Interpretazione dei sogni – sono parole che racchiudono la cifra del sogno – procedono con il tema del portare: “Il sogno ci porta verso il futuro, ma questo futuro, considerato dal so- 52 GIANCARLO RICCI gnatore come presente, è modellato dal desiderio indistruttibile a immagine di quel passato”.17 Non troviamo in queste parole una formulazione inaugurale della retroattività? E in definitiva non evidenziano come il lavoro onirico sia anche un lavoro di istoriazione relativo a un nucleo di verità soggettiva? La lettera porta e trasferisce, ma sempre trasmette un eccesso di senso. La ripetizione prende il posto del ricordare osserva Freud a proposito della logica del transfert. “La ripetizione è il loro modo di ricordare.” Il transfert inteso come “riedizione” implica una particolare ripetizione. Ma, conclude Freud, dato che i sentimenti del pazienti “ripetono qualcosa che è già accaduto precedentemente […] lo costringiamo a trasformare la sua ripetizione in ricordo. Allora la traslazione […] diventa il migliore strumento con il cui aiuto si possono aprire i più impenetrabili scomparti della vita psichica”.18 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, cit., p. 565. Id., Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 593. 17 18 “Je t’aime… moi non plus”. Breve storia di una rottura. Amore e odio tra Wladimir Granoff e Jacques Lacan Michel Plon A un giornalista che gli poneva delle domande sul suo rapporto con Picasso, Salvador Dalí rispose: “Picasso è spagnolo, anch’io! Picasso è un genio, anch’io! Picasso è comunista, nemmeno io!”. Il cantautore Serge Gainsbourg, del quale ricorre il ventesimo anniversario della morte, riprese questa risposta sconcertante facendone il titolo di una canzone, Je t’aime… moi non plus. Canzone d’amore, canzone erotica, torrida persino, che all’epoca fece scandalo e fu giudicata così poco rispettabile che Brigitte Bardot, allora autentico sex symbol, si rifiutò di registrarla. Saranno Jane Birkin e il suo autore a trasformarla in un grande successo discografico. Sessualità, erotismo, rispettabilità, ma anche politica: dimensioni che gli analisti non sembrano apprezzare molto, nonostante li riguardino da vicino, come dimostrano la loro storia e la loro pratica. È per me un onore rievocare con voi alcuni aspetti, se non l’integralità, di una rottura nella relazione tra analisti. Si tratta di un esempio tra gli altri, ma ci consente forse di considerare la natura più generale di questi legami. Rupture, rottura; tanto il termine francese quanto quello italiano rimandano a diversi campi semantici. Alla sfera politica, rottura dei rapporti diplomatici, possibile preludio alla guerra con le sue invettive, i suoi eccessi e le sue atrocità; alla sfera affettiva, rottura amorosa con le sue manifestazioni di odio che c’è sempre stato, e che allora prende 54 MICHEL PLON il sopravvento sull’amore attestando però, al tempo stesso, che questo amore c’è ancora, anche nella rottura. Il legame tra Wladimir Granoff e Jacques Lacan,1 la rottura che sopravvenne nel 1963, sono l’esempio su cui mi è sembrato opportuno soffermarmi, mi sembra infatti esemplare dell’alchimia che mescola in modo inestricabile e tragico gli ingredienti della relazione tra due analisti di grande levatura. La conoscenza che possiamo avere dei legami, dei rapporti tra analisti, delle rotture di questi legami, delle scissioni che scandiscono a partire da Freud la storia del movimento psicoanalitico, proviene in primo luogo dalle corrispondenze epistolari tra analisti – in particolare quelle di Freud con i suoi collaboratori – e dai lavori degli storici. Bisogna inoltre distinguere, in questi approcci storici, quelli che potremmo definire descrittivi, evenemenziali. Pur riconoscendo la loro grande utilità, non si può non rilevarne il carattere limitato che fa segno verso la necessità di una storia specificamente psicoanalitica, che però sostanzialmente manca.2 Si tratterebbe in tal caso di un approccio storico capace di affrontare, tra le diverse componenti, soprattutto la questione delle modalità del transfert e del controtransfert tra analisti, cioè dimensioni quali l’odio e l’amore, l’erotismo, ma anche la rispettabilità. Per il nostro discorso, mi sembra utile distinguere tra scissione e rottura (distinzione che andrebbe comunque discussa anche in un altro contesto). Certo, tutto lascia pensare che questi due tipi di evento abbiano in comune il fatto di sorgere sullo sfondo di disaccordi o dissensi teorici sufficientemente profondi da escludere qualsiasi tipo di riconciliazione, cosa mai avvenuta nella storia del movimento psicoanalitico. Resta 1 L’ordine è importante, in quanto sarà Granoff a lasciare Lacan, e non il contrario. Si noti che è precisamente questo “contrario” a caratterizzare il più delle volte le relazioni di Freud con i suoi allievi o colleghi, essendo lui che rifiuta, ripudia, caccia o semplicemente prende l’iniziativa della rottura. 2 Questa forma di storia è incontestabilmente dominata dall’opera di Élisabeth Roudinesco, che si tratti dei due volumi di Histoire de la psychanalyse en France o di Jacques Lacan, Esquisse d’une vie, Histoire d’un système de pensée, opere ormai disponibili in edizione economica. Aggiungerei, cosa per nulla trascurabile, che questo lavoro di Élisabeth Roudinesco ha costituito la prima apertura, il trampolino che ha condotto gli analisti a interessarsi alla loro storia, cosa che all’inizio degli anni ottanta trascuravamo quasi completamente, effetto della cosiddetta mouvance structuraliste. Si veda anche il libro di Claude Dorgeuille (La seconde mort de Jacques Lacan, Association Freudienne, Paris 2000), per quanto riguarda gli eventi successivi alla dissoluzione dell’efp da parte di Jacques Lacan nel 1980, e d’altra parte il n. 49-50 della rivista “Cliniques Méditerranéennes” dedicato al tema Scissions terminées scissions interminables. “JE T’AIME… MOI NON PLUS” 55 il fatto che se nei processi di scissione si può rilevare l’importanza degli aspetti istituzionali, ossia politici, rappresentati da questioni riguardanti l’insegnamento, la trasmissione e la formazione degli analisti, le rotture, concernenti in generale i legami tra analisti, mettono invece in evidenza questioni di ordine personale, dove entrano in gioco processi narcisistici, di identificazione e di transfert. Sarebbe assurdo negare gli intrecci tra l’istituzionale, il politico e il transferale, senza che questo giunga a invalidare la distinzione proposta. In ogni caso, un intreccio di queste tre componenti appare nettamente nell’esempio della rottura tra Granoff e Lacan. Ed è proprio quello che cercherò di mostrare. Un breve accenno a due esempi può servire a chiarire la distinzione tra scissioni e rotture. Esempio di scissione, quella che ebbe luogo nel 1953 in Francia, nel corso della quale si verificò la partenza dalla spp3 di un non trascurabile numero di analisti che andranno a fondare una nuova società, la sfp,4 senza rendersi conto che così facendo si escludevano giuridicamente dall’ipa (dettaglio che rivestirà tutta la sua importanza nel 1963). Leggendo gli archivi concernenti tale scissione,5 chiunque potrà constatare che il registro transferale – manifestazioni di tristezza o di aggressività, con tutto il corredo di insulti, invettive o epiteti sprezzanti che tradiscono sia l’odio che l’amore – è solo moderatamente in primo piano negli scambi epistolari e nelle riunioni che punteggiano questo evento, nel quale vengono affrontate soprattutto questioni istituzionali e di potere. Persino la lunga lettera-rapporto a Loewenstein, nella quale Lacan espone, a quello che fu il suo analista, le ragioni alla base di tale scissione, dimostra il suo contegno. Lacan sottolinea i blocchi istituzionali della spp e conserva un tono severo, ma relativamente moderato, quando si parla di Serge Nacht con il quale aveva rotto ogni rapporto.6 Nel 1953, i disaccordi teorici sono Société Psychanalytique de Paris, branca francese dell’International Psychoanalytical Association. 4 Société Française de Psychanalyse. 5 La scission de 1953, documenti editi da Jacques-Alain Miller, in “Ornicar?”, supplemento al n. 7, 1976. Ma si veda anche Élisabeth Roudinesco, Histoire de la psychanalyse en France, vol. i, Seuil, Paris 1986, e l’articolo di Alain de Mijolla, La scission de la Société psychanalytique de Paris en 1953: quelques notes pour un rappel historique, in “Cliniques Méditerranéennes”, 1996, n. 49-50. 6 Ivi, pp. 120-135. 3 56 MICHEL PLON senz’altro presenti, ma ancora poco espliciti; solo immediatamente dopo, in particolare con il Discorso di Roma dell’autunno 1953, Lacan comincerà a portare l’offensiva a livello teorico, lasciando intendere contenuto e senso di uno “scarto” rispetto agli orientamenti dell’ipa, che non scomparirà mai e che non può essere ridotto, com’è successo spesso, alla mera questione della durata delle sedute. Tra gli esempi di rotture nelle quali, sulla base di disaccordi teorici insanabili, la dimensione affettiva e la coppia amore-odio si sono manifestate in modo evidente, ce ne sono alcuni ben noti e sui quali non mi dilungherò. Mi riferisco in primo luogo alla rottura tra Freud e Jung: se il disaccordo teorico è ben presente – come testimonia la precipitosa redazione da parte di Freud di Totem e tabù – l’odio è in primo piano e si protrarrà ben oltre la rottura stessa. L’altro esempio è la rottura tra Freud e Ferenczi, anch’essa lunga e che si svilupperà nel dolore e nella tristezza. Consideriamo ora come situare la relazione tra Granoff e Lacan, la loro rottura nel 1963, ed eventualmente che cosa questo frammento di storia della psicoanalisi in Francia può dirci rispetto alla nostra attualità. Ho fatto prima riferimento al rammarico per la mancanza di una storia delle relazioni tra analisti nella quale entrasse in gioco con sufficiente forza ciò che la psicoanalisi stessa c’insegna. Ebbene, se c’è qualcuno che potrebbe sentirsi toccato da tale mancanza è proprio Wladimir Granoff. Sin dall’inizio di Filiations,7 opera pubblicata nel 1975, ossia dodici anni dopo la rottura con Lacan, egli s’interroga sull’effettiva possibilità di parlare dei rapporti tra analisti, dopo aver affermato che essi si trovano “totalmente nell’impasse – ma che direbbe oggi? – in un modo che esclude dal dibattito la teoria e la dottrina che costituiscono questo campo”. A meno che, aggiunge qualche riga dopo, gli analisti non vadano a rifugiarsi sotto altre bandiere, in particolare quella degli psicosociologi – possibile allusione ai libri di Serge Moscovici8 e di Robert Castel9 – per arrivare al paradosso di “vedere analisti di mestiere domandare a non analisti di illuminarli su ciò che avviene fra loro”. Fatta eccezione per questo libro di Granoff, la consi Wladimir Granoff, Filiations, Gallimard, Paris 2001, pp. 27 e sgg. Serge Moscovici, La psychanalyse, son image et son public, puf, Paris 1961. 9 Robert Castel, Le psychanalysme, Maspero, Paris 1973, riedito da Flammarion, Paris 1981. 7 8 “JE T’AIME… MOI NON PLUS” 57 derazione non ha avuto seguito. Per quanto mi riguarda, vorrei invece utilizzare il mio intervento per riprenderla, anche se in modo rapido e balbettante, cercando di navigare tra due scogli: quello di una dimensione puramente aneddotica e quello dell’interpretazione selvaggia. Al momento della scissione del 1953, Wladimir Granoff, classe 1924, è insieme a Serge Leclaire, François Perrier e il suo amico Robert Pujol solo un allievo dell’Istituto di psicoanalisi della rue Saint Jacques a Parigi, un’appendice della spp di cui Lacan sarà presidente fino alle sue forzate dimissioni, dopo una mozione di sfiducia votata il 16 giugno 1953. Allievo dell’Istituto, élève finissant, secondo le sue stesse parole. Allievo che sta concludendo il suo ciclo di formazione all’Istituto. Ciò non toglie che Lacan – quando avvia il suo primo seminario nell’ambito della sfp, definendo quelli che lo circondano come il “gruppo autonomo” al quale sarebbe affidato il destino del movimento – è Granoff che interpella, insieme a Didier Anzieu, Octave Mannoni e François Perrier, affinché lavorino attraverso una serie di relazioni sugli aspetti del rapporto analista/analizzante, invischiato nel pantano della two bodies psychology .10 La scena, lo vedremo alla fine di questa rapida panoramica, si ripeterà quasi punto per punto dieci anni dopo, ma con poste in gioco diverse. Nella seduta del 17 marzo successivo, Lacan chiama ancora in causa Granoff con insistenza, sottolineando l’interesse dell’élève finissant nei confronti dell’articolo di Freud sull’amore di transfert. Lacan solleciterà nuovamente Granoff affinché faccia una relazione su Balint, intuendo l’interesse, l’attrazione dell’allievo per l’approccio ferencziano della relazione transferale, al quale Lacan aderisce però in modo molto moderato. Grazie alla cura del trascrittore, Jacques-Alain Miller giusto per non fare nomi, noi non disponiamo del testo di questa relazione di Granoff ! Sappiamo solo che gli valse un “buon voto” da parte di Lacan, avendo egli perfettamente individuato ciò che vi era di sbagliato nell’insistenza di Balint sulla relazione d’oggetto, amore primario che ignorerebbe il linguaggio.11 Questi incisi, tutt’altro che trascurabili nell’intensità della relazione tra Lacan e Granoff, testimoniano già il posto che sia l’uomo Granoff sia la questione del transfert, positivo in questo momento, occupano nella relazione tra i due uomini. 10 Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre i. Les écrits techniques de Freud (1953-1954), Seuil, Paris 1975, p. 13. 11 Ivi, pp. 243-244. 58 MICHEL PLON Continuiamo la nostra indagine, ma senza tralasciare i dettagli. Conosciamo tutti la loro importanza nell’analisi, che Freud aveva individuato leggendo le avventure di Sherlock Holmes narrate da Arthur Conan Doyle, quando paragonava appunto l’analisi a un’inchiesta. Elève finissant, ma anche Senior student, Granoff tiene a precisarlo in questo testo testimonianza.12 Il fatto che, in diverse occasioni, affianchi il lessico inglese, aggiungendo “come direbbero gli Anglosassoni”, serve a ricordare che era poliglotta – parlava correntemente, oltre l’inglese, il russo, la sua lingua madre, il tedesco e il francese, ma conosceva anche qualche espressione italiana e spagnola. Preoccupazione di un uomo rivolto verso le lingue, verso l’estero, preoccupazione di un internazionalista, che rifiutava fermamente ogni forma di “esagonalismo”:13 così facendo Granoff lascia trasparire uno scarto rispetto a Lacan, che diventerà un elemento importante nella loro rottura. Ma all’inizio bisogna vedervi la traccia della sua attenzione alle difficoltà di Lacan, del Lacan di prima del 1964, l’indizio di ciò che egli dichiarerà essere il suo amore per Lacan: Granoff sapeva infatti che Lacan parlava l’inglese o il tedesco con difficoltà – li leggeva invece perfettamente – e che a causa di ciò, a causa di una mancanza di disinvoltura nella conversazione informale e nelle discussioni improvvisate, si trovava come separato dagli analisti inglesi e americani, e ne soffriva. Soffriva del fatto di non potersi completamente immergere nel clima internazionalista che era l’elemento naturale di Granoff: “Quest’internazionalismo nella sua vita, penso che Lacan lo abbia in un certo modo sognato, vissuto. Ha provato nostalgia di qualcosa che non aveva mai conosciuto e che, penso, tesseva tra noi fili segreti”.14 Dichiarazione che, nonostante la sua finezza, lascia nell’ombra l’ambivalenza che su questo come su altri punti caratterizzava la relazione tra i due. Un’ambivalenza fatta di ammirazione, di un sospetto di compassione, ma anche d’invidia e gelosia. Un’altra caratteristica che credo permetta di affinare l’approccio a 12 Wladimir Granoff, Lacan, Ferenczi et Freud, Gallimard, Paris 2001, p. 15. Questo testo è una conversazione con Alain-Didier Weil, pubblicata tra l’altro nel libro intitolato Quartier Lacan, a cura di Alain-Didier Weil, Emile Weiss e Florence Gravas, Denoël, Paris 2001. 13 La questione della tendenza a chiudersi nella “francesità” si ritrova in questa replica di Serge Leclaire, enunciata verso la fine degli anni cinquanta e riportata da Granoff: “Ma io non voglio essere rinchiuso in questo ghetto della società francese […] io ho voglia di conoscere i miei colleghi al largo”. 14 Wladimir Granoff, Lacan, Ferenczi et Freud, cit., p. 40. “JE T’AIME… MOI NON PLUS” 59 questa relazione e alla sua rottura, è il fatto che, a differenza di Leclaire e Perrier con i quali formerà la cosiddetta “troïka”, ma anche di molti altri, Granoff non è un analizzante di Lacan e non ha fatto supervisioni con lui. Questo significa che tra loro c’è una relazione priva di ogni traccia di dipendenza o di debito analitici, una relazione che non è, che non è mai stata presa nella rete della cura analitica, una relazione nella quale nessuno dei due ha occupato per l’altro la posizione del soggetto supposto sapere. Rispetto a questa posizione, se da un lato sappiamo che viene detto, teorizzato che essa debba cancellarsi alla fine dell’analisi, visto che l’analista non vi aderisce, o non dovrebbe farlo, dall’altro sappiamo anche che molto spesso questo non accade o accade solo parzialmente. Questa situazione particolare non esclude che sia in atto un transfert, ma questo transfert sfuggirà a ogni forma di analisi per tutto il tempo che dura la sua efficacia, la qual cosa spiega l’ulteriore brutalità della fase di rottura. Quella tra Granoff e Lacan è una “relazione di uomini”, dice Élisabeth Roudinesco evocando il fatto che Lacan ammirava e al tempo stesso temeva Granoff,15 la quale tuttavia non fa alcun riferimento alla considerazione di Granoff, circa la connotazione omosessuale di tale relazione, aspetto che gli analisti aggirano sistematicamente.16 Granoff la qualifica come relazione d’amore, e a sentire lui sarebbe cominciata con un colpo di fulmine, per un Lacan definito “giovanilmente aristocratico”, e non clownesco come apparirà più tardi agli occhi dello stesso Granoff che lo trovava invece, al tempo del loro incontro, “supremamente seducente”.17 Più specificamente, si tratta di una relazione che Granoff definisce “fra Élisabeth Roudinesco, Histoire de la psychanalyse en France, Seuil, Paris 1986, vol. ii, p. 15 291. 16 Wladimir Granoff, Le désir d’analyse (2004), Flammarion, Paris 2007. Granoff parla, a p. 141, del “cemento di omosessualità che dà coesione alla maggior parte delle società. Ecco un fattore del quale non so se sia già venuto il momento di tenere conto, ma che ha giocato un ruolo che nessuno storico è attualmente in grado né di sfruttare né di puntellare attraverso la documentazione. Tanto più che dovrebbe fare i conti con il fuoco di sbarramento dei milleriani e di altri. Non ammetteranno mai un’ipotesi per loro così scandalosa, indegna e umiliante. Ciò non toglie che questo aspetto fu assolutamente determinante. Quando le cose hanno cominciato a decomporsi, Lacan ha perso la fiducia in noi, così come noi abbiamo perso la fiducia in lui e tra noi stessi. Ve ne parlo perché si ha un bel dire che queste cose si svolgano dietro le quinte, resta il fatto che proprio qui intervengono spesso i fattori più potenti”. 17 Wladimir Granoff, Lacan Ferenczi et Freud, cit., pp. 16-19. 60 MICHEL PLON terna”: Lacan per Granoff non è né un maestro né un padre, ma “un fratello maggiore”,18 ed è evidente che questa relazione fraterna, pur essendo fatta d’amore, è intessuta di una rivalità che, rimasta a livello solo potenziale per dieci anni, esploderà nel fatidico 1963. Rileviamo di passaggio che Granoff, quando evoca questa dualità della fraternità e della rivalità, nota di nuovo che qui è in gioco, come nel caso dell’omosessualità latente tra analisti uomini, una questione quasi ignorata dagli analisti e che a suo avviso agisce in maniera essenziale nei processi di scissione tra le istituzioni analitiche.19 L’esplosione, che si produce nel 1963, è troppo spesso ridotta a ciò che Granoff ha definito il suo “tradimento” nei confronti di Lacan, ma la cosa è più complessa, ed è lo stesso Granoff ad ammettere che la rottura è “organizzata in un’arborescenza di fattori”,20 che ora cercherò d’illustrare brevemente. Cominciamo dall’aspetto più superficiale della relazione, dal registro epidermico della rispettabilità, la quale però, come si è detto all’inizio, costituisce una dimensione tutt’altro che trascurabile. Essa viene per esempio menzionata negli scambi epistolari tra Freud e Jung, a proposito di Sabina Spielrein, e più in generale nelle discussioni che Freud, dal 1912, chiude sul controtransfert. In tale registro dunque, che è anche quello della seduzione (ricordiamo il “giovanilmente aristocratico”), la rivalità si esprime a livello della postura, dei segni esteriori che potremmo definire di “ricchezza” – Granoff nota che rispetto agli anni sessanta la professione di psicoanalista si è ampiamente proletarizzata –, si tratti dell’abbigliamento, dell’eleganza, sobria e aristocratica nel caso di Granoff, o delle giacche un po’ eccentriche di Lacan, delle sue camicie ricamate e dei cappotti di pelliccia. In quelli che possono oggi sembrarci meri dettagli, trova in realtà espressione un codice che regge l’ambiente analitico dell’epoca, partecipando ampiamente alle identificazioni tra gli analisti, consapevoli di scrivere una pagina importante della storia della disciplina. Codice che, quando emergono le tensioni, può costituire invece un tenant lieu, un alibi per mezzo del quale si esprimono l’aggressività, il deterioramento della relazione amorosa, la sostituzione dell’originaria seduzione con il disprezzo. Si prenda l’esempio Ivi, pp. 28-29. Ivi, p. 29 20 Ivi, p. 25. 18 19 “JE T’AIME… MOI NON PLUS” 61 del pranzo tra Granoff e Lacan cui partecipano Leclaire e Perrier. Nel racconto che ne fa nel 1997, quasi quarant’anni dopo, Granoff lascia trasparire con rara forza di verità la propria amarezza, la ferita provata quando Lacan – “la situazione – egli precisa – era già molto tesa”, esplode dicendogli: “Ah! Ascolti Granoff, davvero comincio a non poterne più di lei, […] e devo dire che la sua sete di rispettabilità borghese l’annichilerà!”. Commento di Granoff: “Era una follia che a qualcuno come me Lacan parlasse così! Sete di rispettabilità borghese! Ma se tutti quelli da cui ero circondato mi scongiuravano di diventare borghesemente rispettabile!”.21 Poco più avanti, Granoff evidenzia come a quell’epoca Lacan e il suo stile fossero diventati tali da urtare il suo puritanesimo, le sue resistenze e aggiunge: “Quando la sua eleganza, secondo me per mancanza d’esperienza, di formazione, di orizzonte [riferimento appena velato all’internazionalismo, N.d.R.] è diventata travestimento clownesco: questo mi dava fastidio”.22 Dietro un simile scontro dai connotati fallici, vera e propria scena di ripicca amorosa, appare un secondo registro: quello di una rivalità intellettuale che mette in gioco il senso della storia, della posterità e, in un senso più preciso l’oggetto dell’analisi, il rapporto analitico, dimensioni che affioreranno con incredibile violenza quando la tensione crescerà alla vigilia del rifiuto dell’ipa di riconoscere Lacan come didatta. Alcune sue repliche, non prive di teatralità, testimoniano come quest’ultimo fosse abitato da due forze contraddittorie: da un lato il sentimento di essere il personaggio più prestigioso, colui che aveva fatto e avrebbe continuato a fare avanzare la psicoanalisi, dall’altro un sentimento di sofferenza, derivante dal non essere – ancora – internazionalmente riconosciuto (ritroviamo di nuovo la questione dell’internazionalismo). A Daniel Widlöcher, in particolare, che in qualità di ambasciatore del gruppo tenta di fargli credere che verrebbe reintegrato dopo essere stato radiato, Lacan risponde: “Che cosa vuole? Escludermi? Che non mi occupi più di didattica? È completamente pazzo mio caro ad abbandonami proprio nel momento in cui sto diventando celebre”.23 Granoff non si esporrà così ai fulmini del maestro, mantenendo fino al febbraio 1963 una relazione teorica fittizia, alla quale in realtà non crede più Ivi, p. 26. Ivi, p. 54. 23 Élisabeth Roudinesco, Histoire de la psychanalyse en France, cit., p. 367. 21 22 62 MICHEL PLON e che avrà come quadro teatrale il seminario L’angoisse.24 Sarà l’ultimo atto della tragedia, e non si tratta di semplice metafora: il momento in cui si realizza l’intreccio tra l’istituzionale, il teorico e l’intimo, cioè il vissuto narcisistico. La rottura si collega con la scissione che avverrà all’interno della sfp e che condurrà alla fondazione dell’efp.25 Nel febbraio 1963, la tensione tra gli orizzonti teorici dell’ipa e il percorso che Lacan sviluppa da dieci anni è all’apice. Ma Lacan da un lato e Granoff dall’altro non riescono a uscire dal gioco degli inganni: il primo, pur perfettamente consapevole che non rinuncerà mai ai percorsi teorici sviluppati negli ultimi dieci anni, continua a sperare di essere comunque mantenuto nei ranghi dell’ipa – preoccupazione di un internazionalismo irraggiungibile; il secondo continua invece a far finta di credere a un possibile compromesso, pur sapendo che è impossibile, che non c’è modo di far indietreggiare Lacan dal suo percorso teorico, considerato dallo stesso Granoff come una perdizione, e tutto questo mentre egli ha già stabilito dei legami con i responsabili dell’ipa, con il suo Presidente Maxwell Gitelson, di cui dirà essere divenuto “un fratello di sostituzione”.26 Gioco degli inganni dunque, e non tradimento, come si è spesso detto, a cominciare dallo stesso Granoff. Perché se c’è stato tradimento, non si tratta tanto di quello di Granoff nei confronti di Lacan, quanto quello di Granoff nei confronti di se stesso. L’ultimo faccia a faccia sarà una sorta di ripetizione dei felici anni cinquanta: Lacan questa volta si assenterà, distribuendo al tempo stesso ruoli e partizioni per quelli che dovranno animare il seminario durante questa parvenza di assenza: attraverso tale messa in scena, Lacan si rende infatti più presente del solito. In un’opera di recente pubblicazione, Gloria Leff restituisce in modo minuzioso questa scena,27 sviluppatasi nell’arco di due sedute di seminario, ricordando che fu Jean Allouch il primo a suggerire l’ipotesi che la metafora teatrale fosse stata immaginata da Lacan ai tempi in cui rileggeva Amleto, dichiarando di non aver sufficientemente sottolineato la “funzione della scena nella scena” presente nel dramma di Shakespeare. Intreccio del teorico, in occasione di questa rilettura Lacan introdurrà due tipi d’identificazione immagi Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre x. L’angoisse (1962-1963), Seuil, Paris 2004. École Freudienne de Paris. 26 Wladimir Granoff, Lacan Ferenczi et Freud, Gallimard, Paris 2001, p. 29. 27 Gloria Leff, Portraits de femmes en analyste Lacan et le contre-transfert, Epel, Paris 2009. 24 25 “JE T’AIME… MOI NON PLUS” 63 naria: quella dell’immagine speculare – identificazione di Amleto con Luciano – e quella con l’oggetto del desiderio, Ofelia stessa. Ma Gloria Leff, decifrando questo montaggio, si domanda, credo a giusto titolo, se attraverso questa messa in scena Lacan non mirasse a rimarcare il suo dominio nei confronti di uno di coloro che dovevano negoziare con l’ipa la sua permanenza come didatta. Desiderio d’internazionalismo in Lacan, ma senza per questo ratificare, sia pure silenziosamente, una qualsiasi forma di dipendenza, ovvero abdicare alla propria superiorità teorica; e d’altra parte, preoccupazione in Granoff di ribadire la propria indipendenza, istituzionale più che teorica. Lotta di prestigio, questione del posto dominante, Granoff si sforzerà di non rispettare il “casting” pianificato da Lacan, privilegiando in una di queste famose sedute del seminario, non tanto lo studio circoscritto di qualche articolo, quanto una vera e propria cronologia dei lavori che, nella storia della psicoanalisi, hanno trattato del transfert in generale e, più precisamente, del controtransfert e dell’erotismo che vi è inscritto. La rottura è senz’altro teorica, ma essa è soprattutto istituzionale, come se non potendo avere l’ultima parola a livello teorico Granoff, più vicino in definitiva a Ferenczi che a Lacan, si smarcasse dai suoi due accoliti, Perrier e Leclaire, firmando la mozione che avrebbe portato all’eliminazione di Lacan dalla schiera dei didatti dell’ipa. Rottura quindi, ma con delle differenze rispetto a quella tra Freud e Jung. Al silenzio definitivo di Lacan su questo duello, Granoff oppone – la lettura di Filiations lo dimostra ampiamente – non solo il rimpianto, ma il debito nei confronti di Lacan, il rifiuto di calunniarlo e persino di criticarlo, con il risultato di essere marginalizzato dai suoi colleghi, tutti ex lacaniani, dell’apf,28 unico esempio, credo, di fedeltà al di là della rottura. Allo stesso modo, Granoff testimonierà di non conoscere, dopo la silenziosa rottura con Lacan, di nessun discorso ostile di quest’ultimo nei suoi confronti.29 Un’ultima parola, in omaggio all’anglofono Granoff: mi sembra di poter dire che fossero due gentlemen! Sarà forse un’eccezione? (Traduzione di Pierangelo Di Vittorio) 28 Association Psychanalytique de France che raccolse tutti gli appartenenti della spf che, al momento della scissione del 1963, rifiutarono di reintegrarsi nella spp. 29 Ivi, p. 49. Transfert analitico e transfert istituzionale Franco Lolli Vorrei approfondire una scena di rottura particolare: quella che mi ha portato qualche anno fa a prendere la decisione di dimettermi dalla slp. Il mio intervento sarà, pertanto, assolutamente non obiettivo, nel senso che prenderà le mosse da considerazioni personali, di parte, volutamente e necessariamente non neutrali; ma il mio scopo non è quello di affermare la verità dei fatti. Non ho la pretesa di ricostruire gli eventi in maniera “imparziale”. Mi interessa, al contrario, ragionare su cosa ha prodotto in me una disaffezione così profonda verso un’istituzione che per anni era stata oggetto di un transfert potente e indiscutibile. Proverò a riflettere sulla questione cercando di sviluppare un pensiero che si insinuò in me in occasione del primo “scisma” al quale ebbi personalmente modo di assistere – quello che causò la clamorosa rottura tra Jacques-Alain Miller e Colette Soler – e che si è successivamente consolidato con le vicende che portarono alle dimissioni dalla slp di un numero considerevole di analisti che oggi sono qui. Nel far questo premetto che privilegerò una prospettiva di lettura che, ovviamente, non ha la velleità di dirimere la questione. Ciò che mi interessa fare oggi, nel primo Convegno organizzato dall’Associazione Lacaniana Italiana, in questo suo battesimo così importante per tutti noi, in questo suo tanto atteso “prendere la parola” all’interno della comunità analitica italiana, è ragionare su un aspetto della faccenda che, forse a causa della sua evidenza, corre il rischio di essere sottovalutato. TRANSFERT ANALITICO E TRANSFERT ISTITUZIONALE 65 “L’idea che la superficie è il livello del superficiale è pericolosa”.1 Così ammonisce Lacan ne La direzione della cura. L’evidenza di un fatto non cancella la sua pregnanza, né rinvia a una presunta superficialità intesa come insignificanza o irrilevanza. Anzi; Lacan esorta i suoi lettori a non prendere sul serio l’opposizione tra superficiale e profondo, opposizione – afferma nel Seminario ii – “di cui vi supplico sempre di sbarazzarvi”. Come dice Gide nei Falsari: “nulla è più profondo del superficiale, perché non c’è affatto un profondo”.2 È questo uno dei punti rilevanti della lettura che Lacan propone del testo di Edgar Allan Poe: ciò che, nel racconto La lettera rubata, differenzia e distingue l’investigatore Dupin dal commissario di polizia è – come spiega Lacan – il non essersi lasciato ingannare e accecare dall’abbaglio che la messa in mostra dell’oggetto genera in chi lo ricerca, pensandolo nascosto chissà dove; chi si aspetterebbe, infatti, che esso sia “a portata della mano che il rapitore non ha più che da allungare”?3 Dobbiamo fare come Dupin, sembra invitarci Lacan, dare risalto alle evidenze. Ho, pertanto, deciso di concentrare il mio intervento su un aspetto che ha tutte le caratteristiche del “superficiale”, di ciò che si impone all’attenzione per la sua sfacciata ovvietà. Si tratta del transfert e dei problemi che esso crea all’interno di una comunità analitica. “All’inizio della psicoanalisi è il transfert”, dice Lacan ne La proposizione del 9 ottobre 1967.4 Cosa vuol dire un’affermazione del genere? A quale inizio fa riferimento Lacan? All’inizio della storia del movimento psicoanalitico o a quello di una cura psicoanalitica? Di entrambi, possiamo rispondere senza alcun dubbio. Non c’è trattamento psicoanalitico se non c’è transfert, non c’è istituzione psicoanalitica se, al suo interno, non circola transfert. E siccome chiunque faccia parte di un’istituzione psicoanalitica – in qualità di analista o di aspirante analista – ha necessariamente un’esperienza di analisi personale, la questione è capire come le due forme di transfert (quello diretto all’analista e quello diretto all’istituzione) entrino in relazione tra Jacques Lacan, La direzione della cura, in Scritti, vol. ii, Einaudi, Torino 1974, p. 597. Id., Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955), Einaudi, Torino 1991, p. 197. 3 Id., Il seminario su “La lettera rubata”, in Scritti, vol. i, Einaudi, Torino 1974, p. 33. 4 Id., Proposta del 9 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola, in Scilicet/1, Feltrinelli, Milano 1977. 1 2 66 FRANCO LOLLI loro. Dobbiamo, infatti, tenere presente che in una Comunità di analisti transfert analitico e transfert istituzionale convivono l’uno affianco all’altro con alterne vicende e con rapporti oscillanti. Il loro equilibrio è precario e mai definito una volta per tutte. Si tratta, allora, di provare a studiarne le reciproche influenze e di imparare a valutarne gli effetti. Nella prima versione della Proposta del 9 ottobre,5 Lacan descrive le trasformazioni del transfert all’interno della cura. Il percorso che, in questo breve ma intenso testo, riassume le vicissitudini transferali può essere così schematizzato: dall’agalma al palea. Vediamo bene di cosa si tratta. Il soggetto supposto sapere è la forma che inaugura la serie trasformativa. In essa, lo psicoanalista è ritenuto depositario di uno straordinario dono: il sapere sul soggetto analizzante. È una supposizione, si affretta a precisare Lacan; infatti, “la questione non è quel che sa [l’analista, N.d.A.], ma la funzione di quel che sa nella psicoanalisi”.6 Il che vuol dire che ciò che conta è la capacità dell’analista di occupare una particolare posizione nel transfert, quella che consente al desiderio di sapere dell’analizzante di germogliare. La funzione dell’analista è, spiega ancora Lacan, quella dell’agalma; egli, cioè, incarna l’oggetto prezioso che attiva e concentra su di sé le passioni e le seduzioni dell’amore, consapevole che, puntualizza Lacan,7 egli – come Socrate – si presta a essere il bersaglio di un messaggio rivolto ad altri. Il transfert, originariamente, si attiva su questo versante; il versante nel quale l’analista fa di sé l’involucro che lascia intravvedere lo splendore e la vitalità del desiderio. Ma questa non è che la condizione perché un lavoro analitico si metta in moto; quando questo sarà ben avviato, “tocca a lui [Lacan si riferisce all’analista, N.d.A.] perdere l’agalma”.8 L’analista, dunque, deve perdere l’agalma. Egli deve essere disposto a farsi degradare (il termine è di Lacan), a farsi sicut palea – dice citando l’ultimo sconsolato commento di San Tommaso alla propria immensa opera filosofica. L’analista si fa scarto, resto, oggetto. Si tratta, come è 5 Id., Proposta del 9 ottobre 1967 (prima versione), in “La Psicoanalisi”, n. 15, Astrolabio, Roma 1994. 6 Ivi, p. 17. 7 “[…] il problema dell’analista è rappresentabile (e proprio per questo gli abbiamo dato il posto che sappiamo) nel modo in cui Socrate sostiene il discorso di Alcibiade, cioè, precisamente in quanto esso mira un altro, Agatone, dal nome ironico proprio in questo caso” in ivi, p. 18. 8 Ivi, p. 21. TRANSFERT ANALITICO E TRANSFERT ISTITUZIONALE 67 facile intuire, di un cambiamento di statuto radicale. Perdere l’agalma significa rinunciare allo charme, al fascino immaginario che l’essere il destinatario della supposizione di sapere può generare. Significa collocarsi all’estremità opposta della brillantezza agalmatica e presentarsi come puro oggetto di scarto. E se, allora, il sapere non è più tutto sull’analista, bisogna che l’analizzante lo vada a cercare altrove. Il transfert sull’istituzione analitica può attivarsi così; il che presuppone, bisogna ricordare, che l’analizzante in questione abbia fatto esperienza di questa “mutazione transferale”. In tal caso, il transfert analitico risulterà al servizio del transfert istituzionale; ne costituirà lo sfondo, la premessa giusta perché il futuro aderente all’istituzione si trovi nella possibilità di fare scelte indipendenti da eventuali “debiti di amore transferale”. Ripeto questo concetto perché mi sembra davvero fondamentale: il legame con l’istituzione – un legame vero, capace di superare i momenti di conflitto che qualunque comunità di umani attraversa – può svilupparsi in funzione del fatto che i suoi membri abbiano sperimentato nella propria analisi la destituzione del soggetto supposto sapere e che abbiano collocato l’agalma presso l’istituzione stessa. L’analista, vi ricordo quel che dice Lacan, deve perdere l’agalma. Quando questo non accade – e i suoi analizzanti entrano nell’istituzione, ancora affascinati dal potere agalmatico dell’analista – essi tenderanno (come vedremo meglio in seguito) a far gruppo a sé, a segregarsi in un’appartenenza impermeabile alla diversità. Ma – attenzione – neanche la degradazione agalmatica dell’analista rappresenta una garanzia al legame associativo. Bisogna precisare, infatti, che l’operazione di degradazione può rischiare di fare dell’analista un “martire della causa analitica”, di permettergli, cioè, un paradossale recupero in extremis dello splendore andato perduto, di consentirgli un vantaggioso risarcimento narcisistico mediante una sorta di beatificazione in vita. Come a dire: l’esaltazione del soggetto-analista “castrato” (ridotto a palea) rischia di produrre un soggetto esaltato della propria castrazione; il che, logicamente, non tiene. Ho isolato, in questo modo, due situazioni che si oppongono al legame associativo: da un lato la difficoltà dell’analista a rinunciare alla sua posizione agalmatica, dall’altro la riagalmatizzazione dell’analista attraverso la sua presunta degradazione a scarto. Perché queste due situazioni si oppongono al legame associativo? Perché il legame 68 FRANCO LOLLI che esse indubbiamente generano non supera i confini della condivisione dello stesso oggetto d’amore e di identificazione. Transfert del genere tendono, infatti, a funzionare secondo il modello che Freud ha spiegato in Psicologia delle masse e analisi dell’Io.9 Il modello dal quale abbiamo preso le distanze, il modello della slp. È il modello della perenne infatuazione nei confronti del leader. È il modello secondo il quale i membri dell’istituzione stanno insieme solo perché i rispettivi riferimenti transferali lo richiedono. Come se si abitasse in un condominio nel quale i capifamiglia – fidandosi tutti più o meno dell’amministratore – hanno trovato un accordo tra loro che fa sì che le riunioni si svolgano in maniera civile, che la manutenzione dello stabile sia garantita da corrette procedure, che tutto funzioni secondo le norme stabilite; ma poi, nella quotidianità della vita, ognuno manifesta la propria avversità al vicino parlandone male, non salutandolo, evitandolo con astio, facendosi complice di piccoli dispetti, coltivando nel chiuso del proprio appartamento un atteggiamento di rifiuto verso gli altri condiviso con i propri cari: insomma, in poche parole, contraddicendo nei fatti l’accordo formale. Ogni “famiglia” – più o meno numerosa – costituisce, in questa logica, un nucleo a sé, un insieme di legami consolidati intorno alle figure di riferimento, tanto più coeso al suo interno quanto più forte risulta la percezione di “disturbo” procurato dalla diversità degli altri condomini, pronto a trasferirsi in blocco altrove alla prima occasione. E finché il conflitto tra i condomini riguarda la pulizia delle scale, il rumore causato dall’inquilino al piano superiore, le molliche di pane che sporcano il davanzale della finestra, il patto originario di convivenza tiene; ma quando nell’appartamento affianco al proprio si ha la sensazione o il sospetto che accada qualcosa di sconosciuto, di totalmente nuovo, di non comprensibile, allora la questione cambia. La nascita di Jonas ha rappresentato un evento del genere. Dentro il polveroso condominio della slp, la creazione di un legame inedito, che faceva posto all’amicizia, al piacere nello stare insieme, all’entusiasmo nel progettare, alla voglia di incontrarsi, tutto questo ha surriscaldato il clima delle noiose riunioni condominiali. La veemenza dell’accusa di leaderismo e di movimentismo anti Scuola lanciata 9 Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, vol. ix, Bollati Boringhieri, Torino 2006. TRANSFERT ANALITICO E TRANSFERT ISTITUZIONALE 69 contro la nuova Associazione ha tradito la presenza di un risentimento mal celato; risentimento da parte di coloro che (fraintendendo le vere intenzioni) vedevano in Jonas il possibile sviluppo di un gruppo antagonista al proprio. Meccanismo proiettivo ben noto agli analisti: quanto costoro attribuivano a Jonas era ciò che concerneva la loro vicenda. Accusa e autoaccusa – Klagen e Anklagen, come insegna Freud in Lutto e melanconia –10 sono sempre intimamente legate l’una all’altra. Il livore e l’ostilità che si sono liberati in quel periodo hanno svelato la struttura che sosteneva il funzionamento della Scuola. Un funzionamento che non avrei difficoltà a definire di tipo ecclesiastico. Ogni analista di un certo rilievo, in questa prospettiva, incassa il transfert di un certo numero di persone e le mette al lavoro all’interno di un territorio assimilabile a una parrocchia, nel migliore dei casi a una diocesi, di cui egli si autonomina vescovo. Legami spontanei tra analisti-vescovi si stabiliscono intorno alla figura di un analista-cardinale (sul quale converge il transfert in funzione della condivisione di un certo stile di lavoro, del privilegiare un certo tipo di lettura del testo psicoanalitico, di uno stesso percorso formativo ecc.). Gli analisticardinali – ognuno con la propria quota di potere transferale da far valere – decidono (per lo più, per un atto di natura politica) di legarsi tra loro intorno alla figura di un analista-papa, colui che è riconosciuto come il possessore del dogma, il garante della causa analitica. In questo modo, il transfert istituzionale si riduce a essere la risultante della sommatoria dei transfert analitici non deagalmatizzati; ai vari livelli della gerarchia, “una tale massa primaria è costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico medesimo oggetto al posto del loro ideale dell’Io e che pertanto si sono identificati gli uni con gli altri nel loro Io”.11 Nella grande massa slp, il transfert sull’istituzione è l’effetto dell’obbedienza transferale al proprio analista. Il transfert sulla Causa Analitica è stato il modo in cui si è tentato pudicamente di affermare l’esistenza di un transfert capace di trascendere quello rivolto all’analista in carne e ossa, nella speranza di coprire l’imbarazzante persistenza di fatto di legami analitici più forti di quelli istituzionali. Tentativo non riuscito, confinato nel registro della pura parvenza. Id., Lutto e melanconia, in Opere, vol. viii, Bollati Boringhieri, Torino 2006. Ivi, p. 304. 