Fulltext - Politecnico di Milano

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Politecnico di Milano
Università di Napoli “Federico II”
Università di Pavia
Università di Roma “La Sapienza”
Dottorato di Ricerca in Ingegneria Sanitaria
XV Ciclo
Coordinatore prof. Michele Giugliano
Politecnico di Milano
TRATTAMENTO DI SEDIMENTI MARINI CONTAMINATI
MEDIANTE SISTEMI BIOLOGICI IN FASE SEMISOLIDA
E DI PHYTOREMEDIATION
Dottorando
Relatore prof. ing. Francesco Pirozzi
Ing. Andrea Giordano
Dipartimento di Ingegneria Idraulica ed Ambientale
“Girolamo Ippolito”, Università di Napoli “Federico II”
Tutore
dott. Giuseppe Bortone
Dir. Amb. Regione Emilia Romagna
INDICE
pag.
Introduzione
1
I sedimenti contaminati
3
Generalità
3
1.1
Fonti inquinanti
6
1.2
Caratterizzazione dei metalli pesanti
8
1.3
Principali fattori che influenzano la mobilità dei metalli
12
1.4
Caratterizzazione degli inquinanti organici di maggior interesse
21
1.5
Principali fattori che influenzano la mobilità dei composti organici
27
Aspetti normativi
37
2.1
Normativa Italiana
37
2.2
Normativa Europea
44
Tecnologie di phytoremediation
49
Generalità
49
3.1
Interazione degli elementi metallici con la vegetazione
51
3.2
Fitostabilizzazione
52
3.3
Fitoaccumulazione
57
3.4
Rizodegradazione
65
3.5
Fitodegradazione
66
3.6
Fitovolatilizzazione
68
3.7
Evapotraspirazione
70
3.8
Valutazione dell’applicabilità della phytoremediation
71
3.9
Studi di trattabilità
76
Cap. 1
Cap. 2
Cap. 3
3.10 Applicazioni della phytoremediation a sedimenti contaminati
Cap. 4
78
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
83
Generalità
83
4.1
Degradazione aerobica
84
4.2
Degradazione anaerobica
90
4.3
Sistemi di trattamento in fase slurry
96
i
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
111
5.1
Generalità
111
5.2
Attività riguardanti i sistemi di trattamento in fase slurry
113
5.3
Attività riguardanti il sistema di trattamento di phytoremediation
131
Discussione dei risultati: Bioslurry reactor
137
Introduzione
137
6.1
Valutazione della richiesta chimica e biologica di ossigeno esercitata da slurry di sedimenti
138
6.2
Valutazione dell’applicabilità di un sistema di trattamento a bioslurry operante in modalità
semi-batch
143
6.3
Definizione di una tecnica DO-STAT per slurry di sedimenti
162
6.4
Valutazione delle efficienze di rimozione di IPA in reattore a bioslurry in scala pilota
192
Discussione dei risultati: Impianto di phytoremediation
195
Introduzione
195
7.1
Esecuzione di test su specie alofite
196
7.2
Monitoraggio impianto di phytoremediation
198
Conclusioni
227
Cap. 6
Cap. 7
ii
Introduzione
INTRODUZIONE
I sedimenti accumulati in zone costiere, porti, corsi d’acqua, laghi, ecc., sono il risultato
di processi fisici, chimici e biologici quali il dilavamento dei suoli, i depositi atmosferici,
l’erosione dei fondali o delle sponde dei corsi d’acqua. Le sostanze tossiche, spesso
presenti nei sedimenti, invece, derivano o da attività antropiche oppure sono a loro
volta riconducibili a cause naturali.
Negli ultimi anni le attività di studio sulle matrici solide contaminate hanno riguardato
principalmente i suoli; ai risultati ottenuti nel corso di questi stessi studi si sono anche
ispirate le, in verità poche, indagini sperimentali condotte sui sedimenti. Per quanto
abbastanza comprensibile, nell’operare tale scelta è necessario, tuttavia, tenere ben
presenti le differenze che intercorrono tra i suoli ed i sedimenti, dal momento che
questi ultimi:
•
sono dragati periodicamente;
•
sono caratterizzati da un più elevato tenore di umidità (si parla infatti anche di
fanghi di dragaggio);
•
hanno una distribuzione granulometrica caratterizzata da un’elevata frazione di
particelle fini;
•
sono spesso interessati da elevati livelli di contaminazione;
•
comportano indubbie difficoltà di smaltimento.
Infatti, l’elevato tenore di frazione fine favorisce l’adsorbimento delle sostanze tossiche,
poiché assicura la disponibilità di maggiori superfici specifiche, rendendo più
complesse le tecniche di trattamento. L’elevato livello di contaminazione, inoltre, rende
difficoltosa la scelta del sito di smaltimento per i consistenti rischi di alterazione delle
caratteristiche degli ecosistemi prossimi ai siti di posizionamento. Particolarmente
rilevanti risultano i livelli di contaminazione nei bacini portuali, lungo le fasce costiere
prospicienti le grandi aree industriali e nelle aree lagunari, spesso caratterizzati da
elevati tenori di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici), principalmente prodotti
dall’incompleta ossidazione dei combustibili fossili, e metalli pesanti.
In Italia, il problema dei sedimenti contaminati è stato affrontato, per la prima volta in
maniera organica, nel 1999, da parte del Ministero dell’Ambiente, che ha dato incarico
all’ENEA di avviare una serie di indagini sperimentali finalizzate alla definizione sia
1
Introduzione
delle ripercussioni indotte dai sedimenti sugli ambienti idrici che, soprattutto,
all’individuazione delle modalità più convenienti di dragaggio, smaltimento, trattamento
e, ove possibile, riutilizzo. Contestualmente, il Ministero ha avviato l’iter (non ancora
concluso) per l’emanazione di norme specifiche per i sedimenti contaminati, che
dovranno definire, da un lato gli standard di qualità (distinguendo il caso in cui si miri
alla sola bonifica da quello che prevede anche il loro riutilizzo) e, dall’altro, le
metodologie di intervento da adottare.
Per il trattamento dei sedimenti contaminati grande attenzione viene posta,
attualmente, ai sistemi cosiddetti di bioremediation, ai quali competono, rispetto ai
sistemi termici e chimico-fisici, costi più contenuti, seppur con efficienze di norma più
ridotte e tempi di rimozione più elevati.
In Italia le conseguenze connesse alla presenza di sedimenti contaminati si sono
avvertite in maniera drammatica soprattutto nell’area industriale di Porto Marghera,
ove, negli ultimi anni sono stati dragati circa 7,5 106 m3 di sedimenti di cui 1,5 106 m3
molto contaminati.
Obiettivo prioritario del lavoro è stato quindi quello di verificare le prestazioni di alcuni
sistemi di trattamento biologici per la rimozione di diversi inquinanti. In particolare,
l’attività sperimentale, condotta utilizzando i sedimenti dragati dai canali di Porto
Marghera (VE), è stata eseguita in parte presso i Laboratori dell’ENEA PROT IDR (già
Sezione Depurazione e Ciclo dell’Acqua), utilizzando bioreattori in fase semisolida in
scala di laboratorio e operanti in modalità semi-batch, per il trattamento di sedimenti
contaminati da IPA, ed in parte presso la piattaforma di inertizzazione dell’AMAV, in
località Fusina, Porto Marghera (VE) ove è stato realizzato un impianto per la
valutazione dell’applicabilità di tecnologie di phytoremediation.
La descrizione delle attività sperimentali ed i risultati ottenuti costituiscono, quindi, il
“cuore” del presente di tesi, che, nel dettaglio, è stato articolato secondo la sequenza
appresso riportata: nel primo capitolo vengono definiti i sedimenti contaminati e sono
riportati i meccanismi che regolano tra gli inquinanti e la matrice solida inerte; il
secondo capitolo fornisce una panoramica del quadro normativo, sia a livello europeo
che italiano, con riferimenti specifici al caso di
Porto Marghera; le tecnologie di
phytoremediation e i sistemi di trattamento in fase semisolida di norma utilizzate sono
descritte nel terzo e quarto capitolo; nel quinto capitolo vengono descritte le attività
sperimentali svolte; infine, nei capitoli sei e sette sono presentati e discussi i risultati
sperimentali, relativi rispettivamente al sistema di trattamento in fase semisolida ed
all’impianto di phytoremediation.
2
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Capitolo 1
I S E D I M E N T I C O N TA M I N AT I
Introduzione
I sedimenti sono costituiti da particelle di silt, argilla, sabbia ed altro, che sedimentano
naturalmente sul fondo dei corpi idrici naturali come laghi, fiumi e oceani, ovvero di
bacini artificiali, quali canali e porti.
Tali particelle hanno origini diverse potendo derivare sia da fenomeni di erosione del
suolo da parte degli agenti atmosferici ed idrici, che dalla decomposizione di organismi
animali e vegetali. In base alla loro dimensione caratteristica (d) sono così classificate
(Casagrande, sistema USCS):
argilla: d < 2 µm;
silt: 2 < d < 75 µm;
sabbia: d > 75 µm.
Concettualmente, i sedimenti possono essere considerati come una miscela
eterogenea di differenti particelle. Ciascuna particella può contenere molte componenti,
la cui composizione risulta essere strettamente correlata alle condizioni che ne hanno
determinato la formazione.
È impossibile elencare i composti che descrivono completamente la composizione dei
sedimenti, essendo molteplici i processi naturali di formazione; in generale, è possibile
indicare i costituenti principali.
Una particella di sedimento è generalmente composta da una frazione inorganica ed
una organica: i componenti inorganici sono principalmente silicati (argillosi e non
argillosi), carbonati, ossidi di ferro e manganese, fosfati e solfuri, ciascuno presente in
svariate forme chimiche e cristalline; i componenti organici includono organismi viventi,
composti di origine antropica e sostanza organica naturale, ovvero una miscela di
specie chimiche estremamente complessa e non caratterizzabile completamente.
Nonostante la composizione della sostanza organica naturale possa variare a seconda
del sito di prelievo, sono generalmente presenti proteine, peptidi, materiale umico e
fulvico.
3
Cap. 1
I sedimenti contaminati
I sedimenti possono interagire con la colonna d’acqua sovrastante rimuovendo e
rilasciando composti organici ed inorganici. In generale, la rimozione di un soluto da
una soluzione da parte della fase solida contigua prende il nome di adsorbimento.
L’EPA - Environmental Protection Agency - definisce i sedimenti contaminati come:
“Sedimenti acquatici che contengono sostanze chimiche che superano le misure
geochimiche e tossicologiche idonee, o i criteri di qualità dei sedimenti, o, altrimenti,
che sono considerati dannosi per la salute dell’uomo e per l’ambiente”.
Sempre secondo l’EPA, le classi di contaminanti che interessano i sedimenti sono
raggruppabili in cinque categorie:
•
nutrienti: composti del fosforo e dell’azoto;
•
bulk di sostanze organiche: idrocarburi che comprendono grassi ed oli;
•
idrocarburi
alogenati
e
organici
persistenti:
composti
chimici
di
difficile
degradazione come PCB (policlorobifenil) e DDT (pesticidi clorurati);
•
IPA: composti organici che comprendono prodotti e sottoprodotti del petrolio;
•
metalli e metalloidi: i più comuni sono ferro, manganese, piombo, mercurio, zinco,
cadmio, arsenico, selenio, rame, nichel e cromo.
L’operazione di scavo dei sedimenti dai porti, dalle vie di navigazione interne e dai
corpi idrici superficiali prende il nome di dragaggio.
In passato, le operazioni di dragaggio erano valutate solo attraverso considerazioni di
natura tecnico-economica, oggi invece l’alto grado di contaminazione dei sedimenti
rende impraticabile la gestione con tali approcci.
In particolare, la necessità di dragaggio può presentarsi nelle seguenti occasioni
(Gentilomo, 1999):
•
per mantenere le profondità navigabili di darsene o canali portuali (Dragaggi di
mantenimento);
•
per ampliare o approfondire le strutture che consentono la navigazione (Dragaggio
di investimento);
•
per cercare di risolvere il problema dell’inquinamento almeno all’interno delle zone
dragate ed eventualmente prevedere un piano di bonifica e trattamento per i
materiali scavati (Dragaggio di risanamento);
•
per trasferire sui litorali in erosione sabbie prelevate da depositi sottomarini
(Dragaggi per ripascimenti).
4
Cap. 1
I sedimenti contaminati
La matrice dei sedimenti contaminati presenta delle proprietà simili a quelle dei terreni
contaminati, ma le caratteristiche salienti sono peculiari e ne rendono problematico il
trattamento. Tra le proprietà principali si evidenziano:
•
elevato tenore d’umidità;
•
particelle con dimensioni eterogenee e prevalente presenza della componente fine;
•
difficoltà tecniche nei processi di smaltimento e trattamento;
•
elevato livello d’inquinamento.
Nel seguito vengono individuati le principali fonti di contaminazione dei sedimenti e,
quindi, illustrate le caratteristiche dei contaminanti più diffusamente riscontrabili.
5
Cap. 1
1.1
I sedimenti contaminati
Fonti inquinanti
Le cause di inquinamento dei fanghi di dragaggio sono da ricercare tra le immissioni
che interessano i corpi idrici ove giacciono i sedimenti. Tali immissioni sono dovute alle
attività antropiche di produzione e trasporto di beni di consumo e a quelle naturali (che
contribuiscono in modo irrilevante se paragonate alle prime). È possibile distinguere tre
differenti tipi di fonti di inquinamento: fonti puntuali, fonti non puntuali (o diffuse) e fonti
pelagiche.
Le sorgenti puntuali sono individuabili come uno specifico mezzo di trasporto, e
sversano in un unico punto; a questa categoria appartengono gli scarichi civili ed
industriali che direttamente trovano recapito nel ricettore. Quando gli scarichi sono
rilasciati nei corpi idrici si miscelano con le acque ivi presenti: una frazione di inquinanti
si solubilizza nella massa liquida o viene degradata per via chimica o per via biologica
mentre l’altra viene adsorbita sul materiale sospeso. Nelle zone di minore grado di
turbolenza si verifica un fenomeno di deposizione più significativo, con un maggiore
accumulo nei sedimenti.
Le sorgenti diffuse sono quelle per cui non è possibile individuare un singolo luogo di
scarico, esse comprendono l’agricoltura, il deposito atmosferico, le cave abbandonate
o inattive, le fonti urbane.
L’agricoltura è considerata in letteratura la principale fonte diffusa di pesticidi; questi
composti raggiungono i corpi idrici e, quindi, i sedimenti, attraverso fenomeni di
dilavamento delle superfici coltivate, infiltrazioni in falda, etc.. Anche se attualmente
l’uso dei pesticidi (DDT) è stato bandito per legge, il problema persiste, in quanto
queste sostanze permangono nell’ambiente per molto tempo, adsorbendosi sulle
particelle e bioaccumulandosi nei tessuti degli organismi viventi.
Il deposito atmosferico è, invece, considerato la principale sorgente diffusa di mercurio,
IPA e PCB nell’ambiente acquatico. Tali inquinanti derivano, infatti, dalla loro
immissione in atmosfera e successivo deposito al suolo o sugli specchi d’acqua. Il
mercurio deriva dalla pirolisi del carbone, dall’incenerimento dei rifiuti solidi urbani e
dall’uso di pitture; i PCB provengono dalle discariche di rifiuti pericolosi ed urbani e
dalla combustione dei rifiuti; gli IPA si originano nei processi incompleti di combustione
di petrolio e suoi derivati. Dai bilanci di massa effettuati nell’ambiente acquatico, il
deposito atmosferico contribuisce in modo significativo alla presenza di metalli in
6
Cap. 1
I sedimenti contaminati
questo comparto anche se il suo contributo è meno importante dell’apporto fluviale o di
quello dovuto alle acque di dilavamento. Infine, la presenza nei sedimenti di diossine e
furani è anch’essa in parte imputabile al deposito atmosferico.
Le fonti urbane si riferiscono ai contaminanti contenuti nelle acque di dilavamento delle
superfici urbane, in particolare sono presenti metalli, IPA, oli e grassi. Ovviamente
questa fonte è strettamente correlata al deposito atmosferico che, determinando la
deposizione delle sostanze al suolo, contribuisce ad apportare la quasi totalità della
concentrazione di inquinanti.
Le fonti pelagiche sono quelle che riguardano più direttamente l’ambiente marino. I
casi più emblematici sono quelli: del traffico marittimo; degli sversamenti in mare delle
acque di lavaggio di navi e petroliere; delle fuoriuscite occasionali dai pozzi di
estrazione dei vari combustibili.
L’Office of Technology Assessment ha diviso le fonti inquinanti in sei categorie:
1. fonti legate allo scarico intenzionale di sostanza sul suolo al fine di sfruttarne la
capacità di autodepurazione; tra queste ci sono i pozzi perdenti, le fosse settiche, lo
scarico sul suolo di liquami e rifiuti;
2. siti di stoccaggio e/o trattamento di sostanze contaminate quali le discariche, gli
impianti di compostaggio, i depositi di accumulatori, etc.;
3. strutture di trasporto di sostanze pericolose, idrocarburi, etc. che danno luogo a
perdite;
4. fonti costituite da particolari attività che esigono l’utilizzo, o per cui è consuetudine
utilizzare, sostanze pericolose, come l’agricoltura dove si impiegano pesticidi o
fertilizzanti;
5. fonti legate alle attività svolte in particolari aree come i pozzi petroliferi, quelli di
estrazione del gas, etc.;
6. fonti dovute a fenomeni naturali come le percolazioni naturali, le intrusioni di acque
marine, le piogge acide, etc..
7
Cap. 1
1.2
I sedimenti contaminati
Caratterizzazione dei metalli pesanti di
maggiore interesse
Cadmio Il cadmio si trova naturalmente nelle due forme CdS e CdCO3, viene
recuperato come sottoprodotto delle operazioni di estrazione dei minerali di zolfo,
rame, piombo e zinco.
Le fonti di contaminazione sono le operazioni di placcatura e i depositi di rifiuti
contenenti il metallo (Callahan M. et al., 1979).
Le forme che più comunemente si trovano comprendono lo ione Cd2+, complessi Cdcianuro e l’idrossido Cd(OH)2 (Smith et al., 1995).
L’idrossido e il carbonato di Cd si trovano nello stato solido e sono le forme prevalenti
ad elevati valori di pH, mentre lo ione Cd2+ ed i solfati di cadmio in soluzione sono le
forme dominanti a pH inferiori a 8.
Il cadmio può anche precipitare come fosfato, arsenato, cromato ed altro, la sua
solubilità varia comunque col pH ed altri numerosi fattori chimici.
Il cadmio è relativamente mobile in acqua ed esiste principalmente come ione idrato o
sotto forma di complessi con acidi umici ed altri leganti organici (Callahan M. et al.,
1979).
Sotto condizioni acide il Cd può formare complessi con cloruri e solfati.
Un incremento di pH per valori superiori a 6 favorisce i meccanismi di precipitazione ed
assorbimento sugli ossidi dei metalli, che ne causano la rimozione dallo stato liquido.
L’assorbimento è comunque influenzato dalla capacità di scambio cationico di minerali
argillosi, carbonati e materia organica presenti nel suolo e nei sedimenti. Sotto
condizioni riducenti si ha la formazione della specie CdS che controlla la mobilità del
metallo (Callahan M. et al., 1979).
Cromo. Il cromo è uno degli elementi meno comuni in natura, non si trova
generalmente in forma elementare ma solo come composto, il minerale grezzo è
costituito da cromite FeCr2O4 (Evanko R. et al., 1997).
Le maggiori fonti di contaminazione sono processi di placcatura elettrolitica, e lo
stoccaggio di rifiuti contenenti il metallo (Smith et al., 1995).
Lo stato di ossidazione del Cr dipende dal pH e dalle condizioni redox, la forma che più
frequentemente si ritrova è la Cr(VI), che può essere ridotta a Cr(III) dalla materia
organica, e dagli ioni S2- e Fe2+ sotto condizioni anaerobiche.
8
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Le specie più comuni sono cromato e dicromato (CrO42- e Cr2O72- rispettivamente) che
precipitano velocemente in presenza di cationi metallici come Ba2+, Pb2+ e Ag2+.
Cr(III) è la forma dominante del metallo a pH inferiori a 4, forma dei complessi con
leganti organici solubili e inorganici come SO42-, NH3, OH-, Cl-, F-, CN-.
La mobilità di tale specie diminuisce per via dell’adsorbimento in minerali argillosi e
ossidi, e a pH inferiore a 5 la solubilità è molto bassa a causa della formazione di
Cr(OH)3 (Evanko et al., 1997).
La specie Cr(VI) è quella più tossica e più mobile (Crotowski et al., 1991). La mobilità
del cromo dipende in generale dal contenuto di argilla, di ossidi di ferro e dalla quantità
di materia organica.
Nickel. I minerali di nickel che si trovano in natura sono ossidi, silicati e solfuri, e sono
usualmente associati con altri solfuri, silicati o arsenuri. Il nickel metallico, solfuri,
cloruri e cianuri di Ni(II) sono usati principalmente nei processi di placcatura
elettrolitica, ma trovano impiego anche in batterie e catalizzatori (Bodek Itamar, 1988).
Il nickel può avere valenza +1, +3 o +4, ma nei sedimenti lo stato di ossidazione
prevalente è Ni(II).
Il nickel si trova come idrossido solo a pH superiori a 7, per via della formazione di altri
complessi a valori di pH inferiori, in presenza di leganti organici e inorganici.
Le specie predominanti sono più frequentemente Ni2+, ed NiSO4, mentre a pH basici e
fortemente basici si trovano rispettivamente le specie Ni(OH)2 e Ni(OH)3-, e le specie
NiOH+ e NiHCO3+ (Bodek Itamar, 1988).
Gli acidi umici sono molto importanti negli equilibri di soluzione del metallo, essi
formano complessi col Ni nei sistemi con bassa salinità e sono in grado di solubilizzare
il carbonato di Ni (Rashid M. A. et al., 1980).
In ambienti riducenti e condizioni anaerobiche si forma il solfuro di nickel NiS
estremamente insolubile, e a pH minore di 9 il Ni forma dei complessi con carbonati,
solfati, idrossidi ed altri leganti (Bodek Itamar, 1988).
Il nickel è soggetto a meccanismi di adsorbimento, scambio ionico e coprecipitazione,
in cui entrano in gioco ossidi di Fe e Mn, minerali argillosi e materia organica, ed
ovviamente il pH e la salinità, oltre ad altri innumerevoli fattori.
I leganti complessanti come ioni solfato ed acidi organici riducono i suddetti
meccanismi di assorbimento, inoltre è possibile una rimobilitazione del metallo dalla
fase solida in presenza di acidi fulvici ed umici (Jackson et al., 1978).
9
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Piombo. Le principali fonti industriali di piombo sono le fonderie, manifattura di
batterie, sostanze chimiche e pigmenti, processi di produzione secondaria di metalli.
Anche le precedenti combustioni dei combustibili contenenti piombo hanno ancora
un’influenza sulla contaminazione di acque superficiali, sotterranee e suoli (Evanko R.
et al., 1997).
Il Pb viene in genere rilasciato nella sua forma elementare, ossidi e idrossidi, e
complessi piombo-ossianioni, esso si trova comunemente negli stati di ossidazione 0 o
+2. Il Pb(II) è la forma più comune e reattiva, si ritrova in ossidi e idrossidi mono e
polinucleari (Smith et al., 1995). Composti a bassa solubilità sono formati con leganti
organici (acidi fulvici ed umici, EDTA, aminoacidi) ed inorganici (Cl-, SO42-, CO32- PO43-)
(Bodek et al., 1998).
I carbonati solidi di Pb si formano sotto pH 6, il PbS è il solido più stabile in presenza di
un’elevata concentrazione di zolfo in condizioni riducenti (Evanko R. et al., 1997).
In sedimenti anaerobici è possibile trovare il piombo tetrametile, che risulta da reazioni
di alchilazione condotte da microrganimi (Smith et al., 1995).
La quantità di piombo disciolto dipende dalle condizioni di pH, dalla concentrazione dei
sali disciolti e dai tipi di minerali presenti. Una significativa frazione di Pb non disciolto è
rappresentata da precipitati (PbCO3, Pb2O, Pb(OH)2 PbSO4), e ioni assorbiti nei
minerali o nella materia organica (Evanko R. et al., 1997).
Rame. Il rame viene estratto dalle miniere come solfuro e ossido; le attività di
estrazione costituiscono la principale fonte di contaminazione degli ambienti acquatici,
ma altre fonti sono quelle che vedono l’impiego del rame come alghicida negli scafi
delle imbarcazioni, come materiale per la costruzione di tubi e sotto forma di arsenato
di rame cromato per il trattamento di legname da costruzione.
In ambienti aerobici e sufficientemente alcalini il carbonato di rame CuCO3 è la forma
solubile dominante, con essa sono presenti anche le specie Cu(OH)2 e CuOH+.
Tra le forme solubili del rame si trovano forti complessi con gli acidi umici, che sono
tanto più stabili quanto più alto è il pH e quanto minore è la forza ionica.
In ambienti anaerobici la specie caratteristica è il CuS solido.
Come per gli altri metalli la mobilità del rame è influenzata dalla presenza di minerali ad
elevata superficie specifica, come argille e ossidi (Evanko R. et al., 1997).
Lo ione rameico Cu2+ è la forma più tossica del rame, seguita dalle specie CuOH+ e
Cu2(OH)22+ (La Grega et al., 1994).
10
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Zinco. Lo zinco non si trova naturalmente in forma elementare, viene usualmente
estratto come ossido di zinco ZnO, Il metallo viene impiegato nell’industria come
rivestimento di ferro e acciaio per la protezione dalla corrosione (Smith et al., 1995).
Lo zinco si trova più comunemente nello stato di ossidazione +2 e forma complessi con
diversi anioni, aminoacidi ed acidi organici; esso precipita inoltre come ZnOH2, ZnCO3,
ZnS, e Zn(CN)2.
Lo zinco è uno dei metalli pesanti più mobili nelle acque superficiali e sotterranee
perché è presente in forme solubili a pH acidi e neutri; ad elevati valori di pH forma
carbonati e idrossidi che ne controllano la solubilità (Evanko R. et al., 1997).
Lo zinco precipita velocemente sotto condizioni riducenti ed in sistemi altamente
inquinati in cui si trova a concentrazioni alte, e può coprecipitare con ossidi idrati di
ferro e manganese (Smith et al., 1995).
L’assorbimento dello zinco nei sedimenti o nei solidi sospesi quali minerali argillosi,
materia organica e ossidi di ferro e manganese è il fenomeno principale riguardante il
metallo, esso aumenta in corrispondenza di incrementi del pH e diminuzioni della
salinità (Evanko R. et al., 1997).
11
Cap. 1
1.3
I sedimenti contaminati
Principali fattori che influenzano la mobilità
dei metalli
Per sistemi che coinvolgono interazioni solido/soluzione, quali possono essere i
sedimenti marini, la mobilità si esplica in una situazione di flusso di specie metalliche in
un certo mezzo, in cui la presenza di fattori d’incremento e d’inibizione regola tutti i
processi di movimento. La diminuzione del pH, il processo redox di riduzione, la
complessazione organica ed inorganica e le trasformazioni mediate dall’intervento di
specie batteriche generalmente rientrano in quella categoria di processi che
favoriscono una movimentazione concreta e consistente di metalli dal fondale marino
al corpo idrico sovrastante; invece, l’adsorbimento, la sedimentazione, la filtrazione e la
precipitazione, si manifestano come specifiche associate ad una riduzione delle
capacità di traslocazione dei medesimi (Salomons e Stigliani, 1995).
In un’ottica rivolta ad una comprensione più esaustiva dei vari meccanismi di
mobilizzazione/immobilizzazione, è necessario rivolgere l’attenzione alle caratteristiche
chimico-fisiche degli inquinanti considerati, alla composizione dei sedimenti e alla loro
abbondanza, alle variazioni delle condizioni redox e del pH, alla bioturbazione, alla
temperatura, alla presenza di ossigeno disciolto ed ai solfuri.
Alterazioni pH/redox
In ambienti acquatici, un’ingente quantità di sostanze accettrici di elettroni viene
utilizzata durante la degradazione batterica della sostanza organica. Queste reazioni
determinano un cambiamento sia nelle condizioni redox che nei valori di pH. Inoltre,
direttamente o indirettamente, influiscono sulla biodisponibilità di specie organiche ed
inorganiche.
Durante l’ossidazione batterica, il conseguente rilascio di CO2 provvede ad aumentare
le condizioni d’acidità del sistema e, conseguentemente, a favorire il desorbimento di
elementi metallici in forma ridotta dagli ossidi di ferro e manganese e dalla matrice
organica in cui si trovavano intrappolati. Se il sistema in cui avviene quest’insieme di
processi non ha la possibilità di ricevere ossigeno, il decorso degli eventi segue il
percorso indicato in fig. 1.1 (a) in cui, come si osserva, vengono coinvolte specie con
una capacità di riduzione sempre minore (Bremen, 1987).
12
Cap. 1
I sedimenti contaminati
In caso contrario invece, l’eventuale apporto d’ossigeno dagli strati d’acqua sovrastanti,
mantiene la variazione del potenziale redox in un intervallo meno suscettibile di
diminuzioni permanenti, come indicato in fig. 1.1 (b)
Fig. 1.1 (a) Andamento del potenziale redox in funzione del tempo in un sedimento non
ossigenato; (b) Andamento del potenziale redox in un sedimento che è periodicamente
riossigenato (Salomons e Stigliani, 1995).
In fig.1.2 viene illustrato schematicamente l’insieme dei processi biochimici
caratterizzanti un sistema acqua-sedimento.
13
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Fig. 1.2 Diagramma schematico dei processi che avvengono in un sistema acqua-sedimento
1.Fotosintesi; 2.Metabolismo ossidativo; 3.Denitrificazione; 4.Riduzione dell’ossido di
manganese; 5.Riduzione degli ossidi di ferro; 6.Riduzione dei solfati; 7.Metanogenesi
(Salomons e Stigliani, 1995).
Come si può notare, l’ossigeno viene consumato negli strati immediatamente adiacenti
la colonna sovrastante d’acqua durante la decomposizione della sostanza organica;
questo processo, che coinvolge anche la dissoluzione dei carbonati, rilascia
ammoniaca, che viene successivamente ossidata a nitrato. Quest’ultimo diffonde negli
strati sottostanti anossici, dove viene ulteriormente ridotto. Contemporaneamente, la
degradazione ossidativa batterica si accompagna alla riduzione degli ossidi di
manganese e di ferro, che rilasciano i metalli in soluzione. In condizioni ancora più
riducenti, il controllo sulla distribuzione metallica, è regolato dalla formazione di solfuri
insolubili.
14
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Potenziale di produzione acida
L’acidità raprresenta uno dei fattori più importanti per il trattenimento di metalli pesanti
nei sedimenti. Il principale meccanismo responsabile della diminuzione del pH risulta
essere l’esposizione della pirite e di altri minerali sulfurei all’azione dell’ossigeno
atmosferico (Calmano et al., 1993), laddove la componente dello zolfo viene ossidata a
solfato, con successiva liberazione di ioni H+:
4 FeS + 9 O2 +10 H2O
→
4 Fe(OH)3 +4 SO42- + 8 H+
4 FeS2 + 15 O2 +14 H2O
→
4 Fe(OH)3 + 8 SO42- + 16 H+
I periodici processi di variazione redox che avvengono in un sistema sedimento-acqua,
possono incrementare o diminuire il potenziale di produzione acida (APP). In un
sistema chiuso, i meccanismi di alterazione del potenziale conducono ad una
situazione d’equilibrio tra l’APP solido e quello liquido; gli ioni idrogeno prodotti durante
le reazioni d’ossidazione, saranno successivamente consumati dalle reazioni di
riduzione. Contrariamente, in un sistema aperto, l’apporto di H+ sarà variabile,
dipendentemente dalle caratteristiche del sistema e del processo coinvolto:
•
Variazioni di APP per decomposizione dei solfati.
Una permanente acidificazione in sistemi anaerobici e aerobici (Kittrick et al. 1982)
procede attraverso due stadi: il primo, è caratterizzato dall’ossidazione della
materia organica, con precipitazione dei solfati a solfuri (FeS, FeS2) per riduzione;
ciò conduce ad un incremento di APP solido, mentre la capacità di neutralizzare
l’acidità (ANC), sotto forma di HCO3- in soluzione, diffonde negli strati sovrastanti.
SO42- + Fe2+ + 2H+
CO2 + H2O
→
→
FeS +H2O + O2
HCO3- + H+
(riduzione)
(ossidazione)
Durante questo stadio, i metalli precipitano nella forma di M(HCO3)2. L’ossigeno
prodotto nella fase di riduzione può favorire il percorso contrario, con il rilascio del
metallo.
•
Variazione di APP per riduzione dello ione ferrico.
In questo processo, favorito da condizioni basiche, i solfati adsorbiti sulle particelle
colloidali positive dei sedimenti (Van Breemen et al. 1983), fungono da accettori di
protoni nella riduzione dello ione ferrico:
Fe2O3 + ½ CH2O + 4H+ →
2Fe2+ + ½ CO2 + 5/2 H2O
(CH2O = materia organica)
Il solfato ferroso formato, appare in soluzione; infatti, gli ioni OH- adsorbiti,
rimuovono i gruppi solfati. Dall’altro lato, una parte di questo sale viene ossidato
all’interfaccia solido-soluzione acquosa, realizzando la formazione di un ossido
15
Cap. 1
I sedimenti contaminati
ferrico che si depone sulla superficie delle particelle solide dei sedimenti, e
rilasciando acido solforico in acqua. Tutto ciò conduce ad un decremento di APP e
ad un permanente incremento di ANC solido grazie alla rimozione di H2SO4.
•
Variazione di APP per volatilizzazione di H2S.
Un sistema sedimento-acqua che contenga una certa quantità di solfati, può
incrementare la propria alcalinità dopo la volatilizzazione di H2S, a seguito della
riduzione a solfuri. La dipartita di tale composto causa una parziale perdita d’acidità
del sistema e, conseguentemente, la diminuzione del valore di APP. Sebbene
l’incremento di ANC, a seguito dell’instaurarsi di queste condizioni diventi
permanente, l’aumento di alcalinità ottenuto potrebbe essere temporaneo se l’H2S
fosse fissato come solfuro solido, e s’instaurassero le specifiche favorevoli ad un
meccanismo di successiva ossidazione (Van Breemen et al. 1983).