10 11 70 FRANCO LOLLI Nella fiction della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, ogni analistacardinale, vescovo o parroco fa sembiante di mettere il transfert di cui è destinatario al servizio della Causa; ma a patto che la sua carica risulti confermata, eventualmente rinforzata dal riconoscimento della generosità con la quale permette ai suoi discepoli di rinfoltire le fila della Scuola. Non sono ammessi legami che non contemplino la totale fedeltà al proprio riferimento transferale. Prova ne è il fatto che quando vicende associative producono sconquassi nell’equilibrio della comunità, senza alcuna sorpresa, ognuno mette al primo posto e fa valere la propria reale appartenenza, seguendo le vicissitudini del proprio analista. È così, allora, che quando nel 2001 si realizza lo scisma tra Miller e Soler, la separazione tra analisti segue il percorso più prevedibile: i milleriani con Miller, i soleriani con Soler. Nessuno stupore. Si impone da sé una sorta di coerenza transferale che annulla il tanto proclamato investimento libidico sull’istituzione. L’appartenenza transferale si dimostra più potente di qualunque altra ragione; la trasversalità dei legami, pura finzione pre-crisi. La loro incontrastata verticalità li fa convergere tutti sull’analista. Le sue scelte saranno le scelte di coloro che in lui si riconoscono. La slp si spezzerà nei punti nei quali non si era mai unita, lungo le linee di frattura che avevano segnato i confini tra appartenenze diverse. Il transfert istituzionale cede sotto i colpi del transfert analitico. La Causa Analitica, alla quale tutti si erano dichiarati devoti, evapora polverizzata dall’urgente necessità di ricompattare le truppe in vista di una nuova emergenza. La slp sperimenta in quell’occasione, senza che una riflessione minima si sviluppi al riguardo, che non c’è confronto possibile tra la forza del legame analitico – ancorato all’agalma dell’analista stesso – e quello istituzionale. Gli analisti italiani che allora lasciarono la slp non avevano rotto con i loro colleghi di Scuola; non si era verificata una vicenda conflittuale più accesa di altre avvenute in passato. Ciò che era mutato era semplicemente il rapporto tra l’analista-papa e uno dei più quotati analisti-cardinali: il che produsse come puro effetto di ripercussione automatica una ridefinizione degli schieramenti e delle appartenenze. Ognuno tornava nel proprio gruppo. Come potevano disintegrarsi così facilmente legami tra colleghi che sembravano collaudati da anni di lavoro insieme? Forse, non erano stati veri legami. Del resto, Freud aveva segnalato qualcosa del genere quando aveva notato la persistenza di “impulsi spietati e ostili” TRANSFERT ANALITICO E TRANSFERT ISTITUZIONALE 71 nei confronti di persone che non condividono il medesimo oggetto identificatorio. “Sostanzialmente ogni religione è una siffatta religione dell’amore per tutti coloro che essa abbraccia nel suo seno, ed è al tempo stesso crudele e intollerante, verso coloro che non ne fanno parte.”12 Se un’istituzione funziona secondo il modello per il quale “la comunanza [ovvero la possibilità del legame tra i membri] è data dal tipo di legame con il capo”13 e se essa si fonda sull’accordo di più capi che mettono insieme le proprie tribù – fino al punto in cui l’accordo risulta conveniente e non urtante alleanze precedenti – allora l’equilibrio dell’istituzione stessa non può che mantenersi su un livello di precarietà relativa ai rapporti tra i capi. La rottura in un’istituzione analitica così concepita si produce lungo le sue faglie, lungo le linee di incontro-scontro tra placche transferali diverse e compatte al proprio interno; sono i punti di fragilità dell’istituzione in quanto si configurano come le parti di essa in cui il legame associativo non si è saldato – il che, in occasioni particolari, determina reazioni di attrito e di allontanamento. Se l’agalma è collocato all’interno dei singoli gruppi e correnti – nella persona del leader o del capo carismatico – l’istituzione nel suo complesso risulta depotenziata dal punto di vista libidico-transferale. Essa sarà vissuta come il necessario ma sgradito tributo da pagare per camuffare una persistente esigenza narcisistica attraverso l’instaurazione di uno pseudo pluralismo democratico; si scomporrà nelle parti che la costituiscono non appena immancabili dissidi l’attraverseranno. È la storia della slp. La compattezza dell’istituzione sta nel suo porsi come realtà che eccede la somma delle parti che la compongono. Un’istituzione è agalmatica nella misura in cui è in grado di produrre un sapere che non sia ridotto all’indottrinamento da parte di alcuni, quando, cioè, non coincide con l’esuberanza intellettuale o con la personalità di spicco dei suoi membri, ma le supera; quando può fare a meno del capo, quando i legami che genera si svincolano dal modello identificatorio all’ideale. Credo che l’Associazione Lacaniana Italiana debba mettere a frutto questa esperienza di alcuni dei suoi membri fondatori. Il modello che Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, cit., p. 288. Ivi, p. 296. 12 13 72 FRANCO LOLLI Freud presenta in Psicologia delle masse – sul quale la slp ha fondato il proprio – non può essere e non è il modello della nostra Associazione. Questo, lo sappiamo bene, ha un prezzo: una certa approssimazione e lentezza decisionale, per esempio. Ma, per quanto risulti efficiente sul piano dell’organizzazione e del funzionamento, il modello basato sull’identificazione al capo (moltiplicato per il numero di capi che insistono nella stessa istituzione) non garantisce un’esperienza di legame tra membri capace di superare i ristretti confini della fascinazione e del conseguente assoggettamento al leader. La minaccia, inoltre, della rottura, dello scisma, del conflitto tra leader è sempre dietro l’angolo. L’Associazione Lacaniana Italiana è nata per verificare la possibilità di un legame diverso. Un legame che possa superare quello che Freud ha indicato come attivo nella Chiesa e nell’Esercito e – oggi possiamo aggiungere – nella slp. “Fare legame senza gruppo” – come Lacan afferma. Un legame, però, che sebbene non si cristallizzi nelle forme descritte da Freud, non sia destinato a trasformarsi in “sciame” – come Zygmunt Bauman14 definisce le nuove forme di gruppalità –, che non diventi, dunque, un insieme di individualità che si riuniscono in maniera opportunistica per poi disperdersi una volta realizzato l’obiettivo che ne aveva causato l’incontro. Ma neanche un gruppo coeso nella massa. Cosa allora? Una forma di legame che tenga insieme queste due polarità estreme senza incarnarne mai una. È la nostra sfida. Un legame forte in un’istituzione leggera, si potrebbe dire. Il rifiuto della gerarchia, il non-riconoscimento di ruoli istituzionali di potere, la centralità dell’assemblea, il pluralismo delle letture del testo psicoanalitico, la proliferazione di gruppi di studio, l’accoglienza di giovani membri e simpatizzanti al loro interno e altro ancora sono procedure e modalità di funzionamento pensate per impedire l’eventuale installazione dei membri in posizioni privilegiate e immaginariamente caricate. Il Coordinamento Nazionale dell’Associazione Lacaniana Italiana – di cui mi onoro di far parte – lavora in questa direzione; il suo sforzo è quello di mettere in atto l’essere al servizio dell’Associazione, svuotandosi di ogni potere e favorendo la gestione partecipata a ogni decisione. Spetta a ognuno di noi dar prova di questa possibilità. Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Bari 2008. 14 Freud, Jung: rottura e repliche Francesco Giglio introduzione La penosa reiterata rottura dei legami umani non risparmia gli psicoanalisti. Il campo psicoanalitico fin dalla sua fondazione, infatti, è attraversato da fratture dolorose, da scissioni e diaspore irreversibili, a volte causate da dispute teoriche fondate, ma spesso, invece, unicamente dallo scabroso, dall’incandescente che abita l’umano in quanto tale. La consapevolezza della dimensione dell’inconscio, il discernimento fra cause note delle rotture e cause profonde operanti nell’altra, invisibile, scena non modificano l’automatismo ininterrotto della ripetizione distruttiva, nonostante in quest’ambito le fratture coinvolgano individui analizzati, dunque, soggetti supposti trasformati e resi consapevoli dalla pratica analitica. Eppure la causalità inconscia, la posta in gioco della vera lacerazione, solitamente rimane oscura agli stessi contendenti persino quando si tratta di geni indiscussi. La prima frattura di questo genere nell’alveo della psicoanalisi vede in Freud e Jung i contrapposti protagonisti. Freud geniale padre fondatore, si lega in un primo tempo a Jung, per poi prenderne con decisione, seppur molto dolorosamente, le distanze. La ripetizione, osserva Freud, è una “inclinazione generale degli uomini a fare sempre nuove copie dei cliché che portano in se stessi”.1 La consapevolezza, evidentemente, non è sufficiente a evitare la continua reiterazione del cliché. 1 Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, Lettera di Freud 15/11/1907, in Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), Boringhieri, Torino 1974, p. 106. 74 FRANCESCO GIGLIO La ripetizione, in questa vicenda di rottura, si coglie après coup a due livelli: nella lettura storica delle fratture successive, che evidenziano spesso caratteristiche molto simili a questo evento inaugurale, e pure nella reiterazione soggettiva che si coglie osservando le caratteristiche dei due contendenti di quella che si può considerare la matrice delle scissioni nel campo psicoanalitico. Freud dimostra un’inclinazione alla generosità, alla bonomia e all’idealizzazione dell’amico. Tale sua prerogativa di intensa valorizzazione del simile, già emersa nella relazione con Fliess, si ripete con Jung, in entrambi i casi in un primo tempo Freud vede nell’altro ciò che questi non è, si dona senza risparmio, salvo poi impattare nella dura realtà della superbia e dell’ingratitudine dell’altro che, galvanizzato proprio dalla sua opera di valorizzazione, entra prima in competizione e poi in rotta di collisione con lui. Anche Jung ripete il suo cliché nei legami fatto di sottomissione filiale e ambivalenza. In un primo tempo egli si lega a Bleuler, uomo anziano, eminente e potente primario della clinica Burghölzli. Vi si sottomette al punto da accettare persino direttive sulla sua vita privata, come la rinunzia alle bevande alcoliche. È tale legame che consente al giovanissimo Jung di accedere a ruoli significativi nell’ospedale, poi, sempre su impulso di Bleuler, Jung incontra le tesi freudiane e si mette in contatto con il fondatore della psicoanalisi al quale si lega, per sottomettersi di nuovo. Freud al culmine dell’infatuazione per Jung, lo nomina suo erede e successore alla testa del movimento psicoanalitico. L’ambivalenza di Jung, però, proprio come già accaduto con Bleuler, riemerge pure verso Freud. Con entrambi Jung ripete il suo percorso fatto di completa sottomissione prima e di critica radicale rivolta all’altro poi. In tutti e due i casi egli non coglie la propria ambivalenza al di sotto della quale cova irrisolta la questione del padre. i presupposti Gli scambi epistolari fra Freud e Jung iniziano nel 1906. Da un lato il cinquantenne Sigmund Freud, inventore della psicoanalisi, geniale fondatore impegnato a sostenere e diffondere la causa psicoanalitica raccogliendo attorno a sé un numero sempre più vasto di studiosi e seguaci, dall’altra parte il giovane e brillante psichiatra Carl Gustav FREUD, JUNG: ROTTURA E REPLICHE 75 Jung, che, a trent’anni appena, occupa già un posto di rilievo presso la clinica psichiatrica Burghölzli di Zurigo diretta da Bleuler. All’epoca Bleuler è un autorevole psichiatra curioso della psicoanalisi: sarà lui a dare un nome alla schizofrenia, sino allora contenuta nella generica etichetta diagnostica di demenza precoce. La comunicazione che inaugura il carteggio pubblicato fra i due rivali risale all’11 aprile 1906, si tratta di poche righe nelle quali Freud ringrazia Jung per avergli inviato i suoi studi sull’associazione verbale. A ottobre dello stesso anno è Jung a ringraziare Freud per gli scritti psicoanalitici che questi gli ha inviato. Già da questa prima lettera Jung si propone a Freud come alleato: polemizza con gli avversari della psicoanalisi e ascrive a se stesso il merito della conversione di Bleuler alla teoria freudiana. Le cose, in effetti, non stanno davvero così, giacché è proprio Bleuler per primo che, stimolato dalle tesi di Freud sull’inconscio, domanda a Jung, all’epoca suo sottoposto in ospedale, di comporre una relazione sulla teoria del sogno. Freud a ogni modo prontamente risponde accogliendo l’offerta di alleanza del giovane collega. Con la seconda lettera di Jung si assiste a un deciso cambio di passo. Jung chiede a Freud di “abreagire un’esperienza recente”.2 Il termine abreazione, coniato da Freud nell’ambito degli studi sull’isteria, è all’epoca ancora usato nella teoria freudiana per indicare il deflusso “dell’affetto, sino ad allora per così dire incapsulato”3 a causa del trauma psichico. Senza citarne il nome Jung introduce il caso clinico di una sua paziente, Sabina Spielrein, che sta trattando per mezzo della psicoanalisi. Egli domanda consiglio a Freud omettendo però diversi elementi del caso. Parla di una giovane russa ricoverata presso il Burghölzli, riferisce che da bambina la paziente è stata traumatizzata dalla vista del padre che percuoteva il sedere nudo del fratellino, omette però di dire che il papà sottoponeva al medesimo trattamento la bimba. La paziente, inoltre, immagina di avere defecato sulla mano del padre all’età di quattro anni, e riferisce un particolare gioco con le feci che fa dai cinque agli otto anni: poggia l’ano sul tallone del proprio piede seguendo un rituale che stimola e impedisce la defecazione Id., Lettera di Jung 23/10/1906, in ivi p. 106. Sigmund Freud, Il metodo psicoanalitico freudiano, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. iv, p. 407. 2 3 76 FRANCESCO GIGLIO arrivando a trattenersi anche per quindici giorni. L’omissione del nome della paziente è in questo caso davvero singolare poiché Spielrein, in lingua tedesca, è nome composto dai termini spiel (gioco) e rein (pulito): gioco pulito, nome ben associabile all’insolito gioco della paziente con le sue feci. Altro punto che Jung si guarda bene dal rivelare, e non fatichiamo a intuirne il perché, è che egli con questa paziente ha intrecciato una relazione sentimentale. Freud risponde trattando il caso sul piano clinico, ovviamente non può sospettare che la paziente di Jung è pure la sua amante. Si avvia così un legame di lavoro che per Freud è orientato dalla dimensione clinica e per Jung dalla necessità di omettere aspetti fondamentali della verità. la comunità di lavoro Segue una fase di corrispondenza intensa. Le considerazioni sulle politiche della psicoanalisi si alternano alle richieste di consigli clinici a Freud da parte di Jung che cerca di mostrarsi come un allievo attento, entusiasta e perfino zelante, pur manifestando in un primo tempo riserve su alcuni punti, come la teoria della libido o l’eziologia psicogena delle psicosi. Jung nel 1908 al primo convegno di psicologia freudiana a Salisburgo, ignorando i consigli di Freud, addirittura presenta un intervento in cui sostiene l’ipotesi eziologica di una psicotossina nociva al cervello come causa della psicosi (dementia praecox). Sin dal principio si rileva un certo imbarazzo di Jung nel rivolgersi a Freud, un impaccio che gli rende difficile mantenere il ritmo di corrispondenza che il maestro viennese domanda. In più occasioni lo psichiatra svizzero risponde alle allusioni freudiane sulla sua pigrizia epistolare, in una lettera del 28 aprile 1907 scrive: Lei ha coniato la splendida espressione “complesso di autoconservazione”. Lei sa che questo complesso mi ha già giocato, più di un tiro […] è vero – devo confessarglielo con riluttanza – io l’ammiro senza riserve come uomo e come studioso, non la invidio coscientemente; il complesso di autoconservazione non proviene dunque da qui, ma dal fatto che la mia venerazione per lei ha un carattere “religioso” – passionale che non provoca in me molestie d’altro FREUD, JUNG: ROTTURA E REPLICHE 77 genere, no, ma che mi rende disgustoso e ridicolo per via del suo sottofondo inconfondibilmente erotico.4 Subito dopo Jung aggiunge un accenno in cui confida un’oscura vicenda della sua infanzia: Questa sensazione orribile deriva dal fatto che da ragazzo ho subito un attentato omosessuale da parte di un uomo prima venerato […] ora questa sensazione continua a ostacolarmi. La cosa si manifesta anche nel fatto che l’indagine psicologica mi rende decisamente disgustose le relazioni con colleghi che scaricano su di me forti traslazioni. Io temo quindi la sua fiducia. E temo di destare la stessa reazione in lei quando le parlo delle mie cose intime.5 Poco tempo dopo queste rivelazioni Freud, che fino a quel momento aveva intestato le sue lettere con la formula “caro amico e collega”, cambia tono e scrive: “Caro amico, mi permetta di buttar via, dopo sufficiente preparazione, il ‘collega’ e di esprimere la soddisfazione che […] il suo silenzio non era dovuto a complesso”.6 Freud insomma sin dal principio del rapporto epistolare si mostra proteso alla relazione mentre Jung, viceversa, fatica a tenere il passo e a dire le cose come stanno, addirittura, egli sembra a tratti abitare il timore di essere scoperto e condannato da Freud. Tutto questo, tuttavia, non impedisce a Jung di rispondere: La ringrazio di cuore […]. L’immeritato dono della sua amicizia rappresenta per me in un certo qual modo un vertice della mia esistenza […] e mi spinge a pregarla di permettermi di godere della sua amicizia non come di un’amicizia fra uguali, ma come dell’amicizia tra padre e figlio.7 Ben presto Freud che riteneva, in forza di un pensiero superstizioso, che gli restasse poco tempo da vivere, e fantasticava sulla necessità di un continuatore, di un erede […]. Un Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, Lettera di Jung 28/10/1907, in Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), cit., p. 102. 5 Ibidem. 6 Id., Lettera di Freud 17/02/1908, in ivi, p.102. 7 Ivi, p. 131. 4 78 FRANCESCO GIGLIO erede per la psicoanalisi; ma anche, sul piano affettivo personale, un figlio spirituale in cui riconoscersi8 giunge a proporre generosamente a Jung di divenire suo successore: Il proposito egoistico che perseguo, e naturalmente confesso con tutta sincerità, è quello di insediare lei come mio successore […] perché lei applichi alle psicosi ciò che io ho cominciato con le nevrosi […] per la sua personalità forte e indipendente […] per il fatto di essere uomo germanico che si attira più facilmente le simpatie dei contemporanei. A parte il fatto che inoltre le voglio bene.9 otto gross Due trattamenti clinici mettono a dura prova Jung in questi anni. Il primo è il caso di Otto Gross, un giovane aspirante psicoanalista molto legato agli ambienti analitici senza che ciò gli impedisca di divenire cocainomane e mangiatore di oppio. Jung lo cura con la psicoanalisi all’interno del Burghölzli. In un primo tempo fa una diagnosi di nevrosi ossessiva che in seguito trasforma in diagnosi di dementia praecox. L’analisi di Gross dura due settimane, Jung, secondo le sue parole, si dedica giorno e notte a questo paziente per uscirne, lui dice, con “un’analisi completa”. Freud apprendendo la novità risponde: “Mi meraviglio della gioventù che liquida compiti del genere in due settimane, da me sarebbe durato più a lungo”.10 Ma l’ottimismo di Jung ben presto si rivela illusorio: Per un momento si riesce a chiudere la falla […]. Subito dopo la falla torna ad aprirsi. Non c’è evoluzione, non c’è avvenire psicologico per lui; gli eventi della prima infanzia persistono eternamente nuovi e attivi […]. Egli, a dispetto del tempo che gli si dedica e di ogni analisi, continua a far fronte agli eventi d’oggi con la reazione del bambino di sei anni, per il quale la donna è ancor sempre la madre, ogni amico, ogni uomo che gli dimostra Cesare Musatti, Introduzione (1974), in ivi, p. ix. Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, Lettera di Freud 28/10/1907, in ivi, p. 181. 10 Id., Lettera di Freud 29/05/1908, in ivi, p. 166. 8 9 FREUD, JUNG: ROTTURA E REPLICHE 79 affetto o ostilità è il padre, e il cui mondo è una fantasia infantile di inaudite possibilità.11 Aggiunge Jung: Per me questa vicenda è una delle più penose della mia vita perché rivivevo in Gross fin troppi aspetti della mia propria natura, sicché avevo spesso l’impressione di vedere in lui il mio gemello.12 Si apre il tema del transfert che Freud porrà a Jung qualche anno più tardi sconsigliandolo di: Imporsi a dare molto di sé, nell’intento di ottenere qualcosa in cambio. È permesso a me venerando vecchio maestro ammonire che con questa tecnica si finisce regolarmente per sbagliare i conti […] non dobbiamo permettere che i poveri nevrotici ci facciano impazzire.13 Ma se questa questione riguarda la conduzione della cura di Otto Gross a maggior ragione incide sulla vicenda della cura condotta da Jung con la già citata Sabina Spielrein. freud diffidente? la vicenda sabine spielrein La faccenda Gross, pur mostrando una certa superficialità clinica di Jung, si giustifica con facilità, considerata la condizione pionieristica della psicoanalisi all’epoca, e non intacca la fiducia che Freud ripone in lui. Di ben diversa portata è la vicenda Spielrein, futura psicoanalista, anticipatrice degli studi sulla pulsione di morte. Nella primavera del 1909 Sabina Spielrein domanda un incontro a Freud per parlargli di una questione delicata che riguarda Jung. Freud chiede lumi all’amico il quale risponde: Il suo caso è stato pubblicato […] nella mia relazione di Amsterdam […] è Id., Lettera di Jung 19/06/1908, in ivi, p. 167. Ibidem. 13 Id., Lettera di Freud 11/12/1911, in ivi, p. 512. 11 12 80 FRANCESCO GIGLIO stato il mio caso psicoanalitico “da manuale” […] poiché sapevo per esperienza che sarebbe ricaduta subito se le avessi rifiutato la mia assistenza, il rapporto si è trascinato per anni […] fino al momento in cui vidi che questo metteva in moto una rotella imprevista, e perciò alla fine ho troncato. Essa aveva naturalmente programmato di sedurmi, cosa che io consideravo inopportuna. Ora sta maturando la sua vendetta. Recentemente ha sparso la voce che entro poco tempo divorzierò da mia moglie.14 Freud, che inizialmente crede senza riserve alla versione di Jung, scrive così alla Spielrein declinando l’offerta di un incontro, e motiva la sua scelta con la lunghezza del viaggio e domandando comunque alla donna di chiarire per lettera di che genere fosse la questione che intendeva sottoporgli. Comunica poi il tutto a Jung, il quale si mostra molto sollevato e ringrazia Freud: Il mio complesso paterno continuava a sussurrarmi che lei non avrebbe preso la cosa così ma […] mi avrebbe indirizzato una […] predica punitiva. Perché dopotutto è troppo stupido che proprio io, il suo “figlio ed erede”, tratti e dissipi con tanta leggerezza la sua eredità.15 Freud risponde poi a Jung che alla Spielrein ha “suggerito una dignitosa liquidazione, per così dire endopsichica di tutta la faccenda”.16 Ma la Spielrein non cede e in una lunghissima lettera a Freud scritta fra il 10 e il 14 giugno 1909, spiega bene tutta la situazione: Il dottor Jung quattro anni e mezzo fa era il mio medico, poi divenne un amico e in seguito “poeta”, cioè amante. Alla fine mi conquistò e tutto andò come di solito accade nella “poesia”. Egli predicava la poligamia, sua moglie sarebbe stata d’accordo ecc. ecc. Ma mia madre ricevette una lettera anonima […]. Il sospetto si indirizzò verso sua moglie. In breve mia madre gli scrisse una lettera commovente sottolineando che egli aveva salvato sua figlia e certamente ora non voleva rovinarla, scongiurandolo di non oltrepassare i limiti dell’amicizia. Poi la risposta: Da medico sono diventato amico perché ho smesso di tenere in disparte i miei sentimenti. Potevo abbandonare facilmente il ruolo di Id., Lettera di Jung 04/06/1909, in ivi, p. 246. Id., Lettera di Jung 12/06/1909, in ivi, p. 250. 16 Id., Lettera di Freud 18/06/190, in ivi, p. 252. 14 15 FREUD, JUNG: ROTTURA E REPLICHE 81 medico perché non mi sentivo impegnato come tale, non avendo mai preteso un onorario […] è impossibile per un uomo e una ragazza avere alla lunga soltanto rapporti d’amicizia […] il medico […] conosce i suoi limiti e non li varca mai, perché è pagato per la sua fatica. E questo gli pone la necessaria limitazione. Pertanto, per rimanere nella posizione di medico come lei desidera, le propongo di fissare un adeguato onorario per le mie prestazioni. In questo modo lei sarà assolutamente sicura che io rispetterò in ogni circostanza il mio dovere di medico. Il mio onorario è di Fr. 10 per consultazione.17 Sabina Spielrein ovviamente è sdegnata, ma pur nella furente indignazione non vuole danneggiare Jung, gli è anche grata perché, dopotutto, grazie al trattamento psicoanalitico ha lasciato dietro di sé la condizione di grave isterica per divenire brillante studentessa di medicina e allieva psicoanalista. Ella non vuole ostacolare Jung ma legittimamente chiede che lui riconosca di essersi comportato male con lei. Freud a questo punto sa come stanno le cose. Forse pensa a un peccato di gioventù del collega ma le dichiarazioni reiterate di Jung sulla sua fedeltà coniugale e il tentativo di liquidare tutta la faccenda con la follia della paziente senza assumersi alcuna responsabilità colpiscono Freud, il quale fa solo un ultimo velato accenno a Jung: Ho scritto alla signorina Spielrein alcune righe amabili, che offrivano soddisfazione, e in cambio oggi ho ricevuto una risposta stranamente impacciata – forse non è tedesca? – […] da essa si ricava solo che la cosa le sta molto a cuore e che fa sul serio.18 Sabina Spielrein divenuta psicoanalista rimarrà freudiana anche dopo la rottura, pur conservando con Jung un legame epistolare ininterrotto. Freud in seguito le confiderà: Il mio rapporto personale con il suo eroe germanico è andato definitivamente in rovina. Si è comportato troppo male. Il mio giudizio su di lui è cambiato molto da quando ricevetti da lei la prima lettera.19 17 Aldo Carotenuto, Lettera di Spielrein a Freud del 14/06/1909, in Diario di una segreta simmetria, Astrolabio, Roma 1999, pp. 233-234. 18 Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, Lettera di Freud 30/06/1909, in ivi, pp. 255-256. 19 Aldo Carotenuto, op. cit., p. 73. 82 FRANCESCO GIGLIO la questione del padre Secondo Aldo Carotenuto: “Ogni teoria psicologica, a prescindere dalla sua reale validità, esprime comunque un problema dell’autore”.20 Tale peculiarità della psicoanalisi emerge pure dai tratti dei pazienti su cui l’analista a inizio carriera focalizza l’attenzione. Per quanto concerne Jung emerge con forza una questione del padre irrisolta, attiva e perfino incandescente. Tale aspetto, insieme all’ambivalenza che porta con sé, emerge sia dai primi casi clinici da lui condotti, sia dalle complicate e ambivalenti modalità relazionali ch’egli istituisce con Freud. Sui suoi primi più importanti casi clinici trattati con la psicoanalisi, Gross e Spielrein, Jung riferisce: “Sono amare esperienze. Non ho dato tanta pazienza a nessuno dei miei pazienti e da nessuno ho mietuto tanto dolore”.21 Oltre al coinvolgimento emotivo e all’impegno ch’egli ha posto nella conduzione delle cure, affiora un ulteriore importante aspetto comune: “Essa (Spielrein) è al pari di Gross, un caso di lotta contro il padre”.22 Jung nella cura dei suoi primi pazienti ritrova il suo stesso irrisolto conflitto con la castrazione. Il suo cliché reiterato lo conduce a creare legami ambivalenti con uomini più anziani e potenti di lui, ai quali si propone come allievo brillante e desideroso di affetto filiale. Proprio in questa forma, in un primo tempo egli accetta l’amicizia di Freud come quella di un figlio verso un padre. In seguito proprio la sottomissione che egli ha creato, cercato e costruito, viene da lui avvertita come un ingombro insopportabile. Si coglie nella sua relazione con Freud il conflitto interiore che porta Jung a oscillare incessantemente fra l’alienazione, e l’attitudine a sottomettersi totalmente, e la separazione, intesa come inclinazione a staccarsi violentemente. Da un lato egli dichiara la mira: “compensare il sentimento di dipendenza che avverto nei suoi confronti emulandola sempre di più”23 e dall’altro affiora lo sforzo di liberarsi “dalla sensazione opprimente della sua Ivi, p. 268. Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, Lettera di Jung 04/06/1909, in Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), cit., p. 246. 22 Ibidem. 23 Id., Lettera di Jung 26/07/1911, in ivi, p. 469. 20 21 FREUD, JUNG: ROTTURA E REPLICHE 83 autorità paterna”.24 La lotta interiore di Jung viene colta da Freud, che prova a disinnescarla con le sue interpretazioni: “Lei non ha vinto le resistenze del complesso paterno”25 e ad assicurare il suo impegno a sostenerne le ambizioni: Sta’ tranquillo, mio caro figlio Alessandro, io ti lascio assai più da conquistare di quanto io stesso abbia potuto soggiogare: tutta la psichiatria e l’adesione del mondo civilizzato, che è abituato a considerarmi come un selvaggio!26 Nonostante gli sforzi di Freud, gli attacchi al legame portati da Jung si fanno sempre più frequenti e insistenti. La contrapposizione si presenta come un tentativo di affrancamento da parte di Jung, sullo sfondo del quale si coglie uno stile controdipendente volto a conquistare una pseudo autonomia; il tutto ricorda, insomma, più che una lotta fra tesi inconciliabili, la contrapposizione tipica all’autorità propria dell’età adolescenziale. In definitiva l’inizio della battaglia contro Freud, poi camuffato con le dichiarate distanze teoriche, appare connesso allo sforzo junghiano di sostenere la propria indipendenza a qualunque costo. Alla luce della vicenda Spielrein, poi, risulta davvero singolare il fatto che la principale distanze teorica dalle tesi freudiane, riguardi la minore importanza attribuita da Jung alla sessualità. A questo proposito riecheggia qui la tesi di Lacan secondo la quale ciò che non è stato trattato a sufficienza dal simbolico ritorna nel reale. Il risultato è una frattura dolorosa per entrambi, una separazione che Jung conduce contrastando l’alienazione piuttosto che ponendosi in dialettica con questa. conclusioni A rottura avvenuta, tipicamente gli psicoanalisti fanno della diagnosi un’arma, la portano fuori dal campo clinico e, trasformatala in insulto, la impiegano per colpire l’avversario. La diagnosi si trasforma così nell’argomento risolutivo per sostenere le proprie inoppugnabili Id., Lettera di Jung 12/04/1909, in ivi, p. 233. Id., Lettera di Freud 06/03/1910, in ivi, p. 323. 26 Ibidem. 24 25 84 FRANCESCO GIGLIO ragioni e per rinfacciare al rivale il suo inaccettabile tratto sintomatico. Anche in questo gli epigoni dei brillanti duellanti dell’origine non inventano nulla di nuovo. Freud consapevole della sua nevrosi, legge i due svenimenti a cui va incontro in presenza di Jung proprio come un suo specifico effetto sintomatico. Jung in un primo tempo parlando di sé parla addirittura di psicosi e rivolgendosi a Freud descrive il suo “complesso di autoconservazione” affermando: “Lei sa che questo complesso mi ha già giocato più di un tiro, non da ultimo anche nella mia dementia praecox”.27 In seguito però egli si descrive come perfettamente sano e analizzato e (nella lettera del 3 dicembre 1912) accusa Freud di non apprezzare abbastanza il suo lavoro soltanto a causa della sua nevrosi. Freud ribatte sottolineando il valore della sincerità nel rapporto fra analisti e per la nevrosi consiglia: “Il rimedio casalingo che ognuno di noi si occupi di più della propria nevrosi che non di quella del suo prossimo”,28 aggiungendo poi: “Su di un punto oso contraddirla apertamente: lei non è stato danneggiato dalla mia nevrosi come lei dice”.29 Freud si occupa di nevrotici in ambito privato, Jung opera in istituzione e si occupa di psicotici: i due partono da prospettive osservative piuttosto differenti. Freud dimostra una radicale onestà intellettuale, un amore per la verità che lo porta a rimettere in discussione le sue scoperte quando incontra fatti che non si integrano nelle teorie. Jung, viceversa, tende a forzare la verità entro i binari della sua convenienza. Lo dimostrano vari fatti tra cui l’aver presentato al congresso di Amsterdam del 1907, come caso clinico modello del trattamento psicoanalitico dell’isteria, proprio il caso della sua paziente amante. La rottura secondo Musatti è causata dalla “reciproca insofferenza davanti all’interpretazione altrui”30 come pure da “dissensi teorici ma anche gelosie di competenza […] suscettibilità personale”.31 Occorre in più considerare che l’investitura stessa dell’erede, se per un verso lo valorizza, lo rende unico e lo fa sentire insostituibile, dall’altro lato lo colloca in una particolare destabilizzante posizio Id., Lettera di Jung 28/10/1907, in ivi, p. 102. Id., Lettera di Freud 05/12/1912, in ivi, p. 569. 29 Ibidem. 30 Cesare Musatti, Introduzione, in ivi, p. x. 31 Ivi, p. xi. 27 28 FREUD, JUNG: ROTTURA E REPLICHE 85 ne di competizione con il maestro e di attesa di accedere finalmente all’agognata eredità. Lo stesso Freud, nel ricordo del suo medico curante, giunge a diffidare dell’erede da lui stesso designato: Attento a questo brillante giovanotto! Lo hai appena scelto come tuo successore e già è impaziente della tua corona come il principe di Galles nell’Enrico iv. Ricordati di Fliess.32 Su tutta la vicenda Bettelheim mostra una lucidità disincantata e fa di questo antico conflitto un monito per la profilassi delle frequenti rotture nel campo analitico poiché proprio: Come nel caso di Freud e Jung, le differenze nascono più spesso dalle stravaganze e dalle complicazioni delle relazioni personali e dell’ambivalenza, che da veri disaccordi teorici.33 Nonostante le parole di Freud secondo il quale: “La discordia per motivi personali è la cosa che meno si conviene a noi psicoanalisti”,34 la pratica con l’incandescenza dell’inconscio non esenta da simile esito. L’usuale impegno dei diversi contendenti, a rottura avvenuta, è sempre quello di giustificare le fratture con fondamentali differenze teoriche. Simili tesi, qualche volta vere, spesso si rivelano null’altro che sforzi per accentuare gli aspetti teorici e clinici del distacco, con la sola mira di velare e occultare la vergogna delle solite note, dolorose, troppo umane questioni evidenti, chiare e ben visibili già nei cuccioli d’uomo. 32 Max Schur, Freud in vita e in morte. Biografia scritta dal suo medico (1972), Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 251-252. 33 Bruno Bettelheim, Scandalo in famiglia, in Aldo Carotenuto, Diario di una segreta simmetria, op. cit., p. 30. 