Variazioni redox
In definitiva quindi passando da condizioni riducenti a ossidanti, implicanti una
diminuzione dei valori assunti dal pH, si incrementa la mobilità dei metalli quali Hg, Zn,
Pb, Cu e Cd. Contemporaneamente invece, per quanto concerne Mn e Fe, tale fattore
si riduce (Salomons e Stigliani, 1995).
La tabella 1.1 illustra più da vicino la situazione per diversi elementi:
Tab 1.1: Mobilità relativa di elementi, in funzione del pH e di Eh (Salomons e Stigliani, 1995).
mobilità
relativa
Attività
elettronica
Attività
protonica
Riducente
Ossidante
Neutro-alcalino
Acido
Cr, V, Mo, Al, Se
Al, Cr, Fe, Mn
Al, Cr, Hg, Cu
Si
Bassa
Zn, Co, Fe, Ni
Pb, Si, K
Zn, Cd, Fe, Pb, Si, K
Fe3+, K
Media
Mn, Fe
Co, Ni, Hg, Cu
Mn
Al, Pb, Cu, Cr, V
Ca, Na, Mg,
Ca, Na, Mg, U, V,
Mo
Zn, Cd, Hg, Cr, Mg,
Na, Ca
Co, Mg, Mn, Na, Ca
Cl, I, Br
Cl, I, Br, B
Mo, V, U, Se, Cl, I, S
Cl I, Br, B
Molto bassa
Alta
Molto alta
Influenza dei minerali sulfurei
Esiste una crescente evidenza sperimentale che, l’interazione tra i metalli tossici ed i
minerali sulfurei in sedimenti anossici, giochi un ruolo di primaria importanza nel
controllare la biodisponibilità degli stessi. La coprecipitazione e/o l’adsorbimento con
sostanze quali i solfuri acidi volatili e la pirite (FeS), può effettivamente sequestrare tali
contaminanti e impedire loro di entrare nella catena alimentare degli organismi
acquatici esistenti. Comunque, la risospensione dei sedimenti dovuta a correnti
16
Cap. 1
I sedimenti contaminati
sottomarine, o il loro dragaggio, li sottopone al contatto dell’ossigeno, il quale favorisce
reazioni d’ossidazione dei minerali sulfurei con conseguente rilascio in soluzione degli
elementi metallici. Sin dal 1970, si conosce che, i principali meccanismi responsabili
della formazione di tali minerali consistono (Morse et al., 1987):
•
ossidazione della sostanza organica mediata dall’azione dei batteri, accompagnata
dalla riduzione dei solfati con formazione di acido solfidrico:
Sost. Organica + SO42 – batteri → H2S
•
formazione di minerali sulfurei stabili e metastabili (FeS, FeS2, Fe3S4) per
interazione di H2S con minerali di ferro presenti nei sedimenti e, in presenza di
cationi di metalli pesanti che, sotto forma di solfuri sono meno solubili di FeS,
precipitazione di MeS
•
formazione di solfuri acidi volatili a partire dalle forme meno stabili dei solfuri ferrosi,
secondo:
metastabile-Fe + H2S → AVS (solfuri acidi volatili)
I processi che influiscono sulla mobilizzazione dei metalli dovuta all’ossidazione dei
solfuri sono alquanto intricati; infatti, i fattori coinvolti non sono solamente costituiti
dall’estensione della liberazione degli H+, risultato dell’ossidazione, ma anche i
meccanismi di scambio coinvolgenti interazioni tra Fe3+ e sedimento, come pure
l’effetto tampone offerto dalla matrice organica presente (Salomons e Stigliani, 1995).
Parte dello ione ferrico formato dalla reazione:
4FeS + 9O2 + 1OH2O → 4Fe(OH)3 + 8H+
viene idrolizzato, e un’altra porzione è portata in soluzione dalla realizzazione di
complessi organici. Il processo dominante dipende dalla quantità d’ossigeno
disponibile come dalla concentrazione e dalla reattività della sostanza organica
(Salomons e Stigliani, 1995). Quest’ultima inibisce tra l’altro l’ossidazione del Fe (II). Le
reazioni di scambio coinvolte sono:
Fe3+ + Ads-Me+ → Ads-Fe2+ + Me2+
2H3O+ + Ads-Me+ → Ads-H2+ + Me2+ + H2O
Ca2+ + Ads-Me+ → Ads-Ca2+ + Me2+
Si consideri inoltre la possibile precipitazione ad idrossido ferrico:
Fe3+ + 6H2O → Fe(OH)3 + 3H3O+
Altre reazioni d’ossidazione di FeS, ipoteticamente sono:
FeS + 2,25 O2 + 4,5 H2O → Fe(OH)3 + SO42- + 2H3O+
FeS + 2,25 O2 + H3O+ + Ads-Me+ → Ads-Fe2+ + SO42- + Me2+ + 1,5 H2O
17
Cap. 1
I sedimenti contaminati
La sostanza organica gioca un ruolo decisamente maggiore, rispetto a quest’ultima
reazione, nel tamponare l’acidità; infatti, i protoni liberati nell’ossidazione dello ione
ferroso a ferrico o nella precipitazione di quest’ultimo ad idrossido, vengono catturati
dalla matrice organica, con conseguente mobilizzazione dei metalli adsorbiti:
FeS + 2,25 O2 + 3,5 H2O + Ads-Me2+ → Fe(OH)3 + SO42- + Ads-H2+ + Me2+
Quindi, in accordo con quanto appena considerato, la concentrazione di metalli
rilasciati dovrebbe essere coincidente con quella dei solfati presenti.
Influenza della temperatura
Un incremento della temperatura aumenta le attività metaboliche delle diverse specie
batteriche presenti nei sedimenti; la conseguenza immediata di tale situazione
comporta un aumento della velocità di degradazione della materia organica rispetto a
quella di produzione di biomassa. L’insieme di questi fattori favorirebbe un rilascio
consistente di metalli in soluzione, ma, la trasformazione di parte dell’organico in
sostanze umiche e fulviche ad alto peso molecolare mitiga questo meccanismo.
Viceversa, una diminuzione della temperatura favorisce l’accumulo di biomassa e la
presenza di un numero maggiore di siti di legame disponibili per l’immobilizzazione
degli elementi metallici.
Bioturbazione
La degradazione batterica della sostanza organica e le reazioni chimiche ad essa
associate sortiscono l’effetto di mutare la natura dei sedimenti, instaurando un
gradiente di concentrazione che induce il trasporto di particelle solide attraverso
l’interfaccia solido-soluzione dei fondali marini; nello stesso tempo, l’azione biologica
del Benthos, cioè l’insieme degli organismi acquatici che vivono sul fondo dei mari e
dei laghi, modifica i processi che avvengono nei sedimenti, incrementando il già citato
trasporto solido e favorendo una ridistribuzione dei composti chimici tra la fase liquida
e i fondali. La situazione appena inquadrata, prende il nome di “Bioturbazione”
(Salomons e Stigliani, 1995).
La figura 1.3 illustra i maggiori processi che influiscono sul trasporto e il destino dei
contaminanti nei sedimenti:
18
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Fig: 1.3 Processi che influiscono sul trasporto e sul destino dei contaminanti nei sedimenti
marini.
I sistemi acquatici costituiscono l’habitat naturale di molte specie viventi di organismi
quali oligocheti, policheti, anfipodi, anellidi, e insetti larvali, i quali colonizzano gli strati
più superficiali dei fondali (5-25 cm). L’esplicazione delle attività di nutrizione,
escrezione, respirazione metabolica e locomozione, possono alterare la composizione,
la tessitura e la porosità delle particelle solide che costituiscono i sedimenti;
quest’ampia varietà di meccanismi attraverso i quali il Benthos interagisce con
l’ambiente che lo circonda, introduce un fattore aggiuntivo a quelli visti finora per
quanto concerne la mobilizzazione di contaminanti, in quanto non è più possibile
assumere che sostanze come metalli, organici e nutrienti, rimangano intrappolati in
particelle coinvolte nei processi biologici. Diversi studi hanno infatti confermato che, per
esempio, la presenza della specie bentonica Tubifex, nella misura di 100.000
esemplari/m2, è in grado di aumentare di un fattore pari a due il consumo di ossigeno
nei sedimenti, incrementando quindi le alterazioni del binomio pH- redox (Lopez et al.,
19
Cap. 1
I sedimenti contaminati
1987); il flusso di anioni cloruro all’interfaccia solido-soluzione aumenta di un valore
pari a due se si riscontra l’attività metabolica della specie Pontoporeia, e, l’ingestione,
con successiva espulsione di materiale particellare dei fondali da parte di oligocheti,
genera una pellettizzazione del medesimo, caratterizzata da una porosità che
incrementa la diffusione dei soluti in soluzione acquosa.
20
Cap. 1
1.4
I sedimenti contaminati
Caratterizzazione degli inquinanti organici
di maggiore interesse
Idrocarburi policiclici aromatici (IPA)
Gli IPA sono una classe di oltre settanta composti, costituiti da anelli aromatici
condensati, in numero compreso tra due e sette. Si ritrovano come impurità in
combustibili fossili ed hanno origine dalla loro incompleta combustione. La loro
immissione in ambiente è quindi associata ai processi di combustione industriali ed
urbani, al traffico navale ed allo sversamento di petrolio.
Alcuni IPA sono contenuti nel creosoto, sostanza utilizzata per la conservazione del
legno, e quantità rilevanti sono presenti nei bitumi e nell’asfalto. L’EPA ha inserito tra
gli inquinanti prioritari 17 IPA (cfr. tab. 1.2), che coprono un ampio spettro di tossicità e
comportamento ambientale.
Tab. 1.2 Elenco dei 17 IPA generalmente presi in considerazione, in ordine di peso molecolare
(TOXNET (2001); EPA, Mackay et al.1992).
Peso
molecolare
-1
[g mol ]
Formula
bruta
Tensione di
vapore
[Pa]
Solubilità
in acqua
-1
[mg l ]
Log KOW
(Log KOC)
Naftalene
128,19
C10H8
10 a 25°C
31,7
3,37 (3,11)
Acenaftilene
152,20
C12H8
0,12 a 25°C
16,1
4.00 (3,83)
Composto
3
Acenaftene
154,21
C12H10
1,3 10 a 131,2°C
9,93
3,92 (5,38)
Fluorene
166,22
C13H10
0,04 a 20 °C
1,98
4,18 (5,47)
0,0434
4,54 (5,76)
Antracene
Fenantrene
Fluorantene
Pirene
Crisene
Benzo(a)antracene
178,23
178,23
202,26
202,26
228,29
228,29
C14H10
-4
3,6 10 a 25°C
3
C14H10
1,3 10 a 118,2°C
1,29
4,57 (6,12)
C16H10
-3
1,23 10 a 25°C
0,206
5,22 (6,38)
C16H10
-2
0,135
5,18 (6,51)
1,19 10 a 25°C
-7
C18H12
8,3 10 a 25°C
0,0016
1,649 (6,27)
C18H12
-7
6,67 10 a 20°C
0,0094
5,91 (6,30)
-7
Benzo(a)pirene
252,31
C20H12
7,32 10 a 25°C
0,00162
6,04 (6,26)
Benzo(b)fluorantene
252,31
C20H12
6,7 10-5 a 20°C
0,0015
5,80 (5,74)
C20H12
-7
0,0008
6,00 (5,99)
0,004
6,21 (7,20)
6,50 (6,20)
Benzo(k)fluorantene
Benzo(e)pirene
Benzo(g,h,i)perilene
Indeno(1,2,3-c,d)pirene
Dibenzo(a,h)antracene
252,31
252,31
268,35
276,33
278,35
C20H12
C21H16
C22H12
C22H14
1,29 10 a 25°C
-7
7,6 10 a 25°C
-10
a 20°C
0,00026
-10
a 20°C
0,00022
-10
a 20°C
0,0049
9,8 10
9,8 10
9,8 10
6,75 (6,52)
Le caratteristiche chimico-fisiche dei 17 composti, generalmente considerati, coprono
intervalli molto ampi di valori, a causa della diversa struttura e peso molecolare. Gli IPA
a minor peso molecolare hanno tensione di vapore relativamente elevata e, quindi,
21
Cap. 1
I sedimenti contaminati
possono sublimare; presentano un’idrofobicità minore rispetto a quelli con alto peso
molecolare. Ad esempio, per il naftalene si ha una tensione di vapore di 10 Pa a 25°C
ed una solubilità di 31 mg l-1 mentre per il benzo(a)pirene si ha una tensione di vapore
di 7,32 10-7 Pa a 25°C ed una solubilità di 0,00162 mg l-1 fino a valori ancora più bassi
per i composti a più alto peso molecolare.
All’interno dei sedimenti gli IPA sono prevalentemente adsorbiti sulla matrice fine a
causa della loro idrofobicità e degli alti valori del coefficiente di ripartizione carbonio
organico-acqua. In ogni caso si possono trovare anche sotto altre forme fisiche:
particolato, film liquido, adsorbiti sulle particelle o sulla matrice organica, disciolti
nell’acqua interstiziale o in fase solida e/o liquida nei pori dei sedimenti. Nella maggior
parte dei casi hanno una limitata disponibilità nei confronti dei microrganismi verso cui
possono risultare anche molto tossici, per questo le cinetiche di biodegradazione sono
molto lente.
L’esposizione dell’uomo agli IPA deriva dall’inalazione di aria e dal consumo di cibo e
acqua contaminati; particolarmente importanti sono il fumo di tabacco ed i cibi
affumicati o cotti alla brace. Sono sostanze liposolubili e nei mammiferi sono assorbiti
attraverso polmoni, intestino e pelle. Gli studi finora condotti hanno evidenziato la
cancerogenicità su cavie degli IPA a maggior peso molecolare, come benzo(a)pirene,
benzo(a)antracene, benzo(b)fluorantene, benzo(k)fluorantene e crisene. Altri IPA,
come antracene e fluorantene, sono risultati mutageni. Gli IPA a basso peso
molecolare possono probabilmente indurre effetti tossici somatici per esposizioni acute
o croniche.
Policlorobifenili (PCB)
I policlorobifenili (PCB) sono una famiglia di
composti chimici generati dalla clorazione del
bifenile (C12H10), molecola costituita da una
Fig. 1.3 Struttura chimica del bifenile.
coppia di anelli aromatici legati fra loro da un
legame C-C; uno o più dei dieci atomi di idrogeno della molecola di bifenile possono
essere sostituiti da atomi di cloro, dando origine a 209 congeneri differenti (cfr. fig. 2.5).
Sono composti di caratteristica origine industriale, banditi negli USA già dal 1970. Le
proprietà chimico-fisiche dipendono in modo essenziale dalla distribuzione degli atomi
di cloro e dalla posizione relativa rispetto ai due anelli aromatici. In generale sono poco
22
Cap. 1
I sedimenti contaminati
solubili in acqua e la loro idrofobicità aumenta con il grado di clorazione. Si adsorbono
tanto più facilmente alla sostanza organica quanti più atomi di cloro sono presenti.
Volatilizzano con molta facilità in atmosfera, in particolare dall’acqua; i congeneri con il
minor contenuto di cloro sono i più volatili.
La loro elevata persistenza nei sedimenti marini è essenzialmente dovuta all’azione
protettiva esercitata dallo strato di acqua sovrastante che riduce l’azione di
degradazione operata dai raggi UV. La decomposizione è favorita dalla presenza di
ossigeno e dipende dal numero e dalla posizione degli atomi di cloro presenti nelle
molecole. In particolare si possono definire tre classi di PCB: monoclorobifenili
caratterizzati da una degradabilità completa e rapida (nel giro di 48 ore); dicloro e
triclorobifenili con una degradazione del 37% ÷ 80%; tri e tetraclorobifenili con una
degradazione dello 0% ÷ 23%. Si nota come la stabilità dei PCB aumenta con il
numero di atomi di cloro presenti. Inoltre, data la loro scarsa affinità con l’acqua e la
possibilità di legarsi invece alla materia grassa, i PCB si ritrovano nei tessuti degli
organismi viventi, uomo compreso.
La
loro
concentrazione
negli
organismi
dipende
dall’entità
e
dalla
durata
dell’esposizione, dalla percentuale di materia grassa presente e dalla posizione nella
catena alimentare, con concentrazioni maggiori negli organismi che si trovano all’apice
a causa del processo di biomagnificenza, particolarmente significativo per questi
composti (Vismara, 1999). Negli animali superiori, l’azione tossica dei PCB si esplica
principalmente a seguito della loro capacità di interferire con il sistema endocrino,
svolgendo un’azione simil-estrogenica, per la loro teratogenicità e per le capacità
neurotossiche. Nei rettili la presenza di PCB è stata associata all’alterazione della
differenziazione sessuale maschile. Meccanismi simili di azione si sono osservati
anche in pesci, uccelli e mammiferi marini. Nei tessuti di alcuni delfini del Mediterraneo
morti a seguito di un’epidemia virale verificatasi nel 1990 e nel 1991 sono stati
riscontrati livelli di PCB particolarmente elevati. Ciò è stato messo in relazione con
l’attacco virale che ne ha causato la morte. Il potere immunosoppressivo di questi
composti potrebbe aver favorito l’estendersi dell’epidemia che ha causato la morte di
oltre 4.000 esemplari (Reijenders, Brasseaur, 1992).
La generalizzata contaminazione da PCB sta portando ad un incremento delle sue
concentrazioni anche nei tessuti umani. La maggior fonte di contaminazione umana da
PCB è l’alimentazione, anche se in alcuni casi l’inalazione e l’esposizione cutanea
23
Cap. 1
I sedimenti contaminati
possono rappresentare delle importanti vie di contaminazione. In un rapporto preparato
da un gruppo di ricercatori per il Ministero dell’Ambiente danese, si mette in evidenza
come il livello attuale di esposizione generale della popolazione ai PCB sia dello stesso
ordine di grandezza al quale si osservano effetti sub letali nei bambini che hanno
subito un’esposizione in utero e/o attraverso l’allattamento [Toppari et al., 1995].
Pesticidi clorurati (DDT, DDE, HCB)
I pesticidi provengono generalmente dal dilavamento dei terreni contaminati, dove
sono utilizzati come antiparassitari. Essi sono solitamente xenobioti organici cationici;
nei sedimenti competono, quindi, con i cationi metallici di pari valenza per gli stessi siti
di adsorbimento della matrice organica: per bassi valori del pH sono favoriti rispetto ai
metalli mentre già per medi valori la situazione si inverte.
DDT
DDE
HCB
Fig.1.4 Formule di struttura dei pesticidi più comuni.
I PCB e gli HCB hanno origine industriale, mentre i DDT agricola. Come per i PCB,
anche il DDT ed i suoi prodotti di degradazione costituiscono degli inquinanti ubiquitari
che si ritrovano in tutte le matrici ambientali. Nonostante l’uso di questo insetticida sia
stato bandito in molti paesi industrializzati, la sua produzione ed il suo utilizzo
continuano specialmente nei paesi in via di sviluppo.
Il DDT si ritrova comunemente nei tessuti di tutti gli organismi viventi, uomo compreso.
È un sospetto cancerogeno ed ha proprietà immunosoppressive. Recentemente la sua
presenza nei tessuti animali è stata messa in relazione con alterazioni delle capacità
riproduttive maschili per le sue proprietà estrogeniche. Nell’uomo l’assunzione avviene
essenzialmente attraverso l’alimentazione, mentre la sua presenza nel latte materno
può rappresentare un veicolo di contaminazione per i neonati.
Gli effetti dell’esposizione all’HCB variano con l’entità e la durata dell’esposizione. Oltre
a cancerogenicità, l’HCB è stato associato ad alterazione del sistema immunitario e
riproduttivo maschile, sviluppo anormale, aborti, riduzione del peso alla nascita,
riduzione della crescita, ritardo dello sviluppo, alterazione dei testicoli e della tiroide.
24
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Nell’uomo si sono osservati sviluppo anormale e disfunzioni alla tiroide. Le donne in
età post-menopausa, la popolazione geriatrica, i neonati ed i feti in via di sviluppo sono
soggetti a rischio a seguito dell’azione dell’HCB sull’omeostasi del calcio [Clement,
1992].
Diossine e furani
A questi due gruppi di composti appartengono diversi congeneri che differiscono tra
loro per il contenuto in cloro. Non esistono come prodotti commerciali, ma sono
presenti come impurità in alcuni composti organici a base di cloro e come sottoprodotti
di alcuni processi industriali e di combustione. Le dibenzo-p-diossine policlorurate
(PCDD) e i dibenzofurani policlorurati (PCDF), spesso collettivamente denominati
diossine, sono composti estremamente tossici e persistenti presenti in concentrazioni
molto basse nei vari comparti ambientali (cfr. fig. 1.5 e fig. 1.6). Esistono 210 congeneri
delle diossine, di cui 17 sono quelle di maggiore interesse per il potenziale effetto
tossico (EPA). Le caratteristiche chimico-fisiche peculiari di questi composti sono:
-
bassa tensione di vapore, che diminuisce con l’aumentare del grado di
clorurazione;
-
bassissima solubilità in acqua;
-
elevata solubilità nelle matrici organiche;
-
elevata stabilità chimica;
-
possibilità di bioaccumularsi attraverso la catena alimentare (Watterson, 1999).
Fig. 1.5 Struttura chimica dei PCDD.
Per sostituzione di uno o più atomi di idrogeno
con atomi di cloro si originano i PCDF.
Fig. 1.6 Struttura chimica dei
dibenzofurani.
25
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Le informazioni sul livello di contaminazione nei vari comparti ambientali sono
frammentarie, relativamente recenti ed in genere scarse.
Anche nel caso delle diossine, le ricerche effettuate hanno dimostrato una
contaminazione generale della popolazione (EPA, 1998). PCDD e PCDF si ritrovano in
concentrazioni maggiori nelle popolazioni di paesi industrializzati. L’assunzione di
alimenti contaminati rappresenta la principale via di penetrazione di questi xenobioti
nell’uomo. Recenti ricerche svolte dall’EPA hanno confermato il potere cancerogeno di
questi composti sia negli animali che nell’uomo. Oltre che per il rischio cancerogeno, le
diossine stanno interessando soprattutto per i rischi connessi con altre alterazioni
fisiologiche che possono intervenire a dosi molto inferiori a quelle necessarie per
l’insorgenza di neoplasie. In esperimenti di laboratorio, l’esposizione prenatale a
diossine ha portato ad un’interferenza con la differenziazione delle caratteristiche
sessuali maschili, con la diminuzione del livello di testosterone nel plasma, la riduzione
della spermatogenesi, un ritardo della discesa dei testicoli ed un peso ridotto degli
organi sessuali. Questi risultati hanno portato a postulare l’ipotesi che gli effetti delle
diossine sulle funzioni riproduttive umane potrebbero essere più gravi di quanto
pensato precedentemente. Esposizioni pre e post nascita di bambini nati da madri
residenti in aree fortemente contaminate da diossine hanno portato a disfunzioni
neurofisiologiche nei lobi frontali. Secondo l’EPA l’esposizione a concentrazioni
dell’ordine del miliardesimo di grammo in determinati periodi della gestazione possono
alterare il sistema riproduttivo ed endocrino del nascituro. Secondo l’agenzia
statunitense, i livelli medi di diossine riscontrate nella popolazione umana sono
prossimi a quelli per i quali si osservano alterazioni cancerogene negli animali
(Peterson et al., 1992). Recentemente è stata anche prospettata l’ipotesi che
l’esposizione alle diossine possa stimolare l’attivazione del virus dell’AIDS.
Plastiche
Le plastiche costituiscono una nuova famiglia di inquinanti. Si trovano solitamente in
forma di sferule o cilindretti e derivano dai processi di pressofusione per la produzione
di manufatti. Hanno la proprietà di assorbire IPA, PCB ed altri composti organici tossici.
Esse possono essere inglobate nei sedimenti ma dato il loro peso specifico si trovano
come corpi galleggianti; per ingestione accidentale possono entrare negli organismi
marini.
26
Cap. 1
1.6
I sedimenti contaminati
Principali fattori che influenzano la mobilità
dei composti organici
Fenomeno dell’adsorbimento
L’adsorbimento è quel fenomeno di accumulo di particelle o sostanze su una
superficie. La sostanza che ha aderito alla superficie è definita adsorbato mentre il
materiale sottostante adsorbente o substrato.
L’adsorbimento è un fenomeno che avviene su qualsiasi superficie (liquida o solida),
ma gli effetti sono più evidenti se il materiale adsorbente è poroso presentando quindi
un’elevata superficie utilizzabile per l’adsorbimento.
Il fenomeno dell’adsorbimento viene descritto usando i metodi delle isobare e delle
isoterme; quest’ultimo è preferito perché sperimentalmente è più semplice procedere in
un sistema isotermico piuttosto che in uno isobarico.
Sono stati proposti diversi tipi di isoterme, ma quelle che vengono comunemente usate
per quantificare l’adsorbimento che avviene nel suolo e nei sedimenti sono state fornite
da Langmuir e Freundlich:
=
=
=
=
Concentrazione di adsorbato in fase solida
Concentrazione di adsorbato in fase liquida
Termini correlati all’energia di legame
Adsorbimento massimo
Langmuir
Q 0a ⋅ b ⋅ C e
qe =
1+ b ⋅ Ce
qe
Ce
b
Qa0
Freundlich
q e = K D ⋅ (C e )
qe
= Concentrazione di adsorbato in fase solida
Ce
= Concentrazione di adsorbato in fase liquida
KD, n = Termini correlati all’energia di legame
n
Nel caso in cui risulti n=1 per l’isoterma di Freundlich, si parla di isoterma di
adsorbimento lineare.
qe = K D ⋅ C e
In questo modo qe, quantità di sostanza adsorbita per unità di massa adsorbente, e Ce,
concentrazione della sostanza adsorbente presente nella fase liquida, sono correlate
mediante il coefficiente Kd che prende il nome di coefficiente di distribuzione ed
esprime una misura dell’adsorbimento di un composto sui sedimenti (fig. 1.7 a)
Poiché la frazione di sedimenti che interagisce nei processi di adsorbimento è la
frazione organica allora risulta conveniente normalizzare tale coefficiente di ripartizione
rispetto al contenuto di carbonio organico presente nei sedimenti e nel suolo (Karichoff
et al., 1979) il coefficiente di ripartizione del contaminante tra il carbonio organico nei
sedimenti e l’acqua, indicato con Koc, è definito come:
27
Cap. 1
K OC =
I sedimenti contaminati
KD
oc
dove oc è la frazione di carbonio organico presente nei sedimenti.
Si assume inoltre che il coefficiente di ripartizione KD, per un determinato composto, sia
direttamente proporzionale al contenuto di sostanza organica presente nei sedimenti
(fig. 1.7 b).
(a)
(b)
Fig. 1.7: (a) Coefficiente di ripartizione del pirene; (b) andamento del coefficiente di
ripartizione al variare del contenuto organico
Il Koc rappresenta una misura dell’idrofobicità di una sostanza chimica: più la sostanza
si adsorbe ai sedimenti, più il valore di Koc è alto.
Le differenze nel fenomeno di adsorbimento tra frazioni sabbiose ed argillose sono il
risultato delle differenti percentuali di contenuto di carbonio organico presenti.
I valori che assume il Koc per i diversi composti idrofobici possono essere stimati
mediante la conoscenza del coefficiente di ripartizione n-ottanolo/acqua (Kow), che
indica la tendenza del composto a ripartirsi, o a solubilizzarsi, nelle sostanze
idrofobiche apolari o nell’acqua (sostanza polare).
Le relazioni empiriche che legano il Koc al Kow per i composti organici idrofobici
comunemente utilizzate sono le seguenti:
28
Cap. 1
I sedimenti contaminati
log(K OC ) = −0.21 + log(K OW )
log(K OC ) = −0.06 + 0.937 ⋅ log(K OW )
Composti aromatici
e IPA
Composti aromatici
IPA e erbicidi
log(K OC ) = 1.377 + 0.544 ⋅ log(K OW )
Pesticidi
Karichoff et al. (1979)
Lyman et al. (1990)
Lyman et al. (1990)
Recenti studi (Huang et al, 1997) hanno però mostrato che il fenomeno di
adsorbimento
dei
composti
organici
idrofobici (HOC) presenta un generale
comportamento non lineare. Per tale ragione il ricorso a correlazioni empiriche per
stimare il Koc dovrebbe essere effettuato con cautela (tra l’altro tali correlazioni
forniscono stime inferiori di circa un ordine di grandezza rispetto a quello misurato
sperimentalmente).
Recenti studi hanno evidenziato la presenza di isteresi di adsorbimento-desorbimento,
che testimoniano un comportamento non ideale del fenomeno di adsorbimento.
Weber et al. (1992) hanno attribuito questo comportamento alla eterogeneità della
sostanza organica (cosiddetta SOM acronimo di Soil-Sediment Organic Matter), gli
stessi autori hanno introdotto un modello di adsorbimento “composito” (DRM
Distributed Reactivity Model) per tenere in conto i differenti comportamenti mostrati dai
minerali e componenti organici di suoli e sedimenti.
Il modello introdotto da LeBoeuf e Weber (1997) (DRDM Dual Reactive Distributed
Reactivity Model) e successivamente validato da Huang (1997) viene utilizzato per
fornire una base concettuale per la spiegazione dell’isteresi per il processo di
adsorbimento-desorbimento.
Tale
modello
presuppone
la
presenza
di
tre
differenti
domini,
denominati
rispettivamente Dominio 1, Dominio 2 e Dominio 3 (fig. 1.8 a).
•
Dominio 1 che corrisponde alla superficie minerale esposta;
•
Dominio 2 che corrisponde alla sostanza organica amorfa (“SOM soft Domain”)
•
Dominio 3 che corrisponde alla sostanza organica condensata (“SOM hard
Domain”)
Ciascun dominio presenta diverse caratteristiche e comportamenti nei confronti del
processo di adsorbimento. L’esistenza di una superficie minerale relativamente
impervia del dominio 1 è ben nota da tempo. Il modello è basato sull’ipotesi che il SOM
può considerarsi come costituito da due diversi aggregati macromolecolari: una classe
amorfa (Dominio 2) ed una condensata (Dominio 3). La presenza del Dominio 2 è stata
avvalorata da recenti studi (36), che hanno mostrato che gli acidi umici e fulvici
vengono adsorbiti sulla superficie minerale dei suoli e sedimenti, mentre altri studi,
29
Cap. 1
I sedimenti contaminati
condotti ai raggi X, hanno mostrato che gli acidi umici e fulvici estratti dal suolo
evidenziano l’esistenza di zone condensate che appunto rappresentano il Dominio 3.
Il processo di adsorbimento che interessa il Dominio 1 è di tipo circa lineare, rapido e
reversibile. Nonostante l’adsobimento dei composti organici idrofobici da parte del
Dominio 1 sia trascurabile quando la frazione di carbonio organico del suolo sia
superiore allo 0.1% in peso, rappresenta un dominio fondamentale dal punto di vista
concettuale.
I Domini 2 e 3 rappresentano la quasi totalità della sostanza organica presente nei
sedimenti. L’adsorbimento del dominio 2 (sostanza organica amorfa) sembra essere
lineare ed abbastanza veloce (l’adsorbimento di IPA da parte di acidi umici e fulvici si
completa in circa 10 minuti), mentre l’adsorbimento nel dominio 3 sembra presentare
caratteristiche di non linearità e lentezza (fig. 1.8 (b)).
(a)
(b)
Fig. 1.8 (a) Rappresentazione dei tre Domini di adsorbimento; (b) Andamento temporale del
fenomeno di adsorbimento sui tre domini
In definitiva l’isoterma di adsorbimento complessiva (derivante da tutti i Domini) può
essere espressa come la somma di due termini: uno lineare (che si esplica nella prima
fase del processo di adsorbimento, della durata di qualche giorno, corrispondente
all’adsorbimento nei Domini 1 e 2) ed uno non lineare (tipo Langmuir, che si esplica
solo successivamente alla conclusione di quello lineare e coinvolge il Dominio 3):
q e = q e,L + q e,NL = K D,C +
30
Q 0a ⋅ b ⋅ C e
1+ b ⋅ Ce
Cap. 1
I sedimenti contaminati
Recenti studi Weber et al (1998), ipotizzano che l’isteresi osservata durante i cicli di
adsorbimento-desorbimento è attribuibile all’intrappolamento e/o lento desorbimento
delle molecole di contaminante all’interno della struttura dei pori della sostanza
organica condensata.
Il processo di desorbimento assume fondamentale importanza nei sistemi di
bioremediation in quanto si ritiene che i microrganismi siano capaci di degradare solo
HOC presenti in fase liquida. Il processo di desorbimento viene modellato ipotizzando il
susseguirsi di tre differenti fasi temporali (Cornelissen et al. 1997): una di rapido
desorbimento che avviene nei primi giorni, una fase di desorbimento lento, dell’ordine
delle settimane, ed una di desrorbimento molto lento che avviene dopo mesi o anni. In
particolare può essere descritto mediante la seguente relazione del primo ordine:
S(t )
−K ⋅t
−K
⋅t
= Frap ⋅ e rap + Fslow ⋅ e −K slow ⋅t + Fv _ slow ⋅ e v _ slow
S0
dove S(t) ed S0 rappresentano rispettivamente la concentrazione di contaminante
adsorbita al tempo t ed al tempo 0, Frap, Fslow e Fv_slow rappresentano le frazioni di
contaminante presente nei compartimenti rapidamente, lentamente e molto lentamente
desorbibili ed infine i k rapresentano i tassi di desorbimento nei rispettivi comparti.
Rifacendoci al modello presentato in precedenza il comparto rapidamente desorbibile
può essere associato al Dominio 1, il comparto lento alla sostanza organica amorfa e
quello molto lento alla sostanza organica condensata.