34 Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, Lettera di Freud 03/05/1908, in Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), cit., p. 157. Logica del sinthomo e legame sociale: Freud, Joyce, Lacan Ramón Menéndez Una cosa attrae l’attenzione nell’autobiografia di Freud: inizia il suo racconto in modo classico, ci parla del suo luogo di nascita e delle sue origini. Tuttavia, ben presto, la sua storia diventa quella della psicoanalisi, a tal punto da chiedersi perché abbia deciso di chiamarla autobiografia. Ma se si guarda da vicino, questo primo giudizio si dissolve rapidamente. La psicoanalisi per Freud non era semplicemente il suo lavoro, un mestiere. Faceva parte della sua vita, era, diciamolo, il suo sinthomo. Mi sono particolarmente interessato al momento in cui il racconto oscilla dal passare dall’anedottico a quest’altro aspetto più fondamentale: la nascita della psicoanalisi. Ovvero, il momento in cui si trova qualcosa in Freud che potremmo qualificare come “desiderio dell’analista”. Questo punto di rottura non è altro che un fallimento. Freud presenta pubblicamente un caso che aveva diagnosticato come meningite cronica. Ma gli esami anatomopatologici non hanno confermato questa diagnosi. In realtà si trattava di un caso di nevrosi. Questo errore suscitò l’indignazione e la critica delle persone che lo ascoltavano. Nei confronti di questo episodio il padre della psicoanalisi dirà: “Non ne sapevo nulla della nevrosi”. Questa storia testimonia la posizione di Freud di fronte a qualcosa che possiamo qualificare come confronto con la castrazione. Il meno che si possa dire è che si è sforzato di colmare questa lacuna. Di fronte LOGICA DEL SINTHOMO E LEGAME SOCIALE 87 a questo fallimento non si è sottratto, anzi si è assestato nel punto in cui possiamo considerare che tale fallimento serva da punto di partenza per la scoperta dell’inconscio e per l’invenzione della psicoanalisi. Si tratta per Freud di un momento d’incontro con un punto di reale di cui non sa ancora gran che. Vi propongo di fare la connessione tra questo episodio e un altro che, senza essere della stessa natura, testimonia di un rapporto analogo con la psicoanalisi. L’episodio in questione si colloca alla fine della vita di Lacan. Si tratta della dissoluzione de l’École Freudienne de Paris nel 1980. Anch’essa è stata fondata, sono le parole di Lacan, su di un fallimento. Nel caso di Freud si tratta del punto di partenza della carriera di un uomo in un rapporto di solitudine di fronte all’inconscio. Solitudine che durò per una decina d’anni. Nel secondo caso Lacan, senza essere zimbello di questa solitudine, e anche in prossimità della sua morte, procede alla dissoluzione. Qui non è questione di un debutto di carriera, ma piuttosto di un atto che sostiene una causa. Prendere atto di questo fallimento e agire di conseguenza, anche alla fine della propria vita, ci permette di fare un certo numero di deduzioni. freud Lo stile di Freud nella guida dell’istituzione analitica che aveva fondato era in relazione con la pratica che stava inventando e quindi con la teoria che la legittimava. Si tratta, lo vedremo, di uno stile molto diverso da quello che Lacan proporrà più tardi. Tuttavia condividono la stessa preoccupazione: la trasmissione e la sopravvivenza della psicoanalisi. Nel 1908 Freud fonda la Società Psicoanalitica di Vienna. È la conseguenza logica delle “serate psicologiche del mercoledì” che si tenevano in casa sua dal 1902. L’esistenza della società si protrasse fino al 1938, data in cui fu sciolta in seguito alla partenza di Freud, concomitante con l’arrivo dei nazisti in Austria. La storia dell’istituzione psicoanalitica durante la vita di Freud si caratterizza per uno schema che si ripete. Di fronte ai suoi detrattori, 88 RAMÓN MENÉNDEZ Freud si mostra in un primo tempo tollerante e indulgente.1 Cerca di impostare un dibattito per combattere le idee che considerava contrarie alla psicoanalisi. Spesso incoraggia i suoi detrattori nelle istituzioni o nelle pubblicazioni. Progressivamente, la sua pazienza e la sua tolleranza, unite a una volontà di dialogo, lasciano il posto a una posizione ferma e intransigente che porta infine a una rottura definitiva. Segnaliamo che la sopravvivenza delle idee che considerava fondamentali per la psicoanalisi e le conseguenze etiche e cliniche che ne derivano, prevalevano sui legami spesso amicali che poteva avere con le persone e anche sugli interessi istituzionali. La lista di queste rotture, spesso laceranti, è piuttosto lunga. Prima fra queste è quella con Fliess, che precede la creazione della prima istituzione psicoanalitica. Senza dubbio era necessaria, ma sappiamo quanto è stata dolorosa per Freud. Tuttavia gli scambi con altri interlocutori erano per lui inevitabili. Così, il “gruppo del mercoledì” ha preso il posto, in un certo modo, della funzione che Fliess rivestiva per Freud. Con la sua creazione, la serie delle rotture continua. Iniziamo con il caso di Adler. Con la teoria della “protesta virile”, egli dava molta importanza alla dimensione biologica delle nevrosi. Nei suoi confronti Freud parlava della paura della “psicologia del profondo”. La resistenza dell’inconscio non era solo dalla parte degli analizzanti. Le divergenze con Adler non hanno impedito a Freud di nominarlo presidente della Società Psicoanalitica di Vienna. D’altronde, occupò questo posto fino alla sua dimissione nel 1911. La storia di Jung risponde alla stessa matrice. In un primo tempo idealizzato come rappresentante non ebreo della psicoanalisi. Brillante e rigoroso, Jung è stato a lungo sostenuto da Freud, anche nelle sue faccende personali (vedi il caso di Sabine Spielrein, paziente e amante). Jung ha occupato il ruolo di presidente dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi e di editore del Jahrbuch. Il dibattito clinico è stato di grande livello, e questo per parecchi anni. Ciò dimostra che Freud ha veramente voluto tenersi vicino Jung. Ma l’impossibilità di piegare la sua posizione, in particolare in rapporto al ruolo della libido nell’economia psichica, alla fine ha portato alla rottura. Freud non poteva cedere sull’importanza della vita sessuale del soggetto, là dove 1 Hermann Nunberg, Introduction aux minutes de la Société Psychanalitique de Vienne (1953), in Les premiers psychanalistes, vol. i, Gallimard, Paris 1976, p. 17. LOGICA DEL SINTHOMO E LEGAME SOCIALE 89 Jung metteva l’accento sugli archetipi. Nel 1913 Freud ufficializza la loro rottura. L’esempio di Otto Rank è simile. Freud era particolarmente affezionato a quest’uomo e ammirava le sue capacità. Ricordiamo che Freud pagò di tasca sua parte degli studi di Rank. Fu il segretario della spv (redattore delle Minute tra 1910 e 1915) ed editore di Imago e della Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse. Fece parte del gruppo segreto convocato da Freud per contenere le dissidenze. In una parola, Freud vedeva in lui il suo successore.2 Tuttavia il suo attaccamento non gli ha impedito di separarsene nel momento in cui, una volta di più, erano in gioco le idee essenziali della psicoanalisi. La pubblicazione del Trauma della nascita nel 1924, innesca il conflitto tra Rank e Freud. La tesi di Rank, come quella di Adler, supponeva il superamento del ruolo della libido e della costellazione edipica dalle considerazioni cliniche. Nel 1925 Rank, sotto la pressione di Freud, diede le dimissioni dalla spv. Freud aveva qualificato le sue tesi come antiedipiche. Non dimentichiamo che Lacan fa del complesso di Edipo il quarto anello del nodo borromeo freudiano. Quello senza il quale l’insieme non tiene.3 La veemenza di Freud nei tre casi menzionati, dopo aver dato prova di una certa tolleranza, si spiega in una sola frase: “Nessuno può sapere meglio di me quello che è la psicoanalisi […] e chi, sotto il suo nome, può essere accolto od escluso”.4 Segnaliamo che questo testo è stato pubblicato poco tempo dopo la rottura con Jung. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare la tendenza del modo usato da Freud per affrontare le dissidenze. Queste rotture, ci dice Nunberg, rinforzavano la coesione del gruppo.5 Probabilmente è per questa ragione che lo stile di Freud nella gestione dei problemi istituzionali è sopravvissuto alla sua morte. Non esamineremo qui la sorte dei dissidenti dell’ipa dopo la morte di Freud. Segnaliamo semplicemente che è proprio questa coesione che è stata privilegiata a scapito di un’etica conforme all’invenzione freudiana. Freud stesso dice che un’associazione ufficiale di psicoanalisi come quella che ha creato de Hermann Nunberg, op. cit, p. 19. Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxi. R.S.I. (1974-1975), lezione del 14 gennaio 1975, in “Ornicar”, nn. 2-5, Marsilio, Venezia 1978-79. 4 Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico (1914), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. vii, p. 381. 5 Hermann Nunberg, op. cit., p. 16. 2 3 90 RAMÓN MENÉNDEZ ve avere un’autorità per delimitare il campo della disciplina e dichiarare certi abusi a lei estranei.6 Lacan, come vedremo dopo, tornerà su questo punto al momento dello scioglimento dell’efp. Questa tendenza all’interno dell’ipa si protrasse fino all’arrivo di Jacques Lacan. lacan Anche l’insegnamento di Lacan inizia con un fallimento. Quello di non aver potuto fare in modo che le sue idee fossero ascoltate dai suoi colleghi dell’ipa. Veniva privilegiata ancora la coesione istituzionale e questo a scapito delle idee. È così che fu scomunicato. L’argomento esplicito era quello delle sedute brevi, ma ormai sappiamo che la posta in gioco era ben più complessa.7 Da quel momento la tendenza cambia, il ritorno a Freud fatto da Lacan è anche il ritorno all’esperienza analitica. È questa che determinerà la posta in gioco istituzionale e non il contrario. Prima della costituzione dell’efp nel 1964, Lacan aveva già preso le distanze da due istituzioni psicoanalitiche: la spp (Società Psicoanalitica di Parigi) e la sfp (Società Francese di Psicoanalisi). La prima per convinzione e la seconda in quanto la condizione dell’ipa per accoglierla, ovvero l’esclusione di Lacan dalla lista dei didatti, ha provocato la sua esplosione. In un certo modo la morte di Freud non ha messo fine alla serie di rotture e di crisi istituzionali all’interno del movimento psicoanalitico. Al contrario sembra farle continuare. È spesso incarnata da personaggi considerati come dissidenti. Si può anche dire che le rotture fanno parte della vita della psicoanalisi. In quest’ottica non stupisce che Lacan abbia detto, a Milano nel 1974, parlando degli analisti: “È un fatto d’esperienza e di storia che il ‘pro’ può essere non meno dubbioso di certi ‘contro’”.8 Ne approfitta per denunciare una china pericolosa nei movimenti psicoanalitici: la lotta per il controllo della psicoanalisi come fattore di controllo sociale. Al momento della dissoluzione dell’efp da parte di Lacan sono pas Sigmund Freud, op. cit. Cfr. Élisabeth Roudinesco, Histoire de la Psychanalyse en France, Fayard, Paris 1994. 8 Jacques Lacan, Perché “SIC”?, intervento a Milano alla Scuola Freudiana (1° giugno 1974), in Lacan in Italia (1953-1978), La Salamandra, Milano 1978. 6 7 LOGICA DEL SINTHOMO E LEGAME SOCIALE 91 sati una ventina d’anni dalla sua costituzione. All’epoca Lacan veniva messo a confronto con delle situazioni simili a quelle attraversate da Freud nella spv. Dissidenti, pareri contrastanti, tensioni istituzionali difficili da superare. Anche Lacan ha fatto le cose con calma e ce lo ricorda. Nella lettera di dissoluzione del 5 gennaio 1980 (indirizzata al quotidiano “Le Monde”) constata ancora una volta un fallimento. L’atto stesso di dissoluzione è una diretta conseguenza di questo fallimento. Ma Lacan non era zimbello della sua morte, ne parla in modo esplicito nella Lettre pour la Cause Freudienne del 23 ottobre 1980, preoccupandosi di precisare che non se ne occupa: “Faccio quello che devo fare”.9 Perché alla vigilia della sua morte Lacan si lancia in quest’avventura? Non esiste un’unica risposta. Cominciamo col dire che non voleva fare come Freud. Sempre nella lettera di dissoluzione, Lacan mette in causa la soluzione freudiana. Lo cito: “Si sa quanto sia costato il fatto che Freud abbia permesso al gruppo psicoanalitico di prevalere sul discorso, diventando chiesa”.10 Questa osservazione gli serve per mostrare quello che stava diventando l’efp e dunque quello che ormai voleva evitare. Si preoccupa tuttavia di sottolineare la stabilità di tipo religioso, basata sul senso. In un certo qual modo Lacan riprende la questione là dove Freud ha fallito e là dove lui stesso stava fallendo. Il fallimento, è l’analisi di Lacan, parte dal fatto che sia stata trascurata l’esperienza stessa freudiana nel consolidamento dell’istituzione. Bisogna quindi trarne le conseguenze e scioglierla. Lo cito: “Dunque bisogna proprio che rinnovi questa Scuola, dal momento che ho fallito”.11 Il fallimento di Lacan funziona come un secondo tempo rispetto a quello di Freud, che gli permette di scorgere un’uscita all’impasse. Nei termini di Lacan, a un’esperienza si oppone una contro-esperienza. È ciò che chiama per-severare (padre-severare).12 Nella lezione del seminario del 15 gennaio 1980, appena dieci giorni dopo la lettera di dissoluzione, Lacan ci mostra che è già al lavoro. Il suo primo movimento consiste nel mettere al centro della riflessione il lavoro sull’inconscio. A partire da questo, trae un certo numero di Id., Lettre pour la Cause Freudienne, 23 ottobre 1980. Id., Lettre de Dissolution (5 gennaio 1980), in Autres écrits, Ed. du Seuil, Paris 2001, p. 318. 11 Id., Séminaire du 15 janvier 1980: La Dissolution, in “Le Monde”, 24 gennaio 1980. 12 Id., Lettre de Dissolution, cit., p. 318. 9 10 92 RAMÓN MENÉNDEZ conseguenze. La prima è che la risposta al disagio di ciascuno non può essere che particolare. Non esiste dunque “impasse comune”.13 in altre parole, non è concepibile l’impegno al di là dell’uno per uno. “Ora ho un mucchio, un mucchio di gente che vuole venire con me. Non voglio fare un tutto”.14 Questa affermazione permette a Lacan di mettersi controcorrente rispetto a un gruppo fondato su di un ideale, come una chiesa. Ma il “non fare un tutto” evoca anche la posizione di Lacan di fronte a ciò che chiama la “causa fallica” di Freud. Non dimentica di sottolineare come questa causa non sia esente da macchia. L’introduzione del non-tutto fallico è quindi un passo in più nella sua riflessione su cosa sarebbe un’istituzione guidata dall’esperienza analitica. Questo è un punto particolarmente importante quando si tratta di riflettere sui legami possibili tra le diverse associazioni di psicoanalisi, nella misura in cui introduce del supplementare di fronte al tutto fallico. Un’ultima questione concerne la prossimità cronologica tra la dissoluzione e la morte di Lacan. Facciamo l’ipotesi di un Lacan ingombrato dal mito che è diventato, dall’idealizzazione di cui è oggetto per un gran numero di suoi allievi, e senza dubbio anche per i suoi analizzanti. Questa tesi non è senza fondamento. Nella convocazione ai Forum che sono seguiti alla dissoluzione, fa in modo di provocare il dibattito senza essere presente: “Un Forum (della Scuola) sarà da me convocato, in cui tutto andrà dibattuto, senza di me. Ne apprezzerò il prodotto”.15 Mi sembra che questo mettersi da parte volontariamente vada nel senso della mia ipotesi. D’altronde è anche coerente con altri passaggi che troviamo nella serie di documenti che scrive intorno alla dissoluzione. Sembra che Lacan faccia degli sforzi notevoli per diventare quello che chiama Altro, l’Altro che manca, “come tutti”.16 Questo in contrasto con il Lacan idealizzato. Non sono sicuro che ci sia riuscito. L’esperienza della dissoluzione e la messa al lavoro che ne deriva è senza dubbio una fonte ricca d’informazioni sui legami tra l’inconscio e la possibilità di costruire una comunità analitica. Tuttavia è da prendere con precauzione. Id., Séminaire du 15 janvier 1980. Ibidem. 15 Id., Seconde Lettre du Forum, 11 marzo 1981. 16 Id., Séminaire du 15 janvier 1980. 13 14 LOGICA DEL SINTHOMO E LEGAME SOCIALE 93 la logica collettiva In concomitanza con gli eventi della storia della psicoanalisi che abbiamo evocato per provare a estrarre una struttura, abbiamo anche delle forme di logica collettiva. La solidarietà di queste due serie d’eventi ci permette di evocare una topologia di Moebius. Come se bisognasse pensare il collettivo partendo dall’esperienza, spesso traumatica, delle dissidenze e delle rotture. Freud ha potuto inventare la psicoanalisi e sostenere le sue tesi da solo, per parecchi anni, ma queste non avrebbero potuto svilupparsi senza l’aiuto di un lavoro collettivo. Abbiamo parlato della svp, che altro non era che la formalizzazione di un gruppo che si riuniva i mercoledì nell’appartamento in Berggasse Strasse 1. In un primo tempo, una regola stabiliva che tutti i partecipanti dovessero intervenire a ogni incontro. Si trattava di un gruppo eterogeneo, formato da medici, educatori, scrittori e anche musicisti. Benché questa regola abbia finito per essere abrogata, era sicuramente destinata a mettere al lavoro l’insieme dei partecipanti e ad attenuare così gli effetti di gruppo. L’altro elemento rilevante di questo periodo è l’importanza data da Freud all’analisi personale dei partecipanti. In un primo tempo, una parte degli incontri del mercoledì era dedicata a degli scambi sulla vita psichica e le formazioni dell’inconscio dei partecipanti e ai suoi effetti sulle cure. Ma è anche in questo contesto che finì per imporsi l’esigenza di fare un’analisi personale, come condizione per poter esercitare correttamente la psicoanalisi. Senza dubbio questo ha avuto degli effetti sul collettivo. Non faremo qui una ricapitolazione dello sviluppo fatto da Lacan su questa questione della logica collettiva. Diciamo tuttavia che è stata una delle principali preoccupazioni nel corso della sua vita. Partendo dallo scritto Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. Un nuovo sofisma del 1945, fino alle lettere di dissoluzione nel 1980, il suo insegnamento è farcito di riferimenti alla questione. Mi accontento qui di lavorare su di un punto che si sviluppa alla fine del suo insegnamento. Nella lettera di dissoluzione dell’efp, Lacan parla del granello di sabbia in relazione all’assenza d’impasse comune nella vita istituzionale. A prima vista questa immagine può evocare ciò che fa da ostacolo al buon funzionamento della macchina. Ma quando dice “il 94 RAMÓN MENÉNDEZ granello di sabbia della mia enunciazione”, questo sembra meno evidente. Vediamolo da più vicino. Nel suo Seminario su Joyce, Lacan si domanda come sia stato pubblicato un testo come Finnegans Wake. La questione si pone perché, dice Lacan: “Il sintomo in Joyce è un sintomo che non vi riguarda per niente, è il sintomo in quanto non c’è nessuna possibilità che agganci qualcosa del vostro inconscio”.17 In che cosa questa questione può concernere la logica collettiva all’interno delle associazioni di psicoanalisi? Seguiamo il ragionamento di Lacan. Non è la prima volta che ci parla della particolarità del sintomo di Joyce. D’altronde è questa particolarità che lo conduce a usare il termine sinthomo.18 Ciò che per Joyce non è altro che farsi un nome che possa compensare la carenza paterna, Lacan lo eleva alla categoria di sinthomo. Quello che fa differenza per Lacan è il rapporto col reale. Lacan descrive qui il reale come un pezzo, un torsolo, il cui stigma è di non legarsi a niente, ma intorno al quale il pensiero ricama. Aggiunge che di emergenze del reale, nella storia, non ce ne sono molte. Accenna a Newton, anche lui è qualcuno che ha trovato un pezzo di reale. Quello che è interessante è che intorno a questo pezzo di reale alcuni si mettono a ricamare il loro pensiero. È il caso di Kant che “[…] di Newton ne ha fatto una malattia”.19 Come Newton, altri hanno saputo trovare un pezzo di reale e, a partire da questi sinthomi qualcuno si è messo a ricamare il proprio pensiero. Ricamare, che non è altro che fare dei nodi. Quindi ciò che fa legame non è il sinthomo che, come abbiamo visto, non si aggancia a niente, ma il pezzo di reale che il sinthomo intacca. In questa prospettiva il granello di sabbia non è più un ostacolo che frena la macchina, ma piuttosto questo corpo estraneo, questo pezzo di reale, che l’ostrica utilizza per formare la sua perla. Ciò che Kant, come altri sapienti della sua epoca, ha fatto nei confronti di Newton, Lacan l’ha fatto in rapporto a Freud. Lo dice in modo esplicito: “È nella misura in cui Freud ha fatto veramente una scoperta […] che si può dire che il reale è la mia risposta sintomatica”.20 Id., Il seminario. Libro xxiii. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 162. Ivi, p. 90. 19 Ivi, p. 120. 20 Ivi, p. 129. 17 18 LOGICA DEL SINTHOMO E LEGAME SOCIALE 95 Il reale di Lacan è il suo sinthomo. Dirà la stessa cosa della topologia e della psicoanalisi, o meglio, dello psicoanalista.21 Queste invenzioni: l’inconscio di Freud, il reale di Lacan, la topologia, sono i granelli di sabbia da cui la psicoanalisi e gli psicoanalisti continueranno a elaborare delle perle. (Traduzione di Costanza Costa) (N.B. Gli estratti virgolettati dei testi di J. Lacan sono di mia traduzione.) Ivi, p. 133. 21 Sì, ma non qui… Angelo Villa Mi capita sovente, nella struttura pubblica presso cui lavoro, un consultorio familiare, di dover sostenere dei colloqui con delle coppie in crisi in via di separazione. Talvolta non è facile gestire l’incontro, anche solo semplicemente permettere che uno dei due possa parlare senza venire continuamente interrotto dall’altro o far sì che, per un attimo, cessi un rimbalzare costante di accuse reciproche, a specchio, che innescano una conflittualità prevedibile, reiterata e tutto sommato sterile. Non hanno nessuna importanza gli anni che la coppia ha trascorso insieme, le vicende che hanno vissuto, ciascuno di loro rivendica dinanzi all’altro una sorta di verginità dell’anima pressoché assoluta, ostenta una ingenuità ontologica, a fronte delle malvagità che proietta su chi gli sta di fronte. A turno, a parti invertite, ciascun membro della coppia si presenta come un alieno che, giunto da chissà quale pianeta, si affaccia sulla terra con espressione delusa e rammaricata confessando, già nel silenzio del suo sguardo, un affranto stupore che le parole non riescono a dire. L’intollerabile ha il volto e le sembianze del partner con cui il soggetto ha speso una parte consistente della sua esistenza, ma lui (o lei, a seconda) si ritengono profondamente estranei a quanto accaduto. Ambiscono a quel ruolo immaginariamente privilegiato ogni qualvolta si scatena un conflitto, a quello più di qualsiasi altro bramato e esibito, quello della vittima. Pascal Bruckner la chiamerebbe la tentazione dell’innocenza. SÌ, MA NON QUI… 97 Se Jacques Lacan nel suo celebre scritto dedicato alla direzione della cura introduce il concetto di rettifica della posizione del soggetto nel reale quel che succede in questi colloqui ne è il drastico e impietoso rovesciamento. La colpa è dell’altro, sempre dell’altro, senza che l’ombra di un minimo dubbio possa venire a oscurare una tale limpida certezza! Ciascuno lo afferma con rabbia e veemenza, non di rado lo grida, letteralmente, alzando minacciosamente il tono di voce. È un teatro monotono che, tuttavia, muta il suo stantio canovaccio quando entrano in scena i figli, in particolare se bambini. Il sentimento della collera cede ora il posto a una disposizione seduttiva, chiaramente interessata. Seduzione che tradisce qui il debito evidente che contrae con la sua etimologia latina: sedurre è condurre presso di sé. È, di fatto, quel che puntualmente si verifica nei riguardi del figlio minore, oggetto di queste attenzioni strumentali. In questi colloqui, mi succede spesso di soffermarmi, quasi involontariamente, con la coda dell’occhio sull’espressione attonita del bambino, dal quale traspare tutto il suo imbarazzo. Significante chiave che mi riporta alla mente il gioco di parole che Lacan propone nel seminario sull’angoscia, richiamandosi al vocabolo nella sua dizione francese: embarras, il massimo della difficoltà emotivamente raggiunta in un individuo, termine che fa “allusione direttamente alla barra in quanto tale”.1 È bene non essere ingenui: nessuno è innocente e quindi, dal lato dell’inconscio, non lo è sicuramente nemmeno il minore. Ciò non comporta che non stupisca quel suo linguaggio fatto ora di silenzi e di sguardi loquaci ora di parole accondiscendenti, ora di scatti nervosi a mala pena trattenuti… La domanda dei genitori è pressante e lui non sa bene come destreggiarsi, cosa dire, chi compiacere… “Cos’è la verità?” chiedeva Ponzio Pilato a Cristo. Qui, la verità assomiglia a un’altalena che il vento spinge in alto e poi lascia cadere. Da una parte, le sirene delle richieste dell’Altro sollecitano il bambino a una prova d’amore, a una conferma di fedeltà, nel mentre all’orizzonte fanno brillare la promessa del premio che ne otterrà in cambio, dall’altra quel medesimo movimento fa appositamente intravedere l’ombra oscura che scrupolosamente l’accompagna, quella dell’abbandono. 1 Jacques Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007, p. 14. 98 ANGELO VILLA Un ricatto soffocante tiene unita una parte all’altra: se non sarai con me, io ti abbandonerò. Si fa presto, troppo presto a dire o a pretendere che il bambino si assuma la sua solitudine. Se sceglie, ammesso che sia una scelta, la via del sintomo è perché le condizioni a cui soggiace la possibilità di una presa di parola rendono quest’atto impossibile. Il venir meno di una legittimazione dell’Altro spinge il minore in un’incertezza lacerante che non riguarda tanto la posizione dei genitori quanto lo stare con il suo essere, il ritrovarsi con se stesso. Non dubita dell’Altro, ma di sé, essenzialmente. Perché possa ritagliarsi una sua posizione occorrerà un tempo, un lavoro ma anche la possibilità di sperimentare incontri che lo sottraggano al malefico potere della ripetizione. La questione, insomma, è tutt’altro che semplice. Per un bambino, certo, ma paradigmaticamente anche per l’adulto che si trova in situazioni analoghe. Nessuno è innocente, nemmeno il bambino, insisto. L’unico tratto che lo distingue dai genitori è quella barra che sintomaticamente lo segna e che gli altri rigettano, rifiutano. La barra lo chiude nel silenzio, nell’impedimento a dire, nei casi meno gravi; nell’impedimento a pensare, nei casi più patologici. Per associazione con queste situazioni incresciose, penso a quanti colleghi in questi anni, ho visto passare nei gruppi, nelle associazioni psicoanalitiche lacaniane che poi se ne sono andati, magari disgustati o si sono messi ai margini, in silenzio. E sì che, spesso, mi parevano i più intelligenti, i più critici… “Voi non siete molto curiosi, e poi soprattutto siete poco interventisti…”, esorta provocatoriamente Lacan nel suo seminario del 1971; affermazione piuttosto singolare allorché indirizzata a un pubblico di analisti, cioè di persone che sono misurate con una pratica che interroga costantemente il rapporto che il soggetto intrattiene con lo statuto della verità.2 Eppure, come analisti, come analizzanti, sembra spesso di ritrovarsi in una posizione che ricalca quella del bambino nella coppia che si sta separando, e che giustamente merita, non essendo per l’appunto quel bambino, il rimprovero di Lacan. Giusto, paradossale e, a ben vedere, drammatico se lo si confronta con le conseguenze che ne derivano. Facciamo allora, per umiltà, un passo indietro e torniamo alla questione della verità. Che cosa fa sì che nemmeno l’eco flebile di una 2 Id., Il seminario. Libro Torino 2010, p. 43. xviii. Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), Einaudi, SÌ, MA NON QUI… 99 sua parola possa aprire un varco nella soggettività di un individuo? Quanto meno due fattori, i quali diventano micidiali quando si intrecciano tra di loro: l’amore e la paura. Iniziamo dal primo. moebious again! L’interrogazione sulla posizione dell’analista ha messo tradizionalmente l’accento nella riflessione lacaniana su una questione in particolare, quella del suo desiderio. Concetto più mistico che mitico, una nozione che si legittima per autodefinizione per il tramite di quei circoli viziosi della parola cui talvolta il formalismo lacaniano ricorre, abusandone, per altro, indebitamente. Concetto fideistico e inverificabile che si è soliti contrapporre a quello decisamente più ambiguo ma, ahimè, ben più pregnante di controtransfert. Come se bastasse un esorcismo contro un’evidenza… Ma, non è questo il punto, chi è senza peccato scagli la prima pietra e la psicoanalisi non può vivere senza peccati, cioè senza confrontarsi con il reale di ciascuno. Il problema non è personale, individuale, ma politico. Al desiderio dell’analista possiamo, infatti, aggiungere un altro aspetto estremamente importante ed è quello che attiene la sua posizione e che riguarda direttamente il processo di formazione degli analisti. È quel che chiamerei la domanda dell’analista, perché anche lui ne ha una. Poco mi interessa quello che la genera o la anima nei suoi fantasmi singolari, insisto, ripeto: non è questo il punto. Il nodo essenziale si costituisce infatti laddove, esplicitamente o implicitamente, questa domanda si traduce e si palesa, e cioè nel rapporto che viene a crearsi tra l’analista, l’analizzante e questo elemento, nient’affatto terzo, che diventa un po’ lo schermo sul quale l’analista proietta la sua domanda, nel mentre l’analizzante con il suo amore gli viene incontro: il gruppo o la sedicente istituzione psicoanalitica. Succede insomma spesso che l’analista fatichi anche solo a immaginare che l’analizzante non sia un suo portavoce, non giochi per una causa di cui, lui, l’analista rappresenta l’identificazione. In cambio l’analizzante godrà dei relativi benefici. Niente è gratis, occorre semplicemente prestare attenzione a talune fortune analitiche e rendersene conto… Siamo nell’ovvietà! Ora, chi misura il peso di queste azioni, pressioni? O anche dei 100 ANGELO VILLA silenzi… Basta, infatti, che un analista sia pienamente identificato all’istituzione cui appartiene e che, questa stessa istituzione, sia magmaticamente associata alla sua figura, chiusa su se stessa perché il gioco funzioni. È nella domanda che il gruppo rivolge al singolo che ritorna la domanda dell’analista, è alquanto semplice, insomma… L’effetto è quanto meno paradossale e suscettibile di indurre due considerazioni ulteriori. La prima: La domanda dell’analista finisce per alimentare una sorta di moebiusizzazione del setting analitico nel quale il dentro e il fuori si confondono tra di loro. Nella sua toccante testimonianza, la Sangalli3 chiamava il suo analista, Armando Verdiglione, uno degli analisti su cui (sic!) Lacan puntava per promuovere il lacanismo nel nostro paese, il dottor Dappertutto. Definizione perfetta, precisa. Essa ha il pregio, per altro, di mettere in risalto la dimensione pervasiva, paranoicizzante che assume la domanda dell’Altro. Più si estende, più non lascia tregua, spazio all’esistenza di una soggettività individuale. Ridurre il problema in termini scandalistici o di mera eccezionalità significa non coglierne la portata essenzialmente tragica. L’operazione ha infatti una connotazione specificatamente psicotica nella misura in cui mette in questione, mi si passi la terminologia sbrigativamente fenomenologica, la barriera primaria costitutiva del soggetto, quella propria alla fase strutturante dello specchio, quella tra il dentro e il fuori. Inutile dire come sia il transfert, un infantilismo detestabile nel giudizio di Freud, quando considera la posizione dell’individuo adulto nei riguardi delle cose del mondo, la molla che sorregge la dedizione che vota l’analizzante alla causa dell’analista. Amore che si indirizza al sapere, sosteneva Lacan. Forse, sarebbe opportuno apportarvi una correzione: amore che si indirizza al potere, che si sposa ambiguamente con esso. Di scissione (gruppale) in scissione (gruppale), la memoria mi corre allo spaccato di un testo testimonianza pubblicato in una di quelle occasioni: un noto analista lascia trasparire la sua profonda irritazione a fronte dei dubbi di un collega più giovane. Quest’ultimo manifesta delle incertezze, tentenna, non capisce, chiede tempo, fa domande, chissà, forse, vorrebbe comprendere meglio, reperirsi… L’analista conosciuto si innervosisce, vuole arrivare a una conclusione, ha fretta. Di conseguenza, taglia corto: “Insomma, con chi sta?”. E cioè: aderisce, Giuliana Sangalli, Bocche di lupo, Poiesis, Bari 2009. 3 SÌ, MA NON QUI… 101 oppure no? Insomma, dentro o fuori? Nell’istituzione, dentro o fuori? Ma, altresì, l’istituzione è dentro o fuori di lui? Seconda considerazione: è quel che accade quando l’ingenuità, che non è patrimonio della sola anima bella, assale con entusiasmo un soggetto. Una caratteristica differenzia le istituzioni psicoanalitiche dalle altre: è o dovrebbe essere il rapporto con la verità. O, se vogliamo, con una certa libertà di parola. In genere, le istituzioni rispondono a due criteri guida: o l’ideale – si pensi alle chiese o ai partiti – o a un interesse, una mission cui sono funzionali, come succede nelle aziende. In entrambi i casi, una parola veritiera è rimossa o forclusa. Sia l’ideale che l’interesse accettano solo le affermazioni che sono compatibili con il loro progetto, il reale deve restare muto, può aspettare… In un gruppo di analisti si potrebbe invece pensare che la logica sia diversa. Ho presente la delusione stampata sul volto di un collega che, spinto da un encomiabile slancio analitico, voleva intervenire in un convegno per sottolineare la manifesta contraddittorietà di talune formulazioni teoriche che venivano ufficialmente ratificate. Prudentemente, un altro collega che rivestiva all’epoca importanti cariche istituzionali lo bloccò, gli disse che, certo, aveva ragione, ma non si poteva dire. Insomma, “Sì, ma non qui…”. Risposta che lo lasciò sbalordito, perché si chiese, “ma allora dove?”. È il transfert che giustificava l’indiscutibilità di quelle tesi? O cosa? Il collega che, nel corso della sua analisi, aveva scoperto la libertà che la parola gli aveva regalato nei confronti dei segreti e dei non detti che aveva sperimentato nell’ambito della sua istituzione originaria, cioè la famiglia, rimase piuttosto scombussolato. Scoprire il potere della parola e accorgersi che, proprio in un’istituzione psicoanalitica, non ha circolazione. È un po’, mi disse, come il bambino che esce contento da scuola, felice perché ha imparato a leggere e a scrivere e non vede l’ora d’applicare le sue competenze. Vede dei segni su un muro. Si ferma per decifrarne la scrittura. Peccato, ecco quel che vi trova scritto: “Scemo chi legge”. il discorso del despota La paura illustra l’altro versante, quello lunare, più taciuto del legame amoroso che si dispiega nel transfert. La questione istituzionale 102 ANGELO VILLA è, anche qui, fondamentale. È quel che si dice, d’altronde, anche di una persona quando occupa una posizione totalizzante. Tizio o Caio sono un’istituzione. E quando l’Altro è un’istituzione vuol dire che l’istituzione non c’è e che lui la occupa, satura quel posto che, in verità, dovrebbe designare un luogo, rigettando in maniera ostentata la castrazione. Non è, insomma, affar suo, non lo riguarda. Un elemento fondamentale a questo proposito è il modo in cui l’Altro può incarnare una figura impossibile, quella cioè di rappresentare una sorta di Altro della garanzia. Si tratta di una costruzione ovviamente illusoria che si sviluppa attorno a un nucleo essenziale, quello cioè del rapporto con il sapere. L’operazione si articola secondo una duplicità di piani: il primo, l’Altro dispone di un sapere che, una volta acquisito, garantirà il soggetto nel suo incontro traumatico con il reale; il secondo, più sottile, l’istituzione codifica e ratifica quel sapere che nel transfert analitico rimane solo supposto. E di cui l’analista, in altra veste, come teorico, come insegnante, dà prova… Il “bravo” analizzante è uno che lavora in seduta, ma, altresì, studia, fuori. Parla, interviene, scrive con il linguaggio che è quello dell’istituzione cui partecipa l’analista. È la doppia logica dell’uno: da una parte l’analista, per il tramite della sua domanda, mira oscuramente a riprodurre dell’identico nell’analizzante, cioè a farne uno, simile a lui, con buona pace del culto della differenza, dall’altra, qui è in parallelo la comunità analitica che tende all’uno come la “oumma musulmana”, ben più della Chiesa cattolica o dell’esercito. Perché ciò accada occorre che sia legittimato il possesso della giusta lettura e interpretazione del sapere analitico, vedi i testi, quella che taluni colleghi denominano la dottrina (altro sic!) analitica. Operazione che ha come conseguenza la sacralizzazione del testo, nel mentre ne suppone una ancora più detestabile, quella cioè della sacralizzazione della casta, del clero che ne custodisce e ne monopolizza quello che Wittgenstein definirebbe il buon uso. La Bibbia è contro il sacro, scriveva giustamente Lévinas. Occorre infatti porre le debite distinzioni, come fa Henri Meschonnic.4 Il sacro non è né il religioso, né tantomeno il divino. Il sacro è il mito 4 Henri Meschonnic, Un coup de Bible dans la philosophie, Bayard, Paris 2008 ; si veda in particolare cap. 6, pp. 191 e sgg. SÌ, MA NON QUI… 103 dell’unione primordiale, l’unità fusionale che anticipa il linguaggio. L’arcaico originario che abita, si faccia attenzione, il presente più che il passato, in maniera ossessionante, ovunque. È l’intoccabile, l’inanalizzabile, il magico, il terrifico. Sono le parole salmodiate che vanno da sé, cadenzate, come le rime della pubblicità. È il linguaggio che annulla il linguaggio, come l’umano, la retorica asfissiante del “come dice…”, del “come ci insegna…”, del “come…”. È l’idolatria del testo, della parola dell’altro, della sua persona, chiunque sia. Gli esempi sono troppo numerosi, me ne auto esento. Il religioso non è il divino. Appartiene a quel registro dell’ossessività indicato da Freud. Il sacro spetta ai maestri e ai maestrini, il religioso è il culto degli adepti. Investe la ritualizzazione e l’istituzionalizzazione di quel che è il divino. È la sua profanazione, la sua banalizzazione. Meschonnic dice che è la poetica ridotta a retorica. E che cos’è il divino? Riprendo una definizione del linguista francese, è “la potenza creatrice della vita separata dal sacro che apre all’infinito della storia infinitamente”. È, mi verrebbe da dire, la parola che vivifica, quella che parla nei testi come nelle aperture dell’inconscio e che domanda d’esser ripresa, rilanciata, trasformata per il tramite di un lavoro che sollecita le energie e le passioni di ciascuno. Come scrive André Haynal: “Se si considera la psicoanalisi come l’opera di una sola persona – Freud (nota personale: potremmo però allo stesso titolo sostituirvi altri nomi…) – allora qualsiasi aggiunta o correzione, eccetto quella che ha compiuto egli stesso, appare illegittima (questa d’altro canto è stata la sua posizione). Se, invece, è l’opera di un gruppo in una continuità storica, allora le diverse scuole e le loro idee sono accettabili come stimolazioni offerte che riflettono nuove esperienze, sia con una diversa clientela, sia mediante nuove esplorazioni dell’esistenza umana”.5 Se, al contrario, l’istituzione preserva il dogma così come il culto dell’Altro, due facce della stessa medaglia, se ne può dedurre che chi si ponga al suo interno in una posizione di non completa o ipocrita adesività a quella logica sia sopraffatto da un’inquietudine. È più probabile che sia lui ad angosciarsi prima che a interrogare il volere dell’Altro? Sono un analista oppure no? Un “selvaggio” che nessuno 5 André Haynal, Ernst Falzeder, Paul Roazen, Nei segreti della psicoanalisi e della sua storia, Borla, Roma 2008, pp. 436-437. 104 ANGELO VILLA riconosce? E se, poi, avessero ragione “loro”, gli “altri”? E se poi mi ritrovassi da solo, condannato a un isolamento tutt’altro che splendido? Vilipeso, deriso? Hobbes, un filosofo che considero più freudiano di Freud, sottolinea come la paura non abbia una carica solo distruttiva ma anche produttiva, politicamente produttiva. L’autore del “Leviatano” preferisce l’espressione negativa “fuggire la morte” a quella positiva “conservare la vita”. È quel che fa sì che la paura origini e spieghi patti e intese. E, ancor più, li protegga, li mantenga in vita, spingendo ad aderirvi in maniera ben più fondata che in virtù dell’ideale di freudiana memoria, quello di Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Lo spavento e l’angoscia alimentano un discorso che l’arbitrio dell’Altro può alla perfezione materializzare, come accade nelle dittature o con le madri degli psicotici. Proporrei a questo proposito, basandomi sulle celebri formule discorsive elaborate da Lacan, quello che definirei una sua possibile versione: il discorso del despota. Espressione sintetica di un tipo di legame che l’Altro, un singolo o un gruppo, possono esercitare in rapporto a un individuo che vi è implicato. Aggiungo un’indispensabile precisazione: sarebbe improprio o eccessivamente limitativo supporre che quest’Altro manifesti il suo potere solo per il tramite di una disposizione che miri a terrorizzare apertamente un soggetto. È uno stile che, oggi, può anche risultare piuttosto antiquato per quanto niente affatto fuori moda in istituzioni varie o in aziende. Esso si presenta, la patologia insegna, celato dietro la maschera dell’amore o della gentilezza come l’espressione di un discorso che trova la sua forma più compiuta nella dimensione del ricatto. In questo caso, essa genera terrore non in sé, non perché tradisce il suo carattere di dichiarata minaccia, ma piuttosto in ragione della paura che induce sul singolo, sfruttando perversamente le sue fragilità. La paura dell’abbandono, della messa in disparte acquistano, in questo caso, un peso decisamente superiore a quello dell’intimidazione; quest’ultima, infatti, può potenzialmente mobilitare le energie difensive del soggetto, dato che in fondo un nemico viene dall’esterno a pararsi dinnanzi a lui, ben visibile e circoscrivibile. Nel caso dell’abbandono il timore è più forte poiché costringe l’individuo a convivere con i fantasmi che la solitudine si porta appresso: “Ce la farò da solo? Ne sono capace? E se poi avessero avuto ragione gli altri? Ora che ho cercato di separarmi sono fuori dal giro? E se poi ne avrò bisogno o SÌ, MA NON QUI… 105 necessità potrò ancora rivolgermi a quest’Altro oppure mi chiuderà la porta in faccia?”