Da quanto detto finora si evince che il fenomeno di adsorbimento-desorbimento è
influenzato dai seguenti parametri:
•
Contenuto di sostanza organica
•
Forma e struttura della sostanza organica
•
Durata dell’esposizione
Altri fattori influenzano il processo di adsorbimento-desorbimento sono:
•
Temperatura
•
Presenza di composti organici recenti
•
Salinità
•
Rapporto Acqua/Sedimenti
•
pH
La temperatura (Ten Hulscher et al., 1996) influisce sia sulle cinetiche di adsorbimento
veloce che di adsorbimento lento. In particolare la dipendenza della temperatura sul
31
Cap. 1
I sedimenti contaminati
tasso di adsorbimento veloce può essere descritta mediante una relazione di
Arrhenius:
K = A ⋅e
−
E
R⋅T
Se il processo di adsorbimento lento viene schematizzato come un processo diffusivo,
allora il coefficiente di diffusione di Fick in funzione della temperatura segue la
relazione:
D = D0 ⋅ e
−
E
R⋅T
Da quanto detto si evince che la temperatura influenza negativamente il processo di
adsorbimento veloce (più è alta la temperatura meno rapido è l’adsorbimento) mentre
favorisce il processo di adsorbimento lento (più la temperatura è alta, più è rapido
l’adsorbimento). In tempi brevi quindi la temperatura potrebbe sembrare un parametro
ininfluente in quanto i due contributi possono bilanciarsi.
Recenti ricerche (Cornelissen et al. 1999) hanno mostrato che la presenza di composti
organici adsorbiti da breve tempo influenzano il processo di desorbimento di quelli
adsorbiti da lungo tempo (cosiddetti “aged contaminants”); in particolare per questi
ultimi si riduce la frazione Fslow incrementandosi conseguentemente la frazione in fase
liquida. Per tale motivo bisogna porre particolare attenzione nella gestione di fanghi di
dragaggio contaminati da lungo tempo: un’ulteriore immissione di composti chimici
potrebbe incrementare la concentrazione in fase acquosa dei contaminanti “vecchi”.
La solubilità in acqua dei composti organici diminuisce all’aumentare della forza ionica
in quanto l’acqua, in presenza di ioni disciolti, è più ordinata e compressibile ed i volumi
delle cavità disponibili ad ospitare i soluti organici sono ridotti. Per soluzioni che
presentano una concentrazione di sali superiore ad 1 M questo effetto, noto con il
nome di “salting out”, viene descritto dalla relazione:
log
C 0sat
= σ ⋅ [salt ]
C sw
sat
dove C0sat e Cswsat indicano rispettivamente la solubilità a saturazione del composto in
acqua pura ed in acqua salata, [salt] è la concentrazione molare del sale e σ (espresso
in l/moli) è una costante empirica.
Poiché la solubilità in acqua dei composti organici e la loro tendenza ad adsorbirsi alle
particelle solide sono inversamente correlati, allora è possibile desumere che ad un
32
Cap. 1
I sedimenti contaminati
aumento della forza ionica corrisponde un incremento del coefficiente di partizione. In
particolare la relazione che lega il coefficiente di partizione con la salinità è la seguente
(Turner e Rawling, 2001):
K Dsw = K D0 ⋅ e K ads ⋅S
dove KswD e K0D indicano rispettivamente il coefficiente di partizione in acqua salata ed
in acqua pura, Kads è una costante (legata a σ) ed infine S indica la salinità.
Tuttavia recenti ricerche (Turner e Rawling, 2001) hanno mostrato che la variabilità del
coefficiente di partizione è fortemente correlato anche alla concentrazione di particelle
nella sospensione acquosa: all’aumentare del contenuto di secco, si riduce la
dipendenza della salinità sul coefficiente di partizione, in fig. 1.9 è riportato l’andamento
del coefficiente di partizione per il tetraclorobifenile al variare della salinità per differenti
tenori di secco.
Fig. 1.9 Andamento del coefficiente di partizione (per il tetraclorobifenile) al variare della salinità
e per differenti concentrazioni di secco.
Gli stessi autori hanno proposto la seguente relazione:
K D = a ⋅ SPM −b ⋅ e −2,303⋅σ⋅S
avendo indicato con SPM la concentrazione di secco nella sospensione (mg/l) e con a
e b due costanti sperimentali.
Il coefficiente di partizione suolo-acqua della sostanza organica dipende, come detto,
anche dal pH: all’aumentare del pH aumenta la solubilità della sostanza organica. A
bassi pH (tipicamente inferiori a 5), più del 90% della matrice organica disciolta è
33
Cap. 1
I sedimenti contaminati
composta da acidi fulvici. A pH più elevati aumentano sia gli acidi fulvici disciolti che
quelli umici, ma all’aumentare del pH il rapporto acidi fulvici/ acidi umici aumenta (Yu et
al., 1999)
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Cap. 1
I sedimenti contaminati
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Cap. 1
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36
Cap. 2
Aspetti normativi
Capitolo 2
A S P E T T I N O R M AT I V I
Normativa Italiana
Per quel che riguarda il contesto nazionale, non esiste ancora una normativa che
affronti il problema dei sedimenti contaminati, ma utili indicazioni possono essere tratte
dal Decreto Legislativo n° 22 del 5 febbraio 1997, noto come Decreto Ronchi e dalle
successive modifiche, e riguardante rifiuti solidi, qualità delle acque e bonifica dei siti
inquinati. I fanghi di dragaggio, qualora ne esista la necessità di disfarsene, sono
considerati rifiuti in quanto contemplati nell’allegato “A” al decreto e al recepimento
della Decisione della Commissione del 3 maggio 2000, che individuano il materiale
(CER 2002) con il codice 17 05 05 (fanghi di dragaggio contenenti sostanze
pericolose) e 17 06 06 (fanghi di dragaggio diversi dalla voce 17 05 05).
Nel successivo Decreto Ministeriale del 5 febbraio 1998 “Individuazione dei rifiuti non
pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e
33 del decreto legislativo n. del 22 5 febbraio 1997,” vengono definite le norme
tecniche generali che individuano i tipi di rifiuti non pericolosi e vengono fissati, per
ciascuna tipologia, il tipo di attività ed il metodo di recupero.
In particolare per i fanghi provenienti da attività di dragaggio (di fondali dei laghi, dei
canali navigabili o irrigui e corsi d’acqua, pulizia di bacini idrici) sono stabiliti i seguenti
recuperi:
•
formazione di rilevati e sottofondi stradali previo essiccamento ed eventuale
igienizzazione;
•
esecuzione di terrapieni e arginature, ad esclusione delle opere a contatto diretto o
indiretto con l’ambiente marino, previo essiccamento ed eventuale igienizzazione.
Purché però i fanghi di dragaggio presentino le seguenti caratteristiche:
−
contenuto d’acqua < 80%
−
idrocarburi totali < 30 mg/kg SS
−
PCB < 0,01 mg/kg SS
−
IPA < 1 mg/kg SS
−
Pesticidi organoclorurati < 0,01 mg/kg SS
37
Cap. 2
Aspetti normativi
−
Coliformi fecali < 20 MPN in 100 ml;
−
Salmonelle assenti in 5000 ml.
Inoltre i fanghi di dragaggio dovranno superare il test di cessione con l'eluizione dei
componenti effettuata tramite immersione del campione in acqua deionizzata, e
rinnovo ad intervalli di tempo prestabiliti, per una durata totale della prova di 16 giorni
al fine di rispettare i seguenti limiti:
Nitrati mg/l NO3 50
Vanadio µg/l V 250
Fluoruri mg/l F 1,5
Arsenico µg/l As 50
Solfati mg/l SO4 250
Cadmio µg/l Cd 5
Cloruri mg/l Cl 200
Cromo totale µg/l Cr 50
Cianuri µg/l Cn 50
Piombo µg/l Pb 50
Bario mg/l Ba 1
Selenio µg/1 Se 10
Rame mg/l Cu 0.05
Mercurio µg/l Hg 1
Zinco mg/l Zn 3
Amianto mg/l 30
Berillio µg/l Be lo
COD mg/l 30
Cobalto µg/l Co 250
pH 5.5 < > 12,0
Nichel µg/l Ni 10
Ulteriori informazioni sui sedimenti sono contenute nel Decreto Legislativo n.152
dell’11 maggio 1999, che al titolo III (“tutela dei corpi idrici e disciplina degli scarichi”)
capo IV (“ulteriori misure per la tutela dei corpi idrici”), considera (art. 35) l’attività di
immersione in mare di materiale derivante da escavo e posa in mare di cavi e
condotte. Nel decreto si stabilisce che tale attività è consentita solo quando sia
dimostrata l’incompatibilità di utilizzo per ripascimento, recupero, ovvero di smaltimento
alternativo in conformità alle modalità che saranno stabilite dal decreto attuativo
(previsto dallo stesso articolo al comma 5), ma non ancora emanato.
Allo stato attuale lo smaltimento in mare di materiale da escavo è regolato ancora dal
Decreto Ministeriale 24 gennaio 1996 (che si rifà alla legge del 10 maggio 1976 n.
319), secondo cui la zona di scarico non deve ricadere in aree protette o sensibili, ed
inoltre è specificato che è comunque vietato lo scarico in mare di:
•
materiali di dragaggio classificabili come rifiuti pericolosi ai sensi della Delibera del
Comitato Interministeriale 27 luglio 1984, ex art. 5 del D.P.R. n. 915 del 1982,
abrogato dagli allegati D, G, H, I, al D.L. n.22 del 5 febbraio 1997;
38
Cap. 2
•
Aspetti normativi
materiali di dragaggio che contengano i componenti specificati negli allegati I e II
alla legge n.30 del 25 gennaio 1979 (con particolare riferimento a Sostanze
organo-alogenate; Mercurio e suoi composti; Cadmio e suoi composti; Antimonio,
arsenico, berillio, cromo, nickel, piombo, rame, selenio, vanadio, zinco e loro
composti sopra elencati; Cianuri e fluoruri; Petrolio grezzo ed idrocarburi derivati;
Pesticidi e loro isomeri e sottoprodotti diversi da quelli classificati al punto 1;
Composti organostannici; Rifiuti ed altre materie fortemente, mediamente e
debolmente radioattive come definite dall’Agenzia Internazionale dell’Energia
Atomica
(I.A.E.A.);
Microrganismi
potenzialmente
nocivi),
in
quantità,
concentrazione o stato chimico-fisico tali da compromettere l’equilibrio produttivo
delle risorse biologiche interessanti la pesca o l’acquacoltura o la fruizione delle
spiagge e la balneazione o modificare in senso negativo le qualità organolettiche
ed igienico sanitarie delle produzioni ittiche o alterare significativamente l’equilibrio
ecosistemico esistente:
I fanghi di dragaggio, come precisato nell’allegato G-2 al D.L. n.22 1997, sono
considerati rifiuti pericolosi qualora contengano uno dei costituenti elencati nell’allegato
H e abbiano una delle caratteristiche elencate nell’allegato I dello stesso decreto.
Qualora classificati come rifiuti pericolosi, i fanghi di dragaggio non possono essere
smaltiti in discariche per rifiuti solidi urbani, per cui è necessario prevedere dei
trattamenti opportuni per consentire il raggiungimento di caratteristiche non pericolose,
altrimenti va effettuato lo smaltimento in discariche di categorie diverse da quelle
previste per i rifiuti solidi urbani.
A tal riguardo si precisa che attualmente non è stata ancora emanata una nuova
normativa in materia di discariche, per cui è ancora in vigore la Delibera
Interministeriale del 27/7/1984, che fa riferimento ad una vecchia classificazione dei
rifiuti in speciali e tossico nocivi e che prevede precisamente una distinzione tra le
seguenti:
Discariche di seconda categoria tipo B per rifiuti speciali: possono ricevere fanghi
addensati contenenti sostanze organiche di sintesi (la concentrazione di ciascuna delle
sostanze non deve essere superiore ad un centesimo di quella limite). I singoli metalli
nel tal quale devono essere presenti in misura Ci inferiore alle concentrazioni limite Cl e
la sommatoria dei rapporti ΣCi/Cl devono essere inferiori ad 1. Dopo il test di cessione
39
Cap. 2
Aspetti normativi
(secondo le norme IRSA-CNR) le concentrazioni di metalli devono essere inferiori di 10
volte i valori di tabella (L.319/1976), e la sommatoria dei rapporti inferiore a 30.
Discariche di seconda categoria tipo B per rifiuti tossici e nocivi: possono ricevere
fanghi addensati contenenti sostanze organiche di sintesi nei limiti di cui al caso
precedente; i metalli nel tal quale in concentrazioni superiori a quelle limite con rapporti
di sommatoria anche maggiori di 1; per gli eluati vale quanto detto nel caso
precedente.
Discariche di seconda categoria tipo C: possono ricevere fanghi addensati contenenti
sostanze organiche di sintesi nei limiti di cui al caso precedente, metalli nel tal quale e
negli eluati senza limiti. Se l’eluato eccedesse le concentrazioni di riferimento i fanghi
dovrebbero essere inertizzati presso impianti abilitati esterni quando essi fossero stati
classificati come pericolosi secondo il decreto legislativo n° 22 del 5 febbraio 1997.
Un altro riferimento esplicito ai sedimenti marini si trova sempre nel Decreto Legislativo
n. 152 del 11 maggio 1999 allegato I (“monitoraggio e classificazione delle acque in
funzione degli obiettivi di qualità ambientali”), che, ai sensi degli articoli 3 e 4, stabilisce
i criteri per individuare i corpi idrici significativi e per stabilire lo stato di qualità
ambientale di ciascuno di essi. All’articolo 3 (monitoraggio e classificazione delle acque
superficiali”), punto 3.4, si esamina il caso delle acque marine costiere e tra gli
indicatori di qualità e le analisi da effettuare è precisato che ad integrazione delle
analisi sull’acqua vanno effettuate analisi e saggi biologici sui sedimenti e sul biota al
fine di concorrere alla definizione dello stato chimico e alla definizione delle classi di
qualità chimica ed ecologica delle acque.
Il monitoraggio del biota e dei sedimenti è necessario per rilevare specifiche fonti di
contaminazione e per indicazioni sui livelli di compromissione del tratto di costa
considerata.
Un’ulteriore indicazione per la caratterizzazione e classificazione dei fanghi è fornita
dal Protocollo recante criteri di sicurezza ambientale per gli interventi di escavazione,
trasporto e reimpiego dei fanghi estratti dai canali di Venezia (art.4, comma 6, Legge
360/91), emanato dal Ministero dell’Ambiente il 28 Aprile 1993 per far fronte alla
necessità di dragare i sedimenti accumulatisi in grandi quantità nei rii del centro storico
di Venezia. Tale protocollo, sebbene sia stato emanato per far fronte ad una situazione
di emergenza locale, e nonostante le procedure in esso previste siano definite di
carattere sperimentale e di durata di 12 mesi dalle attività in progetto, può fornire utili
40
Cap. 2
Aspetti normativi
indicazioni nella gestione del problema dei sedimenti contaminati a livello nazionale,
soprattutto per individuare i livelli di contaminazione accettabili.
Inoltre, si forniscono le modalità di ubicazione della stazioni di campionamento lungo i
riii, le modalità di prelievo e le analisi da eseguire per caratterizzare i fanghi dragati.
Sono previste:
•
Analisi granulometriche: peso specifico reale, peso specifico del costituente solido,
umidità, limite del liquido, limite plastico, Indice plastico, grado di plasticità;
•
Analisi chimiche e fisico-chimiche: residuo a 105°C e a 500°C, potenziale redox,
TOC, N-NH4, N-( NO2, NO3), N-Tot, P-PO4, P-Tot, solfuri, tesioattivi (MBAS),
cianuri, floruri, As, Cd, Hg, Ni, Pb, Cu, Zn, policlorobifenili, pesticidi clorurati,
idrocarburi totali, idrocarburi policilici aromatici, e Se, V, Be, Sb, qualora le
caratteristiche degli scarichi ne rendano possibile la presenza;
•
Analisi microbiologiche: coliformi totali, coliformi fecali, streptococchi fecali,
salmonelle.
In base ai valori delle concentrazioni riscontrate, è possibile classificare i fanghi non
risultanti tossici e nocivi in quattro categorie, sulla base delle medie delle risultanze
analitiche di tutti i campioni prelevati, ed in conformità con i valori di concentrazione
indicati in tabella 2.1.
Per ciascuna categoria sono previsti utilizzi e recapiti diversi quali:
1. Sedimenti di “classe A” Interventi di ripristino di morfologie lagunari
(ricostituzione di barene erose e recupero di zone depresse) comportanti il contatto
diretto o indiretto dei materiali di escavazione con le acque della laguna e
suscettibili di rimettere in ciclo nelle acque lagunari il materiale stesso, e per i quali
potranno essere utilizzati solo fanghi conformi ai valori della colonna A della tabella
2.1.
2. Sedimenti di “classe B” Interventi riguardanti il recupero ed il ripristino di isole
lagunari, realizzati in modo tale da garantire un confinamento permanente del
materiale utilizzato così da impedire ogni rilascio di inquinanti nelle acque lagunari,
e per i quali potranno essere utilizzati fanghi conformi ai valori della colonna B della
tabella 2.1. Il sito, inoltre, deve essere conterminato in maniera da evitare erosioni
e sommersioni in caso di normali alte maree.
3. Sedimenti di “classe C” Per gli interventi riguardanti ampliamenti ed innalzamenti
di isole permanentemente emerse o di aree interne limitrofe alla contaminazione
41
Cap. 2
Aspetti normativi
lagunare, realizzate con confinamento permanente costituito da strutture dotate di
fondazioni profonde e continue, tali da evitare sia in corso d’opera che ad opera
compiuta qualsivoglia rilascio di specie inquinanti a seguito di processi di erosione,
dispersione ed infiltrazione di acque meteoriche. Per questa tipologia di intervento
potranno utilizzarsi fanghi conformi ai valori della colonna C della tabella 2.1.
4. Sedimenti di “classe oltre C” I fanghi caratterizzati da concentrazioni superiori a
quelle indicate nella colonna C della tabella 2.1, comunque non classificabili come
tossici e nocivi, potranno essere utilizzati per il ripristino altimetrico di aree
depresse al di fuori della conterminazione lagunare. In tal caso dovranno essere
assicurati il totale isolamento e impermeabilizzazione dei fanghi.
Tale protocollo è stato inoltre esteso ai canali di grande navigazione di Venezia dal
"ACCORDO DI PROGRAMMA SULLA CHIMICA A PORTO MARGHERA" D.P.C.M.
12/02/1999, che al punto 3.1 a) [Quadro degli interventi - Azioni di risamento a tutela
dell'ambiente - Scavo dei Canali] riporta "Alla bonifica dei canali industriali portuali e
immediatamente collegati, da Fusina al canale Vittorio Emanuele, provvederanno, nel
rispetto del protocollo 8 aprile 1993, il Magistrato alle Acque e l'Autorità Portuale di
Venezia che entro il 31/12/1999 effettueranno gli accertamenti sistematici sullo stato di
compromissione dei fondali, concludendo le operazioni di scavo entro il 2005."
42
Cap. 2
Aspetti normativi
Tab. 2.1: Classificazione dei sedimenti della laguna di Venezia. Le concentrazioni sono
espresse in mg/kg di sostanza secca. Per un unico parametro è ammesso un superamento del
10% del limite fissato in tabella.
CLASSE
A
B
C
Hg
[mg kgTS-1]
0,5
2
10
Cd
[mg kgTS-1]
1
5
20
Pb
[mg kgTS-1]
45
100
500
As
[mg kgTS-1]
15
25
50
Cr
[mg kgTS-1]
Cu
20
100
500
-1
40
50
400
-1
[mg kgTS ]
Ni
[mg kgTS ]
45
50
150
Zn
[mg kgTS-1]
200
400
3.000
Idrocarburi totali
[mg kgTS-1]
30
500
4.000
IPA totali
[mg kgTS-1]
1
10
20
PCB totali
[mg kgTS-1]
0,01
0,2
2
0,001
0,02
0,5
-1
Pesticidi org. clorurati totali [mg kgTS ]
43
Cap. 2
Aspetti normativi
Normativa Europea
Anche in ambito Comunitario non esiste una normativa organica riguardante i fanghi di
dragaggio, per cui nel seguito verranno brevemente riprese le Direttive e le Decisioni
della Comunità Europea in qualche modo connesse ai fanghi di dragaggio.
Nella Direttiva 75/442/EEC del 15 luglio 1975 relativa ai rifiuti, viene specificato che per
“rifiuto” è da intendersi “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie
riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di
disfarsi”; per cui il termine rifiuto è indipendente dal grado di contaminazione ed in
questo senso anche materiali “puliti” possono essere classificati come rifiuti.
Inoltre la Commissione, secondo quanto stabilito nell’art. 1, prepara periodicamente un
elenco dei rifiuti. In particolare la Decisione della Commissione 2000/532/CE
rappresenta la revisione più recente dell’elenco di rifiuti (EWC European Waste
Catalogue).
I fanghi di dragaggio sono menzionati in questo elenco di rifiuti sotto il codice 17
relativo a “rifiuti delle operazioni di costruzione e demolizione (compreso il terreno
proveniente da siti contaminati)” ed il codice a quattro cifre “1705 terra (compreso il
terreno proveniente da siti contaminati) rocce e fanghi di dragaggio”. Le voci che
riguardano i sedimenti sono:
17 05 05
fanghi di dragaggio, contenente sostanze pericolose
17 05 06
fanghi di dragaggio, diversa da quella di cui alla voce 17 05 05
Ai fini della presente decisione per "sostanza pericolosa" si intende qualsiasi sostanza
che è o sarà classificata come pericolosa ai sensi della direttiva 67/548/CEE e
successive modifiche.
I materiali dragati vengono menzionati ancora nella Direttiva 1999/31/CE del 26 aprile
1999 relativa alle discariche, che riconosce l’importanza di “attribuire maggiore
rilevanza (..) alla questione del trattamento dei fanghi di dragaggio”.
In accordo a quanto stabilito dall’art. 2, per "discarica" si intende un'area di smaltimento
dei rifiuti adibita al deposito degli stessi sulla o nella terra (vale a dire nel sottosuolo),
compresa:
•
la zona interna adibita allo smaltimento dei rifiuti (cioè la discarica in cui lo
smaltimento dei rifiuti avviene nel luogo medesimo in cui essi sono stati prodotti e
ad opera di chi li ha prodotti);
44
Cap. 2
•
Aspetti normativi
un'area adibita in modo permanente (cioè per più di un anno) al deposito
temporaneo di rifiuti,
ma esclusi:
•
gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo
trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e
•
i depositi di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre
anni come norma generale, o
•
i depositi di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno.
Sono esclusi (art. 3) dall’ambito di applicazione della presente Direttiva:
•
lo spandimento di fanghi, compresi i fanghi di fogna e i fanghi risultanti dalle
operazioni di dragaggio, e materie analoghe sul suolo a fini di fertilizzazione o
ammendamento;
•
l'uso di rifiuti inerti idonei in lavori di accrescimento/ricostruzione e riempimento o a
fini di costruzione nelle discariche;
•
il deposito di fanghi di dragaggio non pericolosi presso corsi d'acqua minori da cui
sono stati dragati e di fanghi non pericolosi nelle acque superficiali, compreso il
letto e il sottosuolo corrispondente;
•
il deposito di terra non inquinata o di rifiuti inerti non pericolosi ricavati dalla
prospezione ed estrazione, dal trattamento e dallo stoccaggio di minerali, nonché
dall'esercizio di cave.
Infine, la Comunità Europea, con Decisione del Consiglio n. 93/98 del 01 febbraio 1993
e successiva modifica con Decisione 97/640/CE del 22 settembre 1997, ha approvato
la convenzione sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e del loro
smaltimento (Convenzione di Basilea). Secondo tale Convenzione sono vietati tutti i
movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi, ai sensi della Convenzione stessa, verso
Stati che non siano membri dell'OCSE, CE e Liechtenstein. Tali movimenti
transfrontalieri non sono vietati a meno che i rifiuti in questione siano caratterizzati
come rifiuti pericolosi ai sensi della convenzione.
I materiali dragati sono sottoposti a tale decisione del Consiglio, se classificati come
rifiuti pericolosi ai sensi della convenzione di Basilea.
45
Cap. 2
Aspetti normativi
In ultima analisi, è opportuno citare un documento di interesse storico, che è il primo
riguardante la protezione dei corpi idrici marini, e che l’Italia ha ratificato nel 1984: la
Convenzione di Londra del 29 Dicembre 1972.
Tale Convenzione riguarda la “prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo
scarico di rifiuti ed altre materie” e segna una svolta nella gestione dei sedimenti di
dragaggio, il cui scarico a mare era fino ad allora libero ed incontrollato.
Questo documento nasce dal riconoscimento degli Stati contraenti dello stesso,
dell’importanza dell’ambiente marino e degli “organismi viventi che esso nutre” per
l’umanità, e dal riconoscimento che “la capacità del mare di assimilare i residui e di
renderli innocui e le sue possibilità di rigenerare le risorse naturali non sono illimitate”.
L’articolo IV della presente convenzione detta le seguenti disposizioni:
•
è vietato lo scarico di qualunque rifiuto o materiale elencato nell’Allegato I, il quale
comprende i composti organo-alogenici, il mercurio e i suoi composti, il cadmio e i
suoi composti, plastiche ed altri materiali sintetici non distruttibili, il petrolio greggio
e suoi residui e prodotti raffinati, residui e materiali molto radioattivi, i materiali
prodotti per la guerra biologica e chimica sotto qualunque forma;
•
lo scarico di rifiuti e di altri materiali elencati nell’Allegato II è permesso solo previo
rilascio di un’autorizzazione specifica;
•
lo scarico di qualunque altro materiale non compreso nei primi due allegati è
permesso solo previo rilascio di un’autorizzazione generale;
•
qualsiasi tipo di autorizzazione può essere rilasciata solo dopo l’analisi accurata dei
fattori elencati nell’Allegato III che sono i seguenti:
-
caratteristiche e composizione del materiale;
-
caratteristiche dei luoghi di scarico e metodi di scarico;
-
considerazioni e circostanze generali (ad esempio eventuali conseguenze sulle
zone di interesse turistico, o su flora e fauna marine).
Nel Dicembre 1995 con la Risoluzione LC52(18) gli stati firmatari hanno adottato il
“Dredged Material Assessment Framework”, che va a sostituire le linee guida per
l’Applicazione degli Allegati relativi allo smaltimento del materiale dragato in mare,
adottati con la risoluzione LDC.23(10). In particolare in tale documento viene ribadito il
concetto secondo cui anche se i risultati della caratterizzazione fisica/chimica/biologica
indicheranno ammissibile la disposizione in mare del materiale dragato è nondimeno
importante valutare la possibilità di un eventuale riutilizzo.
46
Cap. 2
Aspetti normativi
Inoltre nel caso in cui le caratteristiche del materiale dragato non siano idonee alla
disposizione in mare, si potrebbe pensare ad intervenire con sistemi di trattamento per
ridurre o controllare gli impatti in modo da non costituire un pericolo per salute umana e
per le risorse viventi.
Sistemi di trattamento come ad esempio la separazione di frazioni contaminate che
possono rendere il materiale adatto ad un riutilizzo. Ulteriori opzioni di gestione
possono includere collocamento in mare seguito da una copertura con sedimento
pulito, utilizzo di interazioni e trasformazioni geochimiche delle sostanze presenti nei
materiali dragati, scelta di siti particolari come zone abiotiche, o metodi di contenimento
del materiale in modo stabile.
Viene inoltre posta particolare attenzione alla fase di monitoraggio seguente la
disposizione in mare del materiale dragato al fine di verificare l’eventuale impatto che
in fase di richiesta del permesso per l’autorizzazione dello scarico in mare è stato solo
ipotizzato.
Un altro importante aspetto evidenziato in questo documento è, infine, la necessità di
intervenire a monte del problema: considerato che il dragaggio è un’operazione in molti
casi necessaria, bisogna puntare a ridurre e prevenire la contaminazione dei sedimenti
in modo da facilitarne la gestione e favorire il riutilizzo.
47
Cap. 2
48
Aspetti normativi
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Capitolo 3
T E C N O L O G I E D I P H Y TO R E M E D I AT I O N
Generalità
L’idea che le piante possono essere usate nell’ambito di sistemi di depurazione delle
acque e di bonifica di suoli contaminati è nota da molto tempo (Raskin et al., 1997). In
generale, l’utilizzo di piante per rimuovere composti inquinanti dall’ambiente (siano essi
organici o inorganici), ovvero per renderli meno pericolosi, prende il nome di
phytoremediation.
Il principio che è alla base della rimozione nella phytoremediation è legato
all’accrescimento dell’organismo vegetale e più in particolare all’assorbimento degli
elementi chimici di cui necessita. Infatti la pianta oltre a CO2 e H2O, per la propria
crescita e sussistenza (organicazione del carbonio), necessita di macro nutrienti (N e
P) e di micro quali: K, Ca, Mg, S, Fe, Cl, Zn, Mn, Cu, B e Mo ecc. e sono proprio questi
i micro elementi considerati inquinanti nelle acque e nei siti contaminati.
Questi elementi o micronutriliti possono essere assimilati passivamente, o attivamente,
quindi con dispendio energetico, grazie all’utilizzo di specifici o generici trasportatori di
membrana: ion carriers e canali (Clarkson, 1989).
Secondariamente attraverso questi meccanismi, anche altri elementi non essenziali
come ad esempio Pb, Cd e As possono essere prelevati dalle radici; probabilmente
questo processo di suzione è legato alle analoghe dimensioni che caratterizzano gli
elementi, piuttosto che ad una eccessiva specializzazione dei canali ionici nei confronti
di un substrato specifico.
L’assorbimento non è il solo meccanismo di “stabilizzazione” dei contaminanti, e in
funzione dei vari habitat ed esigenze funzionali, nel corso dei millenni, le piante hanno
sviluppato degli adattamenti per sopravvivere in ambienti ostili: molti elementi chimici
possono essere potenzialmente tossici per le piante, in dipendenza della loro
concentrazione. Alcune piante però sono in grado di bloccare il loro effetto tossico
attraverso vari meccanismi; uno è quello di accumulare gli elementi tossici nei vacuoli
delle cellule, che fungono da veri serbatoi di stoccaggio, impedendone la libera
circolazione all’interno dell’organismo. Un altro meccanismo è quello di bloccare gli
49
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
elementi tossici sulla superficie esterna delle radici, inibendone direttamente l’ingresso
(ITRC, 2001)
Gli essudati radicali hanno un ruolo molto importante per la vita della pianta:
consentono lo sviluppo di una flora batterica molto fitta, che si accresce nella zona
radicale nutrendosi degli essudati ed offrendo in cambio alla pianta una protezione da
agenti patogeni ed un eventuale aumento della traspirazione dell’acqua e dei nutrienti
da parte delle radici (simbiosi, mutalismo ecc.). Questo insieme di radici, suolo ed
organismi è noto con il nome di rizosfera, e si estende da 1 a 3 mm dalla superficie
delle radici.
50
Cap. 3
3.1
Tecnologie di phytoremediation
Interazione degli elementi metallici con la
vegetazione
Il suolo è il substrato naturale sul quale compiono il loro ciclo biologico le piante
superiori, ed in pratica tutte le specie d’interesse agrario. Perché tale ciclo si svolga nel
modo migliore è necessario che siano soddisfatte le condizioni di ordine fisico, chimico
e biologico più idonee per assicurare la fertilità, che viene quindi definita come
l’attitudine di un suolo a garantire alle piante il compimento ottimale del loro ciclo
biologico. Il suolo costituisce la fonte primaria dalla quale la pianta assume la maggior
parte degli elementi nutritivi e l’acqua. Accanto ai nutrienti inorganici essenziali quali N,
P, K, Ca, Mg, Fe, Cl, Zn, Cu, B, Mo, O, vengono però anche introdotte sostanze, sia di
origine inorganica che organica, che non solo non sono indispensabili per la
sopravvivenza della specie ma che in alte concentrazioni possono rivelarsi tossiche.
Gli inquinanti che entrano nei tessuti vegetali, possono agire sui processi metabolici o
essere immagazzinati come sostanze inattive, comunque in grado di alterare e
danneggiare strutture, membrane e cellule. Tra gli effetti biologici, si manifestano
anche azioni di tipo mutageno, rilevabili attraverso anomalie cromosomiche. Il DNA
risulta infatti un bersaglio primario per i numerosi siti d’interazione che offre. Gli effetti
tossici dei metalli pesanti per le piante sono schematizzati nella tabella seguente:
Tab. 3.1: Effetto biochimico dell’eccessiva concentrazione dei metalli pesanti nelle piante. (B. J.
Alloway et al. 1997)
Elementi
Processi biochimici colpiti
Ag, Au, Cd, Cu, Hg, Pb, F, I, U
Variazioni di permeabilità delle membrane
cellulari
Hg
Inibizione della sintesi proteica
Ag, Hg, Pb, Cd, As(III), Tl
La maggior parte dei metalli pesanti
Arseniati, telluriati
Formazione di complessi con gruppi
sulfidrilici
Affinità con il gruppo fosfato e gruppi ATP,
ADP
Occupazione di siti di gruppi essenziali come
fosfati, bromuri, fluoruri
Tl, Pb, Cd
Inibizione di enzimi
Cd, Pb
Respirazione
Cd, Pb, Hg, Tl, As
Traspirazione
Cd, Co, Cr, F, Hg, Mn, Ni, Se, Zn
Clorosi
Al, Cu, Fe, Pb, Rb
Foglie di tonalità più scura
51
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Le caratteristiche chimico-fisiche del suolo (pH, colloidi, sostanza organica, etc.)
condizionano le possibilità di assorbimento radicale dei metalli pesanti. L’uptake degli
elementi avviene dalla fase liquida, per cui il contenuto di metalli nella soluzione del
suolo è di primaria importanza. Mediamente, la tossicità in soluzione dei metalli
diminuisce secondo il seguente ordine: CH3Hg>Hg>Cd>Cu>Pb>Zn (Borghi L.).