. Scriverei così il discorso del despota: esso, a seconda, può avvalersi di una retorica di stampo degenerativo “paterno” non meno che “materno”, indifferentemente. Muta la fenomenologia, non la sostanza: S1 a S2 Nel posto della verità, abbiamo messo a e cioè il reale di una soddisfazione capricciosa ben poco interrogabile, in quello dell’agente, e quindi del despota, un S1 che causa nell’altro, il soggetto ostaggio di questo discorso, una divisione soggettiva. Ciò mette costui nelle condizioni di produrre un sapere: quale? Quello del tirare a campare? Dell’adeguarsi? kelsen con freud Vengo a concludere. Ero partito dall’immagine di un bambino sotto la barra, schiacciato dal suo sintomo. Non credo debba essere questa la posizione dello psicoanalista in un’istituzione psicoanalitica. Occorre, infatti, che un “qui” sia possibile, dove poter dire, pensare, parlare, mettere in atto un effettivo confronto culturale e politico. Perché ciò accada bisogna però che ogni realtà gruppale psicoanalitica si assuma una barra, anzi la costruisca e la custodisca. Per quanto appaia paradossale la barra si chiama istituzione, un’istituzione ad hoc, non come tutte le altre. Lavorando in un’istituzione pubblica e partecipando spesso a momenti formativi su questo terreno sono rimasto più volte sorpreso dall’assenza di una riflessione sistematica su quel che definirei l’ambito proprio al funzionamento istituzionale in un contesto propriamente analitico. La sua logica, la sua efficacia, la sua possibile democraticità. La rimozione, quando non addirittura, la forclusione di questo dibattito, in una parola, la sua assenza, ha come suo contraltare il privilegio esclusivo della dimensione transferale come asse portante, di fatto, dell’assetto prete- 106 ANGELO VILLA so istituzionale che, però, risulta solo formalmente tale, niente di più. Non stupiscono poi le conseguenze che ne derivano e finiscono per permeare l’insieme della realtà gruppale a differenti livelli. Analisi e lavoro teorico inclusi. Ciò che propongo dunque è la crescita e lo sviluppo di una cultura dell’istituzione e per l’istituzione psicoanalitica come barra all’assolutizzazione totalizzante del rimando al transfert, se potessi sintetizzare tutto questo con uno slogan à la Lacan direi: Kelsen con Freud. E non tanto in omaggio al formalismo del teorico del diritto, quanto piuttosto come significante di una referenza alla necessità di introdurre una pratica costante di analisi all’interno dell’istituzione psicoanalitica tra transfert e, per l’appunto, istituzione, tra l’ossessione dell’identità e dell’appartenenza e la vivacità del cosiddetto transfert di lavoro, tra l’imprescindibilità dell’alterità e l’obbligo della democrazia (quale? Come?) Ecco, in buona sintesi quello a cui penso: si tratta di permettere o, se possibile, di garantire un processo, non uno status quo. Le istituzioni cambiano. Sono le istituzioni che devono adattarsi ai processi, anzi favorirli. E non viceversa. Ora, mi sembra questa la partita che la psicoanalisi è sempre stata restia ad affrontare, ma che proprio per questo, e forse per il futuro (o per la qualità del suo futuro stesso) la psicoanalisi è sollecitata ad affrontare, come una scadenza che non può sempre rimandare. O dissolvere dietro elucubrazioni erudite, tatticismi reiterati, manipolazioni sottili… Un’istituzione che, bene o male, funzioni, non è il luogo dell’amore e nemmeno quello della paura. Mi verrebbe da dire che è un luogo dove è possibile, insisto su questo termine, litigare. Freud lo avrebbe preso per un segno di civiltà. O chissà, forse no, ma è poi così importante? Litigare si litiga, è normale. Accade dovunque, da quando mondo è mondo. Insisto su questo punto, poiché mi pare fondamentale, pena altrimenti un’eccessiva psicologicizzazione dell’intera questione. Il problema non sono i tagli, gli strappi, le liti o le riconciliazioni… Ma la pressoché totale latitanza di un lavoro di analisi che interroghi le vicende, le logiche che presiedono alle cosiddette istituzioni psicoanalitiche. Domani è prevista una sessione di dibattito intorno a questo tema. Sollevo un interrogativo ma, siamo sinceri, i lacaniani litigano davvero? La storia della psicoanalisi è ricca di tensioni e conflitti, da sem- SÌ, MA NON QUI… 107 pre. Sarebbe stupido o ingenuo pretendere che non lo sia. Caso mai si rimane sorpresi dalla scarsa indagine analitica a questo riguardo. La teoria s’invola, come obbedisse a un kantismo rivisitato sforzandosi di proporre ipotesi di lettura o di progettazione istituzionale nelle quali si direbbe basti sostituire al dovere caro al filosofo di Konisberg la retorica del desiderio o chissà quale raffinata teoria speculativa affinché il meccanismo funzioni. Salvo poi inevitabilmente scoprire che lo scarto tra la teoria e la realtà è, a dir poco, sconvolgente, tale per cui alla teoria è demandato il ruolo di mentire o di tenere il posto dell’ipocrisia, e quel che accade non può che scivolare nel pettegolezzo velenoso da corridoio, nelle costanti perfidie quotidiane, nel nutrire amorevolmente l’odio rancoroso che è lì, pronto ad attendere il momento in cui potrà esplodere liberamente. È una storia che si ripresenta in maniera sempre uguale e che ha allontano molte persone, spesso le più intelligenti e acutamente critiche, dalle istituzioni psicoanalitiche. Una differenza risulta chiara rispetto agli esordi del movimento psicoanalitico. Se si pensa alle prime defezioni ai nomi di Jung o di Adler o di Rank o, più tardi, allo scontro tra Anna Freud e Melania Klein si può facilmente rinvenire come, al di là o attraverso questioni personali che pur sussistevano, compaiono in maniera chiara diversità d’ordine teorico, concettuale, spesso radicali. Mi risulta impossibile coniugare le tesi di Jung con quelle di Freud, per esempio. O la concezione del trauma a partire da Rank. L’espulsione stessa di Lacan dall’Ipa ha, almeno apparentemente, una sua ragione identificabile, giustificabile o meno che sia. Ma poi? Su cosa e per cosa litigano i lacaniani? Ammesso che poi litighino davvero. Sia come sia, insisto e ribadisco, la questione non sono le rotture. È normale che i rapporti si logorino. Esistono la convivenza, il matrimonio, il divorzio e capita addirittura che, dopo la separazione, delle coppie si rimettano insieme… Insomma, non è questo il punto! Il problema è la totale mancanza di una riflessione sulle logiche istituzionali, sugli accadimenti, poi uno vada dove vuole andare… Perché tanto silenzio? Tanta omertà? Sintetizzando ho dunque due obiezioni a questa tesi, troppo semplicistica, troppo psicologica, del litigio. La prima: i lacaniani non litigano, o meglio non è questo il punto centrale, a mio avviso, della questione. I lacaniani si separano. È diverso. Infatti e non casualmente, separandosi, finiscono di litigare. Game over. L’Io ritorna sovrano, la 108 ANGELO VILLA divisione, l’unica che realmente dovrebbe contare, quella scompare sostituita dalle divisioni, al plurale. La seconda obiezione fa da corollario alla prima: i lacaniani litigano? Non sempre, non tutti… Chi litiga o chi getta fuoco sul litigio e finisce inevitabilmente per far litigare? Per chi si litiga? In un litigio degno di questo nome ciascuno dovrebbe litigare per sé, mentre quel che accade di buffo in parecchie feroci discussioni cui mi è capitato d’assistere è il livore con cui analizzanti scendono in campo per difendere a spada tratta il loro analista ingiustamente accusato. È un fatto che mi ha sempre colpito per il livello di alienazione, nel senso marxista del termine, che palesava. Per la verità, mi provocava una certa tristezza. Dentro di me mi chiedevo quanto della dedizione e della foga che impiegavano nel difendere l’Altro sarebbero stati in grado di mettere in campo per difendere e tutelare se stessi? Sono quesiti che lascio aperti, non ho soluzioni a riguardo, né realisticamente penso che ce ne siano. Mi basterebbe solo incominciare a poterne parlarne, senza eccessive pregiudiziali. È chiedere troppo? La comunità che viene Giovanni Mierolo L’esistenza della psicoanalisi e la sua sopravvivenza sono state inevitabilmente legate alla salute delle comunità psicoanalitiche, alle forme istituzionali che queste, nel corso del tempo, hanno adottato per garantire – innanzitutto – un’adeguata formazione per i propri membri. In effetti, l’autorizzarsi dell’analista, l’opportunità di ripensare la propria esperienza e di poterla trasmettere, non possono realizzarsi al di fuori di un legame associativo che li accompagni. Eppure, nonostante una necessità vitale di fare legame e di tutelarlo, le comunità analitiche sono state spesso attraversate da movimenti interni che ne hanno minato le fondamenta, mettendone in dubbio ripetutamente la sopravvivenza. Anche per questo, appare sempre più importante dedicare un’attenzione particolare alle comunità e ai presupposti su cui si sostengono. Una prima considerazione riguarda il concetto stesso di comunità che, potremmo dire, sta vivendo una nuova stagione. Infatti, molta filosofia – da Lévinas, a Derrida, a Esposito – ha contribuito a decostruire i fondamenti sui quali si sostiene o, per meglio dire, sui quali fin qui si è sostenuta, una certa idea di comunità, partendo dal presupposto che possano essere ripensati. Lo stesso Lacan ha ipotizzato la nascita di una comunità psicoanalitica costruita su basi diverse da quelle edificate dai seguaci di Freud. Finora il modello più esemplare di pensiero politico che abbia proposto una definizione di comunità è stato quello di Carl Schmitt. Il 110 GIOVANNI MIEROLO paradigma di Schmitt – che viene identificato con la tradizione occidentale – è un paradigma che definisce la comunità a partire da una opposizione che esclude. L’opposizione tra un dentro e un fuori, tra amico e nemico è un modo per pensare le differenze, per assegnare loro un posto. Attraverso l’opposizione, la differenza viene ricondotta al campo speculare, all’ambito in cui – come dice Lacan – siamo maggiormente difesi nei confronti dell’angoscia. Questo campo può costituire un vero “baluardo”1 – uso un termine di Lacan – nei confronti dell’alterità, di ciò che è inassimilabile all’immagine del simile. In effetti il politico se percorre la via della contrapposizione può consentire a una comunità di identificarsi e riconoscersi, riducendo al minimo gli equivoci e le intromissioni del reale. In questo senso il nemico svolge un ruolo essenziale, al punto che Schmitt si preoccupa di evitarne la distruzione, di andarci piano con le guerre: perché alla fine, se non c’è più nemico non c’è identità. Avremmo molti esempi per constatare come questo paradigma funzioni perfettamente all’interno delle comunità psicoanalitiche. Uno per tutti: il 2 agosto 1963 una direttiva dell’ipa comunica che il dottor Lacan non è più riconosciuto come analista didatta. Viene scritto esplicitamente che bisogna escluderlo dall’insegnamento perché è “una minaccia per la psicoanalisi”.2 I significanti utilizzati da chi redige il rapporto dell’ipa fanno riferimento a una comunità minacciata e alla necessità di difenderla. In questa accezione, la comunità psicoanalitica avrebbe il compito di difendere la psicoanalisi. Dagli psicoanalisti. Come se fosse una piccola patria da proteggere, preservandone i confini. Perché al confine viene situata la minaccia 1 Jacques Lacan, Lo stordito (1972), in Scilicet n. 4. Rivista dell’École Freudienne de Paris, Feltrinelli, Milano 1977, p. 373. 2 Il 2 agosto 1963, durante il Congresso dell’ipa, tenutosi a Stoccolma, viene promulgata una direttiva che al punto 6 recita: “Tutti i candidati in formazione con il dottor Lacan sono pregati di informare la Commissione degli Studi se desiderano o no proseguire la loro formazione, essendo inteso che sarà richiesto loro un supplemento di analisi didattica con un analista gradito alla Commissione degli Studi”. Lo psicanalista Turquet, di Londra, redattore della direttiva dichiara “Lacan come didatta è una minaccia: bisogna salvare i suoi candidati e prevedere un piano di transfert di costoro presso altri didatti. Ci vuole un piano per mantenere la sua esclusione dall’insegnamento”. Riportato da Jacques-Alain Miller in Seminario di politica Lacaniana, in “Appunti”, n. 66. Sull’argomento si veda anche Jacques Lacan, Il seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979, pp. 3-8. LA COMUNITÀ CHE VIENE 111 tra il proprio e l’estraneo, tra amici e nemici, tra autori che si possono citare e gli scomunicati. Ma il problema, per una comunità, è dove situare il confine. Qual è il punto in cui il simile acquista la connotazione del diverso? Per il nazismo, nonostante la ricerca continua delle impurità da espellere, rimanevano sempre dei corpi estranei di cui bisognava sbarazzarsi e il meccanismo avrebbe potuto continuare fino alla distruzione totale. L’impossibilità di situare il confine ha messo in evidenza, in questo caso, la sua deriva più radicale. Che il confine non si presti a rappresentazioni pacificanti lo ha messo in evidenza già Freud nel suo testo sull’Unheimlich. Qui, infatti, il familiare giunge a confondersi e a coincidere con il suo contrario, suggerendo una rappresentazione del confine che ci appare sottoposta a una torsione, come nel nastro di moebius, che rende indiscernibile il bordo interno da quello esterno. In questa continuità dei bordi non c’è un inizio e una fine e, radicalmente, non c’è neanche un dentro e un fuori. Come a dire che la questione cruciale, per ogni comunità, riguarda la necessità di fare i conti con una interiorità inassimilabile, che può prendere il volto dello straniero o dell’Unheimlich, ma da cui non è possibile prescindere. Anche per questo, nel momento in cui i dispositivi immunitari diventano ipertrofici, completamente orientati a proteggere la vita dalle potenziali minacce, allo stesso tempo insidiano la vita stessa. La difesa di una comunità o di un organismo elevata alla massima potenza, diventa una malattia, a volte mortale, una malattia immunitaria. In tal senso, il rischio più grande per una comunità non è dato da una scarsa tenuta dei confini identitari ma da un eccesso di confini, da un eccesso di identità. Lo mette bene in evidenza Derrida: “se per comunità si sottintende, come di sovente, un insieme armonioso, il consenso e l’accordo fondamentale […] non ci credo troppo e vi presagisco tante minacce quante promesse”.3 Derrida ritiene che in una comunità rischia di risuonare troppe volte il concetto di comune, che evoca il come-Uno. In effetti, l’identità comunitaria fondata sul mito dell’uguaglianza presuppone una collettività in cui le differenze tendano a sparire, poiché nel come-Uno è all’opera una potente riduzione dell’altro al medesimo, all’Uno. In questo caso la comunità si 3 Jacques Derrida, Une “Folie” doit veiller sur la pensée, in Points de suspension. Entretiens, Galilée, Paris 1992, p. 366. 112 GIOVANNI MIEROLO definisce come un corpo unico, abitato da una uguale volontà. Una comunità che non sia in grado di tener conto del diverso dall’Uno, che misconosce le singolarità irriducibili, in nome della difesa dell’Uno, appare irrimediabilmente destinata alla distruzione. Nicole Loraux, la storica francese che ha studiato e descritto il funzionamento della democrazia nella polis greca, ha preso per esempio Atene come modello di un’altra tradizione politica dell’occidente. La sua scoperta mette in evidenza che ciò che fonda la città, ciò che ne garantisce la vita democratica, non è l’unità e neppure la condivisione, ma una forma paradossale di legame che è alimentato dalla divisione e, al limite estremo, dalla guerra civile; che non è solo lacerazione del tessuto sociale ma è la messa in questione dell’armonia. Il compito della politica non è dato dalla ricerca dell’armonia, anzi è chiamata, piuttosto a far esistere la disarmonia, poiché la disarmonia – come nel caso estremo della guerra per Atene – costituisce una sorta di esteriorità che fa sì che in una comunità i conti non tornino, producendo un contro movimento che impedisce alla comunità di chiudersi in se stessa, di pensarsi come-Una. Dunque, quando ci chiediamo perché gli analisti non riescono a non litigare, non facciamo riferimento alle conseguenze della disarmonia, che pure ci sono e vanno trattate – in questo senso le elezioni sono un modo rituale e organizzato per legittimare l’esistenza delle dissonanze, delle divisioni – ci riferiamo piuttosto all’effetto paradossale della ricerca di armonia, della concordia, prodotte dal sogno di riassorbire tutte le differenze nel regno incontrastato dell’Uno. In nome di questo sogno si producono i totalitarismi. Come ricorda Esposito, communitas deriva da munus, dal dono, dall’apertura all’altro.4 Il senso della comunità, il suo senso originario, non sta nella appartenenza ma, al contrario, nell’offerta, nell’alterazione degli equilibri, nella donazione. Da questa prospettiva, lo spazio comunitario non è uno spazio da preservare, ma uno spazio esposto all’alterità. Come fare allora con ciò che non può essere assimilato al campo speculare? Lacan se lo chiede nel suo ultimo grande scritto che tocca il tema del legame tra analisti – L’Étourdit – quando dice: “L’oggetto a come 4 Cfr. Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. LA COMUNITÀ CHE VIENE 113 potrebbe essere sostenuto da un conforto diverso da quello che offre un gruppo?”.5 In sostanza è possibile far fronte a un’estraneità, che ci riguarda intimamente, se non facendo gruppo? Nel fare gruppo Lacan vede la compattezza immaginaria della massa, vede la ricerca dell’Uno. Per questo afferma – sempre ne L’Etourdit – “La mia impresa sembra disperata perché è impossibile che gli analisti formino un gruppo. Eppure, il discorso psicoanalitico è proprio quanto può fondare un legame sociale ripulito da qualsiasi necessità di gruppo”.6 Dunque, Lacan crede sia possibile fare esistere una comunità depurata dagli effetti di gruppo. L’esempio non è l’ipa: “Questa vita di gruppo preserva precisamente la cosiddetta istituzione internazionale e io cerco appunto di proscriverla dalla mia Scuola”.7 Lacan pensa che occorra trovare una forma inedita di legame per la sua Scuola, per la comunità che intende promuovere, che gli sembra possibile a una condizione: “Non sarò io a vincere, ma il discorso che servo”.8 Questo decentramento, almeno teorizzato, degli effetti transferali, è già presente nell’atto di fondazione dell’École: “L’insegnamento della psicoanalisi non può trasmettersi da un soggetto a un altro se non per le vie di un transfert di lavoro.” E aggiunge: “i Seminari […] non fonderanno nulla se non rinviando a questo transfert”.9 La comunità di cui parla Lacan può realizzarsi se sarà in grado di attivare un particolare tipo di transfert, non orientato all’Uno o dall’Uno. Lacan dice: “non sarò io, ma il discorso che servo”. “Non sarò io”, ma l’insegnamento – al servizio della psicoanalisi – che dovrà realizzarsi attraverso i Seminari. Non c’è un io e neppure un noi, giacché l’insegnamento si trasmette da un soggetto a un altro. Se non c’è discorso comune, se non c’è il comune inteso come Uno, o come l’Uno, ognuno potrà trovare un rapporto diverso e singolare con la causa analitica. Questo comporta un rapporto potenzialmente disarmonico con l’ideale, ma una comunità disarmonica cosa trasmette? Freud si è posto il problema più volte e, nel 1914, in pieno dissidio con Jung e Adler, ne rende conto con lo scritto Sulla storia del movimento Jacques Lacan, Lo stordito, cit., p. 373. Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Id., Atto di fondazione (21 giugno 1964), in “La Psicoanalisi”, nn. 30-31, Astrolabio, Roma 2002, p. 16. 5 6 114 GIOVANNI MIEROLO psicoanalitico. Qui ritiene che qualcuno debba dire – una buona volta – cos’è psicoanalisi e cosa non lo è. Per questo è lui a permettersi di dire: “nessuno meglio di me può sapere che cos’è la psicoanalisi”.10 Freud può farlo perché parla dalla posizione di padre della psicoanalisi. In nome di questo padre, morto, che presuppone un noi, un noi costituito dai suoi figli, l’ipa destituisce Lacan dal ruolo di didatta. Come sappiamo, questo avviene in concomitanza con il Seminario di Lacan sui Nomi-del-Padre.11 Il passaggio dal Nome-del-Padre ai Nomidel-Padre segna un altro tempo anche nella storia delle comunità psicoanalitiche. Lacan interrompe il Seminario dopo la prima lezione, per via della scomunica. Il fatto che Lacan parli di scomunica, ci induce a leggere il suo enunciato in forma rovesciata. Lacan vuole fare intendere che è una Chiesa che scomunica, la Chiesa psicoanalitica, che è arroccata a difesa del padre, non solo in quanto Freud, ma in quanto Uno.12 Abbiamo, quindi, da una parte l’Internazionale Psicoanalitica che, con la scomunica, offre una versione normativa dell’insegnamento della psicoanalisi e della comunità che può farsene carico, dall’altra il seminario sui Nomi-del-Padre, sulla pluralizzazione dei Nomi-delPadre, che viene interrotto: “Non vi dirò mai quello che potrei dirvi sui Nomi-del-Padre. Non lo saprete mai”.13 L’insegnamento di Lacan è scandito da “Non lo saprete mai”. Sulla questione del padre, sulla questione del fondamento, dopo aver messo in questione il Nome-del-Padre in quanto Uno, Lacan rimane in silenzio. Il suo Seminario diviene il Seminario inesistente. Ma se aveva sostenuto che la sua Scuola si sarebbe fondata su un insegnamento, da realizzarsi attraverso i seminari, il seminario inesistente non è forse quello che fonda la serie? Comunque, il “non lo saprete” ritorna spesso in Lacan, ma ha un significato particolare pronunciato in una delle sue ultime relazioni. Siamo nel 1978 e interviene in chiusura di un Congresso dell’École 10 Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico (1914), in Opere, Boringhieri, Torino 1975, vol. vii, p. 381. 11 La prima e unica lezione è pubblicata in: Jacques Lacan, Dei Nomi-del-Padre, Einaudi, Torino 2006. 12 Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit. 13 Riportato da Jacques-Alain Miller in Della natura dei sembianti, in “La Psicoanalisi”, n. 12, Astrolabio, Roma 1992, p. 145. LA COMUNITÀ CHE VIENE 115 Freudienne sulla trasmissione della psicoanalisi, dove si chiede: “Cosa consente alla psicoanalisi di guarire?” Com’è possibile che ci sia “gente che guarisce – si domanda Lacan – e che guarisce dalla nevrosi e persino dalla perversione. Come è possibile? Malgrado tutto quello che ho detto un tempo, io non ne so niente”.14 Non male per un maestro che si appresta a lasciare la scena. Per inciso, in quello stesso anno terrà il seminario sul momento di concludere. Viene in mente Basaglia che un anno prima di morire dice “non so cos’è la follia”. Come a dire che le battute finali, retroattivamente, illuminano la storia precedente. In questo caso, acquista una maggiore evidenza la posizione che entrambi hanno occupato rispetto al sapere. In entrambi è presente la necessità di far teoria e, allo stesso tempo, l’esigenza di preservare un vuoto all’interno della teoria stessa. Lacan non aveva risparmiato i suoi “non lo so” neanche nella “lettera agli italiani”, nel 1973.15 È in gioco il futuro della psicoanalisi in Italia e la costruzione di una comunità psicoanalitica italiana. Nella lettera insiste più volte su un punto, come se dovesse avvertire dell’impossibilità di costruire un legame tra analisti senza tener conto del fatto che, come scrive: “Non c’è rapporto sessuale, rapporto – intendo dire – che possa essere messo in scrittura […] con la conseguenza che non c’è verità che si possa dire tutta”.16 Mette gli italiani di fronte al teorema di incompletezza di Godel e alle proposizioni indecidibili. Li mette di fronte a una verità su cui né lui né tantomeno ciascuno di loro avrebbero potuto garantire. Come sappiamo, i tre destinatari non colsero il senso della lettera e non riuscirono neppure a pensare di costruire insieme una comunità. Torniamo al Lacan del 1978: “così come ora arrivo a pensare la cosa, la psicoanalisi è intrasmissibile. È una vera seccatura”.17 Effettivamente per Lacan, nella trasmissione della psicoanalisi, occorre tener conto non solo di nozioni e concetti, ma soprattutto di proposizioni indecidibili. Dunque, il padre a cui faceva riferimento Lacan non era lo stesso padre pensato da Freud, e la comunità psicoanalitica che ipotizzava Lacan era diversa e guardava alla trasmissione della psicoanalisi in Jacques Lacan, Sulla trasmissione della psicoanalisi, in “La Psicoanalisi”, n. 38, Astrolabio, Roma 2005, p. 15. 15 Id., Nota italiana in “La Psicoanalisi”, n. 29, Astrolabio, Roma 2001. 16 Ivi, p. 12. 17 Id., Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 14. 14 116 GIOVANNI MIEROLO modo diverso da come l’aveva pensata Freud. Questi temi sono evidentemente collegati. Ma ci interessa mettere in evidenza lo scarto che Lacan introduce con il pensiero di Freud. Proprio lui che aveva proclamato il ritorno a Freud. Come a sottolineare che nel ritorno rimane sempre uno scarto. Come a dire che, per Lacan, l’eredità di Freud non poteva essere accolta come un bene già confezionato e pronto all’uso. Non si poteva accogliere passivamente perché non si può accogliere passivamente l’indecidibile. Derrida dice che “si eredita sempre a partire da un segreto”.18 La sua idea è che ereditando facciamo sempre esperienza di un limite invalicabile, di una inappropriabilità costitutiva. Perché, dice ancora Derrida: “Un’eredità non si raccoglie mai, non forma mai un tutt’uno. La sua presunta unità, se ce n’è, non può consistere che nell’ingiunzione di riaffermare scegliendo”.19 “Riaffermare scegliendo” dice Derrida e il Lacan che parla della seccatura di una psicoanalisi intrasmissibile concepisce l’eredità allo stesso modo: dato che la psicoanalisi è intrasmissibile “è necessario che ogni psicoanalista sia costretto – perché bisogna che vi sia costretto – a reinventare la psicoanalisi.”20 Se il padre è morto, se la sua tomba è vuota, la psicoanalisi può essere solo reinventata. La psicoanalisi c’è, può essere trasmessa, ma bisogna reinventarla. Ogni psicoanalista, uno per uno. Ma occorre anche che ciascuno vi sia costretto. Sarebbe interessante indagare sul perché Lacan pensi a una costrizione e sulle forme che può assumere la costrizione. Potremmo pensare alla passe e ai suoi esiti, che Lacan ha considerato deludenti. Sicuramente in una comunità occorrono dei dispositivi che mettano al cuore del legame associativo la verifica del rapporto che si intrattiene con la psicoanalisi, con la teoria e la clinica psicoanalitica. Si tratta di una verifica che non potrà valere una volta per tutte. Ma credo che se una comunità accetta un’eredità e coglie il senso dell’ereditare, nel suo legame con la trasmissione, accetta, inevitabilmente, una costrizione. Se vogliamo ereditare, dobbiamo tener conto 18 Jacques Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 1994, p. 26. 19 Ivi, p. 25. 20 Jacques Lacan, Sulla trasmissione della psicoanalisi, cit., p. 14. LA COMUNITÀ CHE VIENE 117 del fatto che un’eredità non è mai l’appropriazione di un bene, già accumulato, pronto all’uso. L’eredità comporta sempre la responsabilità su ciò che ci viene assegnato, che non costituisce mai un bene inalterabile, perfettamente disponibile. Dobbiamo farcene qualcosa. Poiché l’eredità è sempre un compito. Giacché il “non lo so” lascia un’eredità inassumibile, una intrasparenza che comporta sempre il rischio e la responsabilità su quanto si intende ri-affermare. Ora, c’è qualcosa di più inconsistente e allo stesso tempo di più essenziale su cui fondare una comunità? Con il “non lo so” Lacan non richiama forse la necessità di preservare uno spazio di intraducibilità, di riserbo, che salvaguardi la possibilità della disarmonia, della non appartenenza? Il segreto, il “non lo saprete mai”, il “non lo so”, sono l’altro nome dell’indecidibile, il punto limite della possibilità di trasmettere la psicoanalisi. Il punto che non si può scrivere e deve essere, ogni volta, reinventato. Credo che intorno a questo indecidibile, se si riesce a sopportarlo e a supportarlo, si possa costruire una comunità psicoanalitica. Una comunità che potrà rinunciare al sogno della comunione, dell’armonia, della padronanza. Questo comporta – lo accenno soltanto – di ripensare alcuni concetti, come quello di libertà e di uguaglianza. In che modo, all’interno di una comunità è possibile tenere insieme la differenza nell’uguaglianza, l’individualità nella comunità, il singolare e l’universale? Si tratta, infatti, di tenere nel coro la voce discordante. Ogni sintesi, che cerca di sopprimere l’oscillazione continua tra l’universale e il singolare che pacifichi questo dissidio, rischia di essere totalitaria. Lo è se vuole comporre una unità-identità-totalità, senza fratture, senza differenze. Parafrasando Lacan potremmo dire che una comunità si produce proprio in questa oscillazione, mai compiuta tra universale e singolare. Nel rispetto di questo dissidio la comunità non avrà un’identità da difendere perché sarà in grado di rinunciare a una rappresentazione compiuta di sé. In questo senso sarà inappropriabile, non sarà la comunità di qualcuno. Per questo, non potremo dire cos’è una comunità una volta per tutte, perché sarà ciò che accade. Come sostiene Agamben, ogni comunità è “la comunità che viene”.21 Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 21 Formazione dello psicoanalista Il bambino del tubo Fabio Tognassi Andrea, sette anni, giunge presso il Centro Gianburrasca a causa delle sue difficoltà con il linguaggio. Nessuna anomalia comportamentale. Gli insegnanti, stimati dalla famiglia, rilevano una profonda difficoltà di comprensione ed espressione linguistica, in un bambino per il resto assolutamente pacifico, sensibile e intuitivo. Andrea è figlio unico. Ad accompagnarlo al centro è sempre il padre, un giovane uomo molto attento alle esigenze del figlio, ragionevole, accudente e premuroso, sempre gentile con gli operatori. Durante l’incontro con il medico di Gianburrasca, il padre di Andrea racconta con precisione la sua storia clinica. Andrea ha sofferto di otiti ricorrenti nella prima infanzia e di adenoidi a tre anni. Frequenti episodi di broncospasmo e asmatici lo accompagnano fin dall’età di quattro anni, episodi a causa dei quali è stato più volte necessario il ricovero in ospedale. Fin da piccolo Andrea ha manifestato difficoltà di memoria, nella lettura e nella scrittura. Per contare fino a venti, Andrea deve sempre iniziare dal numero uno. Dà il suo peggio nei dettati, nei compiti di comprensione del testo e nelle operazioni logico-matematiche. Fa molta fatica a dividere le parole in sillabe (ac-qu-a, fo-n-ta-na, ma-r-tel-lo). Quando scrive, omette la punteggiatura. Ha iniziato regolarmente l’asilo, fino all’accesso alle scuole elementari. Durante l’anno è stato seguito da un centro specializzato nella logopedia, al quale si erano rivolti direttamente i genitori. I lo- 122 FABIO TOGNASSI gopedisti che lo seguivano hanno proposto di “fermarlo” per un anno nel suo iter scolastico. Le maestre, il preside e i genitori si sono opposti a questa decisione e Andrea accede all’anno scolastico successivo. costruire un supporto immaginario Andrea arriva al Centro Gianburrasca, cerca il contatto con gli altri bambini, ma questi non capiscono che cosa dice. Quando parla, Andrea è incomprensibile. Gli altri bambini chiedono agli operatori: “Ma cos’ha detto?”. Sulle prime io stesso faccio fatica a capire che cosa Andrea mi stia dicendo. Le frasi sono spezzate, impastate, seguono una sorta di flusso indistinto, pur mantenendo in sé una quota di volontà comunicativa rivolta all’altro. Sono costretto quindi a chiedere spiegazioni, a dire che non ho capito. Andrea, per lo più, mi risponde infastidito, ripropone l’enunciato, fa una pausa e aggiunge alla fine: “Ed è questo quello che ho detto”. Il lavoro uno a uno sembra fin da subito offrire più possibilità di intervento. Andrea è appassionato dalla costruzione delle storie. Le narra a partire da alcune immagini stampate su piccoli fogli trasparenti sovrapponibili. Di seguito ne riporto tre. Il ragno pericoloso C’era una casetta, che però va via un ragno. Lui, il ragno, trova un piccolo cane, però il ragno salta sopra al cane e gli dà fastidio, e un giorno il cane se ne va via. Però il ragno doveva ritornare a casa, già perché cadono ora delle gocce, e odia le gocce. Il sole però ritornò, ma però cerchia il ragno e lo porta via. Lui, vola vola vola, girando girando. Il ragno però si abbassa a un albero, però l’albero diventa foglie alte. Quindi lui per ritornare a casa vede una scaletta. C’è però un problema. La scaletta porta a un buco nell’erba. E quindi il ragno è nei guai. Un maiale cattivo lo guarda, il ragno però va sopra al cerchio. Il ragno va nel buco. Il ragno ritorna a casa che è sopra la porta. Per sempre felici e contenti. La luna piange C’è un’ape che si appoggia a un aereo e poi si vuole riposare. Adesso quest’ape ce la fa un pochino. Ogni goccia che è in centro di lui la becca, poi un pochino se la becca… già un pochino è andata, ma poi arrivano tante gocce… credo IL BAMBINO DEL TUBO 123 ce la fa. Poi finisce incastrata sotto una ruota. Poi un signore le ha dato un calcio. Poi finalmente lei può riposare. Tanti giorni L’erba si sta bagnando. Dopo cambia il giorno. Gli alberi si seccano. Un altro giorno arriva la neve, arriva una scaletta e la pioggia. Uno guarda fuori dalla finestra. Un pipistrello va appoggiato al tetto. La maggior parte delle storie che Andrea costruisce sono delle sorte di epopee, dei piccoli poemi epici in cui i protagonisti “ce la fanno un pochino” oppure no, affrontando, durante il loro viaggio, una per una, svariate difficoltà. Fanno degli incontri e alla fine riescono a riposarsi, a tornare a casa. Questo è anche il modo in cui Andrea parla. Per utilizzare un’espressione del padre, Andrea “non parla, pensa”. Pensa liberamente, aggiungerei. Ogni volta che Andrea costruisce storie scrivo puntualmente ciò che dice, fisso la sua parola sulla carta, ordinandola. È Andrea stesso a domandarmi di farlo. Costruiamo assieme la struttura sintattica attraverso il rispetto delle pause. Andrea impara a fermarsi nella narrazione fino a quando io non abbia terminato di prendere nota di ciò che sta dicendo. Cerco di lavorare sulla punteggiatura e sulla sequenzialità degli eventi, separandoli gli uni dagli altri e scandendo il tempo. Tempo 1, tempo 2, scena 2, scena 3. Una volta, prima di iniziare una sessione di gioco simbolico e di costruzione di storie, Andrea mi indica chiaramente in che posizione mi debba collocare: “Tu stai lì, lontano, e scrivi quello che succede”, mi dice. L’unica volta in cui non adempio alla mia funzione, Andrea manifesta una sorta di fenomeno elementare. Mentre sta giocando con il paroliere – gioco di cui non comprende bene le regole – in stanza con altri bambini, perplesso mi domanda “Chi ha detto Andrea? Tu hai detto Andrea? Ma lui chi è?”, indicando un bambino il cui nome ricorda quello di Andrea. “Io sono Andrea?” Andrea si depersonalizza. Scivola via insieme al significante. separarsi nel reale Andrea inizia a prendere confidenza sempre più con la presenza del- 124 FABIO TOGNASSI l’operatore, la utilizza come strumento, sperimenta la distanza. Mentre costruiamo storie mi dice: “Io conto fino a dieci e poi scrivi… Io conto fino a dieci mentre scrivi”. Oppure: “Al mio uno (invece che al mio tre), succede questo…”. Arriviamo a costruire dei copioni per eventuali spettacoli teatrali. Emerge sempre più chiaramente come il lavoro con Andrea dipenda dagli strumenti, dagli oggetti frapposti tra lui e l’Altro. Durante una seduta l’attenzione di Andrea, mentre gioca, viene catturata da un oggetto molto particolare. Si tratta di un tubo. Un tubo di plastica cavo, lungo circa un metro e flessibile, il cui utilizzo normalmente consisterebbe nel farlo roteare in aria producendo suoni. Ovviamente Andrea non lo utilizza in questo modo. Ci parla dentro: l’eloquio di Andrea diventa molto più fluido e articolato, compaiono improvvisamente delle pause e delle congiunzioni sintattiche. Prendo il tubo e me lo porto all’orecchio. Iniziamo a parlare. L’effetto è quasi immediato. Da quel momento il tubo resterà una costante negli incontri con Andrea. Il suo eloquio migliora moltissimo e molto velocemente, tanto da iniziare a dialogare con tranquillità con gli altri bambini, che lo capiscono senza domandarsi più che cosa stia dicendo. Attraverso il tubo comunichiamo nel rispetto dei turni di parola, sincronizzandoci a specchio: quando io metto il tubo vicino alla bocca, Andrea, molto attento, lo accosta all’orecchio, e viceversa. Nell’incontro successivo Andrea è interessato a una scatola colorata sopra la scrivania. La apre. Dentro c’è un’altra scatola, e un’altra e poi un’altra e la serie continua. Andrea rimane stupefatto dalla progressione di scatole. Apre l’ultima. È vuota, chiaramente. Andrea s’illumina, intuendo che lì dentro dovrebbe essere custodito qualcosa. Gli rispondo che mi sembra un’ottima idea e aggiungo che lì potremmo metterci qualcosa di suo, un segreto. “Tubo” + “segreto” vengono subito utilizzati come strumento simbolico di mediazione. Dopo aver finito di giocare con le scatole, Andrea viene a sapere che la madre, per la prima volta, è venuta a prenderlo al centro, al posto del padre. Quest’ultima dà subito del “tu” agli psicologi del Centro. La facciamo accomodare in sala d’attesa, dal momento che Andrea ha “un’idea”. Prende un bidone di plastica, che usiamo come contenitore, ci si infila dentro e chiude il coperchio, lasciando però una fessura dalla quale fa uscire il tubo. Mi chiede di chiamare la madre. Quando entra in stanza, Andrea parla dal tubo dicendo “Non mi IL BAMBINO DEL TUBO 125 trovi” ridendo. “Non mi trovi… Parla nel tubo.” La signora fa subito per scoperchiare il bidone. La fermo e le dico: “No, signora, nel tubo”. I due iniziano a parlare. La signora, tuttavia, non resiste a lungo e scoperchia il bidone. Andrea si lamenta timidamente, chiede alla mamma di mettere il tubo all’orecchio: “Mamma, dai che devo dirti un segreto, ma devo dirtelo dalle orecchie”. La signora lo corregge subito: “Nelle orecchie, vorrai dire!”. Dopo questa messa in scena di una separazione reale dalla madre, due settimane più tardi, Andrea incontra per la prima volta il direttore del centro. Quest’ultimo porta con sé Andrea nella stanza dei colloqui, a cui generalmente i bambini non accedono, dal momento che non è adibita al gioco. Andrea resta soddisfatto dell’incontro e afferma di aver capito: quella è la “stanza dei segreti”. il gioco simbolico La questione della separazione per Andrea è qualcosa che si gioca direttamente nel reale. Del resto, utilizza spesso delle metafore che rimandano a questa impasse evolutiva. Per esempio, mentre dipinge, più volte, quando fa colare il colore dal tubetto dice: “Ecco, si stacca dalla sua famiglia…”. Anche il gioco simbolico sarà imperniato esclusivamente su questo punto. Il lavoro con Andrea è stato orientato sulla regolazione della distanza dall’Altro e sul tentativo di produrre delle “protesi” che gli permettano di separarsi, o meglio di incanalare l’oggetto, in particolare l’oggetto voce. Tutto questo avviene ora attraverso lo strumento del gioco simbolico, associato alla costruzione di storie e in presenza di un Altro regolato e regolatore che sappia mettersi a distanza, in un contesto individuale e non gruppale. Nel gioco con i personaggi, Andrea mette in scena la separazione. Un bambino, Giulio, il cuginetto che è stato da poco battezzato, deve sfidare la mamma all’interno di un recinto, una sorta di ring. Vince chi non esce dal ring. “Vince chi non ha paura” dice. Giulio vince e come premio riceve la sua cameretta, una casetta più piccola in cui solo i suoi amici possono entrare. Qui la mamma non può entrare dato che “a volte ruba il bambino di notte”. Andrea dispone con cura ogni oggetto nella cameretta di Giulio e chiede poi di etichettarla. 