3.2
Fitostabilizzazione
Con il termine fitostabilizzazione si intende l’utilizzo di specie vegetali al fine di ridurre
la biodisponibilità dei contaminanti nell’ambiente. Questo meccanismo avviene nella
zona radicale, in cui i contaminanti entrano in contatto con la pianta. Il principio è quello
di immobilizzare i contaminanti per accumulo, per assorbimento o per precipitazione
sulle radici, rendendoli in una forma stabile ed impedendone la diffusione all’interno
della pianta; in questo modo si riduce il rischio di mobilità delle sostanze prevenendo la
migrazione nel suolo, nelle acque di falda e nell'atmosfera.
La fitostabilizzazione può avvenire in tre zone, in quella radicale, sulle membrane delle
cellule delle radici o all’interno delle cellule radicali:
stabilizzazione nella zona radicale: proteine ed enzimi generati dal metabolismo
vegetale ed essudati dalle radici hanno la capacità di condurre a precipitazione o
immobilizzazione i contaminanti presenti nelle immediate vicinanze, riducendo in
questo modo la frazione di quelli biodisponibili (ITRC, 2001).
stabilizzazione sulle membrane dell’apparato radicale: enzimi e proteine direttamente
associate con le pareti cellulari possono stabilizzare i contaminanti sulla superficie
esterna della radice stessa per adsorbimento, impedendo così una loro traslocazione
all’interno dell’organismo (ITRC, 2001).
stabilizzazione all’interno delle cellule radicali: i contaminanti vengono trasportati
all’interno delle cellule delle radici, attraverso le membrane cellulari, in associazione
con enzimi e proteine, ed immagazzinati all’interno dei vacuoli, da dove non possono
fuoriuscire ed arrivare alla parte aerea della pianta attraverso i canali linfatici (ITRC,
2001).
52
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Fig. 3.2: Meccanismi di fitostabilizzazione. (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr. 2001)
Fitostabilizzazione dei metalli
L’azione di stabilizzazione dei contaminanti da parte delle piante, può in certi casi
essere esaltata attraverso l’aggiunta di agenti chimici (ammendanti) che rendono
insolubili i contaminanti stessi.
I contaminanti insolubili hanno infatti poche possibilità di essere lisciviati dalle acque di
pioggia, d’altra parte una copertura vegetale riduce notevolmente i fenomeni di
erosione e trasporto del materiale contaminato, riduce il contatto diretto col suolo e,
attraverso il processo di evapotraspirazione riduce il flusso d’acqua percolante.
Questa tecnica può essere applicata in quei siti la cui area è troppo estesa per poter
pensare ad una completa decontaminazione, oppure in quelle zone in cui la tecnologia
di decontaminazione più appropriata richiede molto tempo ed è necessario contrastare
la dispersione dei contaminanti, per erosione o lisciviazione.
Diversamente da come avviene per la fitoestrazione, le piante utilizzate per la
fitostabilizzazione non devono essere capaci di assimilare grandi quantità di metalli nei
loro tessuti, inoltre devono avere una crescita rapida ed un apparato radicale piuttosto
esteso. Si preferiscono le piante con un elevato flusso di traspirazione e con una vita
lunga o un’elevata capacità di autopropagarsi (Raskin et al. 2000). Nel tempo infatti le
53
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
piante crescono, e le parti che di esse muoiono cadono al suolo incrementando lo
spessore della copertura, e fornendo una fonte nutritiva per gli organismi sviluppatisi
nel substrato, che a loro volta contribuiscono a stabilizzare o degradare i contaminanti
(Rock).
In questo tipo di applicazione sono importanti le pratiche di gestione delle piante, come
ad esempio l’aggiunta al substrato di ammendanti fosfatici, limo o sostanza organica,
che possono contribuire ad aumentare la stabilità dei metalli [c].
Così come le caratteristiche di un suolo o di sedimenti contaminati influenzano la
crescita e lo sviluppo delle piante, le piante stesse hanno degli effetti sulle condizioni
biogeochimiche del suolo o dei sedimenti nei quali sono radicate.
Le piante agiscono sulla mobilità dei metalli direttamente perché regolano le condizioni
di pH e potenziale redox (Wright, 1999).
Le radici di piante che crescono in terre umide (wetlands) si sviluppano in condizioni
anaerobiche, sono quindi in grado di resistere a basse concentrazioni di ossigeno
disciolto e ad elevate concentrazioni di metalli quali ferro e manganese, e talvolta ad
acidi organici ed altri prodotti di decomposizione della materia organica.
In realtà una certa quantità di ossigeno arriva ai tessuti sommersi delle piante, grazie a
degli spazi apertisi nel fusto, nelle radici e nei rizomi, che fungono da condotti per
l’ossigeno proveniente dai tessuti aerei, in cui si svolge la fotosintesi; in tal modo le
radici si trovano nelle condizioni di poter prelevare le sostanze nutrienti necessarie allo
sviluppo della pianta (Peverly et al, 1995).
La diffusione dell’ossigeno nella zona adiacente alle radici comporta la formazione di
una microzona aerobica, dunque un incremento locale del potenziale redox. Come
conseguenza delle condizioni meno riducenti, si ha il rilascio di metalli da precipitati e
solfuri insolubili, e la successiva precipitazione del ferro sulla superficie delle radici, con
formazione di una vera e propria placca.
L'entità dell’emissione di ossigeno dipende da numerosi fattori quali le specie di piante,
l'attività enzimatica del suolo/sedimenti, la permeabilità delle pareti delle cellule che
compongono le radici, la domanda di ossigeno esterno del suolo/sedimenti.
Le piante regolano le condizioni di pH attraverso l'assimilazione e il rilascio di cationi e
anioni.
É stato comunque osservato da alcuni studiosi che in suoli in cui è presente una
copertura vegetale il potenziale redox ed il pH assumono valori più elevati, e che la
54
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
concentrazione di metalli solubili risulta essere minore che in suoli in cui la copertura
vegetale è assente (Wright, 1999).
Placca metallica
I processi chimico-fisici o fisiologici relativi alla formazione di tale placca metallica non
sono ancora ben conosciuti, e la sua esatta composizione chimica è solo stata
ipotizzata, ma si è certi del coinvolgimento sia del rilascio di ossigeno da parte delle
radici, sia dell’attività di microrganismi presenti in prossimità di esse.
Sembra comunque che la placca abbia un’azione di filtro o di superficie adsorbente nei
confronti di altri metalli (Batty et al. 2000).
Da uno studio su suoli acquitrinosi (Doyle e Otte, 1997), si è potuto verificare che la
presenza di vegetazione e, solo marginalmente, di alcuni organismi ha un effetto
significativo sull’accumulo di metalli pesanti nel substrato, in particolare nella rizosfera.
Questo accumulo sarebbe da attribuire alla formazione della placca secondo un
meccanismo così ipotizzato: l’ossidazione dello ione ferroso Fe2+ a ione ferrico Fe3+
porterebbe alla precipitazione di ossidi di ferro nella rizosfera proprio a ridosso delle
radici, formando la placca che viene anche chiamata “placca di ferro”. Questa placca
di ferro legherebbe a se metalli come As e Zn, venendo a creare un gradiente di
concentrazione dei tre metalli disciolti tra la rizosfera e l’ambiente circostante. Tale
gradiente dovrebbe comportare la diffusione di Fe, As e Zn nella direzione delle radici
(Doyle e Otte, 1997).
La placca di ferro è stata osservata in un gran numero di piante cresciute in terre
umide (wetlands); essa è probabilmente costituita da una miscela di lepidocrocite (γFeOOH), geotite (α-FeOOH) e fosfato ferrico, ma può contenere anche diversi altri
metalli e metalloidi come Al, As, Cd, Cr, Hg, Ni, Pb e Zn.
Gli ossidi di Fe hanno un’elevata superficie specifica e possiedono dei gruppi funzionali
–OH capaci di reagire con metalli ed altri cationi ed anioni. Da alcuni studi effettuati da
Greipsson e Crowder (Windham et al. 2001; Evanko e Dzombak, 1997) su piante di
Oryza sativa, si è visto che la presenza della placca di ferro migliorava la crescita del
vegetale sotto condizioni di tossicità da rame e nickel.
In contrasto a tali risultati, altri autori trovarono invece che la presenza della placca non
aveva alcuna influenza sulla crescita della specie Typha latifolia soggetta ad elevate
concentrazioni di Cu, Zn, Ni, Pb e Cd.
In questo studio è stato trovato che il pH dell’ambiente di crescita delle piante influenza
notevolmente il prelievo dei metalli da parte delle radici. Per il Mn in particolare è stato
55
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
visto che a pH 3,5 le radici assorbivano minori quantità del metallo rispetto a condizioni
di pH 6, tale comportamento è stato attribuito al fatto che a bassi valori di pH ci sono
elevate concentrazioni di ioni H+ attorno alle radici, che competono con gli ioni metallici
inibendone l’ingresso all’interno del vegetale.
Elevate concentrazioni di ioni H+ mascherano gli effetti potenziali della placca di ferro
sul prelievo dei metalli da parte delle radici (Batty et al. 2000).
Correzioni del substrato
L’aggiunta di agenti chimici ammendanti al substrato in cui le piante si sviluppano, ha
la funzione di inattivare i contaminanti presenti, riducendone la biodisponibilità e/o
trasformandoli in forme poco solubili, al fine di ridurne l’interazione biologica con
l’uomo, gli animali e le piante.
Le caratteristiche che i correttori dovrebbero avere sono:
•
basso costo;
•
facilità di applicazione;
•
sicurezza nei confronti degli operatori che li applicano;
•
compatibilità e non tossicità nei confronti delle piante utilizzate per la copertura
vegetale;
•
incapacità di provocare impatto ambientale nel sito in cui vengono applicati.
Alcuni correttori del suolo hanno dei benefici secondari verso le piante stesse, come
fornire l’apporto di nutrienti essenziali per la crescita.
La natura dei correttori può essere diversa da caso a caso, in genere si tratta di
prodotti di rifiuto o sottoprodotti che devono essere riciclati, come solidi provenienti da
impianti di trattamento delle acque reflue, concimi animali e vegetali, e sottoprodotti
provenienti da processi industriali.
Tra i più efficienti correttori ci sono i fertilizzanti fosfatici, materia organica, minerali
argillosi sintetici o naturali, idrossidi di Fe e Mn o miscele di essi.
L’azione che tali correttori esplicano sui contaminanti metallici dipende dal tipo di
correttore e dai tipi di metalli in gioco, tra i meccanismi più frequenti ci sono comunque
quelli di precipitazione, umificazione, assorbimento e trasformazioni redox.
I composti del fosforo, che possono essere acido fosforico, fertilizzanti fosfatici e
sottoprodotti molto ricchi in fosforo hanno la capacità di bloccare i metalli in forme
altamente insolubili, specialmente il piombo, in tempi brevi ed in maniera stabile nel
tempo.
56
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Sebbene i correttori al fosforo siano i più promettenti tra tutti quelli esistenti, se non
utilizzati secondo una precisa pianificazione possono produrre effetti indesiderati, come
ad esempio la mobilitazione dell’arsenico, ed il rischio di un apporto di nutrienti ad
acque superficiali o di falda in prossimità dei siti.
I materiali contenenti idrossidi di Fe hanno una grande capacità di assorbimento dei
metalli pesanti come As, Cd, Pb, Ni, e Zn e ne riducono la loro mobilità nel suolo.
Anche materiali organici come compost, scarti, fanghi o sottoprodotti della combustione
dei combustibili fossili possono rendere “innocui” i metalli pesanti attraverso
l’assorbimento nei siti attivi o la complessazione.
Altri correttori utilizzati sono gli alluminosilicati naturali o artificiali ed alcuni zeoliti
sintetici, la cui azione è quella di assorbire i metalli.
Tab. 3.2: Azione degli ammendanti sui contaminanti.
Ammendante
Possibile
Contaminante
Materiali a base di fosforo:
H3PO4, apatite, calcio
Pb
ortofosfato, Na2HPO4, KH2PO4
Tecnica di riduzione della mobilità
Formazione di minerali metallo- fosfati
insolubili come la Piromorfite
Ossidi idrati di ferro
As, Cd, Cu, Ni,
Pb, Zn
Coprecipitazione, formazione di composti
Fe- contaminante, assorbimento per
scambio cationico tra il Fe ed il
contaminante
Materia organica
As, Cd, Cu, Pb
Incorporazione nella materia organica,
scambio cationico tra il Fe ed i contaminanti
Minerali argillosi inorganici
As, Cd, Cu, Mn,
Ni, Pb, Zn
Incorporazione nella struttura del minerale,
assorbimento per scambio cationico
3.3
Fitoaccumulazione (contaminanti inorganci)
Con il termine fitoestrazione si intende quel processo che fa ricorso all’uso di piante in
grado di prelevare e concentrare contaminanti come sali e metalli, all’interno delle
radici, dei germogli o delle foglie.
Le piante in grado di accumulare concentrazioni di metalli in un range che va da 1.000
a 10.000 mg/kg in peso secco (ossia l’1% in peso secco), vengono chiamate
57
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
iperaccumulatori. Analogamente le alofite, sono piante in grado di tollerare ed
accumulare notevoli quantità di sali (come il cloruro di sodio).
L’applicazione più interessante si ha quando alla rimozione dei metalli si associa il loro
recupero attraverso opportuni trattamenti dei vegetali.
Generalmente i metalli facilmente disponibili ad essere assimilati dalle piante sono Cd,
Ni, Zn, As, Se, sono moderatamente biodisponibili Cu, Co, Mn e Fe, mentre Pb, Cr ed
U lo sono pochissimo (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr. 2001).
Fig. 3.4: Meccanismi di fitoaccumulazione. (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr. 2001)
L’efficienza dei trattamenti di fitoestrazione per bonificare un suolo contaminato è
influenzata da tre fattori principali:
1) selezione di un sito predisposto ad essere trattato con fitoestrazione;
2) solubilità dei metalli e loro disponibilità per l'estrazione;
3) capacità delle piante di accumulare metalli nei tessuti aerei che possono essere
raccolti (Raskin, 2000).
58
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Le piante impiegate nei processi di fitoestrazione devono ovviamente avere i seguenti
requisiti: alta produzione di biomassa, essere specie specifiche per il contaminante che
si desidera rimuovere, pratiche di coltivazione stabilite e facile maneggiabilità.
Per una corretta applicazione di questa tecnologia è necessario valutare il fattore di
accumulazione (definito come il rapporto tra la quota di metallo presente nei tessuti
vegetali e quella nel substrato), e la produttività vegetale (espressa in Kg ss
raccolta/anno). Da studi effettuati, si è visto che per avere un’utilità effettiva del
processo, occorre utilizzare una specie in grado di produrre almeno 3 t ss/ha*anno
facilmente raccoglibile e capace di accumulare elevate concentrazioni di metalli nelle
parti asportate (almeno 1000 mg/kg). [aö]
I metalli pesanti nel suolo si trovano generalmente in un range di concentrazione che
va da valori inferiori ad 1 mg/kg fino a 100.000 mg/kg, dipendentemente dalla loro
origine e dall'evento di deposizione.
Il fattore che determina la fattibilità della phytoremediation è la differenza tra la
concentrazione del metallo misurata in campo e la concentrazione obiettivo, cioè quella
che si vuole raggiungere col trattamento: un valore elevato di tale differenza potrebbe
infatti comportare una richiesta di superfici molto estese per il trattamento (Raskin,
2000).
I metalli considerati disponibili per l’estrazione da parte delle piante sono quelli presenti
come componenti solubili nel suolo o quelli che sono facilmente rilasciati o solubilizzati
dalle essudazioni delle radici, e spesso sono solo una piccola parte della totalità dei
metalli presenti.
L’efficienza della fitoestrazione dipende quindi dalla percentuale di metalli disponibili
sul totale da estrarre; molto spesso per aumentare la disponibilità dei metalli presenti è
necessario alterare le condizioni del suolo, modificandone il pH o aggiungendo degli
agenti complessanti.
Tali agenti complessanti agiscono sia sugli ioni liberi in soluzione che su quelli presenti
nelle fasi assorbite o precipitate (insolubili) fino ad avere un equilibrio tra tutte le fasi.
La quantità di metallo solubilizzato e mantenuto in soluzione è funzione della sua
stessa affinità con il complessante e della presenza di ioni competitori.
Il piombo ad esempio si presenta nelle sue forme insolubili generalmente come fosfati,
carbonati, ossidi e idrossidi. Con l’aggiunta di acido etilendiamminotetracetico (EDTA),
viene solubilizzato il Pb presente sotto forma di carbonati.
59
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Per quel che riguarda le condizioni di acidità invece, come regola generale, la
disponibilità dei metalli ad essere catturati dalle radici aumenta quando il pH decresce
sotto il valore di 5,5, ma tale decremento ha un limite inferiore per tre motivi: 1)
l’incremento della solubilità di alcuni metalli ne esalta la tossicità è il caso dell’alluminio;
2) le piante hanno un limite di tolleranza alle condizioni acide; 3) i costi aumentano per
incrementare l’acidità del suolo.
La situazione ottimale si ha nel punto in cui la materia secca prodotta comincia a
decrescere in modo evidente con la diminuzione del pH; questo punto varia
ovviamente col tipo di suolo e con le specie impiegate.
Esistono delle tecniche di estrazione sequenziale che usano delle estrazioni
successive per rimuovere selettivamente quelle che vengono definite “frazioni del
suolo”. Le estrazioni vengono fatte in succesione sulle seguenti frazioni e con le
relative specie chimiche:
Frazione scambiabile-solubile con sali neutri
Frazione di carbonati
Frazione di ossidi di Fe e Mn con agente riducente
Frazione di materia organica con perossido di idrogeno acido
Frazione residua con digestione acida totale (esempio con ac. Nitrico concentrato)
La quantità di metallo disponibile per la phytoremediation è stimata sulla base della
distribuzione del metallo tra le frazioni, tenendo conto che le frazioni estratte hanno
solo una definizione operativa e non necessariamente corrispondono alle specie
chimiche sopra dette. Ad esempio la frazione dei carbonati comprende tutte le specie
solubili a pH 5 e non soltanto i carbonati reali.
La biodisponibilità è maggiore per le frazioni solubili e decresce per le frazioni
successive; i metalli associati alla frazione residua non sono considerati disponibili per
la rimozione attraverso la fitoestrazione.
Accumulo dei metalli nelle piante
60
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
L’efficienza della fitoestrazione dei metalli è funzione di numerosi fattori, i più importanti
dei quali sono: specie di piante, disponibilità dei metalli per le radici, trasporto dei
metalli dalle radici ai germogli, tolleranza delle piante ai metalli tossici.
Per molte ragioni di carattere pratico, la concentrazione dei metalli nella parte aerea
delle piante (germogli) è un parametro fondamentale nella valutazione della tecnica di
fitoestrazione. Il principio è quello di ridurre la massa contaminata concentrando i
metalli, trasferendoli da una matrice silicea (suolo o sedimenti) ad una matrice
carboniosa (piante) da cui essi possono essere più facilmente recuperati.
Da molti studi effettuati è risultato che la barriera principale al trasporto dei metalli dalla
radice ai germogli è proprio la lunga distanza, infatti una volta dentro le cellule radicali,
i metalli devono essere chelati con composti organici disponibili dentro le cellule stesse
per essere traslocati fino ai germogli.
Questa barriera può essere ridotta con l’aggiunta di opportuni agenti complessanti nel
substrato e variando opportunamente il pH.
Un esempio è quello relativo al piombo: si è visto che con l’aggiunta di EDTA in
determinate condizioni di pH comporta un incremento della concentrazione del metallo
nei tessuti aerei delle piante. Altri due casi studiati sono quelli del cesio-147 e
dell’uranio, le cui biodisponibilità e traslocazione nelle parti aeree delle piante sono
state sensibilmente aumentate dall’applicazione al substrato rispettivamente di specie
NH4+ e K+ per il Cs e di acido citrico per U.
Una prima azione dei chelanti come già accennato in precedenza, è quella di tenere le
specie metalliche in soluzione, così che in prossimità delle radici si possa avere
costantemente una concentrazione elevata di metalli liberi che possono in
continuazione essere prelevati.
L’altro effetto dei chelanti è quello che i loro complessi con i metalli possono
direttamente essere assorbiti dalle radici e traslocati attraverso i canali linfatici,
evitando così lo stazionamento dei metalli stessi all’interno delle cellule radicali per un
periodo più o meno lungo, che ritarda il processo globale di fitoestrazione e limita la
quantità di ioni che possono accumularsi nei tessuti aerei.
Infine è anche possibile che i composti chelanti alterino il sistema di trasporto degli ioni
nelle piante e/o la struttura della membrana delle cellule radicali, così che siano
facilitati l’ingresso nelle radici, e il trasporto fino ai germogli. (Raskin, 2000).
61
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Se da un lato l’aggiunta di chelanti rende i metalli disponibili ad essere prelevati dalle
piante, dall’altra li rende anche suscettibili ai fenomeni di lisciviazione, dunque
aumentano la potenziale contaminazione dell’eventuale falda idrica sottostante.
Da un esperimento condotto da Alterra (Università di Wageningen) (Römkens et al.) su
terreni
coltivati,
in
cui
è
stato
addizionato
il
legante
EDGA
(acido
glicoleterediaminotetracetico), è stato stimato che le perdite dovute al dilavamento
superano il livello di metalli prelevato dalle piante di un fattore pari a 10.
Questo pone ovviamente dei limiti all’impiego di questa tecnologia in sistemi non
controllati, cioè dove l’acqua di drenaggio non può essere raccolta.
Tuttavia esiste un fattore che potrebbe mitigare la contaminazione delle acque di falda,
ed è la capacità del sottosuolo di filtrare i metalli mobilitati nello strato superiore
trattato. Tale capacità dipende fortemente dal pH e dalla capacità di scambio cationico
del substrato, in suoli ad alto contenuto argilloso ed elevati valori di pH le perdite per
lisciviazione possono essere molto ridotte (Römkens et al.).
Iperaccumulatori
Esiste un piccolo numero di specie endemiche ai suoli metalliferi che possono tollerare
ed accumulare alti livelli di metalli tossici.
Tali specie, chiamate iperaccumulatori di metalli, possono accumulare più dello 0,1% di
Pb, Co e Cr o più dell’1% di Mn, Ni e Zn nei germogli, quando crescono nel loro
ambiente naturale. Si conoscono circa 400 iperaccumulatori nel mondo.
Gli effetti dei suoli metalliferi in cui è presente una concentrazione abnorme di uno o
più elementi metallici sulle piante possono essere diversi, e variare da una completa
tossicità ad uno stimolo dello sviluppo di una flora locale caratteristica, capace di
tollerare elevatissime concentrazioni di metalli.
Nella tabella 3.3 sono riportati i tipici intervalli di concentrazione che si possono trovare
generalmente nelle parti aeree delle piante. I valori “alti” sono quelli talvolta trovati in
piante cresciute su suoli ricchi di metalli. (Raskin, 2000).
Reeves (1992) ha suggerito una definizione di pianta iperaccumulatrice di Ni che è
ampiamente accettata, e che comunque può essere estesa agli altri elementi: una
pianta nella quale è stata rilevata una concentrazione di Ni pari ad almeno 1000 mg/kg
di tessuto secco relativo alla parte aerea di almeno un esemplare cresciuto nel suo
62
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
habitat naturale. Le piante iperaccumulatrici sono caratterizzate sostanzialmente da tre
fattori:
•
Ipertolleranza nei confronti dei metalli pesanti nelle cellule dei tessuti radicali e dei
germogli.
•
Capacità di traslocare un elemento dalle radici ai germogli con elevata velocità.
•
Capacità di prelevare molto velocemente i metalli dal substrato (Reeves, 1992)
•
La definizione molto dettagliata data da Reeves evita ogni equivoco nei casi in cui:
in alcuni esemplari di una certa specie sono state rilevate concentrazioni di un
elemento superiori a 1000 mg/kg ed in altri della stessa specie concentrazioni inferiori
alla stessa quantità;
sono state trovate elevate concentrazioni di metalli in tessuti diversi dalle foglie, come
ad esempio il lattice;
delle specie hanno prelevato elevati livelli di metalli sotto condizioni artificiali, come
l’aggiunta di ammendanti o soluzioni di nutrienti al suolo di crescita.
Tab. 3.3: Range di concentrazioni degli elementi nei tessuti secchi delle parti aeree delle piante.
(*)
I livelli di sodio in alcune specie marittime o di zone umide salmastre possono raggiungere i
60.000 mg/kg. (**) I livelli di ferro in poche specie possono superare i 35.000 mg/kg.
Elemento
Concentrazione [mg/kg]
Bassa
Normale
Alta
800
3.000-30.000
60.000
Mg
400
1.000-6.000
10.000
K
1000
5.000-20.000
50.000
Na
400
1.000-4.000
10.000(*)
P
300
800-3.000
5.000
Fe
10
60-600
2.500(**)
Mn
5
20-400
2.000
Zn
5
20-400
2.000
Cd
0,03
0,1-3
20
Pb
0,01
0,1-5
100
Ni
0,2
1-10
100
Co
0,01
0,003-2
20
Cr
0,05
0,2-5
50
Cu
1
5-25
100
Se
0,01
0,05-1
10
Ca
63
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Il ruolo ecologico degli iperaccumulatori non è ancora del tutto chiaro, ma sicuramente
le elevate concentrazioni di metalli presenti nei germogli riducono il consumo delle
piante da parte di insetti che si nutrono di esse, e riducono l'incidenza di malattie
causate da funghi e batteri (Reeves, 1992). Questo è un aspetto vantaggioso anche
nell’impiego di queste specie in progetti di risanamento.
Meccanismi biologici di iperaccumulazione di metalli
I diversi meccanismi biologici coinvolti nell’accumulo dei metalli sono piuttosto
complessi e non ancora del tutto confermati da osservazioni sperimentali. Si crede
comunque che le specie iperaccumulatrici possano agire a diversi livelli nel processo
totale di accumulo.
Interazione rizosferica. La capacità degli iperaccumulatori di prelevare elevati livelli di
metalli anche in suoli in cui le concentrazioni sono relativamente basse, ha suggerito la
possibilità di utilizzare tali specie per migliorare la solubilità/biodisponibilità dei metalli
nella loro rizosfera.
Questa ipotesi è stata supportata solo in parte da osservazioni sperimentali su specie
iperaccumulatrici: in uno stesso substrato in cui sono state coltivate le specie Thlaspi
caerulescens (iperaccumulatrice di zinco) e Thlaspi arvesnse (non iperaccumulatrice),
è stato rilevato in quest’ultima un tenore del metallo superiore al normale, questo porta
a pensare che la rizosfera sia modificata in modo che lo zinco risulti più disponibile.
Gli stessi risultati non vengono confermati con specie diverse accumulatori di nickel.
Prelievo radicale. Le specie iperaccumulatrici hanno un sistema di prelievo più
sviluppato rispetto alle specie comuni, ed anche un elevato grado di selettività nei
confronti di uno o più particolari metalli.
Traslocazione dalle radici ai germogli. Delle differenze tra le fitospecie si sono
trovate anche al livello dello xilema, che è il sistema che consente il trasporto dei
metalli fino ai germogli. In particolare nello xilema di alcune specie si possono trovare
delle sostanze (come l’aminoacido istidina nella specie Alyssum) in grado di legarsi ad
un particolare metallo per favorirne il trasporto nella parte aerea del vegetale; questo
costituisce un ulteriore elemento di selettività nei confronti dei metalli. (Raskin, 2000).]
64
Cap. 3
3.4
Tecnologie di phytoremediation
Rizodegradazione (contaminanti organici)
Questo processo consiste nella degradazione dei contaminanti organici in composti più
semplici e non tossici per opera sia delle essudazioni delle radici, sia degli organismi
presenti nella rizosfera (funghi, lieviti e batteri).
I contaminanti organici, che possono essere idrocarburi, PCB o altri tossici, vengono
decomposti da enzimi e prodotti dalle piante fino alla completa mineralizzazione,
oppure fino alla formazione di composti non tossici che servono da cibo per gli
organismi del suolo, o come fonte di energia per la pianta.
In alternativa avviene invece che i prodotti della fotosintesi essudati dalle radici
servono come fonte di nutrimento per i microrganismi, che acquisiscono le energie per
metabolizzare i contaminanti.
Fig. 3.5: Meccanismi di rizodegradazione di composti organici. (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr.
2001)
65
Cap. 3
3.5
Tecnologie di phytoremediation
FITODEGRADAZIONE (CONTAMINANTI
ORGANICI)
La fitodegradazione è un processo attraverso il quale i contaminanti organici presenti
nel suolo o nell’acqua riescono ad entrare nelle piante attraverso la barriera protettiva
della rizosfera, e vengono sottoposti a processi di degradazione, mineralizzazione ed
eventualmente volatilizzazione all’interno delle piante stesse (Int. Tech. and reg. coop.
work.2001).
I contaminanti sono quindi immagazzinati nei vacuoli delle cellule o incorporati negli
stessi tessuti che compongono la biomassa.
Fig. 3.6: Meccanismi di fitodegradazione di composti organici. (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr.
2001)
Questo processo è adatto alla rimozione di composti chimici moderatamente idrofobi,
come benzene, etilbenzene, toluene, xilene, solventi clorurati e composti chimici
alifatici a corta catena.
66
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
I fattori che influenzano la capacità di ingresso degli organici nelle piante sono il
coefficiente di ripartizione acqua-ottanolo (logKow), caratterizzato da valori compresi tra
1 e 5 (dipendentemente dal composto chimico), l’idrofobicità, la polarità, le proprietà di
assorbimento, e la solubilità: per penetrare nelle cellule delle radici le sostanze
chimiche devono essere disciolte nella matrice acquosa del suolo o dei sedimenti.
I composti idrofobi con logKow > 3,5 non possono essere traslocati all’interno della
pianta e restano così legati alla superficie delle radici.
D’altra parte le sostanze fortemente polari, dunque molto solubili in acqua, non
vengono sufficientemente assorbite dalle radici per essere traslocate nella pianta.
La capacità di una pianta di prelevare una sostanza attraverso le radici e traslocarla al
suo interno è descritta da due fattori: fattore di concentrazione della radice RCF (Root
Concentration Factor) e fattore di concentrazione nel flusso di traspirazione TSCF
(Transpiration Stream Concentration Factor), entrambi funzione di logKow, dunque
dipendenti dal composto contaminante.
I due fattori adimensionali sono una misura della concentrazione di un contaminante
rispettivamente nelle radici e nella linfa dello xilema, rispetto alla concentrazione della
soluzione esterna, un elevato valore dei due fattori indica dunque un’elevata capacità
di prelievo da parte della pianta.
La velocità di prelievo dei contaminanti è data dalla seguente espressione:
U = (TSCF)*(T)*(C)
dove
U è la velocità di prelievo di una specie espressa in mg/giorno;
T è la velocità d traspirazione della specie vegetale espressa in l/giorno;
C è la concentrazione del contaminante nella fase acquosa del substrato espressa in
mg/l.
Gli organismi vegetali producono alcuni enzimi specifici per la degradazione dei
composti organici. Essi sono la dealogenasi che catalizza l’ossidazione di contaminanti
come gli idrocarburi alifatici e la nitroriduttasi che riduce i gruppi contenenti azoto,
come quelli presenti nei composti esplosivi, ad esempio il TNT. (Schnoor et al., 1995).
67
Cap. 3
3.6
Tecnologie di phytoremediation
Fitovolatilizzazione
Attraverso questo meccanismo i contaminanti, siano essi organici che inorganici,
vengono traslocati dalle radici alle foglie e da qui rilasciati nell’atmosfera tramite la
traspirazione, dove saranno sottoposti a reazioni fotochimiche (Int. Tech. And Reg.
Coop. Gr. 2001)
Fig 3.7: Meccanismi di fitovolatilizzazione. (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr. 2001)
Se i contaminanti sono volatili, possono essere traspirati sotto forma di gas attraverso i
tessuti delle foglie, se essi sono tossici e persistenti però possono porre condizioni di
rischio di inquinamento atmosferico. Composti con doppi legami come ad esempio
tricloroetilene (TCE) e percloroetilene sono rapidamente ossidati in atmosfera come
radicali idrossilici, ma altri come il metilterziarbutiletere restano a lungo in atmosfera.
La fitovolatilizzazione si rivolge anche a metalli e metalloidi volatili, un esempio è quello
del mercurio che viene prelevato dalle piante in forma cationica (Hg+, Hg2+ ) e ridotto
nei tessuti vegetali nella forma elementare. (Schnoor et al. 1995).
Un sistema molto studiato è quello dei pioppi per la fitovolatilizzazione del
tricloroetilene (o prodotti di degradazione del TCE) (Chappell, 1998). Anche la pianta
68
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
del tabacco è stata studiata ed addirittura modificata per aumentare la sua capacità di
traslocare il metil-mercurio, alterarne l’evoluzione chimica ed immetterlo nell’atmosfera
come mercurio elementare meno tossico (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr. 2001).
Il mercurio elementare comporta comunque dei problemi di bioaccumulazione, per
questo si sta studiando lo sviluppo di piante transgeniche che non volatilizzano il
mercurio e possono essere impiegate nella fitovolatilizzazione di altri metalli pesanti
non tossici in atmosfera.
Un meccanismo simile a quello di fitovolatilizzazione è quello attraverso cui i
contaminanti vengono essudati in forma liquida attraverso gli stomi delle foglie. Questo
avviene in alcune piante tipiche degli ambienti tropicali e subtropicali. (Int. Tech. And
Reg. Coop. Gr. 2001)
69
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
3.7 Evapotraspirazione
Il processo di evapotraspirazione è dato dall’unione di due processi più elementari,
l’evaporazione e la traspirazione.
Le piante sono in grado attraverso la loro parte aerea di intercettare notevoli quantità
d’acqua piovana, che non arriva al suolo e torna in atmosfera per evaporazione.
La capacità di captazione dipende dalla forma e dalla dimensione delle foglie, dal
numero di foglie e dallo stato della loro pellicola (se è cerosa o con peluria).
Esiste un indice che quantifica la capacità di intercettazione dell’acqua piovana da
parte di una pianta, è l’indice dell’area delle foglie LAI (leaf area index), che è dato dal
rapporto tra l’area della foglia e l’area sottostante ad esse.
L’acqua che riesce ad arrivare al suolo in prossimità delle radici, può essere prelevata
dalle piante attraverso il processo di traspirazione, ed immessa nell’atmosfera per
evaporazione, i volumi in gioco possono essere anche molto elevati.