126 FABIO TOGNASSI Propongo di portarla nella stanza dei segreti, dove solo gli amici possono entrare. Dopo aver scritto “La cameretta di Giulio”, Andrea mi chiede se ha scritto bene, se ha fatto degli errori. Uno dei temi preferiti di Andrea è la fuga del piccolo Giulio da casa. Giulio – l’alter ego di Andrea – scappa, tutti cercano di rincorrerlo, di acciuffarlo, ma lui si nasconde, sale sul tetto, entra nel camino, salta ovunque, entra nel tubo, tanto che gli adulti sono costretti a chiamare il “dottor Cercatutto”. Anche il dottor Cercatutto fa fatica a trovare Giulio, ma infine ci riesce, e anche quando non ci riesce è Giulio stesso a ritornare da solo a casa, facendo felice il papà, il quale, ogni volta, ringrazia il dottor Cercatutto regalandogli una bottiglia di vino. Incontriamo gli insegnanti di Andrea. Da quando Andrea viene al centro ci sono stati dei piccoli miglioramenti sul piano scolastico, nell’uso e nella comprensione del linguaggio. Mentre prima era per lo più sulle sue, ora “parla, alza la voce, si ribella. Litiga con i compagni, ha delle preferenze”. Gioca tanto con il Lego. Si sa “mettere più in vista”. Le difficoltà maggiori sono ancora con lo scritto, mentre con il linguaggio parlato se la cava un po’ meglio. Per le insegnanti Andrea è un bambino molto sensibile, poetico. Nell’ottobre scorso è morta una compagna di classe a cui Andrea era molto legato. Non è riuscito a fare alcuna domanda, non si è scomposto. Le maestre non capiscono. Quando spiegavano ad Andrea la distinzione tra i regni naturali, sassi, piante, fiori e animali, Andrea sosteneva che non vi fosse alcuna differenza tra gli esseri viventi e quelli non viventi, dal momento che “nascono, crescono e poi muoiono”. considerazioni Andrea si presenta prima di tutto come un soggetto preso totalmente nel campo dell’Altro, del significante. Pur non confondendo in modo manifesto le parole con le cose, la sua struttura di pensiero, identica al modo in cui si esprime, rivela una sorta di “flusso di coscienza” della parola. Andrea associa pressoché liberamente i significanti quando si esprime e si rivolge all’Altro. In altri termini, il significante non produce una divisione simbolica del reale: ogni cosa può presentarsi al posto di un’altra. L’effetto metonimico di frammentazione dell’enunciato inizialmente era preponderante, a tal punto da impedirgli di IL BAMBINO DEL TUBO 127 essere compreso dagli altri bambini e dagli operatori. La struttura grammaticale della frase è pressoché assente; potremmo dire che il significante era utilizzato per lo più nel suo valore di immagine, a discapito della logica stessa dell’enunciato. L’inconscio, in questo senso, si mostra a cielo aperto nella forma dell’associazione libera, fino a far scivolare lungo la catena il soggetto stesso. È ciò che accade quando Andrea si depersonalizza, entra egli stesso nel vortice associativo del significante, con il conseguente effetto di una frammentazione dell’identità, dell’unità immaginaria. Il soggetto non può usufruire di punti di sutura stabili tra significante e significato. In un’altra occasione Andrea, dopo essersi fatto male a una gamba mentre correva, esclama: “Ahi, mi sono fatto male il gomito!”. Anche in questo caso ben si evidenzia come la rappresentazione psichica del corpo risenta di una labilità immaginaria che ingenera una quota di confusività. Per questo motivo occorrono delle “protesi”, degli strumenti che fungano da mediatori simbolici tra il campo del soggetto e il campo dell’Altro. È il caso del tubo per Andrea. Il tubo canalizza la voce e permette di farla giungere all’Altro creando un canale comunicativo. Credo sia per questo motivo che l’effetto di ristrutturazione dell’enunciato sia pressoché immediato. Andrea nel tubo parla meglio. La sua invenzione di utilizzare il tubo per inscenare una separazione dalla madre indica proprio la necessità di mettere a distanza l’Altro, che invade il corpo del soggetto laddove l’oggetto a non è stato estratto. Un difetto di separazione, dunque, parallelamente a un eccesso di alienazione nel significante. Questa alienazione non è da intendersi come un guadagno di senso; al contrario, evidenzia lo statuto primordiale del soggetto nel suo rapporto con il linguaggio: non è il soggetto che parla attraverso il linguaggio, bensì il linguaggio che “parla” il soggetto. Quest’ultimo rischia così di non essere altro che un significante come gli altri che scivola lungo la catena. Anche il gioco simbolico è incentrato sulla messa in scena della separazione dall’Altro: il “dottor Cercatutto” è ciò che ricollega il soggetto al campo dell’Altro, alla propria casa. Il protagonista scappa, lasciando il padre senza parole e attonito, e viaggia in lungo e in largo, sperimenta la libertà della separazione dall’Altro, ma è grazie al dottor Cercatutto – che rimanda alla funzione del terapeuta nella cura – che può essere ritrovato e fare ritorno a casa senza perdersi nel mondo. Dalla benda al nastro di Moebius. Passaggio dal furor sanandi a situare l’inguaribile Mariela Castrillejo J’ai tendu des cordes de clocher à clocher; des guirlandes de fenêtre à fenêtre; des chaines d’or d’étoile à étoile, et je danse.1 Arthur Rimbaud, Illuminations – Phrases La redazione di lettera mi chiede di scrivere sulla fine dell’analisi, sulla scia di un mio commentario spontaneo di un passaggio della mia esperienza analitica durante la presentazione del libro Il corpo leso. Clinica psicoanalitica del fenomeno psicosomatico di Natascia Ranieri. Non penso affatto che parlare pubblicamente della propria esperienza analitica sia sinonimo di dare una testimonianza di passe. Ci sono scuole di psicoanalisi di orientamento lacaniano dove la passe ha un’articolazione molto precisa, altre invece dove addirittura l’esperienza della passe non è assolutamente contemplata; ci sono poi altre istituzioni dove questa esperienza è stata rivisitata. Nell’Associazione Lacaniana Italiana, la nostra associazione, il dibattito sulla fine dell’analisi e l’esperienza di passe è appena all’inizio. Che cos’è un analista? Come si diventa analista? Quando? Perché? Cosa spinge un soggetto ad occupare un posto di scarto? Nel testo Sull’esperienza della passe, Jacques Lacan si interroga sul perché qualcuno assume il folle rischio di diventare ciò che è l’oggetto a. Sono queste le domande che percorrono i testi istituzionali di Jacques Lacan e che ci forniscono valide indicazioni per orientarci. Sono domande che aspirano a trovare delle risposte che permettano di articolare la questione del reale nella fine dell’analisi. 1 “Ho teso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e danzo.” DALLA BENDA AL NASTRO DI MOEBIUS 129 lo sguardo Sono nata in Uruguay, i miei genitori, mio fratello e io ci siamo trasferiti a Buenos Aires quando avevo otto anni. Ho lasciato nonni e zii e gli amici d’infanzia. Conservo ancora oggi con affetto quella che è stata per me la prima lettera d’amore che ho ricevuto. La scriveva il mio primo “fidanzatino” e diceva: “La maestra ancora dice il tuo nome quando fa l’appello ma il tuo banco è vuoto. Ci manchi”. Io ero una bambina molto minuta, la più piccolina della classe, la più magrolina del gruppo di amici, lui, l’autore della lettera d’amore, era un bambino forte, agile e coraggioso. È stato il primo bambino che ho visto nudo ma avevo già capito che non era solo interessato a esibirsi ai miei occhi vantandosi dei suoi attributi quando – lui che era un temerario – è scoppiato in lacrime nel momento in cui la maestra della scuola materna lo ha separato da me facendolo sedere in un altro banco. Diceva disperato che voleva stare accanto a me nascondendo con le mani il suo volto sfigurato dal pianto. Un segno d’amore aveva rammendato l’umiliazione della ferita narcisistica subita nel confronto dei corpi infantili nudi. primo sogno Ho un appuntamento con un analista, non mi è chiaro se voglio fare una domanda di analisi o desidero trasmettere a quale punto del mio percorso analitico mi trovo. Quando sto per cominciare a parlare arrivano altri ad ascoltare la mia testimonianza. La situazione mi sconcerta e mi provoca un certo disagio, tuttavia continuo a parlare con determinazione. A un certo punto la seduta si interrompe e in un luogo diverso, con un ulteriore analista, inizia un altro incontro. L’analista dice che capisce il mio imbarazzo a causa della presenza dei colleghi nell’incontro precedente, ma che adesso posso parlare poiché siamo soli, salvo i pazienti con la sindrome di Down che mi accompagnano, ma aggiunge che loro non contano. Dalla mia parte ci sono dei ragazzi Down. Con molto affetto tengo la mano a quello che è seduto più vicino a me, anche però con l’intenzione di controllare i suoi impulsi erotici. Sono molto indignata perché l’analista non dà ai ragazzi la dignità di soggetti presenti. Dalla parte sua c’è un gruppo di psicoanalisti, tra i quali c’è una donna che dice: “Lei è troppo piccola”. 130 MARIELA CASTRILLEJO Sogno l’analista – a cui domanderò un’analisi qualche tempo dopo aver fatto questo sogno – che cura una ragazza. Sorpresa, domando se lui non fosse un filosofo. Mi rispondono affermativamente ma ribattono che è anche un medico. Mi ritrovo in mezzo a una comunità di analisti in un banchetto di gala. Un’amica mi dice che sono psicoanalisti della nostra scuola. La mia prima analisi è cominciata in Argentina dove vivevo e studiavo. Avevo diciotto anni ed ero al primo anno di Psicologia. Poi sono seguite altre due tranche. L’ultima di questa serie si interruppe con il mio trasferimento in Italia. Poi ho avuto bisogno di molti anni prima di rinnovare una domanda di analisi. La porta di entrata all’analisi è stato un sogno fatto in occasione di un convegno della Scuola Lacaniana, molto prima dell’effettiva domanda all’analista. La via d’entrata è stato il sintomo, il sintomo come domanda indirizzata all’analista, la sofferenza nella separazione tra una madre e una figlia, la difficoltà a sopportare l’odio della figlia, l’orrore di fronte all’odio della madre, la paura di usare parole che potessero avere una potenza omicida. sostenere il soggetto Ho dieci anni. I miei genitori nel giardino dell’ospedale pediatrico mi dicono che mio fratello di quattro anni sta morendo. Mio fratello era ricoverato da un paio di giorni a causa di un forte mal di testa. Mi spiegano che ha avuto un aneurisma cerebrale. Mia madre dice che se sopravvivrà, sarà come un vegetale e che sarà handicappato. Mia madre aggiunge con dolore che sarebbe meglio non vivesse in quel modo. All’epoca pensavo che un bambino con una lesione cerebrale fosse come un bambino Down e mi erano molto simpatiche le persone con la sindrome di Down. Fu più sconvolgente per me conoscere il limite dell’amore di mia madre che conoscere il limite della vita. Una madre poteva desiderare la morte di un figlio. Una madre poteva non amare il figlio minorato. L’amore di una madre per suo figlio non era illimitato, non era infinito come io credevo. Ho pensato che anche nelle situazioni più gravi e nei casi più disperati ci fosse un soggetto da salvare. DALLA BENDA AL NASTRO DI MOEBIUS 131 All’inizio dell’analisi e della decisione di intraprendere la mia formazione analitica, la psicoanalisi occupa il posto ideale di sanare l’incurabile. Alla fine non si tratta più della psicoanalisi come ideale di guarigione, ma di affrontare l’orrore di sapere ciò che si gioca in questo desiderio. Il finale riguarda l’accettazione dell’impossibile: impossibile guarire dalla sessualità, dalla morte, dalla follia. Senza veli il desiderio dell’analista appare connesso con un desiderio dell’infanzia, come risposta all’incontro traumatico con il reale dell’infanzia. Mio fratello si spense il giorno seguente alla conversazione avuta con i miei genitori nel giardino dell’ospedale pediatrico. Dopo la sua morte sono diventata l’unica figlia rimasta, che non è sinonimo di tornare ad essere figlia unica. Un lutto segna la differenza. la stella Tre sedie a sdraio, una più piccola delle altre. Mangiamo frutta in giardino. Io bambina e i miei genitori, come è consuetudine, guardiamo le stelle in una torrida notte d’estate nell’emisfero sud. Mio padre lancia in aria uno spicchio e il cane lo acchiappa saltando. Mia madre indica la costellazione di Orione e mi fa notare una piccola stella rossa. Mi racconta che da fidanzati lei e mio padre avevano scelto quella come la loro stella e l’avevano chiamata Felipa. gli occhi di mio padre Mia madre diceva che aveva fatto figli che avevano degli occhi belli, ma mai tanto belli quanto quelli di mio padre che li aveva di un azzurro intenso. Le sarebbe piaciuto avere dei figli con gli occhi azzurri, ma solo lui aveva gli occhi chiari. Mio padre aveva nell’iride delle piccole incrostazioni di pigmento color rame. Fin da bambina restavo catturata a guardare quei nei rossi nel blu degli occhi. Era come ritrovare la stella Felipa nel suo sguardo. 132 MARIELA CASTRILLEJO il neo Dopo aver combattuto per un lungo tempo e con molta dignità con un tumore ai polmoni, mio padre morì un anno prima della conclusione del mio percorso analitico. Qualche tempo prima della sua morte mi disse che non mi dovevo preoccupare per lui perché era soddisfatto della vita che aveva vissuto, aveva trovato una donna che aveva amato ed aveva cresciuto bene i suoi figli. Lo disse usando il plurale. Non voleva che la mia preoccupazione mi spingesse ad attraversare l’oceano per andare a trovarlo. Decisi di spostarmi per il piacere di vederlo ancora una volta, sapendo che sarebbe stata l’ultima. Mio padre organizzava pranzi come chi sta per partire per un lungo viaggio e vuole salutare gli amici prima della partenza. Io guardavo i suoi occhi tentando di fissare nella mia memoria i nei color rame. Ha lasciato questo mondo vivendo intensamente fino all’ultimo giorno della sua vita. Dopo sei mesi torno a trovare mia madre. Sono giorni felici, andiamo al mare e abbiamo molto tempo per parlare. Mio padre non c’era più, come non c’era più per me la scuola di psicoanalisi che fino a poco tempo prima era stata un punto di riferimento fondamentale, ma io non mi ero persa. A quel punto ho realizzato che era il momento di concludere la mia analisi. Sulla schiena sento un prurito, passano i giorni ma il prurito non passa. Finalmente trovo sulla mia pelle un piccolo neo. Capisco immediatamente che c’è qualcosa che non va e velocemente faccio gli accertamenti dovuti. Devono operare: è un neo displastico, una formazione intermedia tra i nei benigni e i melanomi maligni, si tratta di forme maligne iniziali che consentono la completa guarigione mediante l’asportazione chirurgica precoce. Di quelle incrostazioni di rame negli occhi di mio padre che non riesco più a ricordare in modo nitido, di quell’estate con mia madre dove ero l’unica rimasta e finalmente l’avevo tutta per me e di quel neo potenzialmente mortifero, di tutto ciò resta solo una piccola cicatrice sulla schiena, un tatuaggio sulla carne che indica una separazione, una perdita. Il momento della fine dell’analisi non è calcolato, arriva come un fulmine, a sorpresa non c’è più nulla da dire. Un silenzio che accompagna la certezza che l’inconscio ha già parlato. La mancanza, l’inermità si presentano in modo radicale, si tocca il limite di un reale del quale nulla si può dire ma risulta sopportabile, diventa leggerezza. DALLA BENDA AL NASTRO DI MOEBIUS 133 ultimo sogno Danzo con movimenti armonici. Mi levo delle vesti nere con gesti intensi. Adagio gli abiti uno a uno su un tavolo. Mi trovo fasciata con una benda di garza. Tolgo la benda e tenendola da un’estremità diventa un nastro che uso per danzare. Attraverso spostamenti e moti disegno nello spazio figure particolari: spirali, lanci e riprese, passaggi attraverso o sopra il nastro. Resto nuda, sdraiata al suolo in posizione fetale con il nastro in mano. Avverto uno stato di beatitudine e il senso di una rinascita. La conclusione non fornisce una soluzione per la divisione del soggetto, ma addirittura la fine dell’analisi mette la divisione in evidenza. Lungi dal chiudersi, la mancanza si presenta senza veli a partire dalla caduta dell’oggetto. Questo segna un taglio e permette un nuovo annodamento che mantiene il vuoto centrale e che produce effetti sulla clinica e sulla trasmissione della psicoanalisi. Un effetto di soddisfacimento, di libertà conquistata e di sapersi orientare a partire da quello che è sedimentato nella propria esperienza analitica, segnano la conclusione. il quadro La testimonianza di un frammento del percorso analitico suppone un’ulteriore separazione, una perdita. La propria storia, l’intimità che si era custodita come un tesoro perde di rilevanza, perde consistenza. La testimonianza circola e diventa narrazione. Suppone mettere un punto finale, un limite, un atto che segna un prima e un dopo. Nella conclusione si tratta di dare testimonianza di ciò che l’esperienza analitica ha implicato per il soggetto e della mutazione che si è verificata. Dopo il sogno ricordo un quadro che ho visto ai tempi dell’inizio della mia analisi, ritraeva Rimbaud su un supporto di strisce di tela simili a delle bende. Contatto l’artista, scopro che dopo tanti anni il quadro è ancora in vendita. Lo compro e nel salutare l’analista per l’ultima volta lo lascio nel suo studio di Milano. 134 MARIELA CASTRILLEJO l’associazione lacaniana italiana Il riconoscimento della differenza a partire dalla particolare soluzione che ciascuno costruisce facilita l’incontro con l’altro, ma nonostante ciò l’Associazione Lacaniana Italiana come luogo di incontro e di scambio della comunità analitica non è un posto confortevole: ha la funzione di metterci in movimento, di spronarci ad argomentare, di mantenere vivo il dibattito, di esporre il nostro lavoro. È un po’ come una sedia scomoda: non permette di installarcisi e poltrire. “Il sapere non è già bell’e fatto – ci dice Lacan nella Nota italiana – occorre inventarlo.” Psicoanalisi implicata Ricominciare dal simbolico. Singolarità e flessibilità nella concezione psicoanalitica del linguaggio Giovanni Bottiroli 1. Perché dovremmo oggi ricominciare dal Simbolico? Cioè “tornare” al Simbolico con un atteggiamento analogo a quello con cui Lacan propose, molti anni fa, un “ritorno a Freud”, un ritorno non restaurativo ma profondamente innovativo? Ebbene, perché le trasformazioni degli ultimi decenni richiedono uno sguardo che sia in grado non soltanto di registrare e di indagare i nuovi sintomi e le nuove patologie, ma anche di valutare le potenzialità euristiche degli strumenti di analisi. Evidentemente queste potenzialità sono diminuite; ma non dovremmo limitarci a constatare una perdita di efficacia, che confermerebbe più in generale il declino del Simbolico nella società ipermoderna; dovremmo accettare la sfida del presente e chiederci se una nuova navigazione del Simbolico sia oggi possibile. Vorrei far notare che l’espressione “declino del Simbolico” appare piuttosto ambigua, come ogni formula che registra un indebolimento: poiché la realtà consiste in un campo di forze, se qualcosa s’indebolisce succede che qualcosa d’altro si rafforza. Cambiano i rapporti di forza tra i registri, ma anche i rapporti di forza interni – a ogni registro? O quest’ultima considerazione riguarda soprattutto il registro più complesso, il Simbolico? Per esempio, negli ultimi decenni è senz’altro diminuito il prestigio della filosofia heideggeriana, e si è verificata una caduta d’interesse nei riguardi dello strutturalismo; per contro si deve constatare una forte espansione di quelle zone del Simbolico che ospitano le scienze cognitive, e la filosofia della mente 138 GIOVANNI BOTTIROLI legata alla filosofia analitica – dove l’aggettivo analitico indica un stile di pensiero molto lontano, direi, dall’“analitico” della psicoanalisi. Dunque, l’espressione “declino del Simbolico” (tutt’altro che illegittima) merita di venir precisata. Essa può indicare, quantomeno: (a) una sempre più diffusa rarefazione di alcune fondamentali abilità, linguistiche e intellettuali, causata dal degrado crescente delle istituzioni scolastiche e universitarie; (b) la proliferazione di sintomi che tendono a sottrarsi alle cure psicoanalitiche, all’efficacia di una terapia fondata sulla parola; (c) il processo di invecchiamento a cui non poteva sottrarsi l’alleanza, auspicata e realizzata da Lacan negli anni cinquanta, tra la psicoanalisi di ispirazione freudiana e il campo delle discipline linguistiche. È sostanzialmente a questo terzo aspetto che vorrei dedicare qui le mie riflessioni. 2. All’inizio degli anni cinquanta, i nomi di Saussure e di Jakobson rappresentano la linguistica moderna nel suo stadio più avanzato. Il Corso di linguistica generale sta per diventare la Bibbia dello strutturalismo, l’ultimo grande movimento culturale in Occidente, capace di far convergere filosofia e scienze umane. La linguistica, nella versione saussuriana, verrà assunta come una “scienza pilota”. L’articolo di Jakobson Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia è alla base di una imminente rinascita della retorica, e non solo in campo letterario:1 il discutibile “colpo di genio” di Jakobson consiste nell’accoppiare i due assi saussuriani del linguaggio, paradigmatico e sintagmatico, con due figure retoriche, metafora e metonimia, di cui si suggerisce anche l’affinità con le operazioni oniriche descritte da Freud, condensazione e spostamento. La resurrezione moderna della retorica viene resa possibile da questa radicale semplificazione, di cui dovremo valutare tutti i limiti. Per un certo periodo, tuttavia, l’effetto è positivo, la proposta di Jakobson incontra forti adesioni. Negli stessi anni un filosofo americano, Max Black, scriveva un articolo sulla metafora molto più avanzato, per certi aspetti, di quello di Jakobson; tuttavia i consensi suscitati dal programma saussuriano hanno reso quasi impossibile la sua ricezione immediata in Europa. Gli sviluppi della “nuova reto1 L’articolo è stato pubblicato per la prima volta nel 1956. Ora in Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale (1963), Feltrinelli, Milano 1966. RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 139 rica” sono testimoniati dall’ampiezza del libro che Ricœur pubblica nel 1975: nelle quattrocento pagine dedicate a una rassegna delle diverse concezioni della metafora, Ricœur fa confluire però anche la tradizione anglosassone, in cui Black svolge un ruolo decisivo, e di cui viene finalmente riconosciuta tutta l’importanza.2 Intanto la linguistica è sempre meno saussuriana e sempre più chomskyana. Emerge un nuovo orizzonte di ricerca, la pragmatica (Austin, Searle ecc.). Si inizia a parlare di poststrutturalismo, e alcuni degli estimatori di Lacan ritengono di poterne salvaguardare l’attualità collocandolo in questa confusa galassia di posizioni. Lacan non sarebbe tanto un interprete geniale e originale dello strutturalismo, come continua a considerarlo Žižek, quanto piuttosto uno degli autori che attraversano e rappresentano il “post”. Il dibattito non è banalmente filologico. In ogni caso il problema dei rapporti tra Lacan e le teorie del linguaggio non si esaurisce nella progressiva accentuazione del Reale, e nel rafforzamento della tesi secondo cui “non tutto è significante”. Resta da chiarire se la concezione del linguaggio adottata da Lacan nella fase in cui a venir privilegiato era il registro del Simbolico sia ancora pienamente proponibile. La necessità di una revisione mi pare implicita nel quadro storico-teorico che ho rapidamente ricordato, e che dovrebbe venire esteso: dalle “eresie” interne alla scuola chomskyana, con gli studi sulla metafora di Lakoff, ai molti dibattiti che si sono sviluppati nella filosofia del linguaggio. Ma anche alle nuove prospettive possibili. Da questa revisione la psicoanalisi di ispirazione freudiana e lacaniana può trarre solo vantaggi (una volta superate le ansie che sorgono comprensibilmente quando s’intravede l’inevitabilità di abbandonare alcune abitudini mentali, a cui si era affezionati). 3. Dunque, l’alleanza tra la psicoanalisi e le teorie linguistiche (dalla linguistica “scientifica” alla retorica, dalla teoria della letteratura alla filosofia del linguaggio) va rinnovata. E non unilateralmente, nel senso che la psicoanalisi dovrebbe disporsi ad acquisire le proposte più avanzate che vengono dalle discipline linguistiche, analogamente a quanto Lacan ha saputo fare circa mezzo secolo fa; il rapporto psico Paul Ricœur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica (1975), Jaca Book, Milano 1976. 2 140 GIOVANNI BOTTIROLI analisi/discipline linguistiche è semmai circolare e interattivo, perché la psicoanalisi ha il diritto di interrogare a sua volta il campo degli studi sul linguaggio a partire da quella che resta la sua prospettiva più essenziale. Tale prospettiva trova il suo emblema nella barra, mediante cui Lacan ha indicato lo statuto del soggetto, e dell’Altro: il soggetto è un soggetto diviso, e l’Altro è costituito da divisioni. Non è forse coerente estendere tale visione al linguaggio, e persino alla logica? Non si dovrebbe indicare tale campo con una “L” barrata? Il concetto di “divisione” esige molte indagini, e tuttavia c’è qualcosa che si può affermare subito con sicurezza: esso si oppone alla superstizione dell’unità, così diffusa nelle cosiddette “scienze del linguaggio” e in genere nella filosofia analitica. Il “diviso” va a spezzare l’illusione dell’uno, sorretta dall’articolo determinativo. Contro questa apparenza illusoria, diremo che non esiste IL linguaggio, e non esiste IL significato, così come non esiste LA donna. La prima delle superstizioni (o delle fallacie) grammaticali che “il” linguaggio rende possibili riguarda dunque il suo stesso modo di identità. Bisogna tuttavia precisare questo punto. Che si debba diffidare del linguaggio è un topos della modernità, ma le insoddisfazioni dei filosofi non procedono nella stessa direzione. Per alcuni, il difetto del linguaggio naturale è la sua vaghezza, la sua resistenza a un ideale di univocità che dovrebbe garantire il rigore; per altri, invece, è la ricerca di univocità a essere fallace. Nella tendenza univocizzante che domina la tradizione filosofica, una parte della filosofia contemporanea e in genere le discipline cognitive, si manifesta una rigidità inaccettabile: riprendendo una metafora di Wittgenstein, questo tipo di linguaggio “è un linguaggio già deformato come da scarpe troppo strette”.3 Il linguaggio naturale produce effetti ingannevoli a causa della sua stessa grammatica: così il pronome “io” suscita un effetto di unità che Nietzsche ha inteso smascherare, affermando che “Forse non è necessario assumere un soggetto unico”.4 È una tesi enunciata più volte; ma l’alternativa all’Uno è soltanto (o principalmente) il Molteplice? 3 Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi (1977), a cura di Georg Henrik von Wright, Adelphi, Milano 1980, p. 84. 4 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, Adelphi, Milano 1990, vol. vii, t. iii, p. 336. RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 141 Così ritengono molti lettori di Nietzsche. Noi, però, lettori di Freud, potremmo difficilmente accettare questa ovvietà filosofica. La coppia “uno/molteplice” non va certamente abbandonata, ma non va anteposta alla coppia “indiviso/diviso”, che rappresenta forse il più eminente contributo della psicoanalisi al problema delle categorie – problema cruciale, se vale la pena di ricordarlo, perché l’apparato categoriale è ciò che più di tutto decide l’identità di ogni filosofia. Il Nietzsche destruens si appella al molteplice, ma in maniera meno unilaterale e ingenua di quanto affermino interpretazioni come quella di Deleuze. Basta continuare a leggere il frammento prima citato, per constatare che la prospettiva di Nietzsche è più complessa: “Forse non è necessario assumere un soggetto unico; forse è altrettanto permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta (Zusammenspiel und Kampf ) stiano alla base del nostro pensiero e in genere della nostra coscienza”. Non troviamo qui nessuna enfatizzazione unilaterale del molteplice; la pluralità è il campo di una lotta tra “soggetti” – ma potremmo anche dire: tra modi d’essere, tra registri – capaci di innumerevoli mescolanze. Non è una soggettività divisa quella descritta da Nietzsche? Ogni teoria è chiamata periodicamente a ripensare i propri fondamenti o, se la parola non piace, i propri concetti strategicamente decisivi, e a scuotere le ovvietà generate dall’abitudine (dalle abitudini anche più giustificate). Così la psicoanalisi non dovrebbe fare a meno di ripensare con una certa frequenza la categoria del “diviso”. Da Freud a Lacan si verifica una svolta che forse non è stata percepita adeguatamente, almeno nelle sue conseguenze filosofiche: la soggettività descritta da Freud è divisa prevalentemente in “zone” (sistemi, istanze), quella descritta da Lacan è divisa prevalentemente in “modi”: i tre registri. Non che la prospettiva modale mancasse del tutto in Freud: per esempio egli definisce l’inconscio non soltanto come un contenitore di rappresentazioni rimosse, ma come un modo di pensare (Denkweise).5 Tuttavia lo sviluppo della prospettiva modale è uno dei grandi meriti di Lacan. La questione che pongo è se questa prospettiva non richieda elaborazioni ulteriori: la distinzione tra i registri è un punto di arrivo, che ammette solo possibilità combinatorie tra le loro 5 Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905), in Opere, Boringhieri, Torino 1972, vol. v, p. 182. 142 GIOVANNI BOTTIROLI identità “massicciamente intese”, o si offre a nuove analisi? Non è forse necessario distinguere diverse versioni di ogni registro? Questa esigenza può apparire scarsamente plausibile nei confronti del registro che indica il collasso delle distinzioni, il Reale, e anche nei confronti del registro dominato da una logica confusiva, l’Immaginario. Tuttavia una descrizione della confusione non è necessariamente una descrizione confusa; e una descrizione di entità collassate non è obbligata a esprimersi mimeticamente nel collasso del pensiero, in un pensiero informe come gli oggetti di cui segnala l’impoverimento, cioè il venir meno della tensione tra forza e forma.6 Perciò ci si può riferire al Reale in una prospettiva noumenica, non del tutto illegittima, credo, il Reale come ciò che si sottrae alla parola, alla significazione, e non soltanto in una prospettiva pulsionale, l’incandescenza, l’eccesso di pieno/vuoto, la Cosa. E il Simbolico? Mi pare che si parli ancora troppo spesso del Simbolico in una prospettiva peraltro essenziale, quella cioè dell’etica: il Simbolico come il campo della Legge, e dei conflitti tra il desiderio e la legge. La rilevanza dell’etica, come progetto di annodamento del desiderio e del godimento, è fuori discussione, evidentemente; e tuttavia credo che si dovrebbe evitare una “eticizzazione” del Simbolico. Propongo questa definizione: il Simbolico è anzitutto il registro della complessità intellettuale. Un registro formidabilmente complesso e intricato, ha detto Lacan.7 Il più diviso dei registri, il registro per eccellenza della divisione. Il registro della sublimazione come possibilità della pulsione, e non come suo depotenziamento. È la dimensione di un pluralismo logico, abitato da polemos – il conflitto tra la razionalità rigida e la razionalità flessibile; e anche del conflitto tra letteralismo e intelligenza figurale. Ciò non significa svalutare l’etica, semmai considerarla a partire da un aforisma di Pascal: “Pensare bene è il primo principio della morale”. Non è forse necessario pensare bene per essere fedeli al proprio desiderio? Pensare bene non è “pensare il Bene”: è il problema degli stili di pensiero. Su questo, come su altri punti che verranno discussi in seguito, mi riferisco agli scritti di Massimo Recalcati, da Il miracolo della forma, Bruno Mondadori, Milano 2007, ai testi più recenti. 7 Jacques Lacan, Il seminario. Libro i. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, Torino 1978, p. 67. 6 RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 143 4. Problema decisivo, ma qui devo limitarmi a introdurlo. Vorrei tornare a un aspetto cui ho accennato in precedenza, e cioè l’alleanza stipulata da Lacan con il modello retorico jakobsoniano: ormai tale modello appare irrimediabilmente datato, e a esso deve subentrare una strumentazione più articolata, duttile e precisa; proverò, se non altro, a indicare questa via. La plausibilità della proposta di Jakobson nasceva da una radicale semplificazione della “selva” retorica, da uno schematismo che oggi non possiamo più condividere ma che, mezzo secolo fa, poteva sembrare giustificato in quanto s’ispirava al Corso di linguistica generale. Per Saussure le operazioni che presiedono a ogni atto linguistico si svolgono su due assi, quello paradigmatico o delle sostituzioni, e quello sintagmatico, o delle combinazioni (lineari). Jakobson riprende la definizione tradizionale di metafora, figura mediante cui si sostituisce una parola con un’altra sulla base di un nesso di somiglianza, e la colloca sull’asse paradigmatico, meglio ancora ne fa l’emblema di questa attività operatoria; riprende la definizione tradizionale di metonimia, figura di sostituzione basata sulla contiguità, e la colloca sull’asse sintagmatico. Lacan si appropria di questa distinzione non soltanto per ciò che concerne il linguaggio onirico, ma assegnando un ruolo chiave alla metafora come figura dell’accesso al Simbolico, e alla metonimia come figura dello slittamento del desiderio. Che cosa non funziona nel modello jakobsoniano? Nel momento in cui sto per indicarne i limiti vorrei ricordare la distinzione tra una falsità e una fallacia: una proposizione viene considerata falsa quando non corrisponde a uno stato di cose (per esempio la proposizione “i cavalli sono bipedi” è falsa in quanto i cavalli non sono bipedi). Si noti che, fino a quando ci limitiamo a casi di questo genere, la concezione tradizionale della verità come adaequatio (o corrispondenza) risulta plausibile, almeno a un primo livello – e su questo anche Heidegger potrebbe essere d’accordo. La concezione della verità-adaequatio appare invece insufficiente, e fallace, quando la dimensione “fattuale” si intreccia con la dimensione semantica: non c’è adaequatio adeguata là dove è necessaria l’interpretazione. Diventa pertinente allora la nozione di “fallacia”. Ciò che induce a chiamare fallace un’affermazione, e più ancora un modello, è meno il suo contenuto che non il suo carattere prospettico: in questo senso Lacan ironizzava sulla psicologia “alpina” di Piaget come “un errore di prospettiva”. 144 GIOVANNI BOTTIROLI Difficilmente qualcuno dei modelli utilizzati nelle scienze umane verrà dichiarato semplicemente falso; per indicarne i limiti si dirà che coglie alcuni aspetti dei fenomeni osservati, ma in maniera vaga o grossolana, che non dispone di una griglia sufficientemente articolata e alimenta confusioni tanto evitabili quanto dannose, e così via. Per comprendere i limiti della retorica nella versione di Jakobson, occorre leggere l’articolo di Max Black. Come si è detto, i due testi vengono prodotti quasi contemporaneamente, a metà degli anni cinquanta. Ma era il testo di Black, e non quello di Jakobson, a contenere le proposte più avanzate, almeno per quanto riguarda la metafora. Provo a riassumere le tesi principali di Black:8 i) la metafora non è una sostituzione (non si fonda sulla sostituzione di un termine mediante un altro termine), ma è un’interazione tra due termini. Pertanto, la sua dimensione minima non è quella della parola singola, bensì la proposizione (o l’enunciato); ii) dato un enunciato metaforico, per esempio “l’uomo è un lupo”, si chiamerà frame il primo termine (il metaforizzato) e focus, o filtro, il secondo termine (il metaforizzante). Con metafora si intende dunque un processo semantico, imperniato sull’azione che il focus esercita sul termine di partenza. Tale processo viene così descritto: il focus o filtro seleziona alcuni aspetti del frame, li enfatizza, e riorganizza completamente la nostra visione dell’oggetto. In tal modo una metafora è una autentica ridescrizione o, per usare un’espressione più forte, legittimata da Proust, è un processo di metamorfosi.9 Sia chiaro che qui, e in seguito, si parla delle buone metafore, non delle metafore stereotipate o catacresizzate (come “il collo della bottiglia” o “la gamba del tavolo”, o “Achille è un leone”); iii) l’azione focalizzante e metamorfica del secondo termine sul primo è descritta da Black in maniera convincente. Ma perché egli chiama il suo modello interattivo o interazionale? In effetti egli ritiene che vi sia un’azione reciproca: per riprendere l’esempio precedente, l’uomo viene trasformato in lupo, diventa “lupesco”, ma in una certa misura il lupo viene umanizzato. Questo punto meriterebbe di venir chiarito. Non sembra che tutte le metafore siano interattive nel medesimo grado. Troviamo in Proust un meraviglioso esempio di meta Max Black, Modelli Archetipi Metafore (1954), Pratiche, Parma 1983. Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore (1919), Einaudi, Torino 1949, p. 438. 8 9 RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 145 morfosi reciproca nelle pagine dedicate alla pittura di Elstir, dove la terra viene descritta con predicati marini e il mare con predicati terrestri.10 Va detto però che casi del genere sono piuttosto rari (almeno per la descrizione di oggetti); iv) dalla concezione della metafora-enunciato deriva una conseguenza di enorme importanza: una metafora può avere valenze cognitive. Come rilevato già da Aristotele, una parola (per esempio “cavallo”) non è né vera né falsa; la possibilità di formulare un giudizio sul vero o sul falso nasce dal legame tra almeno due nozioni (“i cavalli sono bipedi” ecc.). Se si mantiene la concezione sostitutiva della metafora, come in Jakobson, si mantiene anche la concezione ornamentale della metafora, e si rinuncia alle sue potenzialità cognitive; v) la metafora ha una componente prospettica, perciò l’insight che essa offre non è mai interamente parafrasabile; vi) la metafora è un processo che concerne le somiglianze. Ma una buona metafora crea somiglianze, più che rispecchiare quelle date; vii) la nozione di “metafora” può essere definita metaforicamente, mediante metafore. Black ammette almeno in linea di principio le definizioni circolari – come aveva già detto Heidegger, l’importante non sta nell’uscire dal circolo, ma nel modo di starvi dentro.11 5. Queste tesi vanno ancora chiarite e sviluppate – per esempio in direzione di una retorica dei testi, e non soltanto delle proposizioni – ma appaiono irrinunciabili; e poiché esse contrastano radicalmente con la concezione di Jakobson, di cui mettono in luce tutta l’arretratezza, è necessario abbandonare il modello jakobsoniano. A questo punto, due domande: in primo luogo, come valutare le limitazioni e le deformazioni imposte al pensiero di Lacan dall’adesione al modello jakobsoniano? In secondo luogo: quali sono le altre correzioni essenziali da apportare a questo modello, se si vuole giungere a una visione dei meccanismi retorici che sia utile e feconda anche per la psicoanalisi? Ivi, pp. 438-443. Una precisazione. Secondo Black, il modello interazionale esautora quello sostitutivo in tutti i casi in cui la metafora è complessa e creativa, ma non nei casi più semplici e banali (p. 64). Dunque, la possibilità che un sintomo sia equiparabile a una metafora sostitutiva – o, se si vuole, che la concezione sostituiva della metafora risulti adeguata per molti, se non per tutti i sintomi – non va esclusa. 