L’acqua che sfugge alle radici percola nel suolo e può ricaricare la falda idrica
sottostante.
Il processo di evapotraspirazione dà luogo ad un controllo del territorio chiamato
fitoidraulico. L’importanza del controllo fitoidraulico è quella di impedire la migrazione di
grandi masse d’acqua lungo la superficie del suolo, fenomeno che comporterebbe
un’erosione spinta e nei casi più estremi inondazioni.
Esistono delle piante freatofite, in grado di mettere le loro radici in zone del terreno
sature d’acqua, esse possiedono un’enorme capacità di evapotraspirazione. Piante
freatofite sono i pioppi, i salici e gli alberi del cotone.
70
Cap. 3
3.8
Tecnologie di phytoremediation
Valutazione dell’applicabilitá della
phytoremediation
La phytoremediation può essere usata per depurazione di acque e la bonifica di suoli
contaminati da metalli, sostanze organiche e nutrienti negli strati più in superficie e con
un limitato livello di fitotossicità.
La possibilità di applicare sistemi biologici per la rimozione di contaminanti organici ed
inorganici dai suoli è influenzata sostanzialmente da tre fattori:
•
una contaminazione superficiale, intesa come zona interessata dall’apparato
radicale di piante;
•
l’instaurarsi di mutue relazioni tra piante e microrganismi in grado di aumentare
l’efficienza del processo;
•
le caratteristiche chimiche dei substrati contaminati con particolare riferimento a pH
ed alla capacità di scambio cationico. [a]
Le tecnologie di phytoremediation sono applicabili per bassi livelli di contaminazione ed
aree di grande estensione per cui l’applicazione di altri metodi risulterebbe troppo
costosa, inoltre è possibile associarle ad altre tecnologie di trattamento in fase di
affinamento.
Nel progetto di un sistema di phytoremediation devono essere previste le operazioni di
mantenimento del sito nel corso del tempo richiesto per il risanamento. Alcuni dei
maggiori problemi possono infatti essere il gelo o la siccità, infestazione di insetti o
malattie infettive.
Mediante sistemi di phytoremediation, obiettivi da conseguire sono di due tipi:
contenimento e/o rimozione.
Nel primo caso, l’attenzione viene focalizzata su uno sviluppo di coperture vegetative
sufficienti a garantire un consistente controllo idraulico del sito contaminato mediante
processi di evapotraspirazione. Se una strategia di controllo non è sufficiente, il
successivo passo consiste nell’includere nelle specifiche di progettazione del sito da
bonificare meccanismi per sequestrare, ridurre, metabolizzare e mineralizzare gli
inquinanti, attraverso i meccanismi specifici delle specie vegetali.
Fondamentale risulta fornire inizialmente un quadro esplicativo del problema da
trattare:
quali sono i contaminanti presenti;
quale mezzo risulta coinvolto (suolo, sedimenti, acque superficiali, acque di falda);
quale grado di rimozione viene richiesto;
71
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
quanto tempo occorrerà per raggiungere il grado di bonifica ipotizzato;
specifiche sul grado di sicurezza garantito per la salute umana e dell’ambiente;
specifiche riguardanti il monitoraggio nel tempo del sito;
informazioni concernenti i risultati di ricerche sull’efficacia delle fitotecnologie;
descrizione degli eventuali effetti dovuti all’utilizzo di piante geneticamente modificate o
non native del luogo;
caratterizzazione del destino e trasporto dei contaminati;
specifiche sul metodo di smaltimento delle specie vegetali utilizzate;
disponibilità di un progetto alternativo, nell’eventualità che quello in uso non riesca a
conseguire gli obiettivi preposti;
revisione periodica dell’impianto volta a rivalutarne l’efficacia durante il periodo di
attività;
descrizione dei criteri utilizzati per decretare il raggiungimento del grado di rimozione
richiesto e per “chiudere” il sito;
caratterizzazione degli effetti della vegetazione sull’idrologia superficiale e subsuperficiale;
studi di laboratorio e/o di impianti pilota che forniscano una sufficiente documentazione
che provi l’efficacia della tecnica proposta.
L’insieme di tutte queste informazioni rientra nei criteri utilizzati dall’USEPA (Agenzia
Protezione Ambientale Stati Uniti) per valutare la potenzialità e la fattibilità del progetto
fitotecnologico proposto.
L’applicazione di sistemi biologici per la decontaminazione di suoli e sedimenti
contaminati è oggi sempre più presa in considerazione per i notevoli vantaggi che essa
comporta.
Primo fra tutti è l’aspetto economico (25 –100 $/ton), particolarmente vantaggioso per
via degli input energetici inferiori rispetto a quelli relativi ai trattamenti chimico-fisici
tradizionali, si stima un risparmio di almeno il 40%, paragonato ad altri tipi di
trattamento in-situ, mentre per trattamenti ex-situ, si arriva fino ad un 90% (Int. Tech.
And Reg. Coop. Gr. 2001)
Un secondo aspetto è quello che riguarda gli effetti dei trattamenti sui substrati: i
metodi tradizionali sottopongono il substrato a stress chimico-fisici (trattamenti termici,
lavaggi chimici, ecc.) alterandone irreversibilmente le proprietà, nei casi più gravi il
terreno contaminato viene smaltito in discarica come rifiuto pericoloso, a costi
elevatissimi.
72
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Nel caso di trattamenti biologici per mezzo di piante e/o microrganismi il substrato resta
inalterato. [a]
Le prestazioni delle fitotecnologie e loro applicazioni sono varie e numerose, ed
applicabili ad una gran varietà di contaminanti, compresi alcuni recalcitranti e
radioattivi. E’ possibile effettuare un controllo idraulico di zone di interesse, impiegare
tali tecnologie come trattamenti di affinamento previ altri trattamenti, o come
pretrattamenti in attesa dell’investigazione di un sito.
Essendo la phytoremediation un insieme di tecnologie basate sulla capacità di
risanamento da parte di sistemi naturali, è quella che tra tutti gli altri tipi di trattamenti
presenta il minor impatto ambientale nel senso più generale del termine, dall’impiego
delle risorse alla estetica dei siti.
Altri vantaggi offerti possono essere:
•
bassi costi di mantenimento;
•
potenzialmente applicabile anche in zone remote, e difficilmente accessibili;
•
diminuzioni di emissioni aeree e liquide come pure di contaminanti secondari;
•
controllo di fenomeni quali l’erosione del suolo, infiltrazioni e lisciviazione di acque
superficiali;
•
applicabile contemporaneamente a più siti contaminati da più varietà d’inquinanti;
•
favorevole impressione sull’opinione pubblica.
D’altra parte la phytoremediation presenta degli svantaggi non indifferenti. Primo fra
questi è il tempo richiesto per il raggiungimento degli obiettivi proposti: mentre con i
trattamenti tradizionali certi livelli di rimozione vengono ottenuti nel giro anche di
qualche ora, con la phytoremediation il loro conseguimento può richiedere tempi
dell’ordine della decina di anni (Salt et al., 1995, riportano tempi di 13-14 anni per la
bonifica di un sito contaminato da Zn e Ni), e quindi il suo impiego potrebbe non essere
possibile in certi casi. In ogni caso comunque, se l’analisi del ciclo di vita mostra una
valutazione d’impatto ambientale che rientra nell’intervallo di sicurezza definito
dall’analisi dei rischi, questo tipo di applicazione può conseguire un rapporto benefici
costi maggiore di altre alternative. In generale quindi, se il tempo non rappresenta una
variabile critica per la gestione dell’impianto, il ricorso alla phytoremediation consente
ingenti risparmi economici
Inoltre le capacità “depurative” delle piante hanno una dipendenza dalle stagioni e il
buono stato di salute delle piante è soggetto comunque ad agenti esterni non sempre
prevedibili (ad esempio malattie infettive); su quest’ultimo punto gli interventi possibili
sono in ogni caso numerosi.
73
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Altri problemi possono essere costituiti dall’attecchimento delle specie vegetali nel
luogo scelto da bonificare, dai ritmi di crescita vegetale non adeguati e dalle condizioni
climatiche non favorevoli.
L’efficienza dei trattamenti fitotecnologici spesso non è paragonabile a quella ottenibile
con i metodi tradizionali essendo di gran lunga inferiore, inoltre nei casi in cui le
concentrazioni dei contaminanti presenti sono elevate la stessa vegetazione potrebbe
non tollerarle.
Il campo d’azione della vegetazione è quello limitato alla zona radicale, nella maggior
parte dei casi quindi solo lo strato superficiale del un suolo contaminato trarrebbe
beneficio dal trattamento, lasciando inalterate le condizioni degli strati sottostanti ed i
relativi problemi delle acque di percolamento. In relazione a trattamenti ex situ di suoli
o sedimenti, a causa del basso raggio d’azione della vegetazione, le aree richieste per
il trattamento sono generalmente molto estese e non sempre disponibili.
L’insieme di queste tecnologie non possiede un backgraund di conoscenze tale da
poter fare una giusta valutazione sugli effetti a lungo termine dei trattamenti, in
particolare per ciò che riguarda i sedimenti allo stato attuale le esperienze su scala
reale ed anche su scala pilota sono decisamente poche, ed tuttora in fase di studio.
Le limitazioni potenziali relativi all’applicazione delle fitotecnologie sono riassunte nella
tabella 3.4:
74
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Tab. 3.4: Limitazioni potenziali delle fitotecnologie. (Int. Tech. And Reg. Coop. Gr. 2001)
Limitazioni potenziali
Fitostabilizzazione
Rizodegradazione
Fitoaccumulazione
Fitodegradazione
Fitovolatilizzazione
Evapotraspirazione
Meccanismi
Difficoltà di attecchimento e mantenimento specie
X
X
X
X
X
X
Lenta e bassa penetrazione radicale
X
X
X
X
X
Trasferimento di massa nella zona radicale lento
X
X
X
X
X
Fitotossicità dei contaminanti
X
X
X
Disponibilità di dati sperimentali limitata
X
Sottoprodotti maggiormente tossici
X
X
X
Bioaccumulazione di contaminanti nella vegetazione
Meccanismi non completamente accertati
X
X
X
X
X
X
Destino, trasporto ed efficacia non ben documentati
X
X
X
X
X
X
75
Cap. 3
3.9
Tecnologie di phytoremediation
Studi di trattabilitá
Gli studi di trattabilità consistono nella valutazione delle potenzialità dell’intero schema
impiantistico riprodotto su piccola scala, nel raggiungere gli obiettivi di rimozione
ipotizzati. Sono studi che vengono effettuati a livello di laboratorio, serre, impianti
pilota, in cui vengono riprodotte le stesse condizioni (clima, insolazione, tipo di terreno,
ammendanti, manutenzione) che verranno realizzate a livello operativo. (Int. Tech. And
Reg. Coop. Gr. 2001)
Gli aspetti più significativi di uno studio di trattabilità sono descritti nel seguito.
Selezione delle specie vegetali
La selezione della specie di piante appropriate ad un determinato strato da bonificare o
stabilizzare, è cruciale per il successo dell’intervento che si vuole operare.
Le piante devono adattarsi bene alle condizioni climatiche, al livello d’acqua presente
(poco profondo, profondo, fluttuante), e soprattutto devono essere tolleranti nei
confronti dei contaminanti presenti nei sedimenti da trattare.
Alcuni criteri da seguire nella selezione delle piante adatte a certe condizioni sono i
seguenti:
•
piante che hanno la capacità di attecchimento sotto le condizioni che si presentano;
•
piante che hanno la capacità di formare una densa copertura ritentiva dei sedimenti
(piante con dense masse radicali, o con dense masse di germogli);
•
piante che hanno la capacità di creare un habitat di un certo valore ecologico;
•
piante che hanno la capacità di fornire elevate quantità di ossigeno nella zona
radicale (Rock).
Il processo di selezione inizia esaminando in ordine di disponibilità le specie
preesistenti, quelle native, le ibride e le geneticamente modificate. Quest’ordine non è
casuale, ma il conseguimento di un rispetto ambientale volto a modificare in maniera
minore possibile la biodiversità già presente, in seguito all’introduzione di specie non
native per quel luogo. Vaste ed esaurienti banche dati sono state pubblicate in merito a
specie studiate e testate per la rimozione di metalli, radionuclidi, idrocarburi, solventi
clorurati, pesticidi e fertilizzanti.
In generale, l’uso di più specie diverse garantisce maggiori vantaggi rispetto ad
un’unica scelta, in quanto c’è una minore suscettibilità alle malattie che potrebbero
distruggere l’intero sistema fitotecnologico, una maggiore possibilità di supportare
popolazioni di microorganismi utili per la degradazione metabolica, ed in generale una
76
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
biodiversità che pone i presupposti per il raggiungimento di un obiettivo di qualità
migliore.
Studi di destino e trasporto dei contaminanti
Viene svolto per verificare l’effettiva capacità vegetale nell’assorbire e trasformare i
contaminanti in sottoprodotti, o addirittura degradarli. Questa fase di studio contempla
un campionamento periodico di aliquote di terreno e di tessuti vegetali, per sottoporli
alle analisi deputate a quantificare l’efficacia della rimozione.
Studi di bilancio di massa
Consistono in sperimentazioni eseguite in camere sigillate e con contaminanti
radiomarcati per verificare il buon funzionamento del processo, identificare i
sottoprodotti e il loro eventuale rilascio nell’ambiente, aiutare a chiarire i diversi
meccanismi coinvolti e provvedere a fornire informazioni sul destino dei contaminanti.
Ottimizzazioni agronomiche
All’interno degli studi di trattabilità, l’analisi di campioni di suolo riveste un ruolo
importante nel valutare i fattori che influenzano la crescita e il sostentamento delle
specie vegetali; fertilità, contenuto di nutrienti, temperatura, profondità, tessitura,
struttura e salinità dei corpi idrici sono tutti parametri attentamente monitorati.
Laddove richiesto, l’ottimizzazione di processo può essere implementata tramite
l’aggiunta di agenti fertilizzanti (azoto, fosforo, potassio, concime naturale), carbonio,
agenti condizionanti e fornendo l’impianto di un opportuno sistema d’irrigazione capace
di fornire il giusto apporto d’acqua.
Modelli
Le fitotecnologie sono strategie di bonifica a lungo termine e, l’utilizzo dei modelli
matematici risulta essere necessario per una valutazione dell’andamento del progetto
lungo tutto il periodo di vita e per un’ottimizzazione dei parametri di funzionamento.
Tipici modelli includono sofisticati calcoli che tengono conto contemporaneamente di
più fattori che servono a dare una visione d’insieme la più esauriente e aderente
possibile alle reali condizioni di avanzamento: influenza dei corpi idrici sulla fitotecnica
applicata, bilanci di massa relativi al tasso di assorbimento, accumulo, lisciviazione e
degradazione dei contaminanti, limitazione di trasporto e trasferimento e capacità di
evapotraspirazione messa in relazione con i dati meteoclimatici. (Int. Tech. And Reg.
Coop. Gr. 2001).
77
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
3.10 Applicazioni esistenti della
phytoremediation a sedimenti contaminati
In letteratura esistono pochi esempi di applicazioni (sia in scala laboratorio che pilota)
della phytoremediation per il trattamento di fanghi di dragaggio contaminati da metalli.
Nel seguito vengono descritti i principali studi riguardanti questo tipo di applicazione.
Un primo esempio è stato realizzato nei Paesi Bassi congiuntamente a tecnologie di
landfarming (Breteler al., 2001), luogo in cui il prezzo elevato dei terreni ha spinto la
ricerca a trovare delle soluzioni biologiche di risanamento dei sedimenti contaminati,
che fossero tecnicamente ed economicamente vantaggiose.
La semplice tecnica di landfarming infatti richiede molti anni per il completo
risanamento di sedimenti contaminati da organici come IPA ed oli minerali, e
l’occupazione di aree molto estese, ciò rende questa pratica insostenibile dal punto di
vista economico.
La novità sperimentale consiste nella coltivazione di specie vegetali che possono
servire come combustibili in impianti di produzione di energia, sui terreni in cui sono
stati collocati i sedimenti, dunque nel recupero delle spese dovute all’occupazione dei
terreni attraverso:
•
recupero dei sedimenti contaminati (altrimenti recuperati con tecnologie altrettanto
costose) al fine di impiegarli successivamente come materiale da costruzione
(“benefical use”);
•
produzione di energia utilizzando un combustibile verde a basso costo (altrimenti
ottenuto tramite coltivazioni su terreni dedicati, economicamente insostenibili).
In Oostwaardhoeve, una fattoria sperimentale sita nella parte nordorientale dei Paesi
Bassi, una certa quantità di sedimenti contaminati da IPA e oli minerali è stata disposta
in un campo di 35 ettari già coltivato con salici (Salix viminalis), in uno strato con uno
spessore medio di 1 metro.
La presenza della vegetazione ha determinato l’aerobicità dei sedimenti, fattore che ha
favorito la degradazione dei contaminanti, d’altra parte l’applicazione dei sedimenti
dragati ha stimolato la crescita degli alberi, per via dell’apporto di acqua, di nutrienti e
di materia organica.
Questo tipo di applicazione è vantaggiosa dal punto di vista economico, ed ecologico,
trovando inoltre ampio consenso da parte dell’opinione pubblica.
78
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Gli sforzi dell’equipe di Oostwaardhoeve sono mirati alla combinazione di recupero di
sedimenti con generazione di energia, ed attività economiche che utilizzano l’energia
sul sito, in un contesto di pianificazione del territorio che stimola la conservazione delle
risorse naturali (acqua, terra, coltivazioni, fauna, biodiversità) ed abilita l’uso ricreativo
delle strutture. (Breteler et al., 2001).
Come detto in precedenza, la tecnica di phytoremediation risulta tanto più efficace
quanto maggiore è la densità di vegetazione. In particolare esiste una tecnica chiamata
SALIMAT che consente una rapida introduzione di una densa vegetazione su un
substrato di sedimenti contaminati.
Questa tecnica è stata sperimentata per la prima volta in campo nel 1993 a Menen, in
Belgio (Vervaeke et al., 2001); essa è basata sulla riproduzione della vegetazione da
parte di bastoncelli di salici opportunamente legati tra loro: su delle barre di legno di
salice lunghe circa 2 metri vengono inserite numerose gemme della stessa fitospecie,
tali assi vengono legate tra loro con delle cordicelle biodegradabili nel tempo, in modo
da formare una sorta di rete, ed arrotolate in rulli attorno ad un tubo centrale. Quando i
sedimenti da bonificare sono sistemati in delle grandi casse, i rulli vengono srotolati e
distesi su di essi e sommersi dal fango. In poche settimane il deposito di sedimenti
viene coperto da una fitta vegetazione, la cui densità dipende dalla distanza alla quale
sono state legate le barre.
Le due fitospecie che sono state impiegate sono Salix triandra (“Noir de Villaines”) e
Salix fragilis (“Belgisch rood”), specie indigene del luogo, esse sono state equamente
miscelate in tutte le reti.
Quella del Salimat è l’unica tecnica vantaggiosa che attualmente viene impiegata per
effettuare una piantumazione su un substrato fangoso come quello dei sedimenti.
I sedimenti infatti vengono sparsi sul terreno senza aver subito alcun pretrattamento di
disidratazione, con un grado di umidità dunque molto elevato, ed una consistenza che
non consente l’introduzione di piante con i metodi tradizionali (trapianto o semina).
Questa tecnica offre diversi vantaggi: SALIMAT può essere fabbricato anche fuori dal
sito di impiego, facilmente immagazzinato e trasportato, economico e di facile impiego.
La presenza di una vegetazione densa comporta un incremento del contenuto di
humus nel substrato che favorisce la stabilizzazione biochimica dei sedimenti,
attraverso l’incremento dei cicli dei nutrienti e l’attivazione della comunità biotica del
suolo.
79
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
Altri vantaggi consistono nella riduzione della dispersione dei contaminanti per
erosione o per lisciviazione. Il fatto che la vegetazione sia fitta, implica un alto tasso di
evapotraspirazione, dunque una rapida disidratazione dei sedimenti, che è uno degli
obiettivi di questa applicazione. Nello stesso tempo tutto il sistema è perfettamente
inserito nell’ambiente naturale, ed un sito di smaltimento di sedimenti contaminati può
rappresentare anche un luogo esteticamente attraente. A tutto questo si aggiunge
quello di ottenere un combustibile verde a bassissimo costo.
L’introduzione del SALIMAT può essere visto come uno stadio di fitostabilizzazione nel
globale recupero di sedimenti contaminati, ma può anche essere sfruttato per la
fitoestrazione di metalli pesanti.
Alcuni studi hanno a questo proposito mostrato che i salici sono in grado di accumulare
discrete quantità di cadmio nelle loro parti aeree.
I limiti di questa applicazione sono l’applicabilità a substrati umidi, e lo stretto periodo di
tempo (da novembre ad aprile) in cui è possibile effettuare l’introduzione del SALIMAT,
che implica un’attenta pianificazione delle operazioni di dragaggio e dell’ottimizzazione
delle condizioni nel campo di applicazione. (Vervaeke et al., 2001).
Infine Loser et al. (2002) hanno proposto un sistema di trattamento per la rimozione di
metalli pesanti basato sulla biolisciviazione: come detto, il contatto dei sedimenti con
l’aria li rende acidi (a seguito delle reazioni di ossidazione). Il conseguente
abbassamento del pH renderebbe i metalli più solubili e quindi lisciviabili.
Gli stessi autori hanno valutato la possibilità dell’utilizzo della Phalaris arundinacea L.
al fine di migliorare le caratteristiche di lisciviabilità dei metalli dai sedimenti.
La presenza della vegetazione consente la traspirazione di grossi quantitativi di acqua
con seguente formazione di cavità nei sedimenti penetrate da ossigeno; la stessa
vegetazione inoltre favorisce il trasferimento di ossigeno nei sedimenti mediante le
radici. Le radici e gli essudati prodotti dalle radici, stimolano la crescita microbica, che
congiuntamente all’azione delle radici favorisce la formazione di aggregati ed il
cambiamento della struttura dei sedimenti: da fangosa fino ad assumere un aspetto
tipico dei suoli. Tali cambiamenti migliorano le caratteristiche di permeabilità dei
sedimenti favorendo quindi il processo di lisciviazione.
I test di lisciviazione condotti su sedimenti condizionati per 6 mesi con Phalaris
arundinacea L., hanno evidenziato una solubilizzazione, in 21 giorni, di un quantitativo
superiore al 60% dei metalli tossici; a titolo di confronto, lo stesso risultato è stato
ottenuto utilizzando sedimenti spontaneamente lasciati all’aperto per 6 anni all’aperto.
80
Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
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Cap. 3
Tecnologie di phytoremediation
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nazionale.
82
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Capitolo 4
SISTEMI DI TRATTAMENTO IN FASE SEMISOLIDA
(SLURRY) PER LA DEGRADAZIONE DI IPA
Generalità
Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) sono molecole organiche naturali e di sintesi,
prodotte da attività petrolifere e da processi naturali ed antropici di pirolisi della materia
organica (Grimmer e Pat,1983).
Tra i contaminanti organici presenti nel suolo e nei sedimenti, gli IPA sono forse quelli
piu' diffusi (Herbes, 1977; Sanders et al.,1993).
Essi sono composti altamente idrofobici, associati con la frazione organica del suolo e
dei sedimenti (Karickhoff et al., 1979); la loro solubilità decresce all'aumentare del
numero di anelli aromatici presenti nella molecola; tali proprietà rappresentano
le principali cause della loro persistenza nel suolo e nei sedimenti (Boldrin et al., 1993;
Schneider et al.,1996).
La presenza degli IPA nell’ambiente ha consentito la selezione di diversi microrganismi
in grado di utilizzarli come potenziali substrati di crescita (Shuttleworth e Cerniglia,
1996). I batteri, funghi filamentosi, cianobatteri, alghe eucariote e diatomee sono in
grado di degradare gli IPA dal naftalene fino al benzo[a]pirene (Cerniglia, 1984).
In generale, gli IPA presenti nel suolo e nei sedimenti possono essere degradati dai
microrganismi con cinetiche differenti in base al peso molecolare ed al grado di
aromaticità; per esempio la velocità di degradazione di IPA con due, tre, quattro anelli
decresce all’aumentare del numero di anelli (Nocentini et al.,1996).
La letteratura scientifica è ricca di studi riguardanti la biodegradabilità degli IPA, in
particolare quelli a basso peso molecolare (definiti LMW, Low Molecular Weight).
Tali studi sono stati condotti seguendo diversi approcci sperimentali: su differenti
colture pure di microrganismi, su singoli o miscele di IPA, monitorando la degradazione
e la trasformazione di IPA da diverse matrici ambientali quali suoli, sedimenti ed acque
di falda.
83
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Nel corso dell’ultimo decennio, è stata posta particolare attenzione anche alla
biodegradazione di IPA ad alto peso molecolare (definiti HMW High Molecular Weight)
costituiti da quattro o più anelli aromatici fusi.
Nel processo di biodegradazione degli IPA un ruolo fondamentale è attribuito alle
reazioni cometaboliche.
In generale per cometabolismo si intende la trasformazione di un composto ad opera di
un microrganismo incapace di utilizzarlo come fonte di energia; il composto viene
degradato incidentalmente da un enzima o cofattore prodotto dal metabolismo
degradativo di una sostanza diversa usata come substrato. (Alexander, 1994).
Molti studi suggeriscono l’instaurarsi di meccanismi di degradazione co-metabolica tra
IPA a diverso numero di anelli aromatici o in presenza di altri inquinanti organici: per
esempio Keck et al. (1989) riportano che la velocità di degradazione di IPA a quattro cinque anelli aromatici aumenta in presenza di altri contaminanti.
4.1
Degradazione Aerobica
Gli idrocarburi, in generale, sono degradati sia in condizioni aerobiche che
anaerobiche, per molti di essi la degradazione più rapida e completa avviene
aerobicamente (U.S. EPA, 1985).
Alcuni microrganismi hanno sviluppato sistemi enzimatici catabolici per il metabolismo
dei composti aromatici (Gibson, 1978). Nel processo di ossidazione degli idrocarburi
aromatici l’ossigeno gioca un ruolo fondamentale nella scissione dell’anello aromatico.
Gli organismi procarioti, batteri e cianobatteri, seguono percorsi degradativi diversi
dagli eucarioti, funghi ed alghe, ma entrambi utilizzano l’ossigeno molecolare
(Cerniglia, 1984).
La figura 4.1 riporta le diverse reazioni metaboliche per l’ossidazione iniziale degli
idrocarburi aromatici negli eucarioti e procarioti
84
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Fig. 4.1 Reazioni metaboliche per l’ossidazione iniziale degli idrocarburi aromatici negli
eucarioti e procarioti
Per i batteri il primo passaggio metabolico della degradazione degli IPA, è catalizzato
dall'enzima diossigenasi che catalizza l'incorporazione di 2 atomi di ossigeno
nell'anello aromatico, con formazione di diossietano, che viene
ossidato a cis
diidrodiolo, e successivamente deidrogenato a catecolo. Dal punto di vista metabolico
importante è la successiva rottura dell'anello aromatico, catalizzata dall' enzima
diossigenasi, con formazione di composti a catena lineare che rappresentano intermedi
comuni a diverse vie metaboliche della cellula (es. ossidazione nel ciclo degli acidi
tricarbossilici). La rottura dell'anello aromatico puo' avvenire tra due idrossili vicini (orto
- scissione) o puo' essere adiacente soltanto ad un gruppo OH (meta - scissione): i
prodotti della reazione saranno diversi in base alla tipologia della scissione.
La fase limitante del processo di biodegradazione degli IPA e' rappresentato
dall’ossidazione iniziale dell’anello aromatico (Cerniglia e Heitkamp, 1989) a causa
dell'alta stabilita' chimica e bassa reattività della molecola; la degradazione poi procede
rapidamente con pochi o nessun accumulo di prodotti intermedi (Herbes e
Schwall,1978).
Diversamente dai batteri, in alcuni funghi e organismi superiori (eucarioti), un atomo di
ossigeno viene incorporato nell'anello aromatico con formazione di ossidi di arene che,
in presenza di acqua, sono idrossilati a trans-diidrodioli.
85
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
In particolar modo i funghi non ligninolitici e le alghe procariote (cianobatteri),
degradano gli IPA seguendo percorsi metabolici simili a quelli utilizzati dai mammiferi
(Cerniglia et al.,1992).
Molti funghi riescono ad ossidare gli IPA mediante citocromo monossigenasi P-450,
che catalizza l'incorporazione di un atomo di ossigeno all'anello aromatico con
formazione di ossidi d’arene. Tali ossidi risultano chimicamente instabili e possono
essere idrossilati enzimaticamente (mediante l’enzima idrolasi epossido) con
formazione di trans-diidrodioli e fenoli, o subire un riarrangiamento elettronico con
formazione di fenoli i quali vengono coniugati con solfato, glucosio, xilosio e acido
glucuronico.
Alcuni funghi filamentosi hanno la capacità di idrossilare gli idrocarburi aromatici,
permettendo la loro successiva detossificazione, mentre nei batteri le reazioni di
idrossilazione dell'anello aromatico permetterebbero la scissione dell’anello e la
successiva catabolizzazione e assimilazione (Dagley, 1981).
I
funghi
ligninolitici,
noti
come
funghi
bianchi
producono
IPA-chinoni.
Un
microorganismo appartenente alla specie Phanerochaete chrysosporium viene
solitamente utilizzato per la valutazione del potenziale degradativo di IPA da parte dei
funghi bianchi: la reazione iniziale è catalizzata da enzimi extracellulari noti come
lignina perossidasi e manganese perossidasi. L'enzima lignina perossidasi, in
presenza di perossido di idrogeno, catalizza la sottrazione di un elettrone dalla
molecola di IPA (come antracene, pirene, o benzo[a]pirene) con conseguente
formazione di un chinone.
La degradazione fungina di IPA è significativa dal punto di vista tossicologico ed
ambientale poiché spesso risulta incompleta e comporta la formazione di prodotti
carcinogeni e mutageni sugli organismi superiori.
La fig. 4.2 illustra le differenze dei percorsi ossidativi degli IPA tra i procarioti e gli
eucarioti.
86
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Fig. 4.2 Percorsi ossidativi degli IPA tra i procarioti e gli eucarioti
Il metabolismo microbico degli IPA e' stato largamente studiato su colture pure di
microrganismi e su singoli IPA in sistemi in scala laboratorio (Huddleston, Bleckmann
and Wolfe, 1986).
Al contrario in letteratura sono scarsi i riferimenti a processi di biodegradazione
aerobica di IPA in condizioni ambientali reali.
Sono stati ottenuti diversi risultati con microrganismi acclimatati: i microrganismi di un
suolo contaminato da benzo[a]pirene hanno mostrato una maggiore attività nel
metabolismo del benzo[a]pirene rispetto a quelli presenti in un suolo non contaminato
(Shabad et al., 1971). D’altra parte però, l'aggiunta di una popolazione di
microrganismi in grado di degradare IPA, ma non presenti nel sistema da trattare, a
diversi tipologie di sedimenti non ha migliorato significativamente il tasso di
degradazione di IPA (Sherril e Sayler, 1982). Inoltre, secondo Bassert e Bartha (1986),
la concentrazione di IPA non sembra essere un fattore inibitore: una concentrazione
del 5% di benzo[a]pirene non inibisce la biodegradazione di quel composto nel suolo.
Shabad et al. (1971), riportano che la capacità dei batteri di degradare benzo[a]pirene
aumenta all’aumentare del contenuto di benzo[a]pirene; anche gli studi di Winsel et al.
(1993) evidenziano che raddoppiando la concentrazione iniziale di diversi IPA
(naftalene, fenantrene, antracene e pirene) si ottengono maggiori tassi di
degradazione.
Kerr e Capone (1986) hanno trovato una correlazione tra la concentrazione iniziale di
IPA ed il tasso di degradazione del naftalene. Altri autori riportano invece una relazione
87
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
inversa tra le concentrazioni iniziali ed i tassi di mineralizzazione/trasformazione
(Shiaris e Janibard-Sweet, 1984).
Il tasso di degradazione di IPA, in tutte le matrici ambientali oggetto di studio, sembra
quindi essere influenzato dalla quantità di contaminanti presenti.
Un altro importante fattore per la biodegradazione di IPA (Shiaris, 1989) può essere
attribuito alla salinità dell’ambiente. La salinità, infatti, può influenzare l’interazione
particelle - IPA e la stessa solubilità degli IPA. Comunque, mentre Shiaris (1989) e Kerr
e Capone (1988) hanno riportato correlazioni positive tra salinità e tassi di
mineralizzazione di alcuni IPA, Ward e Brock (1978) hanno ottenuto tassi di
mineralizzazione più bassi in ambienti ipersalini. Alcuni microorganismi in grado di
degradare gli IPA e tollerare alte concentrazioni di sale appartengono ai generi batterici
Micrococcus, Pseudomonas e Alcaligenes (concentrazioni di NaCl anche superiori al
7.5%), (Ashok et al., 1995).
La mineralizzazione di IPA inoltre dipende dal pH, nutrienti, tempo di incubazione,
temperatura, peso molecolare degli idrocarburi e precedenti esposizioni agli IPA
(Sherril e Sayler, 1982).
I microrganismi del suolo in genere richiedono un pH compreso tra 5.8 e 8.5 mentre
l’optimum la degradazione degli IPA avviene intorno alla neutralità (Weissenfels et al.,
1990).
I microrganismi necessitano di un adeguato rapporto di nutrienti: in generale il rapporto
ottimale tra carbonio, azoto e fosforo è approssimativamente C:N:P=120:10:1 (Wilson
e Jones, 1993); i rapporti ottimali per la degradazione di IPA sono compresi
nell'intervallo tra C:N=60:1 e C:P=800:1. Si osservi che tali rapporti si riferiscono alle
quantità di C, N e P che vengono assimilati dai microrganismi per formare nuova
biomassa.