10 11 146 GIOVANNI BOTTIROLI Alla prima domanda si può offrire una risposta abbastanza confortante. Al di là dell’assenso esplicito, il modo in cui Lacan si è servito della metafora non è prevalentemente jakobsoniano; al contrario. Possiamo dire che, sulla base dei propri concetti fondamentali, e in forza di essi, la psicoanalisi è pressoché obbligata a orientarsi positivamente e implicitamente verso il modello di Black. Consideriamo i processi di identificazione; da un punto di vista linguistico, sono equiparabili alle metafore. Occorrono due soggetti, che chiameremo idem e alter (e che, per esempio, corrispondono al maschietto e al padre): idem si identifica in alter, si lascia trasformare profondamente. Al pari della metafora, l’identificazione è un processo di metamorfosi. Per restare in questo primo esempio, il focus paterno seleziona, enfatizza, riorganizza il soggetto “in divenire”. Restano fondamentali le distinzioni introdotte da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io: un certo tipo di identificazione va a trasformare la zona dell’Io, un altro tipo di identificazione va a trasformare la zona dell’Ideale dell’Io. Ma a questa distinzione occorre aggiungerne un’altra, di cui le narrazioni letterarie e filmiche offrono esemplificazioni innumerevoli, e che certamente è riscontrabile anche nella clinica. L’identificazione può essere confusiva o distintiva. Un individuo, reale o di finzione, può venire assorbito e aspirato quasi completamente dall’alterità che lo modellizza (o “metamorfizza”): accade così, in letteratura, nel rapporto tra don Chischiotte e Amadigi di Gaula, e in quello tra Emma Bovary e le eroine romantiche, con la differenza che nel primo caso l’effetto confusivo riguarda l’Ideale dell’Io (il Simbolico) e nel secondo caso l’Io, o l’Io ideale (l’Immaginario). Diversa è l’azione metaforizzante esercitata da Napoleone sulla mente di Julien Sorel: qui il focus seleziona alcuni aspetti del frame, senza produrre né confusione né delirio. Le affinità tra processo metaforico, secondo il modello di Black, e processo di identificazione sono evidenti. La metafora non sostituisce, bensì trasforma. Ma, nel momento stesso in cui si dimostra in grado di accogliere il modello di Black, la teoria freudiana e lacaniana lo arricchisce introducendo nuove distinzioni. Abbiamo qui un esempio di interazione feconda tra diverse prospettive di ricerca. L’ingresso al Simbolico avviene tramite la metafora paterna. Dunque è un processo di metaforizzazione, sarebbe più opportuno usare questo termine, così si parla di sessuazione e non semplicemente di RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 147 sessualità. Intrecciando le tesi più avanzate sulla metaforizzazione con la teoria dei registri, abbiamo la possibilità di esaminare l’accesso al Simbolo nella sua modalità potenzialmente più ricca, così come nei suoi scacchi e nelle soluzioni impoverite. Secondo Lacan, viviamo nell’epoca dell’evaporazione del padre. Recalcati ha così commentato recentemente la questione: Ogni discorso sulla crisi della funzione paterna sembra essere, al tempo stesso, irrimediabilmente datato e irrimediabilmente urgente. Non solo perché non ci si rassegna facilmente al lutto del Padre, ma soprattutto perché l’umanizzazione della vita esige l’incontro con “almeno un padre”.12 Almeno un padre. Almeno una buona metafora – questo l’incontro auspicabile per una umanizzazione della vita. La buona tyché può assumere dunque, e dovrebbe assumere, almeno una volta, la forma della buona metafora. Cerchiamo di chiarire meglio il problema. Si è detto che identificarsi con qualcuno, con un altro soggetto, equivale a farsi metaforizzare, a trasformarsi in direzione dell’alterità dell’altro – con grandi rischi di alienazione. Anzi, l’alienazione è temporaneamente inevitabile. Sappiamo che a questa fase può seguirne un’altra, di separazione, in cui il soggetto tenterà di elaborare se stesso in una forma originale. Ebbene, le possibilità che questo “contromovimento” si manifesti efficacemente e in direzione dell’originalità, dipendono probabilmente dal modo in cui la fase di alienazione è stata vissuta, dunque dalle modalità in cui si è svolto il processo di metaforizzazione. Tale processo va sempre considerato alla luce dei tre registri lacaniani, ma anche, mi permetto di suggerire, alla luce delle diverse versioni del Simbolico: la distinzione tra metafore confusive e distintive ne offre un rispecchiamento. Un’ultima precisazione, prima di andare avanti: identificazione è un termine che possiamo usare in molte accezioni, dunque anche per le identificazioni “usa e getta”, cioè per processi che forse meriterebbero di essere designati semplicemente come “immedesimazioni” o “empatie”. Ciò che conta è stabilire o riconoscere il significato di un ter12 Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011, p. 15. 148 GIOVANNI BOTTIROLI mine nel momento in cui lo si utilizza o lo si vede utilizzato. Dunque, io parlerò di identificazione per indicare processi complessi, che implicano trasformazioni profonde della personalità, e che restano in buona misura inconsci, al di là del fatto che il soggetto possa essere in grado di nominare il proprio modello, la forza che lo sta aspirando eventualmente in maniera patologica. Ma saper semplicemente nominare il “chi” di una mimesi irrefrenabile, come nel caso di un’adolescente americana il cui obiettivo esistenziale dichiarato era la riproduzione più perfetta possibile di Paris Hilton,13 non significa essere padroni delle proprie motivazioni. Mi sembra perciò che si debba distinguere tra l’inconscio dei processi di identificazione e l’inconscio dei processi di rimozione: quest’ultimo è anche l’inconscio più classicamente inteso, il rimosso. Se si ammette questa distinzione, si passa dall’inconscio come contenitore di rappresentazioni rimosse a un inconscio più “relazionale”, legato e ispirato ai legami tra identità. La retorica può aiutare a descrivere più accuratamente questi legami? Penso di sì: la buona retorica naturalmente, la retorica che continua a compiere progressi teorici anche nel periodo recente. Consideriamo un esempio di identificazione/metaforizzazione non soltanto come trasferimento di tratti semantici, come farebbe un linguista, ma nella prospettiva dei registri. In un romanzo breve che sembra implicare la psicoanalisi lacaniana al punto da giustificare le più disinvolte “applicazioni”, The Locked Room di Paul Auster,14 il protagonista racconta la propria fascinazione nei confronti del proprio amico Fanshawe. Il potere emanato dalla metafora “fraterna” era tale da modellizzare sia comportamenti e tratti dell’Io sia atteggiamenti morali.15 Ma questa attrazione non si svolge soltanto sul piano dell’Immaginario e del Simbolico, evoca una dimensione più oscura e innominabile. E riguarda l’intero gruppo dei suoi amici e coetanei: Traggo l’esempio dalla cronaca giornalistica di un po’ di tempo fa. Si tratta del terzo romanzo che compone la Trilogia di New York (1985-1987). (Città di vetro – Fantasmi – La stanza chiusa), Einaudi, Torino 1996. 15 Per il primo aspetto: “Già da prima il suo influsso era piuttosto chiaro. Si estendeva a dettagli anche trascurabili. Se Fanshawe portava la fibbia della cintura su un fianco dei pantaloni, anch’io la spostavo nella stessa posizione” (La stanza chiusa, cit., p. 210). Per il secondo aspetto è rilevante la generosità con cui Fanshawe mette in grado Dennis Walden di non presentarsi privo di un dono al compleanno di un amico comune. Il narratore commenta con sorpresa e incondizionata ammirazione: “Era il primo atto morale cui avessi assistito” (ivi, p. 214). 13 14 RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 149 In lui c’era qualcosa di così affascinante che veniva voglia di averlo sempre vicino, come se si potesse vivere nella sua sfera e farsi sfiorare dal suo essere. Era lì, a nostra disposizione, e contemporaneamente era inaccessibile. Sentivamo che in lui c’era un nucleo segreto che non avremmo mai potuto penetrare, un misterioso centro recondito. Imitarlo era un modo di essere partecipi di quel mistero, ma anche di comprendere che non l’avremmo mai conosciuto fino in fondo.16 Dunque il potere metaforizzante di Fanshawe sembra provenire anche da das Ding. Vorrei considerare ancora un esempio, già ampiamente discusso da Recalcati nel suo ultimo libro. Potrò dunque appoggiarmi alla sua analisi, e limitarmi a precisare alcuni punti. Nel film Gran Torino (2007) di Clint Eastwood, Walt offre al giovane Tao la possibilità di incontrare “almeno una metafora”. E in questo caso l’incontro avviene prevalentemente sul piano del Simbolico. Abbiamo qui un’occasione per capire perché non esiste “il” linguaggio: il linguaggio è un insieme di stili in conflitto, stili che comprendono le varianti più stereotipate come i meccanismi più singolarizzanti. Una buona metafora, una metafora creativa, è un meccanismo che si oppone alla tendenza uniformante del linguaggio, e genera una singolarizzazione. In tal senso essa esprime “l’amore per il vero nome”, al di là del nome che i codici linguistici assegnano a un oggetto. Una buona metafora è sempre densa: non si presenta cioè come un insieme o una somma di tratti (o di proprietà), che dovranno venir trasferiti dal soggetto S2 al soggetto S1, da alter a idem. Densità significa necessità dell’interpretazione, e possibilità di interpretazioni anche molto diverse. Il giovane Tao è dunque chiamato a interrogarsi sull’identità del padre non biologico, l’anziano, indurito, generoso Walt. Talmente duro – l’identità di Walt è implicitamente quella di tutti gli eroi interpretati da Clint Eastwood – che gli si può chiedere una vendetta spietata e inesorabile nei confronti di una banda di teppisti, e della loro violenza ripugnante. È questo che vuoi da me? Chiede Walt a Tao, che ti insegni a uccidere? È questo che desideri da un padre? La scelta di Walt invita a leggere il suo ruolo metaforizzante in un’altra direzione. Così la metafora paterna, che per la sua densità Ivi, p. 212. 16 150 GIOVANNI BOTTIROLI equivale potenzialmente a una serie di metafore diverse, assume la sua buona forma. Tao incontra davvero un padre. Il suo desiderio di essere incontra una metafora.17 6. La domanda rimasta in sospeso, e cioè quali siano le principali correzioni da apportare al modello jakobsoniano, può trovare qui soltanto una risposta affrettata, per ragioni di spazio. Mi limiterò a proporre una correzione, la più strettamente connessa a tutto quanto si è detto finora. A causa del suo schematismo, e cioè dell’articolazione del campo figurale soltanto in due campi, il metaforico e il metonimico, Jakobson non può evitare di comprimere le figure di opposizione (dall’antitesi all’ironia, dall’ossimoro al paradosso) sull’asse metaforico,18 e il meccanismo della sineddoche, nelle sue varianti, sull’asse metonimico. L’importanza delle figure di opposizione, del paradosso per esempio, come meccanismo logico-retorico, non dovrebbe sfuggire a nessuno, ed è stata recuperata parzialmente da Lacan in altri momenti. Quanto alla sineddoche, si tratta di una figura che può offrire un apporto di intelligibilità alla soggettività contemporanea, come cercherò di mostrare tra un istante. Per uscire dalle forzature e dalle confusioni di Jakobson, bisogna dunque proporre un modello figurale articolato in almeno quattro territori (o province).19 17 Si noti che in questo caso il rapporto metaforico è pienamente interattivo (o interazionale): Tao si lascia metaforizzare da Walt, ma Walt si lascia metaforizzare da Tao. Benché continui a usare un linguaggio “politicamente scorretto” nei confronti del ragazzo, a cui rimprovera, per esempio, di essere una femminuccia, e che chiama “panna smontata”, Walt sente crescere in sé un sentimento di grande intensità, che influirà sulla sua scelta finale. 18 Il motivo è questo: poiché l’asse metaforico è quello delle sostituzioni, esso comprenderà non soltanto i sinonimi ma anche gli antonimi: per esempio, l’intera serie degli stati di temperatura, da “tiepido/caldo/bollente” sino a “fresco/freddo/gelido/ghiacciato”. Così sarà possibile il rovesciamento ironico, di cui menziono un esempio stereotipato: “bel tempo!” (mentre sta piovendo a dirotto). 19 Per quanto riguarda la mia visione della retorica, e degli strumenti di analisi, mi permetto di rinviare a una serie di testi: Giovanni Bottiroli, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Id., Metafore simmetriche e regimi di senso, Quattroventi, Urbino 1995; Stefano Arduini, Metaphor and Modal Mixtures, in Id., a cura di, Metaphors, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007. Quest’ultimo testo è disponibile anche in italiano sul sito www.giovannibottiroli.it. RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 151 Perché dovremmo nutrire un qualche interesse per la sineddoche? Chi è abituato a riconoscere come sineddochici esempi del tipo “vela” anziché “nave” (pars pro toto), così com’è abituato a pensare la metafora sul modello di “Achille è un leone”, non potrà non provare una forte perplessità. Il primo punto da chiarire è lo statuto ambiguo della sineddoche rispetto ad altre figure, in particolare alla metafora. Mentre la metafora mette in comunicazione universi eterogenei, e lo fa con tale forza da evocare la possibilità di un category-mistake,20 la sineddoche si muove prudentemente in spazi omogenei, e funziona come una sorta di “figura zero”. Un po’ di anni fa Nicolas Ruwet segnalò questa caratteristica facendo notare, con una certa ironia, che quando dico “vedo una vela, laggiù”, forse non sto usando nessuna figura: vedo soltanto una vela (il resto dell’imbarcazione potrebbe essere nascosto dalle onde), e dicendo che vedo una vela, comunico in modo letterale la mia percezione.21 Si potrebbero immaginare molti esempi analoghi. Prendiamo sul serio l’idea che la sineddoche sia una “figura zero”. Teniamo conto però delle sue varianti: il rapporto tra parte e tutto, quello tra genere e specie, quello tra un insieme e un individuo che ne rappresenta in maniera accentuata (prototipica) le caratteristiche. Dunque sei possibilità, organizzate in tre coppie. Ora, ciascuna di queste possibilità è minacciata dal letteralismo proprio nel senso indicato da Ruwet. Se adesso riprendiamo la tesi di Lacan relativa all’ingresso nel Simbolico, e la riformuliamo in maniera più articolata assumendo la tipologia che ho indicato, non possiamo non considerare l’eventualità che un individuo acceda al Grande Altro non tramite la metafora paterna, bensì tramite la sineddoche paterna. Con quali effetti? Riprendo una descrizione di Sartre: Consideriamo questo cameriere. Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po’ troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi, esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, L’espressione è di Gilbert Ryle, in Paul Ricœur, op. cit., p. 28. Nicholas Ruwet, Sineddochi e metonimie (1975), in Linguistica e poetica, il Mulino, Bologna 1986. 20 21 152 GIOVANNI BOTTIROLI poi ecco che torna tentando di imitare nell’andatura il rigore inflessibile di una specie di automa […]. Tutta la sua condotta sembra un gioco […]. Ma a che cosa gioca? Gioca a essere cameriere.22 Ecco un esempio di uomo-sineddoche (o di personaggio-sineddoche). Devo il mio interesse per questo esempio a Massimo Recalcati e alle sue osservazioni. Recalcati fa notare che qui c’è un uso della maschera mediante cui il soggetto si presenta “compatto, identico a se stesso, senza fessure”.23 Alla mancanza-a-essere subentra una sufficienza d’essere, all’identità divisa un’identità tautologica. Si riscontra qui una identificazione rigida a una maschera sociale, una solidificazione del desiderio nel sembiante socialmente richiesto. Per riprendere Sartre, un individuo è stato imprigionato in ciò che è,24 nella sua identità intesa come coincidenza con se stesso. È possibile evadere da questa prigione? Queste possibilità sono forse legate all’ambivalenza del “troppo”: il cameriere è un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido, un po’ troppo premuroso. Nel “troppo” deborda un supplemento d’essere che in quella situazione non trova altre vie. Lasciamo in sospeso questo eccesso, e la possibilità che il gioco diventi un inizio di distanziamento dal ruolo, e non un rito di adesione totale. Ciò potrebbe avvenire, tuttavia, a condizione che il soggetto riesca a disancorarsi dalla realtà, dai codici normalizzanti. Nel capitolo sulla Clinica della maschera, Recalcati riprende alcuni autori (Deutsch, Winnicott, Bollas, Miller) che hanno descritto la tendenza dell’individuo a perdere i contatti con il proprio mondo soggettivo, e ad assumere un’identità normotica. Una psicosi non schreberiana: non la rottura con il mondo a favore della soggettività, ma viceversa. In tal senso la psicosi – la psicosi ordinaria – diventa un paradigma per l’analisi della soggettività contemporanea. Mi pare si possa dire che questi individui non hanno mai incontrato nel Grande Altro nessuna figura che non fosse una sineddoche: non altri individui, ma soltanto la specie, cioè il ruolo (essere camerieri, droghieri, commercianti, professori ecc.). Nessun incontro singolarizzante con una metafora. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla (1943), Il Saggiatore, Milano 1965, p. 100. Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina, Milano 2010, pp. 177 e sgg. 24 Jean-Paul Sartre, op. cit., p. 101. 22 23 RICOMINCIARE DAL SIMBOLICO 153 Di qui i processi di inaridimento, di impoverimento soggettivo, osservabili anche dal punto di vista semantico: in effetti, la sineddoche può venire intesa come una riduzione caricaturale della metafora. Alter si pone di fronte a idem non come un’identità densa da interpretare creativamente, ma come un insieme di tratti irrigiditi. Idem ne preleva alcuni, quelli valorizzati più vistosamente. Propongo un esempio letterario, dove un padre svolge il ruolo di padre sineddochico. All’inizio dei Tre moschettieri, mentre si accinge a partire per Parigi, D’Artagnan viene congedato da suo padre con queste parole: Voi siete giovane, e dovete essere coraggioso per due ragioni: la prima perché siete guascone, la seconda perché siete mio figlio. Non fuggite le occasioni che vi si presenteranno e cercate le avventure […] è un esempio che vi propongo: non il mio, perché non sono mai stato a Corte […] io voglio parlarvi del signor di Tréville, capitano dei moschettieri, vale a dire a capo di una legione di Cesari, di cui il Re fa gran conto, e che è temuta perfino dal Cardinale… Di più, il signor di Tréville guadagna diecimila scudi all’anno, ed è perciò un gran signore. Egli ha cominciato come voi: andate a fargli visita con questa lettera, prendetelo a modello per fare come ha fatto lui.25 Qui un padre propone un modello letteralista, e non figurale; una sineddoche (nel senso dell’individuo-prototipo), e non una metafora. Dall’Ideale indicato il giovane D’Artagnan è invitato a pescare alcune proprietà o tratti semantici: prestigio, ricchezza, anche coraggio. D’Artagnan non diventerebbe il personaggio che molti lettori hanno amato nella loro adolescenza se anziché seguire la via degli automatismi paterni non incontrasse una buona tyché, in una forma imprevedibile, e che è probabilmente la migliore invenzione narrativa del romanzo: tre duelli consecutivi, a cui viene sfidato nel giro di pochi minuti da tre moschettieri tra i più valorosi. Grazie all’incongruenza di dover rischiare la propria vita contro quelli che diventeranno i suoi amici D’Artagnan incontra una “nebulosa paterna”, cioè una figura collettiva, parzialmente instabile, rispetto alla quale scatteranno in seguito dei processi di metaforizzazione. Alexandre Dumas, I tre moschettieri (1844), Sansoni, Firenze 1972, p. 6. 25 154 GIOVANNI BOTTIROLI 7. Benché sia collocato in un romanzo piuttosto lontano nel tempo, quest’esempio offre delle suggestioni: ci sono padri incapaci di svolgere il ruolo metaforizzante, e che preferiscono delegare ad altri questo ruolo; e la delega può facilmente indirizzare verso figure sineddochiche, definite da tratti “duri”, figure stereotipate, che tendono a ridurre – e non a espandere – la via al desiderio di essere. Il degrado del Simbolico, in una certa epoca, può essere determinato dal prevalere di prototipi spersonalizzanti, e dalle grammatiche del gregge. Sradicare gli uomini dal loro irretimento nelle grammatiche sociali, dalle loro identificazioni solide, non è facile, evidentemente: possiamo dire, con Wittgenstein, che “lo sradicamento funziona soltanto con coloro che vivono in una istintiva rivolta contro il linguaggio (l’autore di questo articolo direbbe: contro IL linguaggio). Non con quelli che, seguendo in pieno il loro istinto, vivono nel gregge che ha prodotto questo linguaggio come sua espressione propria”.26 Ricominciare dal Simbolico vuol dire, dunque, ricominciare dalle sue versioni e dai suoi conflitti. Ludwig Wittgenstein, Filosofia, a cura di Diego Marconi, Donzelli, Roma 1996, p. 26 55. Sguardo sulla storia, puntuazione sulla formazione. Venticinque anni di Après-Coup Paola Mieli L’étique de la psychanalyse – car il y en a une – comporte l’effacement, la mise à l’ombre, le recul, voire l’absence d’une dimension dont il suffit de dire le terme pour apercevoir ce qui nous sépare de toute l’articulation étique avant nous – c’est l’habitude, la bonne ou la mauvaise habitude. Jacques Lacan, L’Éthique de la psychanalyse, 1959 Après-Coup Psychoanalytic Association nacque a New York nel 1987 come luogo di studio e di ricerca, come punto d’incontro tra analisti di diversa provenienza animati dal desiderio di creare una comunità analitica votata al ritorno ai testi di Freud e Lacan e alla propria formazione permanente. La scelta del nome, Après-Coup, era sovradeterminata: essa sottolineava innanzitutto un tema centrale della dottrina Freudiana – quello del tempo proprio alla causalità psichica – perlopiù ignorato dal contesto analitico americano, tanto per una connaturata disabitudine a una attenta lettura dei testi freudiani quanto per la traduzione del termine cruciale Nachträglichkeit (in francese reso con après-coup), tradotto in inglese con l’erroneo differred action. Un nome, dunque, che fa riferimento a un punto essenziale della teoria analitica e che mette il tema della traduzione al centro delle questioni relative al testo e alle formazioni dell’inconscio. “Après-coup” era anche riferimento al tempo particolare della costituzione della nostra associazione, nell’après-coup della dissoluzione dell’École Freudienne di Parigi e della morte di Lacan, nonché rappresentativo di un tempo significativo nel percorso della nostra formazione di analisti.1 Il desiderio d’analista sostiene l’atto analitico; al contempo si sostiene nel legame tra analisti, nel transfert di lavoro che mantiene l’analisi 1 Nell’autunno del 1987 organizzammo alla Columbia University un colloquio sul tema, appunto, de “Il tempo in analisi”. 156 PAOLA MIELI in estensione necessaria alla formazione permanente. In questo senso la comunità analitica non smette di risituare la posizione dell’analista, la solitudine propria all’atto. Il legame tra analisti è elemento complementare all’etica della singolarità analitica, la comunità analitica necessaria al rinnovamento della relazione tra clinica e teoria. Il nostro punto di partenza furono tanto i testi di Freud e di Lacan quanto la testualità del discorso soggettivo, l’ascolto dell’atto di parola. La formazione analitica è effetto delle formazioni dell’inconscio. Da subito, sebbene in pochi, iniziammo seminari, conferenze, gruppi di lavoro, caratterizzati da un dialogo teorico e clinico con analisti e studiosi locali e internazionali. Non si trattava di darsi una struttura prefissata, modellata su quella di istituti già esistenti, bensì di sviluppare progressivamente i nostri progetti di studio in base alle esigenze attuali e locali, in base alla domanda rivolta dai partecipanti. Il programma di Après-Coup è sempre stato in progress, il risultato di una crescita comune. Si è modificato negli anni secondo le esigenze riscontrate nel corso dei nostri lavori. Un punto centrale, tuttavia, è stato mantenuto: un insegnamento a più voci su temi di studio comuni, garantito dalla partecipazione di analisti provenienti da associazioni diverse – quel che ha permesso la progressiva costituzione di un gruppo insegnante internazionale, unico negli Stati Uniti e forse anche nel mondo freudiano-lacaniano. Uno dei rischi della posizione di pionieri, uno dei rischi della fondazione di un’associazione in generale, è il condensarsi dell’investimento transferale intorno alla figura di uno o più maestri e tanto più in un contesto che raccoglie un numero limitato di persone. La storia di istituti, associazioni, gruppi e via dicendo, ha ben mostrato l’aspetto tossico e fondamentalmente disgregativo delle proiezioni immaginarie conseguenti a tali investimenti. Sebbene inevitabili, giacché frutto della relazione al sapere, essi possono quanto meno venir anticipatamente presi nella dovuta considerazione e dunque incanalati, distanziati o dissipati, rispettando la logicità temporale a loro propria. Una delle funzioni di un insegnamento a più voci è quella di distribuire tali investimenti, quel che, per così dire, organizza un terreno transferale plurale intorno a una causa comune: quella della relazione tra analisi in intensione e analisi in estensione, quella della trasmissione.2 I concetti di “analisi in intensione” e “analisi in estensione” (in sostituzione e amplia- 2 SGUARDO SULLA STORIA 157 La posizione dell’analista, si sa, non è affatto quella del Maître e ogni volta che l’analista si fa Maître tradisce le premesse del discorso che dichiara di sostenere, compromettendo formazione e trasmissione. Un’associazione analitica a più voci ricorda all’analista che, nel proprio insegnamento, egli parla quale analizzante, come Lacan ben si esprimeva e lo invita a confrontarsi con la posizione di altri analisti. Un corpo insegnante internazionale che stabilisce dei legami di lavoro nella stessa associazione e garantisce un insegnamento annuale su temi comuni consente a coloro che ne ascoltano gli insegnamenti di trovarsi esposti a diverse maniere di relazionarsi al testo (che sia quello scritto o quello della parola dell’analizzante) e consente l’ascolto di stili differenti: e se lo stile è marchio dell’unicità del desiderio soggettivo, lo stile dell’analista fa trasparire il desiderio d’analista, elemento essenziale della trasmissione – per ritornare al dire radicale di Lacan secondo cui lo stile è la sola cosa che si trasmette. Se così fosse, letteralmente, lo stile può intendersi solo nella differenza degli stili e nella formazione all’ascolto dello stile, nella formazione cioè alla lettura della lettera del desiderio. Quel che implica gran lavoro. I visitatori di Après-Coup si stupiscono di vedere lavorare produttivamente insieme analisti che altrove non si incontrerebbero necessariamente in maniera feconda. Se vale la pena di menzionarlo, non è per congratularsene, ma per mettere l’accento sull’effetto prodotto dal particolare legame tra analisti promosso negli anni, che, sulla base di un fondo comune, accoglie e sostiene la differenza, fa della differenza un principio etico; non a caso il desiderio della pura differenza è principio del desiderio d’analista. Se tale desiderio guida l’etica dell’atto nella cura, sostiene anche il transfert di lavoro proprio all’analisi in estensione. Diversamente, da un lato non avremmo un atto analitico, non avremmo fine della cura (bensì, per esempio, quell’identificazione all’analista promossa da certuni che fa radicalmente impasse alla cura); dall’altro non avremmo il fiorire di produzioni di lavoro dal carattere inedito e innovativo, essenziali per la vita e la trasmissione della psicoanalisi. L’impegno verso la trasmissione della psicoanalisi ci ha spinto, nel 1996, a partecipare ai lavori di fondazione di Convergencia – Movimento mento di quelli di “analisi personale” e “transfert di lavoro”) sottolineano la complessità topologica della formazione e la sua intrinseca qualità transferenziale. A proposito si veda la Proposition du 9 octobre 1967 sur le psychanalyste de l’École di Jacques Lacan. 158 PAOLA MIELI lacaniano per la psicoanalisi freudiana, la prima associazione internazionale di associazioni lacaniane. Après-Coup ha fatto parte del gruppo di lavoro che ne ha concepito lo statuto: la sua organizzazione orizzontale, il principio secondo cui l’inclusione e la partecipazione sono sempre conseguenti alle produzioni di lavoro tra associazioni e tra analisti, ne fanno un’associazione internazionale dal carattere inedito, antipiramidale, votata al sostegno del discorso analitico, alla promozione del legame tra analisti e alla trasmissione. Altra caratteristica di Après-Coup è quella di avere da sempre avuto come membri e partecipanti non solo analisti o persone in formazione, ma anche persone provenienti da altri ambiti, letterati, filosofi, uomini di scienza, artisti, avvocati, e così via.3 Avere come membri e partecipanti di un’associazione analitica, per piccola che sia, anche studiosi di altre discipline, enfatizza l’importanza dell’interdisciplinarietà nella formazione e promuove una contaminazione di conoscenze necessaria alla teoria, alla clinica e alla trasmissione. Infine, il ritorno alla lettura originale dei testi e la realtà di un corpo insegnante internazionale hanno promosso un lavoro costante sulla traduzione, sulle resistenze prodotte dal passaggio da una lingua all’altra. Va da sé che il passaggio da una lingua all’altra favorisca un’attenzione particolare rivolta alla parola e faciliti l’inciampo, il malinteso, spesso la trovata, facendo precipitare il confronto con la resistenza della e nella lingua, con ciò che si presenta come intraducibile – e che fa eco a ciò che vi è di più intimo e inaccessibile nell’uso soggettivo della lingua, nello stile.4 Un intraducibile che, per potersi evocare, necessita 3 Già Freud aveva radicalmente sottolineato come gli studi necessari alla psicoanalisi e alla formazione implicassero conoscenze approfondite in molteplici discipline. L’estensione delle conoscenze di Freud e di Lacan ne sono un esempio eccellente – esempio ignorato dalla maggioranza degli istituti di training, tanto nel loro curriculum di studi quanto nella famosa idea della selezione dei candidati, che esclude dalla partecipazione ai lavori coloro che non provengono dal dominio della salute mentale, o che non ne abbiano fatto un’esperienza preliminare. Sulla posizione dell’American Psychoanalytic Association al riguardo si veda: Paola Mieli, Letter to Our American Colleagues: Questions Raised by the Report of the Psychoanalytic Consortium on Analytical Training, in “NAAP News”, vol. xxviii, n.1, inverno 2005, New York, consultabile sul sito www.psychoanalysis.ie/Issues in Psychoanalysis/ current issues/. 4 Fa eco alla lingua di cui è fatto l’inconscio (lalangue, come la chiama Lacan), sempre unica, singolare; lingua che sorpassa di gran lunga tutto ciò di cui possiamo rendere conto tramite il dire. SGUARDO SULLA STORIA 159 di un’invenzione. Di un atto poetico. Il passaggio da una lingua all’altra è occasione d’incontro con la natura stessa del dire, è formazione all’ascolto dell’atto di parola. L’atto di parola è comunque traduzione. Una delle fonti maggiori di resistenza contro il discorso analitico e contro la trasmissione è la realtà istituzionale, quel che si è dimostrato vero un po’ dappertutto. Nel Nord America la cosa prende un carattere particolare, dal momento che qui, prima o poi, tutto si istituzionalizza. Culturalmente, si ha fede nell’istituzione. Secondo la tradizione locale è implicito che per fare un training analitico ci si debba iscrivere a un istituto che esige un percorso specifico per ottenere un certificato professionale. L’analista riceve la sua patente e il potere garantito da una certa appartenenza. Nessuno nella storia della psicoanalisi nordamericana ha mai veramente interrogato seriamente le conseguenze sulla formazione di questo dato di fatto considerato “naturale”. L’istituto psicoanalitico è considerato un’associazione professionale che risponde a un’esigenza sociale. Si decide di diventare analisti come si decide di diventare avvocati o dentisti; e di fatto, si diventa potenzialmente tali il giorno in cui ci si iscrive a un istituto, dal momento che se si seguono le regole e i tempi prestabiliti dal curriculum, nonché la volontà degli istruttori, ciò va da sé. La conditio sine qua non per la formazione, l’analisi personale, passa in secondo piano: da condizione – che distingue la voglia di diventare analisti (un sintomo tra altri) dall’effetto dell’atto analitico – diviene accessorio. Quel che dà tutta la misura delle implicazioni di un fraintendimento radicale relativo alla singolarità del tempo proprio a una formazione analitica, non equiparabile alla linearità di un percorso accademico o di un apprendistato tecnico e rivela un’ignoranza stupefacente della concettualizzazione del tempo logico proprio alla causalità psichica – ignoranza che è alla base della differenza tra training e formazione analitica. Non a caso la riflessione sul tempo in analisi è stata lo spartiacque tra posizioni radicalmente opposte nella storia della psicoanalisi. Sul versante giuridico, va menzionato che nel 2001 è stata votata la regolamentazione della psicoanalisi nello Stato di New York: nel 2006 è entrata in vigore la legge che stabilisce che per esercitare la psicoanalisi è necessario ottenere una licenza di Stato – al pari di tutte le altre professioni.5 Se l’idea di licenza suona come un’aberrazione nella tradizio5 La licenza che consente l’esercizio della psicoanalisi è ottenibile nei seguenti settori: 160 PAOLA MIELI ne psicoanalitica, dal momento che propone uno standard di equiparazione tra psicoanalisi e altre professioni e che misconosce la specificità del percorso analitico, essa paradossalmente segna al contempo una novità radicale nella storia della psicoanalisi statunitense: il riconoscimento giuridico della psicoanalisi come professione “laica”, ossia come professione indipendente, differente e distaccata per sua natura dalla medicina, dalla psicologia, dall’assistenza sociale e dalla psicoterapia, così come Freud l’aveva concepita – quel che fa di alcuni stati negli Stati Uniti un’avanguardia legislativa rispetto a quei paesi in cui la psicoanalisi è sottomessa a medicina e psicologia (o confusa con la psicoterapia). Come noto, Freud aveva largamente denunciato la pretesa necessità di conseguire un titolo in medicina per diventare analisti come la forma di resistenza più pericolosa nei confronti della psicoanalisi – resistenza oggigiorno rivificata dall’obbligo, in molti paesi, del titolo in psicologia.6 È in questo contesto culturale che Après-Coup ha voluto creare un luogo che mettesse l’ascolto analitico e l’analisi personale7 in primo piano e rispettasse i tempi del percorso psicoanalitico individuale, logicamente indipendenti da corsi di studi accademici prestabiliti. Un luogo dove essere esposti a un insegnamento rigoroso e cominciare a partecipare a un ascolto differente dei testi e degli stili, per dipanare progressivamente il filo della propria formazione. Un luogo dove fare del lavoro analitico vero e proprio – quel che per certuni ha finito col significare una formazione e per altri, formati altrove, venire ad Après-Coup per continuare la propria démarche. medicina, psicologia, clinical social work, psicoanalisi. Après-Coup ha deciso di non partecipare ai programmi di conseguimento della “licenza in psicoanalisi” dal momento che i suoi attuali dettati sono in contraddizione con l’etica analitica. Al riguardo dell’introduzione della legge si veda Paola Mieli, Acte analytique, acte juridique: paradoxes, apories, contradictions, in “essaim”, 23, Erès, Paris 2009. 6 Si veda l’eloquente Manifeste pour la psychanalyse di Sophie Aouillé, Pierre Bruno, Franck Chaumon, Michel Plon ed Erik Porge, Éditions La Fabrique, Paris 2010. 7 Inutile ritornare qui sulla questione della paradossale distinzione tra analisi personale e analisi didattica, distinzione che in se stessa denuncia un profondo fraintendimento di ciò che è l’atto analitico. Se, dal greco didàsko (insegno), la didattica è teoria e pratica dell’insegnare, l’idea stessa di “analisi didattica”, separata dall’analisi personale, mostra una concezione dell’educazione analitica che contraddice quella di formazione. La formazione analitica è effetto delle formazioni dell’inconscio, effetto della separazione tra sapere e verità. Un’analisi, se portata a suo termine, può produrre un analista. L’espressione “analisi personale” indica per noi la sola analisi che produce un analista – ed è in questo senso che è qui utilizzata. SGUARDO SULLA STORIA 161 Da sempre abbiamo sostenuto l’importanza di differenziare la nozione di formazione da quella di training, una novità, questa, nel mondo della psicoanalisi americana. Abbiamo introdotto nel vocabolario analitico l’espressione Psychoanalytic Formation, fino ad allora inesistente, che oggi ha cominciato a prender piede. Nella lingua inglese il termine formation esiste, ma viene utilizzato quasi esclusivamente per le formazioni geologiche e militari. Utilizzarlo nel campo della psicoanalisi suona curiosamente nuovo, strano. L’insistenza sull’appropriazione di tale termine risponde, tuttavia, alle implicazioni problematiche del termine training, implicazioni che finiscono col riflettere una differenza significativa nella concezione stessa della psicoanalisi. Il termine training suggerisce l’idea di apprendistato, l’acquisizione di un sapere relativo a procedure teoriche e pratiche necessarie per una certa expertise tecnica – come avviene in altri campi professionali. L’idea dell’acquisizione di un sapere precostituito applicabile ad hoc manifesta tutta la distanza di un training da una formazione analitica, dove la funzione del sapere è radicalmente altra. Si dimentica che il campo della psicoanalisi è quello dell’esperienza della divisione soggettiva, della presa in considerazione del sapere inconscio e quindi di una relazione tra sapere e verità che non può essere anticipata o precostituita. Non a caso Freud considera l’analisi personale come la condizione del diventare analisti: non si può sapere che cosa sarà il risultato di un’analisi. Il desiderio dell’analista può essere solo la conseguenza di un’analisi, non la sua condizione. La nozione di formazione, dal latino formare, dare forma, che indica l’atto del creare e insieme il risultato di tale creazione, è più prossima all’unicità dell’esperienza analitica, esperienza di “sovversione” soggettiva, come Lacan la chiama, che porta a una nuova economia libidica e a una nuova posizione etica. Si potrebbe osservare che la differenza esistente tra training e formazione, tra l’accento posto su un apprendistato e quello messo su un processo inedito, enfatizza appunto dimensioni diverse: quella tecnica, acquisibile tramite un sapere razionale, e quella etica, effetto di un’esperienza tras-formativa, dove la dimensione della trasmissione acquista ben altra portata. La trasmissione della psicoanalisi comporta, oltre all’analisi in intensione e l’analisi in estensione, la riflessione sul contesto sociale in cui esse hanno luogo, dal momento che tale contesto può influenzare le condizioni stesse della formazione e della trasmissione. Dalla me- 162 PAOLA MIELI tà degli anni novanta si era precisata ad Après-Coup la necessità di esplicitare il nostro programma di formazione. C’era stata la richiesta di certuni di presentare in luoghi di lavoro specifici (dipartimenti psichiatrici, cliniche diurne, istituti psicoanalitici e via dicendo, quel che è pratica comune e spesso necessaria nella realtà locale) la dichiarazione della propria educazione psicoanalitica: dove si erano formati, in che cosa consisteva questa formazione. Un passo significativo fu la decisione di richiedere il riconoscimento ufficiale della nostra Associazione da parte del Board of Regents, il dipartimento d’Educazione dello Stato, presentando il programma svolto da Après-Coup nel corso degli anni. Il riconoscimento ci venne dato nel 2002, la prima iscrizione storica di un’associazione freudiana-lacaniana nello stato di New York. Un’iscrizione après-coup di Après-Coup, un riconoscimento della maniera in cui Après-Coup operava e aveva operato, che dichiarava il nostro intento e la nostra presenza nel legame sociale. Secondo la tradizione, la formazione implica analisi personale, insegnamento, partecipazione attiva, supervisione. Inutile dire che l’analisi personale occupa un posto centrale. A differenza di buona parte degli istituti esistenti negli Stati Uniti, Après-Coup non interviene sulla scelta dell’analista. Beninteso, è possibilissimo che qualcuno sviluppi una relazione transferale nei confronti di un analista membro di un istituto di cui diviene il candidato. Ma imporre a una persona già in analisi di abbandonare il proprio analista e di cominciare un’analisi nuova come condizione d’iscrizione a un istituto è negazione della natura stessa del transfert, la cui particolarità fa dell’incontro con un analista dato la condizione stessa dell’atto analitico, dello svolgersi della tâche analisante. È possibile, certo, che qualcuno sia in un’analisi che non funziona, a volte a causa dell’analista. Ma non è obbligando una persona a lasciare la propria analisi che il problema può risolversi.8 Sarà piuttosto offrendo all’analizzante un insegnamento di qualità, coinvolgendolo in un transfert di lavoro fecondo, che l’analisi in estensione potrà rilanciare il transfert ed eventualmente spostare l’analisi personale altrove. 