Suoli, sedimenti e acque dolci e di mare contengono in genere basse concentrazioni di
sostanza organica assimilabile. I suoli ed i sedimenti possono contenere l’1% e più di
sostanza organica, ma il carbonio organico è presente in forme complesse che funghi
e batteri non sono in grado di utilizzare se non molto lentamente. Generalmente il
contenuto degli altri nutrienti eccede il quantitativo strettamente necessario alle
popolazioni microbiologiche e quindi il poco carbonio prontamente utilizzabile
rappresenta il nutriente limitante per i microrganismi eterotrofi nei suoli, nei sedimenti e
nelle acque naturali. La situazione cambia decisamente se un contaminante, che è
invece assimilabile, viene introdotto nell’ambiente in quantità tale da rendere uno o più
88
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
dei nutrienti (prima dell’immissione non limitanti) fattore limitante per la crescita.
Generalmente, quindi i nutrienti limitanti sono N o P oppure entrambi (Alexander 1999).
I microrganismi generalmente preferiscono temperature comprese nell'intervallo tra 15°
e 45° C (Wilson e Jones, 1993), nel caso della degradazione degli IPA la letteratura
riporta diversi intervalli di temperatura compresi tra 20 e 30 C° (Heitkamp et al., 1988,
Dibble and Bartha, 1979a, Bauer and Capone, 1985).
Tipologia e composizione del suolo possono influenzare il grado di degradazione degli
IPA da parte della flora microbica poichè essendo questi composti idrofobici si legano
preferibilmente alle particelle del suolo.
In particolare l’adsorbimento degli IPA alla frazione organica dei suoli può rallentare la
velocità di biodegradazione (Manilal e Alexander, 1991). Come già detto in precedenza
l’entità del fenomeno di adsorbimento delle molecole di IPA dalle particelle del suolo è
correlata direttamente al contenuto della frazione organica di un suolo, questo
fenomeno potrebbe spiegare il motivo per cui la mineralizzazione dei composti
idrofobici avviene più lentamente nei suoli piuttosto che nei liquidi. È stato anche
dimostrato che gli acidi fulvici riducono la mineralizzazione del pirene dovuta
apparentemente alla tossicità nei confronti dei microrganismi (Grasser et al., 1994).
La biodegradabilità degli IPA ad elevato peso molecolare adsorbiti alle frazioni limose
ed argillose può essere migliorata dalla presenza di IPA a basso peso molecolare; ad
esempio gli IPA a quattro anelli sono degradati più rapidamente in presenza di
naftalene (Ressler et al., 1995).
La biodegradabilità e la solubilità in acqua sembrano essere inversamente correlate al
numero di anelli presenti nelle molecole ad esempio gli IPA a più elevato peso
molecolare sembrano essere più recalcitranti di quelli a basso peso molecolare, questo
però potrebbe essere attribuito alle loro basse concentrazioni in fase acquosa (Mihelcic
et al., 1993). La maggiore solubilità del fenantrene rispetto all’antracene, può spiegare
la maggiore velocità di degradazione del fenantrene. Sembra che naftalene e
fenantrene vengono utilizzati solo in forma solubile, poiché il tasso di crescita dei
batteri viene correlato alla solubilità degli idrocarburi su cui essi crescono (Wodzinsky e
Coyle, 1974). Anche la biodegradabilità degli IPA a quattro anelli è legata alla solubilità
in acqua, mentre gli IPA a cinque anelli sono praticamente insolubili in acqua.
Comunque diversi studi riportano che colture miste, isolate da suoli contaminati da IPA,
sono capaci di degradare un’ampia varietà di IPA, da fluorantene, benzo[a]pirene,
antracene, fenantrene acenaftene e fluorene (Trzesicka-Mlynarz e Ward, 1995). I
89
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
principali
microrganismi
responsabili
del
processo
appartengono
alle
specie
Pseudomonas Putida, P. aeruginosa e Flavobacterium sp.
Diverse ricerche sperimentali hanno dimostrato che l’aggiunta di tensioattivi chimici
potrebbe favorire la solubilizzazione degli IPA ed incrementarne il tasso di utilizzo da
parte della flora microbica (Cox e Williams, 1980). La biodisponibilità degli IPA
potrebbe aumentare in presenza di Triton X-100 e Tegitol NPX ad elevate
concentrazioni (Volkering et al., 1995). Alcuni microrganismi che vivono su substrati
contaminati da IPA producono sostanze tensioattive che possono aumentare la
biodisponibilità (Daziel et al., 1996).
Il processo di biodegradazione degli IPA con più di tre anelli sembra essere di tipo
cometabolico (Sims e Overcash, 1983). Il fluorene ed il fenantrene vengono
cometabolizzati più facilmente di quelli a più elevato peso molecolare (Bouchez et al.,
1995).
La sinergia tra i microrganismi gioca un ruolo fondamentale: la degradazione di miscele
di IPA sembra essere un processo di cooperazione che coinvolge diversi
microrganismi con abilità complementari (Boucher et al., 1995). Uno o più
microrganismi possono degradare i prodotti parzialmente trasformati di un altro
microrganismo.
4.2
Degradazione anaerobica
La biodegradazione biologica di idrocarburi in condizioni aerobiche è stata oggetto di
numerosi studi, ma negli ultimi anni ha cominciato a destare interesse la degradazione
anaerobica. Recenti studi hanno dimostrato che i batteri che agiscono in anaerobiosi
sono molto versatili ed in grado di degradare diversi composti anche se le cinetiche
sono più lente rispetto a quelle aerobiche.
Il metabolismo in assenza di ossigeno dipende dalla natura dell’accettore finale di
elettroni disponibile o fonte di idrogeno.
Nitrati, composti del ferro, solfati e anidride carbonica fungono da accettori di elettroni
nei processi di denitrificazione, riduzione del ferro, riduzione dei solfati e
metanogenesi, nella tabella 4. 1 viene riportato per ciascun processo la molecola che
funge da accettore finale di elettroni.
90
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Tab 4.1 Accettori di elettroni nei differenti processi biologici
Accettore di elettroni
Processo
Matrici ambientali
O2
Aerobico
Sedimenti/acque di falda
NO-3
Denitrificazione
Acque di falda ricche di nitrati
Fe(III)
Riduzione del ferro
Acque di falda
SO42-
Riduzione del solfato
Sistemi marini
CO2
Metanogenesi
Ecosistemi ricchi di sostanza
organica
La reazione generale può essere schematizzata come segue:
substrato+(NO-3,Mn4+,Fe3+,SO2-4,CO2)→ biomassa+ CO2+(N2,Mn2+,Fe+2,S2,CH4)
Gli idrocarburi organici vengono degradati anaerobicamente in condizioni differenti di
ossido-riduzione. L’attività biologica anaerobica è classificata in termini di potenziale
redox negativo crescente. In condizioni moderatamente riducenti, possono venire
attivati i batteri impegnati nella riduzione dei nitrati. Un potenziale redox negativo
maggiore favorisce in sequenza, i batteri riducenti manganese(IV) prima e ferro(III)
dopo, i batteri riducenti il solfato, i batteri fermentativi acido produttori e infine i batteri
metanogenici.
I prodotti finali delle degradazione anaerobica sono composti ridotti e taluni possono
anche essere tossici per i microrganismi.
La degradazione anaerobica avviene mediante sia un processo di respirazione
anaerobica che di fermentazione seguita da metanogenesi e tali microrganismi
appartengono a differenti popolazioni microbiche.
Gli acidi formatori e quelli acetogenici produttori di H2 sono una parte delle comunità
microbiche che intervengono nella fermentazione, e sono seguiti dai metanogeni con la
produzione di CO2 e CH4.
L’interazione tra diverse popolazioni è importante nella degradazione di molecole
complesse (Berry, et al.,1987; Hornick, et al., 1983). Per mineralizzare completamente
un substrato occorre più di una specie di microrganismi anaerobi. (Alexander, 1994).
Fino a poco tempo fa si pensava che solo il benzene sostituito fosse degradabile in
condizioni anaerobiche. I gruppi sostituenti dell’anello aromatico come il carbossile, il
metile oppure l’ossidrile riducendo l’energia di risonanza dell’anello aromatico,
destabilizzano la molecola aromatica rendendola più sensibile alla rottura. Negli ultimi
anni è stato mostrato che toluene, xilene, benzene e gli IPA possono essere altrettanto
91
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
degradati in condizioni anaerobiche, anche se in letteratura sono scarse le informazioni
circa la degradazione anaerobica.
Bauer e Capone (1985) non hanno osservato alcuna mineralizzazione di antracene e
naftalene in condizioni anaerobiche. Mihelic e Luthy (1988) riportano la degradazione
di IPA a basso peso molecolare, naftalene e acenaftalene, in sistemi acqua-suolo in
condizioni denitrificanti con tassi minori rispetto la degradazione aerobica. La
degradazione di naftolo, naftalene e acenaftalene in condizioni denitrificanti, ma non in
solfato riduzione, è stata osservata in suoli di acqua dolce in fase slurry utilizzando IPA
radiomarcati e successivo recupero di anidride carbonica.(Mihelcic, and Luthy, 1988).
Hutchins et al. (1991) sostiene che i batteri denitrificanti sono diversi e possono esibire
un elevato potenziale metabolico e che la superficie dei sedimenti può contenere un
quantitativo di carbonio organico sufficiente ad attivare la denitrificazione. Lovley et al.
(1994) in disaccordo con tali studi, riportano che neanche il benzene viene degradato
con il nitrato come accettore di elettroni.
La degradazione biologica di IPA a basso peso molecolare in condizioni nitratoriducenti sembra dipendere dalle cinetiche di assorbimento-desorbimento, dalla
quantità di microrganismi acclimatati nell’ambiente, e dalla presenza di composti
organici diversi dagli IPA che possono competere per i nitrati (Al-Bashir et al.1990).
Studi successivi (McNally et al., 1996) confermano la possibilità di degradare
naftalene e acenaftene in condizioni denitrificanti riscontrando un abbattimento della
concentrazione di questi da 3mg/l a valori minori di 0.001 mg/l. Successivamente
McNally et al. (1999) hanno studiato l’effetto della presenza contemporanea di IPA a
basso peso molecolare e di IPA ad elevato peso molecolare in sedimenti degradati in
condizioni di denitrificazione indotta dall’aggiunta di un quantitativo di nitrati superiore a
quello stechiometricamente necessario e di colture pure di Pseudomonas. Dai risultati
si evince che gli IPA ad elevato peso molecolare vengono metabolizzati solo dopo la
degradazione di quelli a basso peso molecolare; la degradazione del fenantrene (3
anelli) aumenta con la presenza di pirene (5 anelli) e ancor di più con la presenza
anche di naftalene (2 anelli); la degradazione del pirene è invece inibita dalla presenza
del fenantrene e favorita dalla presenza di naftalene; l’aver riscontrato risultati simili per
le diverse specie suggerisce che l’inibizione competitiva è un fenomeno comune dei
microrganismi che degradano gli IPA (Strigfellow et al.,1995). Bouchez et al. (1995)
hanno suggerito che la struttura simile dei diversi IPA e la specificità degli enzimi
possono essere la causa di tali interazioni.
92
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
La biodegradazione anaerobica di benzene e toluene ad opera di batteri ferro-riducenti
è stata studiata da Lovlley et al. (1994). I ricercatori hanno verificato la degradazione
valutando la riduzione del rapporto Fe(II) / Fe(III).
Esistono pareri contrastanti in letteratura che riguardano la degradazione anaerobica in
condizioni solfato-riducenti e metanogenetiche.
Al-Bashir et al. (1990), Leduc et al. (1992), Mihelcic e Luthy (1992) mostrano la
biodegradazione degli IPA con il nitrato come accettore finale di elettroni e non rilevano
alcuna degradazione in condizioni solfato-riducente o di metanogenesi. Al-Bashir
osserva un elevato tasso di degradazione di acenaftene, acenaftilene, flourene e
antracene in condizioni denitrificanti e in condizioni solfato-riducenti. Coates et.al.
(1996) riporta la mineralizzazione di naftalene e fenantrene nei sedimenti provenienti
dalla baia di San Diego in condizioni solfato-riducenti. Lo stesso Coates (1997)
confermando
che la degradazione del naftalene è solfato-dipendente, valuta
l’influenza delle interazioni tra più substrati: aggiungendo sedimenti ricchi di benzene,
la degradazione del naftalene ne risulta inibita. Al-Bashir (1991) riporta una seppur
poco significatica mineralizzazione di IPA in condizioni metanogeniche.
La degradazione anaerobica del naftalene in condizioni solfato-riducenti è stata
riscontrata in uno studio (Zhang e Young, 1997) condotto su sedimenti marini
contaminati da petrolio. Il processo degradativo è risultato dipendente dalla quantità di
solfato disponibile e dopo aver verificato una inibizione indotta dal tetraossido di
molibdeno (MoO4), i ricercatori hanno ritenuto i batteri solfato riduttori artefici del
processo depurativo.
In uno studio di Johnson et al. (1998) vengono valutate le condizioni in cui può
verificarsi la degradazione di IPA in reattori a bioslurry (con il 20% del tenore di secco),
aggiungendo nitrati, solfati e zuccheri per i metanigeni per creare rispettivamente
condizioni nitrato-riducenti, condizioni solfato-riducenti e metanogeniche. I risultati
ottenuti evidenziano che: la biodegradazione diminuisce all’aumentare del peso
molecolare, condizione che coincide con l’aumento delle refrattarietà e della
idrofobicità; l’aggiunta di nitrati non incrementa la degradazione, a differenza
dell’aggiunta di solfati. Infine non viene riscontrata alcuna degradazione in condizioni
metanogeniche, confermando studi precedenti.
Uno studio recente condotto da Rockne et al.(2000) mostra infatti, colture pure capaci
di degradare in ambiente denitrificante naftalene e fenantrene utilizzando i due
composti come unica fonte di carbonio. Sono state isolate due culture di microrganismi
NAP-3-1 e NAP-4 che hanno mostrato una effettiva capacità di degradare i due IPA in
93
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
dipendenza della quantità di nitrato presente. Inoltre sebbene da solo il NAP-4 è in
grado di metabolizzare il naftalene, la presenza di un’altra coltura ne migliora
l’efficienza.
Chang et al. (2002) hanno studiato la degradazione anaerobica degli IPA presenti nei
suoli. Ai campioni di suoli sono state aggiunte concentrazioni note di fenantrene,
pirene, antracene, fluorene e acenaftene riscontrando che il tasso di degradazione dei
singoli IPA è maggiore se sono presenti più IPA simultaneamente. Sono stati osservati
tassi di degradazione via via più bassi per fenantrene, pirene, antracene, fluorene e
acenantrene e ciò evidenzia la dipendenza dalla struttura chimica; mentre variando le
condizioni anaerobiche in cui la degradazione viene attivata e misurati i rispettivi tassi,
essi sono risultati per i diversi IPA, decrescenti al passare da condizioni solfatoreducenti, a condizioni di metanogenesi, e a condizioni nitrato-reducenti.
I batteri che intervengono nella degradazione di IPA sono per la maggior parte quelli
coinvolti nel processo di riduzione del solfato, anche se trovano spazio i metanigeni
La degradazione anaerobica degli IPA è influenzata dai cambiamenti di pH,
temperatura (valori migliori tra 8 e 30° rispettivamente) e può essere incrementata
ricorrendo ad aggiunte di acetato oppure lattosio. Inoltre la presenza di una fase solida
(suolo aggiunto alle colture biologiche in fase liquida) incrementa il tasso degradativo, i
campioni più ricchi di matrice organica presentano tassi maggiori.
Negli ultimi anni si sono avuti sostanziali progressi nella comprensione della
degradazione anaerobica degli idrocarburi monoaromatici. Come per i processi di
degradazione aerobica, i substrati vengono degradati a partire da processi periferici a
intermediari centrali a partire da cui si avvia la rottura dell’anello aromatico. La
degradazione anaerobica degli idrocarburi in tutti i casi studiati, passa attraverso la
produzione del benzoyl-Co-A e differisce solo per i processi periferici (Heider et al.,
1999). L’anello aromatico del benzoyl-Co-A è ridotto mediante un meccanismo ATPdipendente dalla benzoyl-Co-A riduttasi per iniziare la rottura dell’anello aromatico
(Harwood et al., 1999; Kosh et al., 1993; Kosh et al., 1992). In organismi differenti,
questa reazione può comprendere 2-4 passaggi di riduzione di elettroni .(Harwood et
al., 1999). L’H2O è aggiunta al doppio legame nella posizione-β al gruppo carbossilico
per introdurre un idrossilato che permette la successiva ossidazione e rottura
dell’anello.
Diversamente
dai
composti
monoaromatici,
esistono
solo
poche
informazioni riguardanti la degradazione anaerobica degli IPA. Questo è certamente
dovuto alla difficoltà di coltivare i batteri degradanti gli IPA e il limitato numero di colture
biocapaci.
94
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
In un recente studio di Annweiler et al.(2001) viene riscontrato un parallelismo tra i
meccanismi di degradazione dei monoaromatici e quelli dei poliarommatici.
Studicondotti da Zhang and Young ( 1997 e 2000) sulla degradazione del naftalene ad
opera di colture di batteri solfato-riduttori, hanno rilevato la formazione di acido 2naftoico
mediante
l’inserimento
di
bicarbonato
nel
gruppo
carbossilico
(carbossillazione).
I successivi derivati del acido 2-naftoico suggeriscono un passaggio intermedio nella
riduzione dell’anello aromatico in analogia con processo di degradazione del benzoylCoA dei composti mono aromatici. Gli stessi metaboliti sono stati riscontrati nella
degradazione del 2-methylnaphthalene in condizioni di solfato-riduzione (Annwelier et
al., 2000). E’ stato dimostrato che 2- methylnaphthalene è attivato dall’inserimento di
fumarate nel gruppo metilico, analogamente alla degradazione anaerobica del toluene
(fig. 4.3), e successivamente degradato ad acido 2-naftoico (Annweiler et al.,2000;
Bedessem et al., 1997, Beller et al., 1997, Cline et al., 1969, Coates et al., 1996,
Coates et al. 1997, Galushko et al., 1999, Harwood et al., 1999, Heider et al., 1999;
Jackson et al., 1992; Koch et al., 1993, Koch et al., 1992; Langenhoff et al., 1996,
Leuthner et al., 1998).
Fig. 4.3 Percorso degradativi in ambiente anaerobico del toluene
Annweiler et al. (2001) hanno osservato che la degradazione anaerobica del naftalene
e del 2-metilnaftalene passa attraverso la riduzione del sistema di anelli biciclici
dell’acidp 2-naftoico, analogamente al processo di formazione del benzoyl-CoA. Inoltre
i ricercatori hanno osservato un processo di fissione dell’anello identico durante il
processo di degradazione di naftalene, 2-metilnaftalene e la tetralina. Ciò indica che la
rottura dell’anello parte da un composto biciclico ridotto e procede con un processo di
degradazione che passa attraverso ciclo esano e non attraverso un composto
monoaromatico.
95
Cap. 4
4.3
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Sistemi di trattamento in fase slurry
Tra le possibili tecnologie di bonifica di un suolo-sedimento contaminato da idrocarburi
si può fare ricorso a trattamenti biologici (cosiddetti di bioremediation) che
rappresentano una valida alternativa ai trattamenti fisico-chimici.
I sistemi di bioremediation vengono suddivisi in due grosse categorie: trattamenti insitu e trattamenti ex-situ.
Nei sistemi ex-situ è possibile ricorrere a bioreattori “ingegnerizzati” che vengono
progettati ed equipaggiati con strumenti di controllo di processo per creare condizioni
ideali per la biodegradazione.
In generale i sistemi di trattamento ex-situ solitamente comportano maggiori aggravi
economici rispetto a quelli in situ (derivanti da operazioni di scavo e movimentazione
dei suoli/sedimenti nonché dai costi di investimento delle infrastrutture), ed è questo il
motivo per cui vengono utilizzati quando un approccio del tipo in situ è insostenibile
(Alexander, 1999). Ad esempio, nel caso di suoli limosi e/o argillosi, la bassa
permeabilità rende difficoltosa la fornitura di ossigeno e, ove necessario, di nutrienti
minerali compromettendo quindi la buona riuscita del processo degradativo, per cui i
trattamenti ex-situ, rappresentano una migliore alternativa rispetto a quelli in situ
(Morgan et al., 1990). Nel caso di sedimenti contaminati, i trattamenti ex situ sono
considerati decisamente più gestibili di quelli in situ in quanto sono condotti in un
ambiente all’interno del quale vengono controllate tutte le condizioni ambientali (NRC,
1997).
Tra i sistemi ex-situ i bioreattori in fase slurry (“bioslurry reactors”) offrono il massimo
controllo ed il più elevato tasso di biodegradazione (Burchell et al., 1994).
Il trattamento in reattori a bioslurry è del tutto analogo al sistema a fanghi attivi
utilizzato per il trattamento di reflui urbani (Loehr, 1992; Alexander, 1999). Tipicamente
uno slurry contiene dal 5% al 50% di solidi (Cassidy e Irvine, 2001). La miscelazione
dei solidi con acqua ha l’effetto di favorire il contatto tra i microrganismi ed
i
contaminanti. I reattori a bioslurry sono progettati per ridurre al massimo i fattori che
comunemente limitano la crescita microbica: i solidi vengono mantenuti in sospensione
nel bioslurry e miscelati con ossigeno ed eventualmente nutrienti, inoltre è possibile
inserire nel processo anche popolazioni di microrganismi diversi da quelli
originariamente presenti nel suolo da trattare (bioaugmentation).
Come detto nei paragrafi precedenti, i fattori che limitano la biodegradazione di IPA
sono diversi (presenza di sostanza organica degradabile, nutrienti, miscelazione,
96
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
temperatura, pH, etc.), ma il principale è rappresentato dalla limitata disponibilità di
contaminante per i microrganismi.
Un modello generalmente accettato per la biodegradazione di sostanze organiche si
fonda sull’ipotesi che i microrganismi consumino solo substrati disciolti in acqua e che
la relativa cinetica di rimozione sia funzione della concentrazione nella fase acquosa
(Poeton et al., 1999). In un lavoro precedente di Poeton et al.(1998) vengono valutati
gli effetti della fase solida sulle cinetiche di degradazione di IPA.
Aggiungendo del sedimento ad una soluzione contenente IPA, si ha un incremento dei
tassi di degradazione rispetto a quelli ottenuti per la sola soluzione. I ricercatori hanno
spiegato questi maggiori tassi di rimozione con l’ipotesi che essi siano dovuti all’attacco
da parte di batteri e dalla loro capacità di accedere alla più alte concentrazioni di IPA
sulla superficie delle particelle dovute alle proprietà di assorbimento. Guerin e Boyd
(1991) suggeriscono che l’abilità all’attacco degli IPA sulla superficie delle particelle è
specifica della specie: ai batteri capaci di degradare gli IPA disciolti nella fase acquosa,
si aggiungono batteri in grado di accedere agli IPA.
Precedenti ricerche (Wodzinski e Coyle, 1974) hanno mostrato che i contaminanti
adsorbiti alla matrice solida non sono direttamente disponibili per la biodegradazione e
quindi il tasso di desorbimento di IPA dalla matrice solida, decisamente basso a causa
della idrofobicità e bassa solubilità degli IPA, rappresenta il fattore limitante del
processo di biodegradazione. Gli IPA adsorbiti alla frazione più fine sono più mobili e
quindi più disponibili all’attacco da parte dei microrganismi (Talley et al. 2002). Inoltre
la composizione granulometrica può avere un effetto sulla degradazione. In uno studio
di Kim et al. (2001) il tasso di desorbimento del fenantrene adsorbito alle particelle di
sabbia è stato maggiore del tasso di degradazione dello stesso per cui per la sabbia il
fattore limitante è la biocapacità; gli IPA adsorbiti invece all’argilla presentano invece
un tasso di degradazione maggiore di quello di desorbimento che ne rappresenta
quindi il fattore limitante.
L’ECOVA Corporation ha utilizzato una tecnologia di biodegradazione basata su
reattori a bioslurry per trattare suoli contaminati da IPA. Dopo 14 giorni si è ottenuta
una riduzione di IPA totali del 96% ± 2%.Gli IPA cancerogeni si sono ridotti del
90% ± 3,2% partendo da un valore iniziale di 501 ± 103 mg/kg a 5,01 ± 1,53
mg/kg.Rispetto ai trattamenti tradizionali come ad esempio quelle termici, i reattori a
bioslurry sono più economici e più efficienti: i costi variano da 130 $ a 200 $ per metro
cubo di slurry trattato. Per favorire la rimozione degli IPA con un numero di anelli
97
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
superiore a 4, è stato utilizzato Fenton costituito da perossido di idrogeno e sali ferrici
che produce radicali liberi capaci di ossidare gli IPA a 4 anelli aromatici.
L’EPA (1990) ha inserito il trattamento con bioslurry tra i metodi innovativi per il
trattamento di una vasta serie di contaminanti organici come i pesticidi, carburanti,
creosoto, pentaclorofenoli (PCP), rifiuti di raffinerie, idrocarburi ed indicando quale
elemento caratterizzante di tale tecnologia la rapida biodegradazione dovuta
all’aumento del tasso di trasferimento di massa dei contaminanti dalla matrice solida a
quella liquida e del contatto tra microrganismi e contaminanti. I test condotti hanno
evidenziato una rimozione del 95% di IPA.
L’ECOTEC ha sperimentato il trattamento a bioslurry per la riduzione di IPA contenuti
in suoli contaminati utilizzando dei detergenti che favoriscono il rilascio dei
contaminanti adsorbiti alla frazione organica della matrice inerte, riducono la tensione
superficiale e incrementano l’area utile disponibile per l’attacco dei microrganismi.
I sistemi bioslurry possono operare sia a flusso discontinuo (SS-SBR Sediment Slurry
– Sequencing Batch Reactor) che in continuo (CSTR, Completely Stirred Tank
Reactor).
Irvine et al. (1993) e Eweis et al. (1998) hanno indagato sui vantaggi e svantaggi di
queste due modalità di conduzione. Il sistema CSTR diluisce i contaminanti non
appena inseriti nel reattore, la diluizione riduce i tassi di degradazione se le cinetiche
dipendono dalla concentrazione, ma nel caso di contaminanti tossici ne riduce la
pericolosità.
La sequenza carico-reazione-scarico (fill-react-draw) che caratterizza il sistema SSSBR richiede un pompaggio intermittente e garantisce una maggiore flessibilità
operativa di un CSTR. Nel sistema SS-SBR, il volume di slurry non trattato che viene
introdotto nel reattore all’inizio del ciclo, può essere variato con lo scopo di rendere
l’ambiente più favorevole ai microrganismi.
In uno studio condotto da Cassidy et al. (2000) vengono confrontate le efficienze di due
sistemi a bioslurry (10% di solidi) funzionanti come SS-SBR e CSTR per il trattamento
di un suolo contaminato da carburante (in particolare diesel). Sono stati aggiunti
nutrienti in forma solida con lo scopo di favorire un rapporto C:N:P pari a 60:2:1. I
risultati ottenuti hanno evidenziato che si realizza una efficienza di rimozione del 96%
nell’SS-SBR, mentre solo del 75% nel caso del CSTR: poiché è stata trattata nei due
reattori la stessa quantità di slurry, lo scarto tra le efficienze induce a pensare che la
condizione operativa fill-react-draw favorisca la selezione di microrganismi che hanno
una maggiore attitudine alla degradazione. Durante il ciclo di 4 giorni nel SS-SBR si
98
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
registra una notevole produzione di tensioattivi (biosurfactant) che vengono totalmente
degradati alla fine del ciclo. La produzione di tensioattivi coincide con la riduzione delle
tensione superficiale e l’aumento della concentrazione di contaminanti nella fase
acquosa a cui segue la produzione di schiuma dovuta all’aumento della capacità
emulsionante.
L’ aumento della tendenza al desorbimento degli IPA dalla matrice solida dovuta alla
produzione di tensioattivi favorisce la degradazione degli IPA ad elevato peso
molecolare che sono più resistenti alla degradazione.
Le condizioni operative quindi influenzano l’efficienza del reattore in quanto influenzano
le proprietà dello slurry. Cassidy e Irvine (2001) hanno valutato l’effetto delle condizioni
operative sul rendimento di un SS-SBR variando la concentrazione di solidi (5%, 25%
40%, 50%), la velocità di miscelazione (300 rpm,700 rpm,1200 rpm), tempo di
ritenzione idraulica (8d, 10d, 20d) e il volume di slurry rimosso per ciclo (10%, 50%,
90%). (Rapporto C:N:P 20:2:1). La scelta della concentrazione di solidi dipende dalle
apparecchiature di miscelazione e di areazione e dalla tossicità del contaminante
(Ross,1990; Cassidy, 1995; Eweis, et al.,1998). I risultati mostrano che l’incremento
della concentrazione di solidi coincide con la riduzione dell’efficienza del reattore. Ciò è
attribuito all’incremento delle dimensioni dell’aggregato solido. Glaser et al. (1994)
hanno riscontrato che incrementando la concentrazione di solidi dal 10% al 30% in un
reattore bioslurry, la più elevata concentrazione favorisce un più elevato tasso di
degradazione
iniziale,
ma
quella
minore
dà
luogo
ad
una
più
completa
biodegradazione. Ovviamente da un punto di vista economico è importante
massimizzare la concentrazione di solidi a parità di sedimenti da smaltire, ma in reattori
su scala-pilota un quantitativo troppo elevato di solidi potrebbe rendere difficoltosa la
miscelazione e la distribuzione di ossigeno. Riducendo la velocità di miscelazione
incrementano le dimensioni dell’aggregato e si riducono conseguentemente le
efficienze. La rimozione del contaminante non è influenzata invece dall’HRT e dal
volume rimosso nel ciclo. La concentrazione di tensioattivi e la formazione di schiuma
che incrementa con la velocità di miscelazione, aumentano all’aumentare del volume
immesso nel ciclo.
Cassidy e Irvine (1996), utilizzando uno slurry al 40%, hanno riscontrato un’efficienza
di rimozione maggiore incrementando la durata del ciclo da 10 giorni a 20 giorni,
probabilmente perché il reattore viene rifornito di un quantitativo maggiore di slurry
fresco che provoca una fluttuazione della concentrazione di contaminante.
99
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Una possibile soluzione per incrementare la disponibilità di contaminanti ai
microrganismi può essere il trattamento con aggiunta di tensioattivi. Diversi studi hanno
mostrato che l’aggiunta sia di tensioattivi sintetici (Aronstein, 1991), che di tensioattivi
di origine biologica, cosiddetti biosurfactants (Providenti et al., 1995) migliora
sensibilmente la rimozione di IPA.
Recenti ricerche (Desai e Banat, 1997) hanno dimostrato l’efficacia dei biosurfactants
nei processi di mineralizzazione biologica di idrocarburi. I biosurfactants presentano
innumerevoli vantaggi rispetto ai tensioattivi sintetici di origine chimica, tra questi si
citano: minore tossicità; elevata biodegradabilità e quindi migliore compatibilità
ambientale; elevata capacità schiumogena; elevata attività a temperature estreme e
salinità (aspetto fondamentale nell’ambito di sedimenti lagunari).
In un studio condotto da Milligan et al. (2000) sono stati esaminati gli aspetti riguardanti
i tensioattivi sintetici e biologici. La solubilità in acqua dei contaminanti rappresenta il
meccanismo di controllo della rimozione e quindi migliorare la solubilità significa
migliorare l’efficienza. I surfattanti sintetici possono essere cationici, anionici e
nonionici. Essi sono dei composti anfibici (contengono porzioni idrofobiche e idrofili)
che riducono l’energia libera del sistema rimuovendo le molecole di più elevata energia
dall’interfaccia. La parte idrofobica è poco affine al bulk medium mentre la parte
idrofilica è attratta dal bulk medium. I tensioattivi monomeri formano strutture sferiche o
lamellari contenenti organic pseudophase, che riduce la tensione superficiale e
interfacciale con il conseguente incremento della mobilità dei composti.
La misura della attività di un tensiaoattivo (Desai e Banat, 1997) può essere
determinata semplicemente attraverso la misura delle variazioni della tensione
superficiale indotte appunto dai biosurfactants. La tensione superficiale può essere
facilmente determinata mediante un tensiometro. All’aumentare della concentrazione di
tensioattivo, in un sistema acqua/olio, si osserva una riduzione della tensione
superficiale (la tensione superficiale dell’acqua distillata è di 72 mN/m, e l’aggiunta di
tensioattivo porta tale valore a circa 30 mN/m). A partire da una certa concentrazione,
ad un ulteriore aggiunta di tensioattivo non corrisponde una altrettanto riduzione di
tensione superficiale (fig. 4.4). Il fenomeno può essere spiegato ammettendo che le
molecole del tensioattivo si associno tra di loro formando degli aggregati con
dimensioni colloidali detti micelle; la concentrazione in corrispondenza della quale si
osserva questa anomalia viene detta “Concentrazione Micellare Critica” CMC.
Schema.
100
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
Fig. 4.4 Andamento della tensione superficiale al variare della concentrazione di tensioattivo.
Convenzionalmente, la concentrazione di biosurfactants viene definita come il fattore di
diluizione (cosiddetto CMD, Critical Micelle Dilution) necessario per indurre un
incremento della tensione superficiale, e rappresenta, numericamente, il fattore
moltiplicativo per ottenere la CMC. In un sistema SS-SBR vengono prodotti
biosurfattanti con una concentrazione di circa 70 volte la CMC durante il ciclo ma essi
vengono totalmente degradati alla fine del ciclo (Cassidy et al., 2001).
Gli stessi ricercatori valutato la variazione di concentrazione di surfattanti, di schiuma,
di tensione superficiale come mostrano i seguenti diagrammi.
I biosurfactants sono prodotti naturalmente da molti tipi di microrganismi durante la
fase di crescita su composti idrofobici (Miller, 1995). I biosurfactants sono raggruppati
in glicolipidi, lipoptidi, fosfolipidi, acidi grassi e lipidi neutri (Biermann et al.,1987). La
porzione idrofobica della molecola è costituita da acidi grassi a catena lunga oppure αalkyl-β-hydroxy acidi grassi, mentre la porzione idrofila da carboidrati ammionoacidi,
peptidi, fosfati, acido carbossilico oppure alcohol. La CMC varia generalmente tra 1 e
200 mg/l e il peso molecolare tra 500 a 1500 amu. Una grande varietà di microrganismi
è in grado di produrre tali composti principalmente in ambiente aerobico ma anche in
quello anerobico.