8 Provare per credere. D’altra parte, dietro alla dichiarata preoccupazione sulla qualità dell’analista prescelto, l’imposizione di un analista appartenente a un istituto dato cela interessi relativi al business del settore, e/o interessi normativi. SGUARDO SULLA STORIA 163 L’insegnamento si svolge in seminari, conferenze, gruppi di lavoro, gruppi di clinica analitica. Una particolarità di Après-Coup è il fatto che ciascun partecipante può organizzare il proprio percorso di studi in base al punto in cui si trova nella sua analisi o nel suo rapporto ai testi e alla teoria, quel che implica il rispetto di una temporalità singolare.9 Al contempo, si promuove la partecipazione attiva in gruppi di lavoro, di traduzione, in cartels, nella presentazione pubblica dei propri lavori e nella redazione di testi. La ricerca ne è parte costitutiva. Si tratta di sostenere il proprio desiderio nella formazione, di assumerne la responsabilità soggettiva. Da sempre la supervisione ha occupato un ruolo importante nella nostra associazione. Dall’inizio, uno degli effetti significativi e incoraggianti degli insegnamenti tenuti ad Après-Coup fu quello di generare domande di controllo, alcune delle quali si trasformavano in domande d’analisi. Il lavoro di supervisione evidenzia aspetti relativi a diversi momenti logici della formazione: da un lato la trasmissione del quadro nella cura, con un accento sulla tecnica analitica e gli elementi che le competono, dall’altro l’ascolto della posizione dell’analista nella direzione della cura. Quest’ultimo aspetto rinvia l’analista/analizzante in controllo alla propria analisi, rilanciando il lavoro analitico in maniera plurale e feconda. Non a caso si è potuto dare alla parola “supervisione” la denominazione di “analisi di controllo”, quel che tra il resto ne sottolinea la qualità transferale – malgrado l’aspetto infelice tanto della parola “controllo” quanto di quella “supervisione”.10 La supervisione è parte essenziale tanto dell’analisi in intensione quanto della trasmissione. Al momento in cui ci si è posta la questione di come configurare un termine del nostro programma di formazione ci è parso logico fare riferimento alla nostra esperienza nella supervisione. Come concepire una puntuazione simbolica nella formazione, sostenibile nel legame sociale, senza tradire le premesse della formazione permanente? Come Per completare il Formation Program di Après-Coup sono necessari un certo numero di credits, corrispontenti a un numero di ore di seminari, corsi e via dicendo, che possono svolgersi su sei, sette o più anni di studio, secondo il ritmo di ciascuno. La durata del programma è soggettiva. Sintomaticamente, il riconoscimento della diversità del tempo individuale è intollerabile per chiunque voglia imporre alla formazione analitica la griglia accademica e mette la formazione analitica in contrasto con imposizioni legislative. 10 Il compito rimane di esprimere questa pratica in maniera più calzante. 9 164 PAOLA MIELI assumere e sostenere la qualità del percorso fatto da un certo analizzante nella propria formazione? Una risposta possibile ci è parsa una forma d’invenzione: una procedura nuova per il completamento del programma di formazione, un “completamento” che è inteso come riconoscimento del tragitto fatto nella formazione e come puntuazione nella formazione permanente. Un analizzante in formazione (af – Analysand in Formation) sceglie dei supervisori di Après-Coup per il proprio lavoro clinico;11 tale lavoro seguirà l’andamento della formazione personale, la progressiva apertura soggettiva all’ascolto analitico. A un momento dato, un supervisore potrà accorgersi che il lavoro con tale analizzante gli trasmette qualcosa di significativo dell’atto analitico. C’è ascolto analitico e trasmissione dell’ascolto: nell’analizzante in cura, nell’analizzante/analista in formazione e nell’analista supervisore. Il campo transferale ha consentito un’apertura nello svolgersi della cura, un cambiamento di posizione. Se, in accordo con Lacan, consideriamo come “atto” l’intero svolgersi di una cura – quel cambiamento della posizione soggettiva che comporta la possibilità stessa della fine di una cura – va osservato che tale atto, nella sua unicità e interezza, è di fatto cadenzato da alcune puntuazioni discrete, relative al tempo logico proprio a ogni seduta e ai tempi logici propri al corso di una cura. Tali puntuazioni, nella misura in cui comportano uno spostamento della posizione dell’analizzante o dell’ascolto dell’analista, sono passi logici che chiudono un tempo della ripetizione per aprire uno spazio nuovo nella cura, concepibili come elementi discreti dell’atto analitico, come suoi rappresentanti. Sono passi nell’atto; un pas d’acte che, al contempo, è pas de sens. Tra gli aspetti estremamente ardui della trasmissione in analisi vi è il challenge della trasmissione dell’atto analitico come tale. Ben sappiamo come la pratica della presentazione di casi clinici alimentata 11 Après-Coup ha una lista di supervisori dell’associazione. Nel caso della supervisione, l’af è tenuto a scegliere tra i supervisori dell’associazione. Se un af desiderasse lavorare con un analista che non è parte di tale lista, può fare domanda al Comitato di formazione. Il Comitato studierà la domanda in questione; se l’analista proposto è riconosciuto nella comunità analitica, proviene da una formazione freudiana-lacaniana e abbraccia lo spirito della formazione dell’associazione, gli si proporrà di entrare nella lista dei supervisori di Après-Coup. In questa maniera, la lista dei supervisori rispetta la predisposizione transferale dell’af e, al contempo, estende il legame tra analisti nella formazione. SGUARDO SULLA STORIA 165 dai vari istituti di traning nulla abbia a che vedere con la trasmissione dell’atto della cura; di fatto, tali presentazioni si limitano a esibire le teorie degli analisti che le redigono e a essere banalmente indicative delle loro posizioni sintomatiche. Non a caso, qualsiasi approfondita riflessione sulla clinica analitica sospende tal genere di défilé performativi. D’altro canto, resta la questione, difficile, della possibilità stessa di trasmettere qualcosa del passo logico che cadenza un momento della cura, estrapolandolo dalla realtà transferale di cui è, appunto, un effetto in atto. Come restituire l’originalità di una creazione quando ne vengono sottratte le condizioni – uniche, puntuali, irripetibili? Perché ciò avvenga, è forse necessario che l’analista che ne dà una testimonianza sia ancora preso dagli effetti di tale atto, dalla meraviglia che ne ha accompagnato la produzione inedita – e sia così in grado di fare un “passo di trasmissione”, come si potrebbe dire di un passo di danza. Sappiamo bene quanto sia cruciale la dimensione della meraviglia nel corso dell’atto analitico. Ne parliamo spesso dal lato dell’analizzante, dal momento che cadenza il riconoscimento delle formazioni dell’inconscio, il manifestarsi del soggetto dell’inconscio nella relazione transferale. Ma è importante riflettere anche sulla meraviglia dal lato dell’analista; se il desiderio d’analista si fonda sulla posta in gioco dell’inconscio, ciò non toglie che l’emergere degli effetti di tale posta non smetta di sorprendere. Acconsentire alla sorpresa è l’elemento portante della formazione. Non a caso l’ascolto analitico è attenzione ugualmente sospesa, gleichschewebende Aufmerksamkeit, dove qualsiasi sapere precostituito è posto, appunto, tra parentesi. Il programma di formazione di Après-Coup prevede che un supervisore dell’associazione possa presentare il lavoro svolto con un af a un Council, Council formato ad hoc per tale occasione – che comprende quattro analisti dell’associazione e un af.12 Ma tale presentazione (Presentation to the Council by the Supervisor) ha un carattere particolare. Il supervisore dovrà trasmettere al Council qualcosa di specifico della sua esperienza dell’atto; dovrà trasmettere ciò che ha appreso dell’atto analitico nel lavoro con tale analizzante, che cosa ha appreso di 12 Un af altro, evidentemente, da colui il cui lavoro viene menzionato. Gli analisti e l’af che costituiranno il Council sono scelti dall’af il cui lavoro viene presentato dal supervisore. 166 PAOLA MIELI nuovo, di unico, in tale trasmissione. Una testimonianza sulla trasmissione che vuol essere trasmissione essa stessa. E il Council si esprimerà al riguardo – affermativamente se si dà trasmissione. Questo dispositivo, in corso da qualche anno, si è rivelato fecondo. L’esperienza della presentazione è spesso occasione di sorpresa: la sorpresa di vedere una testimonianza produrre degli effetti in atto, nell’ascolto dei diversi membri del Council e nel loro transfert di lavoro. Quel che in molti casi diviene esperienza inedita e comunque esperienza che rilancia una riflessione sull’etica analitica e sulla trasmissione. Dal punto di vista del supervisore, il challenge della trasmissione del lavoro di supervisione diviene puntuazione che annoda analisi in intensione e analisi in estensione e ribadisce la posizione analizzante dell’analista – quel che sottolinea la formazione come permanente. Dal punto di vista dell’associazione, il dispositivo consente di spostare l’enfasi, reale e immaginaria, da un giudizio di valore sul lavoro svolto dall’af al riconoscimento di una posizione analitica in atto, che si riconosce tale se si dà trasmissione. Contemporaneamente, il dispositivo testimonia del fatto che la formazione dell’af il cui lavoro viene presentato e riconosciuto è avanzata nel suo rapporto alla clinica.13 Per completare il Formation Program di Après-Coup è necessario che due supervisori dell’associazione con cui l’af ha lavorato, in maniera completamente indipendente l’uno dall’altro, ne presentino il lavoro clinico a due Council distinti, che si esprimeranno separatamente e in momenti diversi. La risposta affermativa di tali Council siglerà una puntuazione nella formazione: la fine del programma di formazione e la continuazione della formazione permanente. La fine del programma di formazione non è una nominazione: non si danno certificati d’analista (alla maniera di tutti – tutti – gli istituti di formazione esistenti negli Stati Uniti). Se richiesta, si darà lettera di conferma del completamento del programma di formazione. L’associazione assume la responsabilità della qualità di una formazione di fronte al legame sociale; ma la nominazione è un affare che concerne l’analista come tale, analista che si garantisce “de soi même et de quelques autres”. Diciamo che la nominazione fa parte della tâche analy13 L’interesse del dispositivo è confermato dal fatto che vi sono analisti e supervisori che domandano una presentazione indipendentemente dalla volontà o necessità di ottenere un completamento del Formation Program. SGUARDO SULLA STORIA 167 sante. L’associazione potrà favorire il legame tra analisti necessario perché l’analista incontri “d’autres”, questi altri necessari a sostenere la propria posizione d’analista. Inutile ritornare in questa sede su tale fondamentale questione, che sola garantisce, per usare appunto tale parola, una psicoanalisi degna di tal nome – e che distingue la psicoanalisi da qualsiasi disciplina o “professione”, e la avvicina al dominio dell’arte. Al punto in cui siamo, pensiamo che la distinzione tra fine del Formation Program di Après-Coup e nominazione sia un punto essenziale anche per la vita della nostra associazione. La storia delle associazioni psicoanalitiche ci ha mostrato gli effetti devastanti delle voglie di garanzia e d’appartenenza; il rischio ne è tanto più grande quanto il numero dei partecipanti di una associazione è ristretto. Tendenza centripeta e prossimità risultano dannose per la sopravvivenza del discorso analitico, per la sua trasmissione. C’è chi oggi, tra noi, è interessato all’esperienza di testimonianza propria alla passe. Per questa ragione, la passe è diventata un terreno di studio nei nostri lavori degli ultimi anni. In linea con la disseminazione dei legami di lavoro caratteristica della nostra tradizione, stiamo oggi cominciando a esplorare la possibilità di mettere in atto una passe tra associazioni, quel che consentirebbe un’estensione del legame tra analisti e un decentramento favorevole alla trasmissione. Abbiamo inaugurato l’anno passato un lavoro in questa direzione con i membri de la lettre lacanienne di Parigi e della Escuela Sigmund Freud di Rosario. Un passo nuovo, in corso, nella nostra formazione. Recensioni Cosa resta del padre? di Massimo Recalcati (Raffaello Cortina Editore, Milano 2011) Nelle pagine che seguono pubblichiamo alcuni interventi relativi alle presentazioni del libro Cosa resta del padre? che si sono svolte a Bologna con l’intervento del sociologo Federico Chicchi e a Milano con gli interventi dello psicoanalista Giovanni Mierolo e del filosofo Silvano Petrosino. Silvano Petrosino Milano, 8 aprile 2011* Sono grato di essere qui. Vorrei cercare di dire perché bisogna essere grati nei confronti di un libro come questo. Penso che la grande menzogna, almeno in termini filosofici, storicamente sia sempre la stessa. Nel nostro secolo come in quello precedente – ma forse è sempre stato così – la grande menzogna riguarda l’idea di uomo, è relativa al concetto di soggetto. Su questo vorrei insistere. La menzogna non riguarda per esempio Dio, il tema della verità o quello della giustizia. Dove maggiormente si instaura menzogna e inganno è in relazione all’umano, diciamo intorno alla concezione del soggetto. Spesso circolano delle caricature del soggetto, circolano delle maschere, delle menzogne. L’uomo s’inganna su di sé, se c’è un punto d’inganno radicale è su di sé. Certo, poi si dice che il problema è Dio o il male o che è colpa dell’altro. Chiaramente in questa affermazione si profila un compito enorme: esiste o è esistito un uomo all’altezza dell’essere umano? È il grande tema di cui parla Nietzsche nella Genealogia della morale quando dice “noi uomini della scienza siamo ignoti a noi stessi”. Quando poi egli vuole indicare il punto, il cuore della morale, lo indica nell’unico modo giusto: ossia, come diventare se stessi? Ritroviamo la stessa questione nell’indicazione della chiamata di Abramo che è la chiamata a uscire dalla propria terra, cioè a uscire dalla caricatura che egli ha di se stesso per giungere alla terra promessa ossia, in definitiva, per giungere a se stesso. Il problema è anche questo: dato che pensare è una delle cose che possiamo fare con eccellenza, esiste un uomo che quando pensa non trasformi il proprio pensiero in un trastullo? Penso che storicamente si incontrano, per fortuna, uomini all’altezza dell’essere umano. E di solito non si tratta di uomini eccellenti. Vi sono testimoni dell’essere umano? Ci sono, s’incontrano, in ogni secolo e in ogni luogo, in ogni momento. Esistono uomini che rispetto all’essere umano non ingannano se stessi e gli altri. In termini biblici sarebbero i Giusti, coloro che non fanno del pensiero un trastullo o, per usare un’altra bellissima espressione di Nietzsche, che non diventano “avvocati di se stessi”. Ho sempre pensato che esistono, in un certo senso, due grandi ambiti dove, in qualche modo, si cerca o si fa di tutto per non tradire: si tratta della dimensione del religioso e della dimensione dell’arte. Tra mille tradimenti, il religioso e l’arte sono dei 172 LETTERa luoghi in cui si combatte o si cerca di combattere contro un inganno su di sé, contro un inganno sull’uomo. Ripeto sempre che in questo, noi del Novecento, siamo stati aiutati perché abbiamo avuto un’aggiunta in più che si chiama psicoanalisi. La psicoanalisi – tra mille tradimenti, inganni, menzogne, deviazioni – rappresenta un punto di verità sul soggetto. Si può discutere intorno a quale psicoanalisi, ma di fatto la psicoanalisi in quanto tale oggi è da difendere. O per lo meno resta qualcuno che la difende come i giapponesi nella foresta che continuano a sparare e a difendersi. Oggettivamente la psicoanalisi è un punto di verità e di non menzogna sull’umano e in questo senso è assolutamente da difendere, non fosse altro che per un problema di verità. Non so se riesco a essere chiaro su questo: si tratta di un punto di verità che va al di là delle tesi sostenute. Ora però vorrei tentare di giustificare che cosa unisce la sfera della religiosità o dell’atteggiamento religioso – che distinguo dalla religione – con un atteggiamento estetico e artistico. Non è un caso, tra l’altro, che Recalcati in un suo precedente lavoro, Il miracolo della forma (Bruno Mondadori, Milano 2007), si sia occupato di arte. Questi due termini, il religioso e l’arte, secondo me definiscono gli ambiti di una concezione non caricaturale dell’uomo. Sono termini oltretutto che rinviano al tema enorme della dipendenza. In una pagina Recalcati lo esprime benissimo, quando riferendosi all’insegnamento decisivo dell’ultimo Sartre, ripreso poi da Lacan, scrive: “Non esiste soggetto che si sia fatto da sé, non esiste autosufficienza, l’uomo non è un ens causa sui” (Cosa resta del padre?, p. 16). Proprio da questa notazione sorge l’atteggiamento religioso: l’uomo religioso innanzi tutto vive il senso della dipendenza, non può prescinderne. Rispetto per esempio a una società come la nostra, pensiamo al tema della pubblicità. È una questione enorme. La nostra è una società dove il delirio arriva alla pubblicità, quindi vuol dire che è arrivato al livello della carne, degli abiti, dei comportamenti, delle abitudini. Il tema della dipendenza rimane di grande importanza. Penso per esempio che nel Novecento chi l’abbia rilevato prima di tutti sia stata la psicoanalisi. Anche altri lo hanno rilevato, certamente, ma la psicoanalisi lo ha fatto con forza. Un secondo punto riguarda il tema della nascita. È un tema stratosferico e solo i militanti del non pensiero possono non vederlo. Si tratta del nascere due volte: questo è basilare, costituisce l’ABC, viene prima delle aste. Non si nasce uomini: lo si diventa. Di fronte a questo tema, per esempio, Zapatero ha sbandato quando ha consentito, in termini giuridici e anagrafici, di togliere la parola padre e madre a favore di una parola indifferenziata come genitori. Impressionante! La parola padre e madre implica affetti, presuppone un riconoscimento, il tradimento e molto altro. Vogliamo toglierla e sostituirla con la parola generica di genitori? Allora bisognerebbe togliere anche la parola figlio, altra grande parola. Non è vero che siamo tutti figli: a mio avviso lo dobbiamo diventare. E sappiamo che alcuni di noi non lo RECENSIONI diventeranno. Alcuni di noi non diventeranno uomini, alcuni diventeranno uomini a 15 anni, altri a 35 e c’è qualcuno che neanche a 74 anni ci riuscirà. Si nasce sempre due volte, si è chiamati sempre a rinascere. Se la prima nascita è quella del sangue e del godimento, la seconda è quella umana e simbolica del desiderio. “Si tratta di sperimentare” scrive Recalcati “tutta l’insufficienza della prima per poter accedere alla seconda. Si tratta di morire in quella del sangue per vivere in quella del simbolo e del desiderio” (Cosa resta del padre?, p. 19). Voi sapete che una delle preghiere più costanti del testo biblico è: “liberaci dal sangue”, che di solito viene interpretata nel senso di liberarci dalla pulsione di uccidere. Ma questa è una lettura parziale. Liberaci dal sangue significa soprattutto: liberaci da una concezione dell’eredità o della discendenza fondata sul sangue. Si nasce sempre due volte. Questo bisognerebbe dirlo nelle scuole elementari, ai bambini. E infatti c’è chi lo dice, però bisognerebbe anche saperlo leggere, nelle fiabe per esempio. Mi sembra che questo tema lo ritroviamo nel cuore del mondo delle favole. In Cappuccetto Rosso, per esempio. O in Pinocchio: favola grandiosa che mostra come il problema riguarda sia Geppetto, che da falegname deve diventare padre, sia Pinocchio che da burattino deve diventare figlio. Un’avventura grandiosa, dove sbandano tutti e due, e dove solo alla fine ce la fanno insieme. L’altra grande parola di difesa dell’umano è la parola etica. Anche qui spesso viene stravolta. Mi ricordo di un corso di Julien Greimas, gran- 173 de linguista, che negli anni settanta tenne un corso intitolandolo Etica ed etichetta. Quando si parla di etica ormai si parla di un’etichetta, ossia di una schifezza. Non è questa l’etica. Ormai l’etica è una cosa da depressione, infatti l’hanno resa una parola indicibile. Invece in un testo come questo risulta dicibile. Questo libro, insieme ad altri, permette di riascoltare la parola etica. Permette di riascoltarla perché la situa in un punto fondamentale: nella testimonianza. Del resto la giustizia, la singolarità, non ha nulla a che fare con il diritto o con la legge nel senso dell’universale. Nel nostro secolo questa difesa dell’etica è venuta sostanzialmente dalla psicoanalisi. Penso che ciò derivi dal fatto che la psicoanalisi non sia tanto una teoria quanto una pratica clinica. E che quindi, avendo a che fare con la sofferenza del singolo ti porta, se proprio non sei un ottuso, ad abbandonare inevitabilmente gli schemi universali. La sofferenza è sempre individuale: è quello lì che sta male. Una testimonianza, la vera testimonianza, è sempre un fatto etico. Può essere vera anche se testimonia il falso perché la testimonianza riguarda come il soggetto si rapporta a se stesso. È il coinvolgimento del soggetto in un’avventura. L’altra parola cruciale, dopo dipendenza, rinascita, etica, è la parola fede. “Non si tratta” scrive Recalcati “di testimonianze esemplari, perché una testimonianza non ha nulla di esemplare, non vuole essere un buon esempio; si tratta di un atto singolare che mostra che quel che resta del padre è custodia del mistero della vita e della morte, è 174 LETTERa la responsabilità dell’eredità e della trasmissione, è la generatività del desiderio come nuda fede” (Cosa resta del padre?, p. 23). Ci tengo a soffermarmi su questo tema della “nuda fede”. È chiaro, lo sanno tutti: non si vive un istante senza fede, è impossibile. La fede è quel minimo fatto che fa sì che io abbia fede, che tizio non mi dia improvvisamente un ceffone oppure, voi la chiamereste paranoia, sarebbe per esempio se cominciassi a pensare che questo edificio possa crollare. Non si può vivere un istante senza fede. Tuttavia, ecco il punto, il tema della fede qui viene declinato come “nuda” fede. Mi sembra di intuire questo elemento: sarebbe come se Recalcati tentasse – e questo è il punto di maggiore forza che coincide con il punto di maggiore precarietà – di individuare una struttura formale di una parousia senza ousia, come diceva una bella espressione riferita a Heidegger da un suo studioso. Vale a dire si tratterebbe di individuare una struttura formale che per renderla tenibile e solida deve essere tuttavia svuotata da qualsiasi contenuto. Il contenuto che cosa sarebbe? Sarebbe la religione rispetto alla religiosità, sarebbe l’estetismo rispetto all’arte. Si tratterebbe di un pericolo in quanto la religione rappresenterebbe il luogo di menzogna rispetto al religioso. In altri termini: nel momento in cui io nomino o determino, lì la questione cade, lì ci sarebbe inganno. In un certo senso è vero. A tal proposito è questo il motivo per cui nell’Esodo (capitolo 3) troviamo il passo famosissimo in cui Mosè chiede il nome a Dio e questi non glielo rivela. È quel passo in cui Mosè gli chiede “chi sei?” e Dio risponde “Io sono colui che sono”. In realtà la traduzione potrebbe essere “Io sono colui che sarò”. Tradurre con “sono colui che sono” punta all’essere. Invece “sono colui che sarò” mi pare una traduzione più interessante, ossia: ciò che sono lo dimostrerò all’interno di un’alleanza con te. È un rinvio al tema della storia, del coinvolgimento. A me piace anche un’altra interpretazione – chiedo perdono – che è mia: “io sono colui che sono” nella forma dei “fatti miei”. Conoscete la definizione di Lacan secondo cui il desiderio è implicato essenzialmente nel fantasma, non tanto nella Cosa o nell’oggetto. A me sembra che Recalcati, percependo con chiarezza un certo rischio relativo al tema della fede, continui a parlare di “nuda fede”. Si potrebbe dire che non sempre Dio è un idolo, che è colui che chiude. È possibile un’esperienza religiosa, una vita religiosa che non costituisca una chiusura. Questa ipotesi è possibile: sarebbe la figura di Cristo. Si tratta della figura di un uomo che è nato e che è morto e che, se anche non è Dio, probabilmente incarna l’idea di un soggetto non narcisistico e non idolatrico. Sarebbe questa l’identità di questo Dio, del Nazareno: non narcisistico e non idolatrico. Concludo sottolineando che il punto che per me costituisce un grande passo avanti proposto da questo libro è quando Recalcati afferma che “la funzione paterna non può esaurirsi nell’esercizio dell’interdizione” e più avanti che ”per evitare il fallimento della trasmissione è necessario che RECENSIONI l’interdizione si integri alla donazione” (Cosa resta del padre?, p. 71). È un punto decisivo: per diventare figli bisogna fare l’esperienza del dono. C’è un riferimento importante in Heidegger nei capitoli iniziali di Essere e tempo quando definisce cosa è la coscienza. La definisce in termini di debito: “la coscienza è sapersi in debito”. E prosegue dicendo – Heidegger è un altro che ha difeso il soggetto – che “questo sapersi in debito è vissuto dal soggetto come un gravame, come un peso”. È un’affermazione grandiosa: dice che la coscienza è fare esperienza di sé nella forma dello Schuld, della colpa. Il soggetto è in colpa ma al tempo stesso in debito. Quando leggevo questi passi pensavo: ma un soggetto che vive il senso di colpa e vive il senso del debito com’è che poi agisce? E concludevo pensando che agisse secondo la logica della distruzione. Per evitare questo è necessario fare l’esperienza del “ritardo d’essere” come dono, non so se è chiaro. Il ritardo d’essere Heidegger lo chiama “il trovarsi gettati nell’essere” che si attua appunto nella forma del ritardo, della passività. Lui parla della colpa e del debito ma la stessa dinamica del ritardo riguarda l’esperienza del dono. Quando si accoglie un dono si è in ritardo, il donatario è passivo. Ecco, questo mi sembra un punto di svolta. Recalcati dice che il tema del dono è una delle parti più ispirate e originali della riflessione di Lacan. Io non lo so, quindi sono contento che l’abbia detto lui e gli sono molto riconoscente di questo. La trascrizione dell’intervento non è stata rivista dall’autore. * 175 Giovanni Mierolo Milano, 8 aprile 2011 “È giusto insegnare ai nostri figli a pregare, se Dio è morto? Mi pongo questo problema come padre prima che come psicoanalista. Ma cosa significa pregare? Significa alimentare nei nostri figli l’illusione in un Dio che non esiste più, in un mondo dietro al mondo? Significa, come pensa una certa cultura del disincanto, alimentare un rituale superstizioso? Oppure insegnare a pregare è un modo per custodire l’evocazione di un Altro che non si può ridurre alla supponenza del nostro sapere, è un modo per preservare il non tutto, per educare all’insufficienza, all’apertura al mistero, all’incontro con l’impossibile da dire? Un mio caro collega non sopporta di sentirmi fare questi discorsi. È convinto che la psicoanalisi sia un abbandono senza ritorno di ogni forma di preghiera. […] Anche io, come il mio amico, non so pregare, sebbene mi sia stato insegnato con cura da mia madre. La preghiera rivolta a Dio appartiene al tempo dell’esistenza di Dio. Eppure ho deciso, con il consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli che è ancora possibile pregare perché la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. E i miei figli, d’altronde, non me la pongono. Quando me lo chiedono, pratichiamo insieme quello che resta della 176 LETTERa preghiera: preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inassimilabilità dell’Altro. Amen, così sia, sia così.” Queste righe iniziali del testo di Massimo Recalcati racchiudono bene il senso delle pagine che verranno dopo. Contengono una traccia essenziale del suo lavoro. Il punto da cui partiamo – quello della crisi della funzione paterna, della sua evaporazione – sembra essere irrimediabilmente datato ma, come dice bene l’autore, al tempo stesso non possiamo non considerarlo irrimediabilmente urgente, una questione da cui non possiamo sottrarci. Si tratta di un problema che è evidente da tempo: il padre sembra non potere più rispondere sul senso della vita e della morte, non può aiutarci a distinguere il bene dal male. Quale bussola ci resta, quale orientamento? Cosa resta del padre, dunque? Per provare a rispondere, Recalcati si domanda innanzitutto che cosa significa essere padre, che cosa significa svolgere questa funzione, soprattutto oggi. Se in queste righe troviamo la traccia di una risposta possibile, la prima considerazione che emerge riguarda il fatto che qualsiasi soluzione non può essere cercata per la via dell’universale. In queste righe c’è un padre. Non emerge una configurazione ideale dell’essere padre. Non c’è una ricerca di modelli. È questo, piuttosto, il problema che si pone per la giustizia, quando si trova a dover decidere sull’adeguatezza di un genitore, per esempio in caso di adozione o di affidamento. Lì è come se si trattasse di misurare lo scarto tra un padre reale – o dei genitori reali – e un modello di genitori. Tra le loro risposte – a domande che a volte si ripetono – e le risposte che starebbero a rappresentare una sorta di adeguatezza. Non ci sono modelli e il padre non può rispondere al mistero della vita e della morte. Non ci sono risposte universali, altrimenti vivremmo in un mondo pieno di senso, perfettamente ordinato. Certo, si può pensare che la vita risponda a un principio che la spieghi. Ma quando già Freud nel 1920 parlava di un al di là del principio di piacere, al di là di un principio guida, metteva in evidenza i limiti di qualsiasi tentativo di spiegazione, che non abbia lacune. Se non accettiamo questi limiti ci troveremmo più o meno nelle condizioni del padre di Schreber, nelle condizioni di un padre che riteneva di sapere perfettamente come funziona il mondo e come allevare un figlio. Sappiamo che tutto questo per suo figlio non costituì una risorsa né lo aiutò a evitare il delirio. Per un padre la perfezione non è certo una virtù necessaria, anzi il libro tiene proprio a sottolineare che la perfezione non è una virtù. Forse anche per questo il Dio padre ha evitato di assolvere in prima persona alla sua funzione, affidandola a un Giuseppe qualunque, più zoppicante di lui. Se non si può sapere tutto, se non si può avere tutto, se dobbiamo rinunciare all’idea di un tutto, evidentemente non possiamo trovare risposte che funzionino per tutti, allo stesso modo. Cos’è un padre non si spiega per la via dell’universale, perché se accettiamo l’idea che non RECENSIONI c’è la risposta, esistono solo risposte singolari, contingenti all’impossibile che ci riguarda. Ma allora dove sta scritto cos’è un padre? Quando, a mio tempo, mi sono posto questa domanda ho pensato che nelle Scritture ci fosse una traccia, un’indicazione che consentisse di orientarmi. Sto parlando di alcune tra le pagine più belle, ma anche più enigmatiche della Genesi. Le pagine in cui si parla di Abramo e della promessa del Signore, di renderlo padre di tutti i credenti. Recalcati non parla di questo episodio, accenna ad altri momenti, però il suo libro, sotto traccia, è come se desse la possibilità di renderlo più comprensibile. In un primo tempo il Signore dice ad Abramo: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle […] Tale sarà la tua discendenza” (Gen, 15, 5). E poi ricompare e dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò” (Gen, 22, 2). È incredibile, è paradossale. Ma fino a un certo punto. Perché il Signore pone Abramo esattamente di fronte all’impossibile. Viene messo in evidenza che non si può avere tutto, che si può diventare padre solo per la via della rinuncia, della perdita di quanto si ha di più caro. Abramo constata anche di non avere risposte di fronte alla richiesta del Signore. Non c’è un sapere che le contenga, non sono scritte. È di fronte a una inconsistenza logica nel sistema del sapere, che non può contenere tutto. Per questo possiamo capire che un padre si autorizzi a dire: è così perché è così. Perché – scrive 177 Recalcati – “un padre non è una figura retorica del dialogo tra pari, che alimenta lo scorrere del senso, ma è innanzitutto una incarnazione singolare del limite del senso. Quel che resta del padre è la responsabilità di introdurre un atto che sappia mettere fine al senso”. Dunque, è così perché è così. Perché non si può risalire al senso ultimo, che spieghi. Se non c’è questo senso, se una decisione non può essere guidata da un sapere, Abramo è solo nel compiere il suo atto. È solo, di fronte alla questione che gli pone il Signore. Che lo rimanda alla sua questione. Al suo desiderio. E il desiderio si confronta sempre con l’impossibile, con il limite. Per questo Abramo deve affrontare in solitudine il suo cammino verso il monte. Ed è questa solitudine a indicarci che la via da percorrere non può essere che singolare. Siamo di fronte – per dirla con Derrida – a una “responsabilità assoluta” dunque a una singolarità insostituibile. In questo senso la decisione di Abramo, la decisione che prende nei confronti di suo figlio non ha nulla a che fare con il modello. Tuttavia l’episodio mette bene in evidenza a che cosa è chiamato un padre. L’episodio di Abramo rimane – almeno per me – più comprensibile anche perché ripropone un tema cruciale del testo di Recalcati. Ripropone il legame, la connessione, tra il desiderio e la legge. In effetti, possiamo spiegarci la funzione simbolica della paternità solo se la pensiamo capace di tenere uniti desiderio e legge. Precisamente a questo è chiamato Abramo. A coniugare il suo desiderio, ciò che dà senso alla sua 178 LETTERa vita, con una legge che lo trascende, che ne costituisce il limite. E la legge che ritroviamo nelle scritture mostra un’affinità essenziale con quella legge che la psicoanalisi definisce la legge della castrazione simbolica. La legge che indica e segna il nostro impossibile. Ma perché non superarla, perché non farne a meno, perché non fare a meno del padre? In fondo – dice Recalcati – la legge paterna potrebbe costituire il modo per restaurare una morale repressiva, patriarcale, che con la complicità degli psicoanalisti si contrappone al desiderio, per adattarlo alla realtà. Dunque perché una legge, perché un padre? Non è solo questione di coesistenza, di regolamentare la convivenza civile. Stiamo parlando di una legge che solo immaginariamente possiamo ricondurre al padre. È una legge di cui il padre si fa semplicemente portavoce. È la legge che abita il linguaggio e – in quanto tale – ci rende la possibilità di esistere come esseri umani. Recalcati lo chiarisce molto bene facendo riferimento a un altro episodio dell’Antico Testamento in cui la chiamata di Dio distoglie Abramo dalla sua famiglia: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre” (Gen, 12, 1). Anche in questo passaggio della Genesi ritorna la necessità di una perdita, di una distanza, di una interdizione del godimento, del godimento che non conosce mancanze, che rifiuta l’esperienza del limite. Ma, come mette in evidenza Recalcati, in ebraico questo ”vattene” significa anche “vai verso te stesso”. C’è quindi una convergenza tra il distacco, la perdita e il ritro- vamento. Come a dire che c’è vita umana a condizione che non ci sia più l’integrità dell’uno, a condizione che si accetti quel taglio che ci rende mancanti. Un padre deve mostrare la possibilità di accogliere questa incompiutezza, deve farsene garante. Nelle righe iniziali il padre è un uomo che si inginocchia, di fronte al mistero della vita e della morte, di fronte all’impossibile. È un uomo che sente la necessità di preservare lo spazio del mistero, rendendolo uno spazio sacro. Ma c’è un inciso, Recalcati dice così: “ho deciso, con il consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli […]”. Ha preso una decisione, ma non si basta, non è autoreferenziale, i figli non sono cosa sua. In questo caso il padre è un uomo che trova nella donna che ama la sua realizzazione e anche il suo limite. In queste righe si coglie anche per quale via può avvenire una trasmissione, che non avviene attraverso le grandi opere, ma attraverso una radicale umanizzazione. Di questo si tratta nell’ultima parte – molto bella – del libro, che prende come riferimento tre storie di padri, tre testimonianze. Una di queste storie è tratta dal romanzo di Philip Roth, Patrimonio, che consente a Recalcati di riprendere il tema dell’eredità, della trasmissione paterna. Nella scena cruciale del romanzo, il figlio – che è lo stesso Philip Roth – sta cercando suo padre che ha ospitato nella casa di campagna. Il padre ha un tumore al cervello e sta sopportando stoicamente le analisi e le cure. Ma, quando il figlio lo ritrova, lo scopre in una prospettiva completamente nuova. Sta uscendo dalla doccia, nudo, comple- RECENSIONI tamente smarrito: “mi sono smerdato addosso” dice. La merda è dappertutto. Talmente infiltrata in ogni angolo, in ogni fessura del bagno che è impossibile per il figlio ripulirla tutta. E in questo momento non c’è nausea, né compassione, né pena, ma la sensazione infallibile che non avrebbe potuto chiedere nient’altro di più per se stesso. Era quello il patrimonio più prezioso che ereditava, più di ogni altra cosa che avrebbe immaginato: la testimonianza della castrazione, della mancanza, come ultimo dono del padre. Ora, se il padre della testimonianza – che secondo Recalcati è ciò che resta dal venir meno della funzione normativa del padre – è colui che sa offrire una soluzione possibile, una soluzione incarnata della possibilità di unire il desiderio e la legge, è anche vero che la testimonianza più preziosa si profila nell’orizzonte della morte. Si profila nel tempo in cui il padre è posto di fronte al suo limite assoluto, è posto di fronte all’impensabile della fine della vita. Non è un caso che chi abbia accompagnato un proprio genitore fino a questo punto si trovi a parlarne – paradossalmente – come uno dei momenti più intensi della propria vita, come uno dei doni più preziosi. Tuttavia, il padre che è in grado di mantenere un’alleanza tra il desiderio e la legge, il padre che gioca la sua partita con la morte, mi sembra che metta in evidenza, in modo stridente, il suo contraltare, il suo rovescio: la versione ipermoderna del padre. Nella sua versione ipermoderna il padre non sembra in grado di unire il desiderio e la legge, 179 anzi si rapporta a un godimento che non conosce limiti, che non conosce il senso del pudore e della vergogna. Il pudore e la vergogna non costituiscono più un limite alla propria necessità dichiarata di godimento. Quando Lacan in un suo seminario dice “non c’è più vergogna”, è come se mettesse in relazione l’evaporazione del padre con il venir meno del senso della vergogna. Non c’è civiltà, non c’è legame se non c’è vergogna. Perché la vergogna è l’effetto dell’incontro con l’Altro, è il segnale della sua esistenza. Ora, i rivoluzionari che ostentano le mutande, supponendo che la rivoluzione consista nella distruzione sistematica dei fondamenti simbolici su cui – faticosamente – si prova a costituire una comunità, quali forme di legame potranno promuovere? La rivoluzione che preconizzano questi padri, sostanzialmente votata a svilire e ridicolizzare i limiti costituiti dal pudore, dalla vergogna, potrà offrire un mondo diverso da quello fantasticato dal marchese de Sade? Su un altro piano, il padre che è capace di incontrare la morte trova il suo contraltare in un padre che ci appare come il frutto più evidente e più deteriore del biopotere. Come ha messo in evidenza Foucault, l’interesse del biopotere per la vita ha fatto venire meno la possibilità di riconoscere nella morte un potere più grande, di confrontarci con il nostro umano limite. Ora, questi padri che si ritengono immortali, che hanno fatto del corpo una protesi, quale forma di testimonianza potranno trasmettere, quale rapporto con la legge potranno incarnare? 180 LETTERa Federico Chicchi Bologna, 30 marzo 2011 Cosa resta del padre? è un libro sul desiderio, o meglio ancora, sul diritto di desiderare un proprio desiderio. In questo senso, e secondo la prospettiva lacaniana, è un libro che propone uno sguardo etico, profondamente etico. Nel testo vi è infatti la presentazione di una decisiva pars construens, vi è una risposta che tenta di aprire un varco nell’ambito della crisi della metafora paterna, vi è un tentativo di guardare al di là del disagio perverso, e non più nevrotico, della civiltà contemporanea. Questo libro, è meglio chiarirlo subito, non è affatto un libro nostalgico che cerca nel mitizzato passato edipico del padre padrone la soluzione della crisi attuale del desiderio. Tutt’altro. Parte piuttosto dal rifiuto di una soluzione di questo genere. Non c’è infatti un genere del paterno, la funzione paterna non si inscrive in un genere (chiunque può svolgere questa funzione). L’idea freudiana del padre maschile come presenza indispensabile per interdire il rapporto incestuoso madrefiglio non è accolta da Lacan fino in fondo. E Recalcati sulla scorta del suo insegnamento ne sviluppa le premesse nel senso lacaniano della sua varité (una verità che varia) e nel senso della sua plurale e molteplice qualità intrinseca. Il padre è colui che testimonia l’esistenza della parola e che mostra come quest’ultima conduca al desiderio, alla relazione con l’altro. Come articola con estrema chiarezza Recalcati, la funzione paterna non può mai esaurirsi nella pratica dell’interdizione. Per potersi dare effetto soggetto occorre che nel gesto paterno ci sia il divieto all’accesso del godimento uniano, al godimento assoluto e mortifero della Cosa materna, ma occorre anche che questo gesto concreto si accompagni e si articoli con il campo dell’amore. Nel marzo del 1960 Lacan – in Discorso ai cattolici – denunciava “un’impotenza crescente dell’uomo a raggiungere il proprio desiderio”. Il primo effetto che conseguentemente si produce è una dimensione di angoscia che limita sempre di più quella che si può chiamare l’umana “potenzialità inventiva”. Il rischio che invade il contemporaneo è cioè quello della consegna dell’uomo a una mortifera e ammorbante ripetizione del godimento. Sempre Lacan sottolineava come “il desiderio non fosse una cosa semplice”. Esso è tutt’altro che riducibile alla pulsione. Esso ha a che fare con il linguaggio e quindi con la presenza dell’Altro. Il desiderio è il desiderio dell’Altro. L’esperienza del desiderio è dunque esperienza di alterità, è sempre rapporto, vocazione a un incontro con l’Altro. Cosa resta del padre? è un libro che, proprio per questo, seduce il lettore. Seduce perché, come afferma Baudrillard, la seduzione contrariamente alla fascinazione in ogni caso suppone una relazione, un rapporto a due; quale che ne sia il carattere la seduzione esiste sempre all’interno di uno scambio duale. Contrariamente a un deserto che ci affascina autisticamente perché ogni profondità è dissolta e tutto è mobile e superficiale, questo libro RECENSIONI ci incatena alla retorica della sua seduzione, alle sue limpide e chiare stratificazioni culturali, al suo impudico guardare al necessario rapporto con l’Altro. Il rapporto con l’Altro è un rapporto storicamente situato, quindi dinamico. È un discorso che ci parla. L’evaporazione del padre è quindi anche il risultato delle trasformazioni strutturali della produzione del valore capitalistico e delle tensioni che ne hanno stimolato la costituzione postfordista. Il discorso del capitalista riflette la natura del discorso del potere contemporaneo, il potere sul soggetto che sostituisce alla Legge del padre (padrone), quella che caratterizzava la modernità, il trionfo dell’oggettogadget. Tale configurazione del potere, più suadente e materno, che disciplinare e paterno, caratteristico della postmodernità, si istruisce attraverso la rimozione della divisione costitutiva del soggetto; con l’eclissare la sua mancanza costitutiva, con il cancellare il suo rapporto con l’Altro da sé; nel cancellare, in altre parole, l’esistenza dell’inconscio/ desiderio del soggetto. “Il discorso del capitalista fornisce in questa prospettiva il matema fondamentale dell’epoca contemporanea: la divisione del soggetto si eclissa attraverso un cortocircuito costantemente possibile e ripetibile all’infinito con l’oggetto del godimento” (Massimo Recalcati, L’omogeneo e il suo rovescio, FrancoAngeli, Milano 2005, p. 44). Ciò che tale retorica impone è dunque il mercato, e la sua modalità di funzionamento basata sull’illusorio piano della interindividuale scambiabilità orizzontale, come articola- 181 zione significante della soggettività. Il mercato impone in questo senso una nuova grammatica del sé, che ha come sintassi generale la mercificazione del vivente (e il consumo come nuova forma di produzione generalizzata) e il farsi antropologicamente egemone, nella produzione (distruzione) della socialità, di quella che Marx molto efficacemente chiamava la fictio juris del contratto. Scrive Foucault parlando di homo oeconomicus neoliberale: “Il consumatore, nella misura in cui consuma, è un produttore. E che cosa produce? Produce, molto semplicemente, la propria soddisfazione” (Michel Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 187). L’effondrement symbolique, il collasso del simbolico, in cui versa il contemporaneo e la rovinosa caduta del padre edipico, come suo operatore principale, non sono però solo forieri di sventura, di disagio, di nuovi sintomi, di consumazione mortifera. Introducono un’ambivalenza interna alla forma storica del legame sociale. Ci parlano anche di nuove opportunità al cuore della profonda intimità che ogni esperienza singolare condivide con la sua consegna sociale. L’evaporazione del padre, della sua peggior insegna ideale, apre al contingente e ci chiama eticamente alla produzione di nuove istituzioni. Questo per evitare che il godimento dissipativo dell’oggetto-gadget non saturi di morte i nostri corpi o, forse ancor peggio, perché non si sollevi nuovamente l’ombra di un nuovo Führer a voler riparare l’eccesso inaudito di tossicità prodotto dal “discorso del capitalista”. 182 LETTERa Massimo Recalcati ci invita a rifiutare l’alterazione superegoica della funzione paterna ma al contempo a non abdicare alla sua funzione di separazione dall’eccesso di prossimità della Cosa del godimento. Ci sarebbe in tal senso un altro tempo dell’Edipo da custodire, che riguarda la trasmissione del testimone del desiderio. Questa trasmissione avviene al di là di ogni modello educativo e/o al di là di ogni riferimento all’universale. Avviene appunto per testimonianza: atto singolare unico e particolare che tuttavia mostra e mette in comune la possibilità del desiderare. Volendo qui solo evocare strumentalmente Derrida, potremmo dire che testimoniare significa che non è mai possibile produrre risposte ultime all’interno di una verificazione o dimostrazione, nel senso di esercitare in tal modo un controllo completo su un sapere. Ciò che è possibile fare è mostrare, attraverso un atto, che una soluzione all’enigma della vita e della morte è possibile solo nella sua radicale immanenza ed estemporaneità. Ma testimoniare, in tal senso, è allora sempre anche un inventare, un rinnovare, un reinterpretare la vita che, nello stupore che il gesto introduce/produce, custodisce un vuoto che, per citare Recalcati, è “condizione della trasmissione del desiderio”. Non dobbiamo lasciare che sia il sintomo la nostra parola, la nostra lucciola, la nostra avanguardia politica, il tangibile della nostra resistenza al pieno di oggetti. Dobbiamo immaginare e fare nuove istituzioni: articolare e liberare spazi, mettere in forma le eccedenze di socialità, rian- nodare legge e desiderio dentro un progetto che sia generativo di nuove differenze, differenze da condividere e da mettere in comune. E disse di Erri De Luca, (Feltrinelli, Milano 2011) “Amo i piedi dei portatori. C’è un verso della scrittura sacra che comprendo meglio da quando ho visto i loro passi. Dice: “Come sono belli sopra i monti i piedi del portatore di notizia” (Isaia 52, 7). Devono essere belli perché la bellezza sta a contrappeso dello sforzo e lo riscatta. Riuscire a portare bene il carico assegnato, reggere il peso risparmiando energia: ecco lo stile.” Erri De Luca, Sulla traccia di Nives Mondadori, Milano 2005 Riporto questa citazione perché credo che senza queste poche parole non si capirebbero il Mosè di Erri De Luca e la mia profonda commozione di semplice lettore. La bellezza di questo testo sta nel suo procedere incerto eppure tenace. Il passo, il ricordo, la parola procurano, pagina dopo pagina, una sorta di vertigine al contrario. “Esiste in natura, oltre all’attrazione terrestre, un’attrazione opposta, da chiamare celeste”: è felice questa trovata espressiva dell’autore per dire, forse, che la spinta dell’umano viene dal basso, dai piedi, in salita. Protagonista di questa narrazione mitica è Mosè, “un nocciolo spolpato, più che un uomo”. Il suo corpo a corpo da arrampicato RECENSIONI scalzo lo lascia esausto, la cima posta a sbarramento lo riconsegna, dopo un lungo vagabondaggio, in affanno di respiro, di memoria e di parola. Mosè balbetta, le labbra sono “un solco arato e secco”, “con un rumore di gola” si interroga, e domanda: “chi sono?”, lo chiede al fratello, ma deve averlo chiesto più e più volte a un altro e in un altro luogo, senza ricevere risposta. Ecco un primo insegnamento silenzioso e fecondo: “chiedere ad un altro la principale notizia su se stesso”. Siamo un destino, un nome o un’identità? Su questo si tace, resta il primo piano di un vuoto, solo l’attesa e un lungo travaglio, ostinato e singolare, si incaricherà di una possibile risposta. Dall’altra parte sembra non esserci nessuno, eppure si insiste nel domandare. “Le domande sono più belle delle risposte, durano oltre di loro, girano ancora e a me viene voglia di fare un’altra corsa…” scrive De Luca in Altre prove di risposta. È così che talune domande diventano “solo” occasioni di risposta, tentativi narrativi e prove di scrittura. Mosè, primo alpinista, è in cima al Sinai, raccoglie un sovraccarico di parole e paradossalmente la sua parola è balbuziente. Il suo ritorno all’accampamento è zoppicante dopo l’incontro con la più potente manifestazione della divinità. Non solo la parola, ma anche il ricordo ne esce compromesso. Abbiamo qui un secondo insegnamento prezioso per la clinica psicoanalitica. Mosè vuole ricordare, cerca appigli, gradini per risalire all’indietro, è troppo confuso l’accaduto, l’incontro. “Come confuse 183 sono nel mio corpo salita e discesa”: l’autore fa dire a Mosè di questa sua sorprendente amnesia. “Lassù gli era successo un secondo atto di nascita” e non ne portava dentro alcuna memoria. E invece “si è uomini per questo, senza memoria un uomo è un precipizio”. Con un rigo illuminante, l’autore lascia intravedere quanto essenziale sia, per le generazioni, il compito della trasmissione: ricevere e lasciar detto. Sembra di vederlo, a muscoli tesi, cercare un ricordo, ma chi “è stremato non ricorda, ha invece colpi di visione”. Sembra aprirsi uno squarcio, come in un sonno, come in un risveglio brusco, fragoroso e inatteso. È lì che appare una calligrafia impressa a dita di fuoco sulla parete ovest, ad alta quota si stende una scrittura scolpita, forgiata e fabbricata con attrezzi da lavoro. Videro la voce farsi sulla roccia, “culmine di esperienza visionaria”, si avverte l’intensità fisica di questa esperienza, tutti i sensi ne vengono colpiti. È interessante osservare la risposta della comunità chiamata a raccolta, sorpresa e attraversata nei sensi da quella visione. “Faremo e ascolteremo”: il verbo fare e il verbo ascoltare sono impegno per le generazioni a venire, per la costruzione del futuro e di una umanità possibile. Ma di quale umanità ci parla De Luca? Si tratta di un’umanità che intraprende un’esperienza di libertà, che “non è un elenco di diritti e comodità, ma azzardo d’inoltrarsi in territorio vuoto”. Una libertà che “chiede una disciplina adatta allo sbaraglio”. Come non avvertire l’estrema attualità di queste paro- 184 LETTERa le di fronte alle chiusure odierne di confini e di visioni? Riecheggiano in questi versi sospesi e affidati a un popolo spaesato e intimidito i temi, frequentati da molti di noi, del legame e della comunità. Mosè chiede al fratello di essere lasciato solo a ricordare, ma questi non lo asseconda: “Non è un bene per un uomo essere per se stesso perché fa un atto di comparazione con la divinità che sta da sola” gli dice, ricordandogli che possono esistere “solitudini giuste” ma non “vocazioni all’isolamento” perché “ad un uomo occorre una comunità”. Segue poi l’elenco delle leggi, i Dieci Comandamenti che non sono, come si potrebbe pensare, “provvedimenti disciplinari”. Di questa parte mi colpisce il rigo nove che recita: “non risponderai del tuo compagno da testimone di inganno”. Questo rigo, sostiene Erri De Luca, stabilisce “la responsabilità di uno nei confronti degli altri” poiché “una sua trasgressione li diminuiva tutti, una sua lealtà li rafforzava”. Uno spazio, quello della responsabilità, che forse siamo ancora impegnati a costruire. A noi il compito certamente arduo come lo fu già per Mosè di “afferrare una frase laddove gli altri intendono solo un chiasso” e di frequentare i luoghi di nascita come “stranieri”. Bellissima e impegnativa, quasi una promessa da mantenere, la chiusura del libro la riporto tra un virgolettato che accarezza come vento del deserto questi suoi ultimi versi. In fondo, si tratta di rendere un omaggio. “L’ebraismo è stato per me pista carovaniera di consonanti accompagnate sopra e sotto il rigo da uno svolazzamento di vocali. Tra un rigo e l’altro, nello spazio bianco, governa il vento. È la voce riunita di tutti quelli che hanno aggiunto in margine un commento. La scrittura ebraica finisce con: vaiàal, e salì. Invece, io scendo qui.” Pino Pitasi Voci smarrite. Godimento femminile e sublimazione di Laura Pigozzi (Antigone Edizioni, Torino 2011) L’intento principale di questo libro – dichiara l’autrice – è quello di “esplorare la voce nel suo valore di legame sociale, cioè di capacità inventiva e sublimatoria”. La coniugazione del tema della sublimazione con quello della voce apre numerosi ambiti di riflessione teorica che qui si intrecciano e si rincorrono: il corpo, la pulsione, la sessualità femminile, il godimento, l’oggetto e la Cosa, la voce della madre. Laura Pigozzi con questo suo secondo lavoro (dopo A nuda voce, Antigone Edizioni, Torino 2008) ritorna sulla complessità strutturale della voce partendo da una constatazione: “La voce è una pulsione già destinata alla sublimazione”. Un’altra formulazione: “Voce e sublimazione nascono insieme, dall’armonizzazione di un grido primitivo”. Perché l’istanza della voce interroga così radicalmente la parola del soggetto? Perché la voce è parte del corpo, è un frammento della sua materialità, partecipa alla sua vita pulsionale. La voce può manifestarsi RECENSIONI come parola, rumore, canto, respiro, silenzio, gioco, urlo, grido. Ma rimane, ci ricorda Lacan, oggetto a: oggetto imprendibile e inoggettivabile ma pur sempre oggetto. La sua efficacia è straordinaria. Non solo. Implica una paradossale riflessività: il soggetto umano parlando è costretto a udirsi, ad ascoltare la propria voce, che gli piaccia o no. E ancora: mentre la parola può tacere, l’udito non ha un muscolo in grado di difendersi da ciò che ode. Si può smettere di parlare, ma non si può smettere di udire. Questa doppia implicazione del corpo rinvia a una doppia perdita, perché si confronta con un Altro sdoppiato. La vicenda di Orfeo, “emblema del canto e dell’amore senza corpo”, o il dramma di Antigone, “intreccio tra idealizzazione e perversione”, secondo l’autrice rappresentano tentativi estremi di staccare la voce dal corpo. Quasi si trattasse di addomesticare la sessualità, di neutralizzare il suo tratto sublime. Un punto nodale su cui l’autrice insiste è che “la sublimazione non è l’idealizzazione, non maschera il negativo, ma in un certo senso lo usa, in parte lo elabora, anche se non lo addomestica mai”. La tesi centrale del libro in definitiva è di postulare “un legame preciso, stretto, implicito tra il valore etico del gesto vocale e il dispositivo psichico della sublimazione”. Gli stessi significanti del titolo del libro, voci smarrite, suggeriscono quanto il soggetto sia strutturalmente esposto al rischio dello smarrimento e dell’erranza qualora venga negato il gesto della sublimazione intesa come “capacità di produrre arte e pensiero 185 attraverso un’invenzione soggettiva che crea legame”. Ancora più radicalmente l’autrice afferma: “Perché una qualunque sublimazione avvenga, occorre che esista ancora un soggetto degno di questo nome, un soggetto dell’inconscio ancora in contatto con un mondo intimo: proprio quel soggetto che appare oggi in dissolvenza o, meglio, anestetizzato”. Di sicuro uno dei punti forti di questo lavoro è il riuscire a immergersi in questioni cliniche, e al contempo, quasi si trattasse di un doppio registro, di declinare la stessa questione in termini di analisi sociale e di critica della contemporaneità. Il filo della voce e quello della soggettività hanno in comune la stessa stoffa: “ogni voce è la partitura timbrica di una storia individuale e unica: se la voce umana smarrisce l’espressività, è segno che l’uomo si sta smarrendo”. Mai quanto nella nostra epoca, sostiene l’autrice, “il soggetto sta abdicando alla propria voce e, conseguentemente, al posto, unico, che dovrebbe abitare nel mondo: come ha insegnato Lacan, ognuno parla da un preciso posto simbolico, e, oggi che i posti sono diventati interscambiabili, l’uomo sembra proprio non avere più voce in capitolo”. Diversi paragrafi del libro sono dedicati alla problematica del godimento femminile, in particolare al “godimento Altro” implicato dalla voce e dal canto che “si fa arte sul bordo dell’abisso”. Qui il discorso esplora la questione della mistica, della sessualità (anche maschile), del materno, del sublime che rimane teoricamente ben distinto dalla 186 LETTERa sublimazione. È un materiale di riflessione ampio e dalle implicazioni rilevanti. Un altro punto esplorato è il tema dell’anestesia, intesa innanzi tutto come il contrario dell’estetica e della possibilità del sentire. “L’ottundimento dei sensi chiede giochi sempre più forti per stimolare una sensibilità esanime che ha divorziato dal pensiero svuotandosi di senso.” Se dunque “il godimento immediato è strutturalmente antisublimatorio, cioè schiacciato sul consumo immediato dell’oggetto”, la clinica dell’anestesia la riscontriamo “nell’immiserimento del tessuto sociale, nella proceduralità dell’esistenza, nel congelamento della vita psichica del soggetto: segnali che fanno emergere nuove declinazioni di alcune patologie conosciute come le anoressie, le bulimie, le dipendenze, le psicosi bianche, gli attacchi di panico, le depressioni, le frigidità”. Ma non è solo l’obbligo del godimento a provocare anestesia, è in gioco anche quel principio della perfezione che risulta “parente stretto della paralisi, della freddezza, dell’impassibilità”. Sullo sfondo appare, come uno spettro, la figura dell’automa, sempre più attuale grazie alle promesse della biotecnologia. Accanto all’automa che uniforma e omologa le differenze, il capitolo Dal seno al suono si sofferma sul godimento divorante della madre: è una modalità sintomatica che infantilizza il soggetto e lo costringe a una forma di godimento fusionale che sbarra ogni possibilità di sublimazione. Quest’ultima è “una risposta originale alla voce dell’Altro, ma la possibilità di creazione viene meno se la voce del padre è vuota, nullificata dal vociferio materno quando infantilizza anche il padre, soprattutto se egli stesso non ha risolto la sua posizione di figlio”. Nell’era del godimento globale e del consumo necessario “fatichiamo a divenire esseri parlanti, con la bocca aperta, sempre un po’ troppo piena, articoliamo male un discorso adulto in un’epoca che ci vuole, tutti, balbettanti”. Giancarlo Ricci L’eros della distruzione. Seminario sul male (il melangolo, Genova 2011) La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas (Jaca Book, Milano 2010) di Silvano Petrosino conversazione raccolta da Giancarlo Ricci “Il problema del male a mio avviso s’inserisce in una problematica più ampia che è il soggetto umano” afferma Silvano Petrosino, autore, insieme al teologo Sergio Ubbiali, di un testo, L’eros della distruzione, che raccoglie i lavori di un seminario sul male. Come esergo al libro troviamo un passo di Dostoevskij tratto da Memorie dal sottosuolo: “L’uomo ama creare e aprirsi nuove strade, ma allora perché egli ama così appassionatamente anche la distruzione e il caos?”. Domanda di grande attualità, che ripro- RECENSIONI pone in modo enigmatico e radicale l’irriducibile dualità pulsionale e in particolare l’invenzione freudiana della pulsione di morte. Petrosino, filosofo, docente di Filosofia morale alla Cattolica di Milano e di Piacenza, noto come uno dei più importanti studiosi del pensiero di Derrida e di Lévinas, di recente ha pubblicato La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas, in cui ripercorre criticamente il compiacimento con cui la modernità ha celebrato quella che chiama l’“era delle fini”, della morte di Dio, della verità, del soggetto. Proprio nell’ultima parte di questo libro ci sorprende un capitolo di grande interesse dal titolo Le apocalissi del soggetto: distruggere e accogliere. In breve si tratta del racconto filosofico di come il soggetto “si trova esposto a un’alterità che non può mai evitare e al tempo stesso neppure mai dominare”. Riprendendo l’elaborazione di Jacques Lacan intorno all’aggressività egli conclude che “non bisogna esitare nel riconoscere nella parabola che porta il soggetto all’autodistruzione il segno del compimento della pulsione narcisistica dell’ego”. Il tema della distruzione è un filo conduttore che attraversa i due libri di Petrosino. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande. – Come mai la tua riflessione intorno al male parte da una frase così estrema di Dostoevskij? giancarlo ricci – La mia riflessione sul paradosso enunciato da questo grande scrittore secondo cui l’uomo “ama tremendamente silvano petrosino 187 il male e la sofferenza” è il tentativo di una riflessione sull’umano che non sia un’immagine caricaturale dell’umano. La banalizzazione del male si attua con la sua riduzione a un gesto di follia o di debolezza. Il male in realtà è una possibilità data al soggetto, è una sua scelta. Questo, per molti aspetti è inquietante, però è fondamentale. Kant si chiede quale uomo farebbe del male a se stesso. Del resto mi sembrerebbe una concezione ingenua affermare che l’uomo a volte fa il male ma che in realtà cerca il bene. g.r. – La modernità non è forse lacerata, assediata, da un’idea di male assoluto? s.p. – Il male assoluto di certo è una forma di male spaventoso come l’Olocausto o il Gulag. Intravedo tuttavia il pericolo di un’enfatizzazione del male assoluto: ovvero da una parte si ipostatizza il male assoluto, dall’altra si mette in ombra il soggetto. Questo comporta il rischio di una cancellazione della soggettività. Più che all’esistenza effettiva di un male assoluto direi, come afferma Jankélévitch, che ci sono i malvagi, ci sono coloro che compiono il male: sono uomini. La scommessa è che il male possa diventare un’opportunità per il soggetto umano. E costantemente dobbiamo chiederci: che cosa cerca il soggetto facendo il male, perché sceglie di distruggere? Qui è importante notare che il male s’intreccia in modo inquietante con il tema della giustizia: il soggetto distrugge per rincominciare tutto da capo, per non avere più un debito originario, quel 188 LETTERa debito che Gesù interpreterà invece come dono. Il soggetto distrugge per imporsi come all’origine di se stesso. Nel mio lavoro La scena umana distinguo l’inizio dall’origine, non sono la stessa cosa. Il distruggere umano, quel distruggere “di fronte al quale persino gli animali feroci recedono inorriditi”, come afferma Lacan, non è nient’altro che un tentativo di risolvere l’origine nell’inizio. – Si tratta dunque del grande tema dell’altro, della dipendenza, del narcisismo… un’ubriacatura, non ti fermi più, devi proseguire, devi arrivare fino al punto più alto. È un po’ come accade con la torre di Babele: arrivati in cima, gli uomini provavano nausea a guardare giù. Non si accorgevano che le vertigini le provi nei confronti dell’altro uomo, ancor prima che nei confronti di Dio. Se non ci si accorge di questo ti diventa insopportabile l’altro e quindi lo distruggi. g.r. s.p. – Infatti intorno a una soggettività narcisistica si raccoglie sempre una scena di distruzione. L’io è “un’organizzazione passionale”, affermava Lacan. In effetti l’io è sempre un’organizzazione passionale che si organizza o nella forma del distruttore nei confronti dell’altro, oppure, come nel caso di Gesù, nella forma del dono, in definitiva dell’amore. Il tema del dono sembra oggi diventare qualcosa di raro. Vige la politica del sospetto verso l’altro. Per esempio i media, che sono fatti da uomini, perseguono la passione per il distruggere. Direi che ciò accade, in un certo senso, perché il distruggere appare come una strada più facile rispetto all’accogliere. Chi non accoglie distrugge! È come un bambino che vede il castello di sabbia di un altro bambino: glielo distruggo. Ma domani potrà sorgere sempre un castello più bello. Posso distruggere anche quello… ma allora il male non avrà mai fine. Con il male non si scherza, ha una forza di attrazione. I media cercano di essere neutrali ma in realtà è pericolosissimo. È Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica di Martha Nussbaum (il Mulino, Bologna 2011) La necessità di un discorso rispetto alla realtà del suo presente può senza dubbio costituire di per sé una qualità di un libro. È il caso di Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, in cui Martha Nussbaum affronta un fenomeno attuale di grande importanza: la perdita di prestigio, a livello mondiale, della cultura umanistica a causa dell’egemonia della cultura della crescita economica, che richiede in modo sempre più esclusivo competenze utili alle esigenze di competitività di un mercato globalizzato. Anche in Italia, nonostante gli annosi problemi che affliggono l’insegnamento e la ricerca nel campo delle scienze, e la sopravvivenza di un sistema d’istruzione secondaria ancora formalmente fondato sul primato degli studi classici, la realtà e la gravità del fenomeno sono di facile riscontro. “Questa crisi ci sta di fronte, ma RECENSIONI non l’abbiamo ancora guardata in faccia” (p. 12), ammonisce la filosofa statunitense, è una “crisi silenziosa” (p. 21) che il suo saggio contribuisce a denunciare, secondo un indirizzo che è soprattutto politico: Nussbaum vede in questa crisi il rischio di una regressione della qualità della vita democratica. La profondità dell’appello si arricchisce di un impegno di pensiero più che trentennale (La Fragilità del bene, il Mulino, Bologna 2011, 1a ed. 1986; Coltivare l’umanità, Carocci, Roma 2006, 1a ed. 1997; Nascondere l’umanità, Carocci, Roma 2007 ecc.), di cui Non per profitto è una delle realizzazioni più recenti. Ma il libro non è solo un saggio di denuncia, vi si svolge un ragionamento che “va inteso come un invito ad agire” (p. 135). Si tratta fondamentalmente della formazione di un cittadino “attivo critico, informato ed empatico” (p. 153), in possesso di tre capacità essenziali: “la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali […] e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro” (p. 22). Nella spiegazione dei metodi proposti per formare un tale cittadino, Nussbaum fa riferimento in modo massiccio ad alcuni concetti della psicoanalisi winnicottiana. Si avvertono inoltre, nell’immagine del cittadino reale presente sullo sfondo della trattazione, vaghi ma significativi punti di contatto con le riflessioni di alcuni psicoanalisti contemporanei (Soler, Melman, Recalcati ecc.); di grande interesse è poi la relazione della “pedagogia socratica”, fondamento teorico di tutta la riflessione 189 di Nussbaum sui metodi pedagogici, con due problemi di grande importanza anche per la psicoanalisi: quello dell’autorità e del controllo, del maestro e del padrone nelle pratiche d’insegnamento e di potere. Nel momento in cui i valori che strutturano l’edificio millenario della cultura umanistica nichilisticamente s’indeboliscono, sorge l’interrogativo riguardo alla loro vera ragione d’esistenza. Così, il ricorso a una tradizione socratica può spiegarsi al meglio come tentativo di fare fronte con un metodo apedagogico, quello appunto di Socrate, alla trasmissione di ciò che, nella parte più propria di quell’edificio, è refrattario a ogni insegnamento. Ma questo metodo non può realizzare appieno i suoi fini, poiché, come Lacan mostra nel Seminario viii, esso non riesce a sottrarsi fino in fondo al discorso pedagogico. L’uso psicologistico che Nussbaum fa di Winnicott mostra ancora meglio il limite di questo tentativo. Limite pedagogico, effetto del limite politico. Limite disciplinare e dell’oggetto d’indagine, certo, ma che non mette al riparo dalla scelta. Rispondere alla domanda anonimamente instillata dalla crisi: “A che cosa serve la cultura umanistica?” con un discorso sulla sua utilità per il bene della democrazia, riporta a concezioni non inedite, come le loro contraddizioni. La più ovvia è quella che riporta lo schema utilitaristico alla fonte stessa da cui si rigenera il discorso del capitalista. Uno schema che non si rivela solo nello statuto politico del discorso di Nussbaum, ma nello stile stesso delle sue creazioni concettuali. Per esempio, l’idea della 190 LETTERa necessità di una formazione multiculturale come deterrente contro l’intolleranza (cap. 5), o quella di un’educazione al “pensiero simpatetico” e all’altruismo (capp. 3 e 6) come uniche alternative al narcisismo, presentano uno stile di ragionamento imperniato su una visione rigida della causalità e della psiche. Si respira così un senso di segreto ottimismo nella parola di Nussbaum, dovuto certamente a questa credenza fondamentale: la possibilità di educare. La sua denuncia può così esiliare la dimensione più autentica della crisi della cultura umanistica, la quale riguarda principalmente l’esistenza, e solo in un secondo tempo la cittadinanza. Si può rimediare alla vaghezza del concetto di “cultura umanistica”, dicendo che qualsiasi forma autentica che la anima e la rinnova è un’attestazione inestimabile di desiderio. Certo la democrazia è utile al desiderio, ma il desiderio non è al suo servizio, non serve la sua causa. Fa molto di più: esistendo al di là di essa le restituisce il proprio sfuggente dell’umano. Se la crisi della cultura umanistica è crisi di desiderio, essa riguarda l’educazione solo in forma riflessa. In nessuna disciplina umanistica esistono infatti competenze autentiche che siano assimilabili senza che la brace del desiderio le accenda. Il metodo socratico di Nussbaum sfiora questa brace ma non vi arde, si arresta al livello del bisogno e delle capacità, “dell’interazione politicamente corretta” (p. 73), al dovere di dire il bene, senza aprirsi al suo al di là. Alberto Russo Il cigno nero, regia di Darren Aronofsky (Usa, 2010) Nina Sayers è una giovane talentuosa ballerina dalla tecnica impeccabile, dedita alla ricerca della perfezione. Fa parte del corpo di ballo di una importate compagnia di New York. Abita in casa con l’opprimente madre Erica, che le dedica attenzioni morbose e la tratta come una bambina, facendola vivere in una cameretta la cui porta non può essere chiusa a chiave, arredata come la stanza di una bambina piuttosto che come quella di una donna di ventotto anni e che le si rivolge nominandola costantemente con l’appellativo “la mia bambina”. Tuttavia, la vita di Nina sembra scorrere su dei binari precisi: pur manifestando dei sintomi come i disturbi alimentari e una modalità autolesionistica di graffiarsi la schiena, Nina sembra sostenersi in questa identificazione alla “bambina perfetta”. La mattina svolge scrupolosamente i propri esercizi quotidiani, consuma una colazione sana e nutriente per poi recarsi alle prove di danza – dove mantiene un profilo basso – nelle file del corpo di ballo da cui ammira la prima ballerina Beth. Una notte, Nina sogna di essere la prima ballerina di una tenebrosa e inquietante versione de Il lago dei cigni. Il giorno seguente nella metropolitana nota una ragazza, di cui non riesce a scorgere il volto, che compie dei gesti simili ai suoi in modo quasi speculare. E quando il direttore artistico RECENSIONI Thomas Leroy annuncia la propria intenzione di sostituire Beth e di allestire come spettacolo di apertura della nuova stagione teatrale Il lago dei cigni, Nina spera che il suo sogno diventi realtà. È disposta a tutto pur di ottenere il ruolo di prima ballerina e questo le viene assegnato da Leroy, malgrado questi si dichiari convinto che la ragazza sia perfetta nel ruolo del Cigno Bianco, ma troppo poco passionale ed erotica per quello del Cigno Nero. Nina, infatti, è il perfetto Cigno Bianco – Odette, candido, puro, fragile; ma il ruolo di protagonista de Il lago dei cigni di Cajkovskij è duplice, impone l’interpretazione del Cigno Nero – Odile. Nell’opera classica Odette e Odile si somigliano, è su questa dicotomia che si gioca il personaggio femminile, che evidenzia l’antitesi: amor sacro e amor profano, Luce e Tenebra, Eros e Thanatos. Nascosta dietro il classico atteggiamento del cigno si cela il personaggio di una donna eroina e vittima per eccellenza, Odette, Cigno Bianco dalle braccia che fremono nervose e struggenti e dal capo reclinato. Diversa è Odile, Cigno Nero, che rappresenta la seduzione, l’inganno, la tentazione. Per Nina, la nomina a “regina del balletto”, a première étoile al posto di Beth, la chiamata a impersonare anche il Cigno Nero rivela qualcosa di insostenibile e fa vacillare la sua identificazione primaria nella “bambina perfetta”. Il soggetto chiamato a ricoprire un ruolo di primo livello vacilla e si verificano quei fenomeni di frangia che presagiscono lo scatenamento psicotico della giovane ballerina. Da quel momento in poi lo 191 sfaldamento del simbolico e la presa dell’immaginario avranno il sopravvento centrandosi in particolare sulla rivalità che soggiace alla trama stessa dell’opera. Infatti, come l’opera mette in risalto la dualità e la rivalità del Cigno Bianco e del Cigno Nero, così la trama del film, che si snoda attraverso lo svolgimento delle prove in vista della prima rappresentazione del balletto, mette in luce l’instaurarsi di un rapporto ambiguo di dualità e rivalità, di amore e di odio tra Nina e Lily, la ragazza che aveva visto nella metropolitana e che è una nuova ballerina della compagnia con cui emerge un dualismo analogo a quello che separa e unisce il Cigno Bianco e il Cigno Nero. Tutto il film si gioca quindi sul soggetto del Doppelgänger, un argomento spesso trattato in letteratura e nel cinema, ma sempre intrigante. Il doppio inteso come il “gemello maligno”, la parte oscura nascosta a noi stessi; ovvero il perturbante di Freud, l’Unheimlich, quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Il tema del perturbante viene reso in modo egregio dalla regia attraverso l’uso prevalente degli specchi, elementi sempre presenti nella maggioranza delle scene: si passa immediatamente dagli specchi di casa, utili tanto per fare gli esercizi di riscaldamento quanto per scoprire alcuni graffi sul dorso di Nina, al volto riflesso quasi come un’ombra nel finestrino della metropolitana, dagli specchi di differente grandezza del camerino a quelli enormi della sala prova, dai 192 LETTERa vetri smerigliati di un pub fino al tripudio degli specchi contrapposti che riproducono all’infinito l’immagine riflessa di Nina che, in seguito allo scatenamento, si scosta dall’immagine al di qua dello specchio. Le ragioni alla base di questa scelta sono evidenti: l’immagine riflessa trasmette in modo chiaro e diretto il rapporto del soggetto con la propria immagine speculare. La funzione dello specchio è, secondo la psicoanalisi, quella di produrre uno sdoppiamento nel soggetto per cui il soggetto può oggettivarsi nell’immagine speculare, nell’altro da sé, al fine di potersi riconoscere in una alterità che lo identifica, in un’esteriorità che lo riflette. La relazione immaginaria con l’altro speculare è emblematica della clinica della paranoia in cui il soggetto si colloca non solo come oggetto privilegiato dell’attenzione, positiva o negativa, dell’altro, ma nella quale può divenire parte attiva, assumere iniziative anche molto attive, fino al passaggio all’atto, contro l’altro o anche contro se stesso. Dunque nel film si presentano in modo sempre più assiduo momenti di scatenamento, in cui Nina, che non ha ancora completato la costruzione del suo delirio, allucina voci (i quadri della madre le parlano e le ripetono il significante padrone de “la mia bambina”), immagini (come la scena del rapporto tra Thomas e Lily) e trasformazioni corporee (il suo corpo riflesso allo specchio si trasforma lentamente in quello di un cigno): in questo momento avviene lo scatenamento; fenomeni non strutturati emergono proprio nel passaggio tra la realtà e la nuova realtà. Emerge l’angoscia della protagonista, non tanto perché non comprende che cosa sta succedendo, ma perché non riesce a darvi un senso. L’angoscia sparisce quando Nina riesce a dare una forma alle allucinazioni attraverso il delirio, che ha, dunque, una funzione riparatoria. Nella nuova realtà del delirio prima Lily diviene l’amica amata, l’altro speculare ideale da raggiungere (il Cigno Nero perfetto), e in un delirio erotomanico Nina allucina un rapporto omosessuale con l’amica. Ma successivamente, sentitasi presa in giro proprio dall’amica su questo punto, l’amore lascia posto all’odio, l’erotomania, al delirio di persecuzione e Lily diviene la persecutrice, colei che vuole prendere il suo posto sulla scena, come Nina sente di aver fatto con Beth. Lo scontro con l’altro speculare diviene inevitabile, Nina si scontra con Lily: è lo scontro tra Eros e Thanatos, tra il soggetto e il suo doppio, tra il je e il moi e in questo scontro il soggetto, Nina, tenta di espellere, rigettare da sé questo intruso, questo estraneo rivalizzante da cui si sente abitato. Questo scontro dunque è in realtà lo scontro con il perturbante che la abita, con quella parte oscura così intima e sconosciuta tale per cui nell’uccisione allucinata di Lily Nina in realtà ferisce a morte se stessa. Il finale de Il cigno nero, dove Nina muore sul palcoscenico, incarnando così la scena della morte del cigno fino alla fine, simboleggia anche il sacrificio e l’abnegazione che l’artista deve tributare all’Arte per raggiungere la perfezione. Laura Zancola Stampato nel mese di settembre 2011 per conto di et al. S.r.l. da Galli Thierry Stampa, Milano