Tabella!.
Deshenes et al.(1994) mostrano che i rhamnolipidi in un bioslurry possono favorire la
solubilizzazione degli IPA a 4 anelli in maniera maggiore rispetto quelli a 3 anelli.
I principali fattori che governano la produzione di biosurfactants sono essenzialmente
legati al rapporto carbonio/azoto, ed alle condizioni ambientali. Guerra et al. (1984)
hanno mostrato che la massima produzione di biosurfactants si ha in corrispondenza di
un rapporto C/N compreso tra 16:1 e 18:1. I principali fattori ambientali che
101
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
condizionano la produzione di biosurfactants sono il pH (6.5 – 8), la modalità di
trasferimento di ossigeno e la concentrazione di sali (anche se Abu Ruwaida et al.
(1991) non hanno osservato variazioni nella produzione di biosurfactants fino a
concentrazioni saline del 10%).
Tra l’altro quello della salinità rappresenta un fattore importante nell’ambito del
processo di biodegradazione di IPA (Shiaris, 1989) e soprattutto nel caso di sedimenti
marini. I tassi di rimozione di IPA non sono generalmente influenzati da ambienti salini
(Kerr e Capone, 1986). Comunque mentre Shiaris (1989) e Kerr e Capone (1986)
hanno riportato una correlazione positiva tra salinità e tasso di mineralizzazione di
alcuni IPA, Ward e Brock (1978) hanno osservato tassi di mineralizzazione più bassi in
ambienti ipersalini, imputabili probabilmente ad una riduzione dei tassi metabolici dei
microrganismi. Ashock et al. (1995) hanno individuato 3 specie batteriche in grado di
degradare IPA aventi un’elevata tolleranza alla salinità (concentrazioni di NaCl
superiori a 7.5%).
Kim et al.(2001) hanno valutato l’effetto sulla degradazione di IPA contenuti in un suolo
in un reattore bioslurry (10% di solidi) aggiungendo tensioattivi sintetici. Quando la
concentrazione di tensioattivi supera la CMC, essi formano le micelle (aggregati di
molecole) e si ha un aumento della solubilità degli IPA che diviene proporzionale alla
concentrazione di surfattanti, mentre per concentrazioni non superiori alla CMC i
surfattanti aggiunti non hanno alcun effetto sulla solubilità. Dei tre surfattanti utilizzati
(Brij 30,Tween 80, Triton X-100) il primo ha un effetto maggiore sulla solubilità ma gli
altri due sono più solubili. Utilizzando una concentrazione di surfattanti di 0,5 g/l o 1g/l
o 2g/l si ha un passaggio del 90% di fenantrene alla fase liquida. In un altro studio
precedente (Tsomides et al.,1994) sulla degradazione di fenentrene in un sistema
slurry con aggiunta di popolazioni microbiche e di biosurfattants si è riscontrato che
solo uno dei quelli testati non inibisce la degradazione e ciò indica il possibile effetto
tossico sui microrganismi. Inoltre la tendenza dei biorurfattants ad adsorbirsi ai
sedimenti causa la riduzione della quantità sciolta e quindi disponibile rispetto la
quantità aggiunta. Caratteristica quindi altrettanto importante di un surfattante è che sia
sufficientemente solubile.
102
Cap. 4
Sistemi di trattamento in fase semisolida (slurry) per la degradazione di IPA
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Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Capitolo 5
D E S C R I Z I O N E D E L L E AT T I V I T Á
S P E R I M E N TA L I
Introduzione
Il lavoro condotto nell’ambito del Dottorato di Ricerca ha riguardato la possibilità di
utilizzo di tecnologie di bonifica non tradizionali per il trattamento di sedimenti lagunari
contaminati; in particolare, sono stati applicati sistemi di trattamento in fase semisolida
(cosiddetti bioslurry reactor) e di phytoremediation. Tale studio sperimentale si allinea
con le attuali problematiche connesse al trattamento e smaltimento di sedimenti per
consentire il corretto svolgimento delle attività previste in canali lagunari e porti
(navigazione, pesca, ripristini ambientali), fornendo utili indicazioni per l’eventuale
applicazione in scala reale. Pertanto sono state condotte numerosi rilievi sperimentali,
eseguiti avvalendosi di impianti sia in scala laboratorio che di impianti pilota, i cui
obiettivi sono esposti nel seguito.
Per quel che riguarda la linea di ricerca relativa al sistema di trattamento in fase
semisolida, il lavoro è stato indirizzato allo studio della rimozione di IPA. I reattori a
bioslurry infatti rappresentano una possibile tecnologia (biologica) per la bonifica di
matrici solide contaminate da idrocarburi e rappresentano una valida alternativa ai
trattamenti fisico-chimici.
I sistemi di trattamento che fanno ricorso a reattori a bioslurry, come del resto tutti i
sistemi di trattamento ex-situ, solitamente comportano maggiori aggravi economici
rispetto a quelli in situ (derivanti da operazioni di scavo e movimentazione dei
suoli/sedimenti nonché dai costi di investimento delle infrastrutture) ed è questo il
motivo per cui vengono utilizzati quando un approccio del tipo in-situ è insostenibile
(Alexander, 1999). Ad esempio, nel caso di suoli limosi e/o argillosi, la bassa
permeabilità rende difficoltosa la fornitura di ossigeno e, ove necessario, di nutrienti
minerali compromettendo quindi l’efficacia del processo degradativo, per cui i
trattamenti ex-situ, rappresentano una migliore alternativa rispetto a quelli in situ
(Morgan et al., 1990). Nel caso di sedimenti contaminati, i trattamenti ex situ sono
considerati decisamente più gestibili di quelli in situ in quanto sono condotti in un
111
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
ambiente all’interno del quale vengono controllate tutte le condizioni ambientali (NRC,
1997).
Inoltre tra i sistemi ex-situ i bioreattori in fase slurry offrono il massimo controllo ed il
più elevato tasso di biodegradazione (Burchell et al., 1994). Tali reattori sono progettati
per ridurre al massimo i tempi di trattamento ed i volumi in gioco. Tali sistemi possono
operare sia a flusso discontinuo (SS-SBR Sediment Slurry – Sequencing Batch
Reactor) che in continuo (CSTR, Completely Stirred Tank Reactor).
In particolare gli obiettivi relativi alla linea di ricerca relativa ai sistemi di trattamento in
fase slurry sono stati i seguenti:
•
Valutare l’applicabilità di sistemi di trattamento biologico a sedimenti contaminati in
fase slurry;
•
Valutare le efficienze di rimozione degli IPA totali mediate bioslurry reactor operanti
in modalità semibatch (cosiddetti SS-SBR).
Per quel che riguarda invece la linea di ricerca relativa al sistema di phytoremediation,
il lavoro è stato indirizzato alla verifica della capacità della vegetazione ad assorbire
metalli pesanti. Quindi per il trattamento dei metalli presenti nei sedimenti contaminati
si è valutata l’opportunità del ricorso ad una tecnologia a basso impatto che richiede
necessariamente tempi lunghi di trattamento e minori aggravi economici.
In particolare gli obiettivi sono stati i seguenti:
•
Verificare la capacità di alcune piante di sopravvivere in ambienti particolarmente
contaminati;
•
Verificare la capacità di azione delle piante sui metalli pesanti
presenti nel
substrato di crescita (sedimenti).
Nei paragrafi successivi vengono descritte le singole fasi in cui è stata articolata la
sperimentazione.
112
Cap. 5
5.1
Descrizione delle attività sperimentali
Attività riguardanti i sistemi di trattamento
in fase slurry
La linea di ricerca relativa ai sistemi di trattamento in fase slurry è stata articolata in
quattro distinte fasi sperimentali, descritte in dettaglio nei paragrafi successi:
•
Valutazione della richiesta chimica e biologica di ossigeno al variare del tenore di
solidi nello slurry;
•
Valutazione dell’applicabilità del sistema operante in modalità semi-batch per la
rimozione di IPA in reattori in scala laboratorio (volume utile di 8 l);
•
Definizione di una tecnica DO-STAT per il monitoraggio dell’attività respiratoria;
•
Valutazione delle efficienze di rimozione di IPA in reattore a bioslurry in scala pilota
(volume utile 60 l).
113
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
5.1.1 Valutazione della richiesta chimica e biologica di
ossigeno.
La richiesta di ossigeno da parte dei sedimenti può essere suddivisa in due frazioni
(Wang, 1979): quella biologica (esercitata da parte dei microrganismi) e quella chimica
(esercitata da composti allo stato ridotto, quali solfuri e composti di ferro e
manganese), valutata inibendo l’attività biologica (nel caso in esame si è fatto ricorso al
dicloruro di mercurio aggiunto in una percentuale pari allo 0.1%).
Il campione di sedimenti oggetto di studio è stato dragato dal canale della Brentella
mediante una benna del tipo Van Veen (avente una capacità di 5 l); il campionamento
ha interessato lo strato superficiale di sedimenti (i primi 15 cm) ad una profondità di
circa 6 m.
La valutazione della richiesta chimica e biologica di ossigeno esercitata da parte dei
sedimenti è stata effettuata mediante test respirometrici.
La conoscenza della richiesta biologica di ossigeno fornisce utili indicazioni sulla
biodegradabilità della sostanza organica presente nello slurry e sulle necessità di
aerazione per il trattamento dei sedimenti. La richiesta chimica invece fornisce
indicazioni circa il quantitativo di ossigeno necessario per ossidare i composti allo stato
ridotto e che non viene quindi utilizzato per la biodegradazione.
Descrizione del respirometro. Il respirometro utilizzato, mostrato in figura 5.1, è stato
realizzato secondo quanto descritto da Cech et al. (1985) e Pitter e Chudoba (1990).
Esso è costituito da un contenitore di vetro con un volume utile di circa 250 ml, ed è
dotato di una sonda di ossigeno (WTW CellOx 325), diffusore a bolle fini ed agitatore
magnetico. L’aria viene fornita da una aeratore d’acquario con un flusso di 10 ml/min, il
cui funzionamento è tale mantenere la concentrazione di ossigeno disciolto tra 7 e 3
mg/l. Il tasso di respirazione viene misurato a seguito dello spegnimento dell’aeratore e
rappresenta la pendenza dell’andamento della concentrazione di ossigeno disciolto nel
respirometro. Una piccola apertura del respirometro consente l’uscita delle bolle d’aria
durante i cicli di aerazione: la sezione di tale apertura è abbastanza ridotta
(presentando un diametro di circa 5 mm) in modo da minimizzare il fenomeno di
diffusione di ossigeno dall’atmosfera durante la misura dell’OUR (Cech et al, 1985). La
logica di funzionamento è controllata da PC che consente il calcolo del coefficiente di
correlazione del valore di OUR misurato in modo da ottenere una stima della bontà
della misura
114
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Oxygen probe
Aquarium blower
PC
Air bubbles diffuser
Magnetic stirrer
Fig. 5.1 Schema del respirometro chiuso utilizzato
Descrizione delle prove. Tutti i test sono stati effettuati all’interno di una camera
termostatica (alla temperatura di 21 ± 0.3 °C), senza aggiunta di nutrienti e sostanza
organica
e
senza
amplificazione
(cosiddetta
bioaugmentation).
Le
misure
respirometriche sono state condotte in triplo.
Sono stati preparati circa 2 l di slurry aggiungendo acqua di rete ai sedimenti fino ad
ottenere tre differenti tenori di secco nello slurry, in particolare il 9.3%, 13.3% e 16.1%.
La preparazione dello slurry è avvenuta all’interno di una camera anaerobica evitando,
in tal modo, di riaerare la miscela di acqua e sedimenti che avrebbe potuto invalidare i
risultati dei test respirometrici. I tre quantitativi di slurry così ottenuti sono stati
opportunamente conservati alla temperatura di 4 ± 1°C per mantenerne inalterate le
caratteristiche.
Per ciascuna tipologia di slurry preparata sono stati effettuati i test respirometrici al fine
di valutare le due frazioni di richiesta di ossigeno.
La richiesta chimica di ossigeno è stata valutata al termine di un’ora (Wang, 1979) in
accordo con la seguente relazione:
1h
% chem =
∫ OUR
chem
(t ) ⋅ dt
× 100
0
1h
∫ OUR (t ) ⋅ dt
tot
0
Prima di ciascun test respirometrico sono state effettuate le determinazioni dei
seguenti parametri: Solidi Totali e Solidi Volatili (rispettivamente TS e VS).
Inoltre, in un caso (slurry al 16.1%) durante lo svolgimento della prova respirometrica
sono stati effettuate le determinazioni analitiche di Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA)
115
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
e di policlorobifenili (PCB) nei sedimenti e di Ammoniaca, Nitrati e Nitriti sulla frazione
liquida dello slurry (filtrata a 0.45 µm).
Tutte le analisi, ad eccezione di quelle relative alla determinazione della
concentrazione di PCB ed IPA (effettuate presso il laboratorio RIF SIMOA dell’ENEA
sede di Trisaia), sono state eseguite presso il laboratorio PROT IDR dell’ENEA sede di
Bologna adottando le procedure riportate in appendice.
116
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
5.1.2 Valutazione dell’applicabilità di un sistema di
trattamento a bioslurry operante in modalità semi-batch
La valutazione dell’efficienza di rimozione biologica degli IPA da parte di microrganismi
naturalmente presenti nei sedimenti è stata effettuata avvalendosi di due reattori a
bioslurry operanti in modalità semi-batch in scala laboratorio; una volta avviati i due
reattori, la sperimentazione è stata suddivisa in due distinte fasi sperimentali cui
corrispondono differenti modalità di funzionamento dei reattori. In particolare, essendo
limitati i lavori presenti in letteratura riguardanti il trattamento di slurry di sedimenti in
reattori semi-batch, sono stati inizialmente presi come riferimento i risultati di studi
condotti su slurry di suoli.
Sulla base dei risultati ottenuti durante la prima fase sono state apportate modifiche
alle condizioni operative al fine di ottimizzare i rendimenti di rimozione degli IPA.
Tutti i test sono stati effettuati all’interno di una camera termostatica (alla temperatura
di 21 ± 0.3 °C), senza aggiunta di nutrienti e senza aggiunta di microrganismi esogeni
(cosiddetta amplificazione o bioaugmentation).
I sedimenti oggetto della sperimentazione (prelevati dall’impianto di disidratazione,
Alles di Fusina) sono stati preventivamente setacciati a 2 mm (nominali) per rimuovere
materiale grossolano estraneo alla matrice solida (ad esempio legni e conchiglie).
Sono stati preparati circa 200 l di slurry da utilizzare durante l'intera sperimentazione
aggiungendo acqua di rete ai sedimenti setacciati, fino ad ottenere una miscela solidoliquido con una concentrazione di solidi di circa il 10 %. Lo slurry così ottenuto è stato
opportunamente conservato alla temperatura di 4 ± 1°C per mantenerne inalterate le
caratteristiche.
Descrizione dei reattori. Durante la sperimentazione sono stati utilizzati due reattori,
denominati R1 ed R2, aventi un volume utile di circa 8 l (∅: 17 cm; H: 35 cm) i cui
componenti sono realizzati in vetro ed acciaio inox per limitare l’adsorbimento di
inquinanti organici.
I due reattori sono completamente miscelati per effetto dell’azione di un agitatore
meccanico a pale dotato di velocità angolare di 200 rpm. Una flangia a tenuta, in
acciaio, chiude i reattori nella parte superiore; su di essa sono presenti una serie di fori,
chiusi con tappi a vite, che consentono le operazioni di carico e scarico, e
l’alloggiamento delle sonde di pH ed ORP. Il sistema di aerazione si avvale di un
diffusore a bolle fini (realizzato in acciaio) collegato al sistema di distribuzione di aria
compressa presente in laboratorio, a sua volta alimentato da un compressore tipo oil
117
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
free; la pressione e il flusso di aria compressa in ingresso ai reattori sono regolati da
gruppi di riduzione ed asametro: in particolare, la pressione di esercizio e la portata di
aria compressa sono state impostate rispettivamente, a 2 bar e 50 Nl h-1. I vapori che
lasciano i reattori sono raccolti in un sistema a ricadere (realizzato sempre in acciaio)
disposto direttamente sulla piastra che consente la condensa dell’umidità.
In figura 5.2 è mostrato il bioreattore utilizzato per il trattamento dei sedimenti.
Fig. 5.2 Bioreattore utilizzato durante la sperimentazione.
Descrizione delle prove. Prima di avviare la sperimentazione, i due reattori sono stati
riempiti con acqua di rete per valutare la tenuta dei sistemi di aerazione e di
miscelazione; i volumi di slurry inseriti sono stati valutati con l’ausilio di una scala
graduata posta sulla parete esterna dei reattori e tarata in fase di allestimento.
Durante la sperimentazione, i due reattori a bioslurry hanno funzionato in modalità
semi-batch (cosiddetti SS-SBR, acronimo di Sediment Slurry - Sequencing Batch
Reactor), in cui è possibile distinguere tre diverse fasi all’interno di ciascun ciclo:
alimentazione o carico, reazione e scarico (cfr. fig. 5.3).
La fase di avvio dei due reattori è stata contraddistinta da una durata del ciclo di 14
giorni ed un HRT di 14 settimane, comportando il prelievo di 1 l di slurry durante le fasi
di alimentazione e scarico. Come si vedrà nel capitolo dedicato alla discussione dei
risultati, durante la fase di avvio è stato osservato uno scarso utilizzo di ossigeno
disciolto, che non dava garanzie sulla presenza di biomassa all'interno dei reattori per
cui si è deciso di fornire sostanza organica dall’esterno (in particolare, glucosio e
118
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
successivamente lattosio) la cui ossidazione è imputabile esclusivamente all’attività
degradativi della microflora nello slurry.
Ingresso
slurry
Alimentazione
Scarico
slurry
Scarico
Reazione
Fig. 5.3 Fasi di un processo SS-SBR.
Terminata la fase di avvio, la sperimentazione è stata suddivisa in due fasi distinte cui
corrispondono differenti modalità di funzionamento:
Durante la prima fase, le operazioni di carico/scarico sono state condotte
settimanalmente prelevando 700 g di slurry (fase di scarico) ed alimentando una pari
quantità di “slurry fresco” (fase di carico); considerando che il volume occupato dallo
slurry è di circa 7 l, l’HRT - tempo di ritenzione idraulico - risulta di 10 settimane. Il
reattore R1 è stato aerato in continuo per l’intera durata della fase di reazione, mentre
il reattore R2 è stato aerato, ogni giorno, per sole 12 ore, tra le 00.00 e le 12.00.
Nella seconda fase si è deciso di effettuare le operazioni di carico/scarico ogni 3,5
giorni e mantenere entrambi i reattori continuamente aerati. La quantità di slurry
prelevata e ricaricata è rimasta sempre di 700 g per entrambi i reattori, ma nel reattore
R2 sono stati introdotti durante l’operazione di carico, 0,5 g di lattosio (reagente puro
Carlo Erba). Quindi durante la seconda fase è stato mantenuto un HRT di 5 settimane.
Il prelievo dello slurry è stato effettuato mediante l’ausilio di una pompa peristaltica
(Cellai 503U).
In tabella 5.1 sono riportate sinteticamente le condizioni di funzionamento dei due
reattori durante le prove mirate alla valutazione dell’applicabilità di un sistema di
119
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
trattamento a bioslurry operante in modalità semi-batch, complessivamente sono stati
condotti 4 test.
Tab. 5.1 Schema delle condizioni operative.
Durata ciclo
[giorni]
HRT
[settimane]
R1
R2
AVVIO
14
14
Aerazione
continua
Aerazione
alternata (12h/24h)
I FASE
7
10
Test 1
Test 2
II FASE
3,5
5
Test 3
Test 4
Test
Reattore
Aerazione
Aggiunta di lattosio
1
R1
24 h/d
NO
2
R2
12 h/d
NO
3
R1
24 h/d
NO
4
R2
24 h/d
0,5 g di lattosio/carico
I FASE
II FASE
Durante la sperimentazione sono stati monitorati con continuità e per entrambi i reattori
i valori di pH, ORP ed ossigeno disciolto (DO).
In corrispondenza delle operazioni di carico e scarico durante l’intero periodo di
sperimentazione sono state eseguite le analisi chimiche su tre campioni di slurry:
ingresso, uscita dal reattore R1 ed uscita dal reattore R2.
Su tutti i campioni sono state effettuate le determinazioni dei seguenti parametri:
Carbonio Organico Totale (TOC) sia sulla frazione secca che su quella filtrata a
0.45 µm, Solidi Totali e Volatili (rispettivamente TS e VS), Azoto Kjeldal (TKN), Fosforo
Totale (PT).
Periodicamente sono state eseguite, sia sullo slurry in ingresso che in uscita, la
determinazione delle Unità Formanti Colonie (CFU).
Durante la Fase I e Fase II sono state effettuate le determinazioni analitiche di
Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA).
Inoltre durante la fase di avvio dei due reattori sono state determinate la concentrazioni
di glucosio e lattosio.
Tutte le analisi sono state eseguite presso il laboratorio PRO IDR dell’ENEA sede di
Bologna adottando le procedure riportate in appendice.
120
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
5.1.3 Definizione di una tecnica DO-STAT per slurry di
sedimenti
Contestualmente alla fase sperimentale relativa alla valutazione dell’applicabilità di un
sistema di trattamento a bioslurry è sorta l’esigenza di mettere a punto una procedura
rapida che consentisse la valutazione dell’attività respiratoria.
A tale scopo è stato utilizzato un nuovo tipo di biosensore: MARTINA (Multiple Analysis
Reprogrammable TItratioN Analyser). La novità dello strumento consiste nel fornire
ossigeno, necessario alla respirazione dei microrganismi, in forma liquida attraverso
aggiunte controllate di una soluzione di perossido di idrogeno. Tale analizzatore ha
mostrato ottimi risultati nelle utilizzazioni condotte sui fanghi attivi (Ficara, 2000).
Pertanto si è proceduto alla definizione di una tecnica respirometrica DO-stat per
valutare l’attività biologica dello slurry di sedimenti lagunari prelevato dai due bioreattori
SS-SBR descritti nel paragrafo precedente.
Descrizione del biosensore. MARTINA è un nuovo biosensore a titolazione che
permette di lavorare a DO e/o pH costanti, progettato e realizzato dalla SPES s.c.r.l.
(Società Progettazione E Software). Esso è costituito dai seguenti componenti:
•
una scheda madre per l’acquisizione dei dati, lettura delle sonde di ossigeno, pH e
temperatura e gestione dei controlli imposti dall’utente. Infatti è possibile mantenere
valori di ossigeno e/o pH al disopra di una certa soglia (modalità up bound), al
disotto di un dato valore (modalità low bound), o all’interno di un intervallo (modalità
set point);
•
quattro microelettrovalvole (SIRAI, D301-V51-Z030A) a tre vie, per dosare la
soluzione titolante, con portata dell’ordine di 50-100 µl;
•
due pompe peristaltiche a due canali per consentire il passaggio delle soluzioni
titolanti dai serbatoi alle elettrovalvole; tutti i collegamenti sono realizzati con tubi
capillari in silicone;
•
un computer per la registrazione dei dati (foglio di lavoro Microsoft Excel) per la
visualizzazione dell’interfaccia grafica.
La scheda madre acquisisce dati in continuo (ogni secondo viene rilevato un valore di
tensione dalle sonde e, tramite il software, convertito in valore numerico). In base ai
valori di controllo impostati per la prova, il controllore aziona le diverse componenti:
pompe ed elettrovalvole se si deve mantenere un determinato valore di ossigeno e/o
pH; aeratori, miscelatori e riscaldatori se eventualmente collegati all’analizzatore.
121
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Le sonde utilizzate sono:
•
WTW CellOx 325 (sonde DO);
•
Mettler Toledo HA405-DXK-S8/225 (sonde pH);
•
IKD s.r.l. pT100 TRM (sonde di temperatura).
Tutto il sistema è stato collocato in camera termostatica affinché le prove non fossero
influenzate da variazioni di temperatura.
In figura 5.4 è mostrato lo schema generale del sistema DO-pH stat, ed in figura 5.5
MARTINA.
Sistema di
dosaggio
MARTINA
pH
DO
T
Aeratore
PC
Agitatore m agnetico
Fig. 5.4 Schema generale del sistema DO-pH stat utilizzato.
122
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Fig. 5.5 MARTINA.
Principio di funzionamento DO-stat. La titolazione DO-stat è una tecnica
respirometrica sviluppata recentemente e ancora in fase di studio. Il DO-stat è uno
strumento che effettua titolazioni ad ossigeno costante utilizzando delle aggiunte
controllate di una soluzione diluita di H2O2 (perossido di idrogeno). Il flusso di titolante,
come verrà mostrato in seguito, è proporzionale al tasso di respirazione della biomassa
(rO), mentre la massa di H2O2 aggiunta è proporzionale alla sostanza ossidata.
Il respirometro è basato sulla misura della concentrazione di ossigeno nella fase
liquida, è definibile come un sistema del tipo LSF (Spanjiers et al, 1998) senza, però,
flusso liquido in uscita. Il bilancio di massa dell’ossigeno è:
d (VL ⋅ DO )
= Q IN ⋅ DO IN − VL ⋅ rO
dt
[5.1]
dove DO e DOIN sono rispettivamente le concentrazioni di ossigeno disciolto nel
respirometro e nella portata in ingresso. Il flusso in ingresso è controllato e regolato per
mantenere la concentrazione di ossigeno costante ad un determinato valore di set
point (DOSP), in modo tale che dDO/dt = 0. Tenendo conto che dV/dt = QIN, l’equazione
[5.1] diventa:
123
Cap. 5
rO =
Descrizione delle attività sperimentali
Q IN ⋅ (DO IN − DOSP )
VL
[5.2]
Inoltre, se la concentrazione di ossigeno nel flusso di ingresso (DOIN) è abbastanza
alta, la differenza (DOIN – DOSP) può essere ragionevolmente approssimata a DOIN e di
conseguenza l’equazione [5.2] diventa:
rO = Q IN ⋅
DO IN
VL
[5.3]
Si deduce che il tasso di respirazione della biomassa è direttamente stimato dal tasso
di aggiunta del titolante.
Tale sistema presenta i seguenti vantaggi rispetto agli altri tipi di respirometri:
•
permette di lavorare ad un livello costante di DO, liberamente scelto dall’operatore.
Poiché questo sistema è considerato chiuso rispetto al flusso di gas, l’unica
limitazione sulla scelta del livello di DO a cui si opera deriva dalla necessità di
evitare significativi trasferimenti di ossigeno tra il reattore e l’atmosfera. Comunque,
se il bioreattore è appositamente disegnato per minimizzare la superficie di contatto
tra le fasi liquida e gassosa, o lavora ad una pressione costante, il valore DOSP di
lavoro può variare entro un ampio campo di valori, teoricamente tra 0 ÷ 40 mg l-1;
•
non c’è bisogno di stimare il coefficiente di trasferimento KLa, a differenza dei
sistemi flowing gas, poiché l’ossigeno è fornito attraverso un flusso liquido;
•
non sono necessari cicli di riaerazione, per cui è possibile effettuare misure in
continuo, a differenza dei sistemi gas static, poiché l’ossigeno è fornito ogni volta
che scende sotto il valore di set point a causa del consumo biologico;
•
non è necessaria un’attenta calibrazione della sonda di ossigeno, richiesta invece
sia nei sistemi static gas che flowing gas, poiché è utilizzata esclusivamente per
apprezzare piccole variazioni di ossigeno attorno al valore di set point. Inoltre, la
risposta dinamica della sonda DO non influisce in modo significativo sulla stima di
rO poiché l’inerzia della sonda causa variazioni solamente sull’ampiezza delle
oscillazioni dell’ossigeno attorno al set point;
•
l’elaborazione dei dati è molto semplice, essendo sufficiente una regressione
lineare;
•
124
la procedura è utilizzabile per controlli on line.
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Descrizione delle prove. La messa a punto di una tecnica DO-stat è stata articolata in
due distinte fasi: la prima necessaria a definire la procedura ottimizzando in particolare
il titolo dell’acqua ossigenata ed il quantitativo di slurry da utilizzare durante i test
respirometrici; la seconda ha consentito il monitoraggio dell’andamento dell’attività
respiratoria nei due bioreattori (ad intervalli di tempo più o meno regolari sono stati
prelevati 500 g di slurry da entrambi i reattori). Parallelamente sono state condotte
delle prove respirometriche tradizionali, utilizzando un respirometro chiuso, al fine di
validare la tecnica a titolazione DO-stat. In particolare tale respirometro chiuso (fig. 5.6)
consiste in una bottiglia ermeticamente chiusa (volume di 500 ml) all’interno della quale
è stata inserita una sonda di ossigeno (WTW, CellOx 325) collegata a PC che
registrava in continuo le concentrazioni di ossigeno.
Tutte le prove respirometriche del tipo DO-stat sono state condotte utilizzando come
valore di set point per l’ossigeno quello a saturazione: in questo modo si è certi che
non vi sia trasferimento di ossigeno dalla fase gassosa (aria) a quella liquida, e
viceversa. L’ossigeno necessario alla respirazione batterica viene quindi fornito
direttamente dall’H2O2.
Sonda ossigeno
PC
Ancoretta magnetica
Fig. 5.6 Configurazione respirometro chiuso.
125
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
5.1.4 Valutazione delle efficienze di rimozione di IPA in
reattore a bioslurry in scala pilota
La valutazione dell’efficienza di rimozione di IPA in reattore a bioslurry è stata
effettuata facendo ricorso ad un reattore in scala pilota del volume utile di 60 l.
I sedimenti oggetto della sperimentazione sono stati prelevati dall’impianto di
disidratazione, Alles di Fusina, e sono gli stessi utilizzati durante le prove mirate alla
valutazione dell’efficienza di rimozione biologica degli IPA nei reattori in scala
laboratorio. I sedimenti, anche in questo caso, sono stati preventivamente setacciati a
2 mm (nominali) per rimuovere materiale grossolano estraneo alla matrice solida (legni
e conchiglie).
Sono stati preparati circa 200 l di slurry da utilizzare durante l'intera sperimentazione
aggiungendo acqua di rete ai sedimenti vagliati fino ad ottenere una miscela solidoliquido con una concentrazione di solidi di circa il 13 %.
Descrizione del reattore. Il sistema di trattamento in reattore a bioslurry è stato
sistemato all’interno di un container (in modo da consentirne un agevole trasporto)
presso la piattaforma di inertizzazione della VESTA S.p.A. (già Azienda Multiservizi
Ambientali Veneziana, AMAV S.p.A.) in località Fusina (VE).
Lo schema a blocchi del sistema di trattamento è rappresentato nella fig. 5.7:
Scarico gas
Vasca preparazione e
stoccaggio slurry
Slurry da trattare
8 bar
122 L/min
Compressore
Slurry trattato
1 bar
100 L/min
Soffiante
Fig. 5.7 Schema del sistema di trattamento.
126
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
In particolare tale sistema di trattamento può considerarsi costituito dalle seguenti tre
unità:
•
Vasca di miscelazione e stoccaggio dello slurry in ingresso al reattore;
•
Reattore a bioslurry;
•
Sistema di controllo.
La vasca di miscelazione e stoccaggio è realizzata in PTFE, e dotata di sistema di
agitazione che fa ricorso ad un mixer. Dalla vasca parte la tubazione (realizzata in
tygotane) di aspirazione della pompa di carico che alimenta il reattore a bioslurry.
Il reattore a bioslurry è del tipo Biolift® (fig. 5.8) realizzato in acciaio dal volume
complessivo di 90 l, spessore delle pareti laterali di 3 mm, diametro interno di 38 cm,
altezza totale 90 cm. Volume utile di 60 l, dotato di: sistema di carico, sistema di
agitazione e sistema di distribuzione di aria (che va ad alimentare l’air-lift e i diffusori a
bolle fini).
Fig. 5.8 Reattore a bioslurry del tipo Biolift
Il sistema di carico è costituito da una pompa centrifuga (ABS).
La tubazione, flessibile, di adduzione ha un DN15 ed è realizzata in tygotane che
assicura buone prestazioni in presenza di fluidi con solidi in sospensione.
Il sistema di agitazione fa ricorso ad una serie di alberi coassiali messi in rotazione da
motori (a 110 V) a bassa velocità mediante due cinghie di trasmissione. In particolare
sono presenti un agitatore a pale, un raschiatore di fondo ed un dispositivo air-lift.
127
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
L’agitatore a pale ha la funzione di forzare il moto dello slurry permettendo un efficiente
circolazione dello slurry secondo le diverse esigenze operative è poi possibile
regolarne in maniera molto precisa il regime di rotazione (da 0 a 110 rpm), il
raschiatore di fondo è costituito da una serie di lame rotanti sul fondo che convogliano
le particelle più pesanti che tendono a sedimentare nella zona centrale ove è sistemata
la presa dell’air-lift che le scarica nella parte superiore del reattore, anche in questo
caso è possibile regolare in maniera molto precisa il regime di rotazione del raschiatore
(da 0 a 5 rpm).
Il sistema di distribuzione aria a bassa pressione, è costituito da una soffiante (Mapro
International, tipo Minicomp 6, potenza 0,25 kW e capacità massima di 6m3h-1) che
alimenta sia l’air-lift che i diffusori d’aria a bolle fini (membrane in gomma NBR). La rete
di distribuzione è stata realizzata con tubazioni in gomma del tipo Rilsan DN8, e, per
consentire una migliore regolazione dei flussi di aria, sono stati sistemati lungo la rete 2
asametri (marca ASA, capacità massima di 2700 l/h), una serie di valvole a spillo,
manometri e pressostati.
Il sistema di controllo si avvale di un controllore a logica programmabile (PLC) con cui
sono implementate funzioni di temporizzazione, contatore, controllo di livello, comando
di attuazione, gestione emergenze, acquisizione dati ed eventuale controllo remoto.
A questo scopo viene utilizzato un controllore di tipo PLC con ingressi di tipo digitale,
ingressi di tipo analogico, uscite a relè e controllo di porta seriale per la gestione della
comunicazione.
Il PLC controlla il sistema di carico e l’avviamento della soffiante.
In particolare, il sistema di carico e scarico è del tipo pneumatico realizzato con
tubazioni in gomma del tipo Rilsan DN8, alimentato da un compressore della capacità
totale di 28l. Lungo la linea di aria compressa sono sistemati gli attuatori (elettrovalvole
a solenoide a cui perviene un consenso di tipo elettrico) delle valvole pneumatiche (ed
è stata lasciata la disponibilità per l’allacciamento di eventuali altre utenze) con corpo
in bronzo a semplice effetto, normalmente chiuse, passaggio assiale del fluido,
diametro da ½ ‘’.
Il sistema di trattamento in esame opera secondo modalità semi-batch, cioè a flusso
discontinuo, essendo costituito da un unico reattore in cui, variando ciclicamente le
condizioni di funzionamento dell’impianto, si susseguono in maniera sequenziale tutte
le fasi del processo di depurazione.
128
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
L’impianto è stato avviato impostando un tempo di residenza pari a 98 giorni,
adottando un’alimentazione di slurry pari a 10 ogni 14 giorni. Il ciclo di trattamento
prevede l’alternanza della fase di aerazione, in particolare le fasi di processo sono di
seguito elencate:
•
carico;
•
reazione con aeratori spenti;
•
reazione con aeratori in funzione;
•
scarico.
Attese le ridotte volumetrie in gioco, la durata della fase di carico risulta molto
contenuta ed inferiore ad 1 minuto.
L’avviamento e lo spegnimento della pompa di carico viene comandato da un sistema
di controllo di livello realizzato con due aste ad elettrodo: una relativa ad un volume di
60 l (livello massimo) e l’altra ad un volume di 50 l (livello minimo). Lo scarico del fango
del ciclo precedente fa diminuire il livello del liquame all’interno del reattore fino a che
l’asta corrispondente al livello inferiore non risulta essere bagnata; tale evento abilita la
pompa di carico. La fase di carico ha termine quando il pelo libero bagna l’asta del
livello massimo impostato.
Durante la fase di reazione con gli aeratori spenti è esclusa l’immissione di qualunque
fonte di ossigeno all’interno del reattore, per cui vengono mantenuti spenti sia i diffusori
a membrana che l’air-lift. Risultano in funzione le sole componenti che contribuiscono
all’agitazione dello slurry, quali l’agitatore ed il raschiatore di fondo.
La fase ha inizio in corrispondenza della fine della fase di carico e prosegue per un
tempo fissato, attualmente impostato a 12 ore, per cui ha termine alle 24:00.
La fase aerobica è caratterizzata dall’immissione di ossigeno all’interno del reattore,
con la contemporanea agitazione dello slurry.
In questa fase sono sempre in funzione i dispositivi di agitazione (l’air-lift compreso); in
aggiunta entrerà in funzione la soffiante che alimenta i diffusori a membrana.
Il controllo della soffiante è affidato ad un orologio, che ne comanda l’accensione e lo
spegnimento.
La fase ha inizio in corrispondenza della fine della fase anaerobica (ore 24:00) e
prosegue per circa 12 ore (lo spegnimento è impostato alle 11:55). Trascorso tale
tempo si ha la fase di scarico dello slurry trattato.
La fase di scarico dello slurry trattato ha inizio in corrispondenza della fine della
trentesima fase aerobica in realtà 5 minuti più tardi in modo che il moto del pelo libero
129
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
indotto dall’insufflazione d’aria termini. Con la fase di scarico ha termine un singolo
ciclo depurativo.
L’apertura della valvola di scarico viene comandata dallo stesso orologio che comanda
la fine della precedente fase aerobica. La fase di scarico si conclude al raggiungimento
del livello minimo nel reattore, evento che determina il contemporaneo azionamento
della pompa di carico e quindi l’inizio di un nuovo ciclo di processo.
Descrizione delle prove. Il reattore a bioslurry in scala pilota è stato alimentato
(mensilmente), sia durante la fase di avvio che di regime, con uno slurry al 13% in
peso di secco.
Durante la fase di avvio (della durata di 4 mesi) non sono stati effettuati
campionamenti. Successivamente a partire dal mese di Gennaio 2002, con cadenza
mensile è partita la fase di campionamento, in particolare le determinazioni analitiche
effettuate sulla matrice solida hanno riguardato la misura delle concentrazioni di
Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), Solidi Totali e Volatili (rispettivamente TS e VS).
130
Cap. 5
5.2
Descrizione delle attività sperimentali
Attività riguardanti il sistema di trattamento
di phytoremediation
La linea di ricerca relativa ai sistemi di trattamento di phytoremediation è stata
articolata in due distinte fasi sperimentali:
•
Esecuzione di test condotti su alcune specie alofile selezionate in seguito ad un
censimento concernente le principali specie presenti nella laguna veneta al fine di
testarne la capacità di crescita su sedimenti contaminati e selezionare le specie da
utilizzare successivamente nell’impianto pilota;
•
Progettazione, realizzazione e monitoraggio dell’impianto pilota di phytoremediation
realizzato presso la piattaforma di inertizzazione della VESTA S.p.A. (già Azienda
Multiservizi Ambientali Veneziana, AMAV S.p.A.) in località Fusina (VE).
131
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
5.2.1 Esecuzione di test su specie alofile
Inizialmente sono state identificate diverse specie come potenziali candidate per
l’impiego in sistemi di phytoremediation.
In particolare, atteso l’elevato contenuto salino presente nei sedimenti, si è resa
necessaria l’esecuzione di prove volte alla selezione di specie vegetali in grado di
crescere su substrati salati. Tali prove sono state eseguite con piante alofile e
psammofile selezionate tre le specie principali presenti nella laguna Veneta.
Le specie alofile che sono state utilizzate per l’esecuzione di tali test sono la Oenothera
biennis, il Limonium serotinum, il Graminacee alofite ed infine l’ Arthrocnemum
fruticosus (Salicornia Veneta).
Descrizione delle prove. Le piante oggetto della sperimentazione sono state raccolte
nei pressi della Laguna Veneta.
I test sono stati eseguiti piantando ciascuna essenza vegetale in vasi identici riempiti
sia con sabbia pulita che con sedimenti ad elevato contenuto salino e contaminati da
metalli pesanti.
Le prove, della durata complessiva di 6 mesi, sono state eseguite in triplicato e le
piante sono state mantenute all’interno di una zona coperta ricevendo la luce naturale.
I campioni di sabbia e sedimenti contaminati utilizzati durante la sperimentazione sono
stati analizzati sia prima della fase di piantumazione che al termine della coltivazione
(dopo 6 mesi); in particolare le determinazioni analitiche effettuate hanno riguardato la
misura delle concentrazioni dei cloruri solubili, Mercurio, Cadmio, Piombo, Arsenico,
Cromo totale, Rame, Nichel e Zinco.
Tutte le analisi sono state eseguite presso il laboratorio dell’ARPA di Ferrara,
adottando le procedure riportate in appendice.
132
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
5.2.2 Monitoraggio dell’impianto pilota di phytoremediation
Una volta individuate le specie vegetali che meglio si adattavano alle condizioni
imposte dai sedimenti contaminati provenienti da operazioni di dragaggi lagunari, si è
proceduto alla realizzazione di un impianto di phytoremediation in scala pilota presso la
piattaforma di inertizzazione fanghi della Vesta S.p.A. in località Fusina (VE).
I sedimenti oggetto di sperimentazione sono stati prelevati dall’impianto di
disidratazione fanghi della Alles sempre in località Fusina (VE).
Descrizione dell’impianto. L’impianto consiste di tre letti geometricamente identici,
ciascuno con una superficie superiore di 16 m2 (4 m x 4 m), una superficie di fondo di
9 m2 (3 m x 3 m) ed una profondità totale di 1.2 m, di cui 40 cm sono al disotto del
piano di campagna ed i restanti 80 cm al disopra; i letti sono muniti di argini costruiti
con terreno di riporto, il cui coronamento è largo 50 cm per garantire una superficie di
calpestio tale da permettere ispezioni, misure e raccolta campioni.
La stratigrafia verticale, riportata in figura 5.9, è composta, a partire dal basso, da uno
strato di sabbia pulita per uno spessore di 5 cm (al fine di evitare il contatto diretto del
telo di impermeabilizzazione con eventuali asperità del terreno); al disopra dello strato
di sabbia è stato quindi steso un telo impermeabilizzante in HDPE, per la copertura e
l’isolamento del fondo, delle pareti laterali e degli argini; al disopra del telo è stato
quindi disposto lo strato drenante, alto complessivamente 60 cm e costituito da 20 cm
di ghiaione, 20 cm di ghiaietto e 20 cm di sabbia. Al disopra dello strato drenante sono
stati sistemati i sedimenti da trattare per uno spessore di 60 cm.
Disposizione strati
Telo in
HDPE
Sedimenti
60 cm
Sabbia
20 cm
Ghiaietto
20 cm
Ghiaione
Sabbia
20 cm
5 cm
Fig. 5.9: Stratigrafia verticale delle vasche.
Al disopra la superficie dei sedimenti rimangono 15 cm di franco per impedire la
tracimazione dell’acqua durante periodi di pioggia intensi.
133
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Nello strato di ghiaione è stata sistemata la rete di drenaggio realizzata con tubazione
corrugata φ100 (cfr. fig. 5.10), che in pianta presenta una disposizione a pettine con
una pendenza del 2 %, al fine di convogliare le acque di percolazione in un pozzetto di
raccolta.
Dalla parte opposta al pozzetto i tre tubi emergono dallo strato di sedimenti,
mantenendosi al disotto del bordo delle vasche, assolvendo quindi anche la funzione di
intercettare l’acqua che non riesce a percolare attraverso gli strati (nel caso di piogge
intense), e che tenderebbe a tracimare dai letti. Nel loro tratto subverticale, in cui
attraversano lo strato di sedimenti, i tubi sono incamiciati in tubi in PVC non forati, per
evitare che l’acqua dei sedimenti dreni direttamente nei tubi senza attraversare
verticalmente tutto il letto.
2%
2%
2%
Rete di drenaggio in
tubi forati D100
2%
2%
Vasca distributrice
acque drenate
Fig. 5.10: Schema del sistema di drenaggio.
Per ogni letto è previsto un pozzetto dove viene raccolta l’acqua di drenaggio avente la
capacità di 1 m3, al cui interno è alloggiata una pompa (portata di 5 m3/h, prevalenza di
5 metri) con la funzione di ricircolare il percolato sulla superficie del letto.
La condotta di mandata della pompa è costituita da un tubo flessibile sostenuto da un
tubo rigido in PVC, forato per consentire la dispersione del percolato sul letto di
sedimenti.
I pozzetti sono stati dimensionati sulla base di eventi di pioggia estremamente rari, ma
è stato comunque previsto il convogliamento delle acque verso un quarto pozzetto che
adduce il percolato in eccesso alla rete fognaria.
134
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Sul sito dell’impianto è stata collocata una centralina meteorologica per l’acquisizione
di diversi parametri atmosferici
−
temperatura esterna (°C);
−
umidità relativa (%);
−
pressione barometrica (mbar);
−
radiazione globale (W/m2);
−
direzione del vento (°);
−
velocità del vento (m/s);
−
evaporazione (mm);
−
precipitazione (mm).
Descrizione delle prove. I sedimenti sono stati alloggiati all’interno delle vasche nel
mese di luglio 2001, mentre la piantumazione delle essenze vegetali è stata effettuata
nel successivo mese di agosto 2001: due delle tre vasche sono state piantumate (la
Vasca A con Phragmites Australis e la Vasca B con la Salicornia Veneta), mentre la
terza (Vasca C) è stata utilizzata come riferimento (attenuazione naturale).
Successivamente in settembre 2001 si è proceduto alla verifica dell’attecchimento ed
eventuale sostituzione delle piante, ed in ottobre 2001 è stata avviata la stazione di
rilevamento dei parametri ambientali.
Durante la sperimentazione nelle vasche vegetate è stata consentita la crescita di
specie vegetali spontanee, mentre nella Vasca C eventuali specie vegetali spontanee
sono state sistematicamente estirpate.
Il monitoraggio della matrice solida (sedimenti) ha previsto il prelievo di campioni
rappresentativi dello strato più superficiale (tra 0 e 3 cm) per un numero complessivo di
3 campioni ogni due mesi; le analisi effettuate sulla matrice solida hanno riguardato la
determinazione della concentrazione di TOC, TKN, Fosforo Totale Ptot, Metalli pesanti
(Rame, Nichel, Zinco, Piombo, Cromo, Cadmio), Zolfo Totale, solfati, Solidi Totali (TS),
Solidi Volatili (VS) e cloruri solubili.
Le medesime analisi sono state effettuate anche su campioni di percolato, raccolti dai
rispettivi pozzetti, con identica frequenza di campionamento.
Periodicamente sono stati raccolti campioni di biomassa vegetale (radici e parti aeree)
per monitorare il contenuto di metalli pesanti nelle piante.
135
Cap. 5
Descrizione delle attività sperimentali
Bibliografia
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Wang W. (1979) Fractionation of sediment oxygen demand. Wat. Res., 14, 603-612.
136
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Capitolo 6
P R E S E N TA Z I O N E E D I S C U S S I O N E D E I
R I S U LTAT I : R E AT TO R I A B I O S L U R RY
Introduzione
Come detto nel capitolo precedente, gli obiettivi relativi alla linea di ricerca riguardante i
sistemi di trattamento in fase semisolida sono stati i seguenti:
•
valutazione della loro applicabilità al caso di sedimenti contaminati;
•
valutazione delle efficienze di rimozione degli IPA totali.
I risultati ottenuti per ciascuna delle quattro fasi sperimentali in cui è stata articolata
questa parte del lavoro sono presentati e discussi separatamente nei paragrafi
successivi.
Nel presente capitolo, al fine di comprendere in modo più chiaro le cinetiche biologiche,
gli IPA sono stati divisi, in funzione del numero di anelli, in tre classi: 2-3 anelli, 4 anelli
e 5-6 anelli aromatici. È stata effettuata tale suddivisione in quanto si ritiene che il
comportamento e le caratteristiche chimiche-fisiche nonché quelle biodegradative
siano simili all’interno di una stessa classe (Nocentini et al., 1996).
Nella tabella 6.1 sono riportati i composti appartenenti alla diverse classi.
Tab. 6.1 Suddivisione degli IPA in base al numero di anelli aromatici.
IPA
2-3 ANELLI
1 Naftalene
IPA
4 ANELLI
7 Fluorantene
2 Acenaftilene 8 Pirene
IPA
5-6 ANELLI
11 Benzo[b]fluorantene
12 Benzo[k]fluorantene
3 Acenaftene
9 Benzo[a]antracene 13 Benzo[a]pirene
4 Fluorene
10 Crisene
14 Benzo[g,h,i]perilene
5 Fenantrene
15 Dibenzo[a,h]antracene
6 Antracene
16 Indeno[1,2,3-cd]pirene
137
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.1
Valutazione della richiesta chimica e
biologica di ossigeno esercitata da slurry di
sedimenti.
In tabella 6.2 viene riportato il contenuto di IPA totali, sette metalli pesanti, azoto
ammoniacale e 9 congeneri di policlorobifenili rilevati nei sedimenti (dragati nel canale
della Bretella) utilizzati per la valutazione della richiesta chimica e biologica di ossigeno
esercitata da slurry di sedimenti.
Tab. 6.2 Contenuto di IPA totali, metalli pesanti azoto ammoniacale e 9 congeneri rilevati nei
sedimenti oggetto di studio
PAH
tot
Cd
Pb
Cr
Ni
Zn
Cu
NH4+-N
As
[mg/Kg TS]
4.88
< 12.5
119.2
34.1
[mg/l]
24.8
762
133
16.2
4.52
PCB28 PCB52 PCB77 PCB101 PCB118 PCB138 PCB153 PCB180 PCB209
[µg/Kg TS]
18.2
15.6
18.4
9.6
15.4
12.6
11.4
5.7
13.2
I risultati dei test respirometrici hanno mostrato un elevato livello di OUR (Oxygen
Uptake Rate) durante il periodo iniziale, dovuto sia all’ossidazione chimica che a quella
biologica.
La velocità di consumo di ossigeno è stata valutata al variare del contenuto di solidi
totali presenti nello slurry.
In figura 1 e 2 sono riportati gli andamenti di OUR misurati durante due test condotti
100
70
50
500
30
100
70
50
300
200
20
OUR [mg/(l x h)]
OUR [mg/(l x h)]
rispettivamente con uno slurry al 9.3% and 16.1% (peso/peso).
HgCl2 added
10
7
5
3
2
30
20
HgCl2 added
10
7
5
3
2
1
0.7
0.5
1
0.7
0.5
0
5
10
t [h]
15
20
0
20
40
60
80
100
120
t [h]
Fig. 6.1 Respirogramma relativo allo slurry Fig. 6.2 Respirogramma relativo allo slurry
al 9.3% (p/p)
al 16.1% (p/p)
138
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
L’ossidazione chimica, valutata nel modo indicato nel capitolo 5, si è attestata su valori
del 50% della intera richiesta di ossigeno (Tabella 6.3).
I risultati dei test condotti senza l’aggiunta di dicloruro di mercurio mostrano che
l’attività biologica è presente per l’intera durata del test. La richiesta biologica di
ossigeno decresce con continuità inizialmente, attingendo valori costanti dopo alcune
ore (in funzione del tenore di secco nello slurry).
La frazione chimica della richiesta di ossigeno è abbastanza uniforme (circa il 50%) al
variare del tenore di secco, mentre il tempo necessario per attingere valori di 0.5 mg/(l
x h) di OUR è direttamente proporzionale al contenuto di secco.
La valutazione della richiesta di ossigeno esercitata da slurry di sedimenti è di
fondamentale importanza in fase di dimensionamento del sistema di aerazione di
bioreattori. In questo modo è possible ottimizzare la fornitura di ossigeno riducendo I
costi energetici.
La richiesta di ossigeno non biologica deve essre coinsiderata nella gestione di
bioreattori aerobici. Mentre nei reattori funzionanti in modalità batch tale consumo
(abiotico) di ossigeno si manifesta solo durante la fase di avvio, in quelli alimentati in
modalità semibatch l’ossidazione chimica avviene dopo ogni fase di alimentazione dle
bioreattore. Quindi, nei bioreattori aerobici operanti in modalità semibatch una
significativa frazione di ossigeno fornito viene utilizzata per ossidare composti chimici
ridotti invece di essere utilizzata come accettore finale di elettroni nell’ambito dei
processi biologici degradativi. Inoltre, è necessario sottolineare che l’elevato OUR
biologico misurato nella fase iniziale dei test respirometrici è dovuto alla
biodegradazione della sostanza organica e potrebbe non essere compresa la
degradazione di IPA: più è elevato il quantitativo di tale sostanza organica tanto più è
elevata l’ossidazione biologica a scapito della degradazione di IPA. In definitiva la
maggior parte dell’ossigeno fornito non viene utilizzato per la biodegradazione di IPA
nei sistemi batch.
I risultati mostrano che il tasso respiratorio dei sedimenti presenta elevate variazioni
durante il test. Bisogna sottolineare che la concentrazione di ossigeno disciolto nel
respirometro è stata sempre superiore a 3 mg/l per evitare che l’ossigeno sia fattore
limitante. Ciò significa che il periodo di avvio di un sistema SS-SBR (Sediment Slurry –
Sequencing Batch Reactor) potrebbe allungarsi qualora i sistemi di aerazione non
consentano il mantenimento di valori di ossigeno disciolto superiori alla richiesta
derivante dalle reazioni chimiche e biologiche.
139
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Tab. 6.3 Frazione chimica della richiesta di ossigeno, in parentesi l’errore standard (n=3)
Concentratione Slurry
[%(p/p)]
Frazione chimica
%
9.3
43.5
(±13)
13.3
59.6
(±7)
16.1
52.2
(±8)
Nell’ambito del test respirometrico al 16,1 % (w/w), sono stati monitorati anche gli IPA
e 9 congeneri di policlorobifenili.
Nel corso del test (complessivamente 5 giorni), il pH e la conducibilità nello slurry si
sono mantenuti pressocche stabili a valori rispettivamente di 7.6 ± 0.1, e 15.2 ± 0.3
mS/cm. In figura 6.3 sono mostrate gli andamenti delle concentrazioni misurate di IPA
a 2 e 3 anelli. In particolare gli IPA a più elevato peso molecolare non sono stati
degradati nell’ambito della durata del test (i dati non sono mostrati).
Gli IPA a 2 e 3 anelli sono stati moderatamente degradati di circa il 30% (Figure 6.3).
0,35
2 Rings
3 Rings
mg/(Kg TS)
0,30
0,25
0,20
0
20
40
60
80
100
120
t [h]
Fig. 6.3 Andamento degli IPA a basso peso molecolare rilevato durante il test condotto con
slurry al 16.1% (w/w).
In fig. 6.4 vengono infine riportati l’andamento della concentrazione di ammoniaca e
nitrati (misurati sui campioni filtrati) rilevati durante le 110 ore di trattamento dello
slurry.
Dopo circa 40 ore si può ritenere il processo di nitrificazione quasi concluso.
La spiegazione della più elevata concentrazione di azoto nitrico alla fine del processo
di nitrificazione (circa 12 mg/l) rispetto all’azoto ammoniacale in ingresso (4.7 mg/l),
potrebbe risiedere o in una nitrificazione dell’azoto ammoniacale adsorbito alla frazione
argillosa dei sedimenti che non viene rilevato nel campione filtrato in ingresso, oppure
in una ammonificazione dell’azoto organico che successivamente viene ossidato.
140
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
5
15
N-NH4
12
3
9
2
6
1
3
0
N-NO3 [mg/l]
N-NH4 [mg/l]
N-NO3
4
0
0
20
40
60
80
100
120
t [ore]
Fig. 6.4 Andamento della concentrazione di ammoniaca e nitrati rilevati durante la prova
respirometrica di uno slurry al 16.1%
Le concentrazioni di 9 congeneri di PCB (indicati con I rispettivi numeri IUPAC)
misurate nello slurry di sedimenti durante il test respirometrico condotto con slurry al
16,1 % sono mostrate in Tabella 6.4.
I dati in tabella 6.4 indicano una rimozione media dei 9 congeneri PCB indicates del
25% in 110 ore (circa 5 giorni). Tale rimozione può essere attribuita all’attività biologica
in quanto lo strippaggio di bifenili, dovuto all’aerazione, è trascurabile (Hwang et al.,
1992).
Tab 6.4 Concentrazioni misurate di 9 PCB (indicati con numero IUPAC) durante il test
respirometrico condotto con slurry 16.1%
Iniziale Dopo
4,3 h
26,3 h 55,8 h 110 h
PCB 28
[µg/Kg]
18,2
21,1
29,4
25,3
14,2
PCB 52
[µg/Kg]
15,6
22,5
52,7
36,3
13,2
PCB 77
[µg/Kg]
18,4
12,6
15,3
14,8
13,8
PCB 101
[µg/Kg]
9,6
6,1
7,9
7,3
7,1
PCB 118
[µg/Kg]
15,4
11,4
13,5
12,6
10,8
PCB 138
[µg/Kg]
12,6
8,6
12,0
10,5
8,9
PCB 153
[µg/Kg]
11,4
8,4
11,5
9,9
8,7
PCB 180
[µg/Kg]
5,7
4,4
7,8
4,9
4,7
PCB 209
[µg/Kg]
13,2
11,4
12,4
11,4
11,3
Questo risultato conferma quanto riportato in letteratura: in un sistema che miri alla
completa rimozione di PCB, la fase di declorazione riduttiva anaerobica dovrebbe
141
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
precedere la fase aerobica di mineralizzazione dei bifenili meno clorurati (Tartakovsky
et al., 2001).
I test respirometrici condotti indicano che un elevato quantitative di ossigeno deve
essere fornito a bioreattori operanti in modalità semi-batch al fine di ottenere la
degradazione aerobica di IPA e PCB. I sedimenti presentano un’elevata richiesta
chimica di ossigeno (approssimativamente il 50% di quella totale): il consumo biologico
di ossigeno è dovuto principalmente all’ossidazione della sostanza organica più
facilmente biodegradabile piuttosto che degli IPA. La richiesta chimica di ossigeno è
particolamente elevata durante la fase iniziale e sembra essere più veloce di quella
biologica: quindi particolare attenzione deve essere rivolta al dimensionamento del
sistema di aerazione e alle modalità di alimentazione in quanto nei sistemi semi-batch
un elevato quantitativo di ossigeno deve essere fornito al termine della fase
alimentazione.
142
Cap. 6
6.2
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Valutazione dell’applicabilità di un sistema
di trattamento a bioslurry operante in
modalità semi-batch
Generalità
Come detto nel capitolo precedente, la valutazione dell’applicabilità dei sistemi di
trattamento in fase semisolida in reattori a bioslurry è stata articolata in una fase
iniziale di avvio e due successive fasi di regime (denominate prima e seconda fase) in
cui sono stati effettuati complessivamente quattro test.
La tabella seguente riassume le condizioni operative in corrispondenza di ciascuna
fase:
Test
AVVIO
Reattore
Durata ciclo HRT
Aerazione
[gg]
[gg]
Aggiunta di lattosio
R1
14
98
24 h/d
R2
14
98
12 h/d
I FASE Test 1
R1
7
70
24 h/d
NO
Test 2
R2
7
70
12 h/d
NO
II FASE Test 3
R1
3,5
35
24 h/d
NO
Test 4
R2
3,5
35
24 h/d
0,5 g di lattosio/carico
143
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.2.1 Caratterizzazione dei sedimenti oggetto di studio.
Argilla
100
Limo
0.002
Sabbia
Ghiaia
0.06
2
Ciottoli
In figura 6.5 è riportata la curva granulometrica relativa ai sedimenti oggetto di studio.
60
90
Passante in peso [%]
80
70
60
50
40
30
20
10
0
0.0001
0.001
0.01
0.1
1
10
100
Diametro [mm]
Fig. 6.5 Distribuzione granulometrica.
Dall’analisi di tale curva risulta che il 95% delle particelle presenta un diametro
nominale (d) inferiore a 45 µm; evidenziando, quindi, una netta prevalenza di particelle
fini limo-argillose (cfr. fig. 6.5).
Le analisi sulla frazione secca dei sedimenti hanno consentito la determinazione della
frazione di carbonio organico totale e dei macronutrienti.
In particolare:
•
il carbonio organico totale (TOC) è pari a 86,5 ± 18,8 g kg –1 TS;
•
l’azoto Kjeldahl (TKN) è pari a 2,3 ± 0,3 g kg –1 TS;
•
il fosforo totale (Ptot) è pari a 1,2 g kg –1 TS.
da cui si deduce che il rapporto TOC:TKN:P nella frazione secca di sedimenti è pari a
100:2,7:1,4.
La concentrazione media di IPA totali è risultata pari a 17,09 ± 2,46 mg kg
valore massimo e valore minimo rispettivamente pari a 22,5 e 13,9 mg kg
–1
–1
TS (con
TS) ed in
base a questi risultati i sedimenti in esame sono classificabili (considerando come
unico parametro gli IPA) come fanghi di tipo C secondo il protocollo di Venezia.
144
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Le determinazioni analitiche hanno evidenziato il seguente contenuto di IPA:
Concentrazione
Composto
[mg kg –1 TS]
Naftalene
0,41 (0,10)
Acenaftilene
0,17 (0,04)
Acenaftene
0,34 (0,07)
Fluorene
0,47 (0,10)
Fenantrene
2,07 (0,71)
Antracene
0,48 (0,09)
Fluorantene
1,92 (0,49)
Pirene
2,09 (0,54)
Benzo[a]antracene
0,80 (0,23)
Crisene
0,85 (0,26)
Benzo[b]fluorantene
1,38 (0,39)
Benzo[k]fluorantene
1,12 (0,38)
Benzo[a]pirene
0,96 (0,32)
Benzo[g,h,i]perilene
3,52 (1,07)
Dibenzo[a,h]antracene
0,06 (0,02)
Indeno[1,2,3-cd]pirene
0,42 (0,12)
3,9 ± 0,6 mg kg –1 TS di IPA con 2-3 anelli
5,6 ± 1,2 mg kg –1 TS di IPA con 4 anelli
7,6 ± 1,7 mg kg –1 TS di IPA con 5-6 anelli
La frazione predominante (il 44%) è costituita dagli IPA a 5-6 anelli più recalcitranti
mentre le restanti frazioni a due e tre anelli e quattro anelli rappresentano
rispettivamente il 23% ed il 33%.
Nella figura 6.6 è mostrata la suddivisione degli IPA in base al numero di anelli.
25
IPA [mg Kg-1TS]
20
15
10
5
0
IPA 2-3 Anelli
IPA 4 Anelli
IPA 5-6 Anelli
IPA Totali
Fig. 6.6 Distribuzione degli IPA nei sedimenti oggetto della sperimentazione.
145
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Il contributo degli IPA al contenuto di carbonio organico totale è decisamente modesto,
pari a circa 16,4 mg kg –1 TS (valutato considerando che il contributo di ciascun singolo
IPA al TOC è pari a 95%-96%) ossia pari allo 0,19 ‰ di TOC.
La sperimentazione è stata condotta senza l’aggiunta di nutrienti (cosiddetta
biostimulation)
e
senza
ricorrere
ad
inoculo
esterno
di
microrganismi
(bioaugmentation).
Infine nello slurry utilizzato (preparato, come detto nel capitolo 5, utilizzando acqua di
rete) è stato misurato un contenuto medio di cloruri pari a 1,62 g Cl- kg –1 TS
146
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.2.2 Fase di avvio
La fase di avvio si è protratta complessivamente per tre mesi, durante i quali, per
entrambi i reattori, la durata del ciclo è stata fissata in 14 giorni e la quantità di slurry
scaricato e caricato al termine di ciascun ciclo è di 1000 ml (fissando quindi l’HRT in 14
settimane).
Inizialmente l’unico parametro che veniva monitorato in continuo è stata la
concentrazione di ossigeno disciolto (DO) all’interno del reattore operante in condizioni
di aerazione alternata, in particolare in figura 6.7 si riporta l’andamento dell’ossigeno
disciolto durante un intero ciclo di trattamento; da tale diagramma si può osservare che
l'ossigeno attinge valori prossimi a quello di saturazione durante tutte le fasi di
aerazione del ciclo. Si evince inoltre che l’ossigeno disciolto presente nel reattore alla
fine della fase di aerazione è utilizzato quasi istantaneamente al cessare dell’aerazione
a causa dell’elevato contenuto di composti allo stato ridotto presenti nello slurry tal
quale caricato all’inizio del ciclo (confermando i risultati presentati nel paragrafo
precedente).
All’avanzare del ciclo, esaurendosi la richiesta chimica di ossigeno, al cessare
dell’aerazione si osserva un consumo di ossigeno all’interno del reattore decisamente
modesto.
12
10
DO [mg l-1]
8
6
4
2
0
0
20
40140
160
180
t [h]
Fig. 6.7 Andamento della concentrazione di ossigeno disciolto durante un ciclo di trattamento.
147
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Lo scarso utilizzo di ossigeno disciolto durante il ciclo di trattamento non dava garanzie
sulla presenza di biomassa all’interno del reattore per cui si è deciso di fornire
sostanza organica esterna, in particolare si è fatto ricorso al glucosio ed al lattosio. Il
primo è stato utilizzato per avere una risposta nel brevissimo periodo (qualche giorno)
essendo rapidamente biodegradabile; il secondo per valutare la capacità della
biomassa, eventualmente presente, di degradare un substrato non prontamente
biodegradabile.
In figura 6.8 si riporta l'andamento del glucosio e del TOC presenti nella fase liquida
dello slurry a seguito dell’aggiunta di glucosio.
600
Glucosio
TOC
Glucosio TOC [mg l-1]
500
400
300
200
100
0
0
20
40
60
80
t [ore]
Fig. 6.8: Andamento del glucosio e TOC
Prima di fornire al bioreattore sostanza organica esterna, la concentrazione di TOC
nello slurry in uscita era di 35 mg/l. L’aggiunta di glucosio (3,5 g di glucosio in 7 l) è
evidenziata da una concentrazione iniziale pari a circa 500 mg/l e da un incremento di
TOC di circa 200 mg/l (pari proprio al contenuto di TOC in 500 mg/l di glucosio).
I prelievi di 15 ml condotti con cadenza giornaliera, hanno mostrato un consumo di
glucosio pari a 11,10 mg/(l h), corrispondente ad un consumo di TOC misurato pari a
2,89 mg TOC/(l h).
La prova si è conclusa quando il TOC nel reattore è tornato al valore precedente
l’aggiunta di glucosio (35 mg/l TOC)
148
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
600
Lattosio
TOC
Lattosio TOC [mg l-1]
500
400
300
200
100
0
0
50
100
150
200
250
300
350
t [ore]
Fig. 6.9 Andamento del lattosio e TOC
Analogamente l’aggiunta di lattosio (fig. 6.9) è evidenziata da una concentrazione
iniziale pari a 500 mg/l e da un incremento di TOC di 200 mg/l (pari proprio al
contenuto di TOC in 500 mg/l di lattosio).
I prelievi di 15 ml condotti ad intervalli irregolari di tempo, hanno mostrato un consumo
di lattosio pari a 1,64 mg/(l h), corrispondente ad un consumo TOC misurato pari a
0,56 mg TOC/(l h). La prova si è conclusa dopo circa 14 giorni (durata del ciclo).
In definitiva, tali prove di degradazione di substrati organici (sia prontamente che non
prontamente biodegradabili) confermano la presenza di biomassa potenzialmente
attiva.
149
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.2.3 Prima fase di regime
Durante la prima fase sperimentale, come detto in precedenza, il reattore R1 è stato
mantenuto in condizioni aerobiche (Test 1) mentre il reattore R2 in condizioni di
aerazione alternata (Test 2), in modo da comprendere se si instaurassero condizioni
aerobiche-anossiche-anaerobiche e quali fossero le percentuali di rimozione degli IPA.
In questo caso, i costi ed i consumi energetici risulterebbero inferiori e quindi sarebbe
una soluzione preferibile. Dalla misura dell’ossigeno disciolto in R2, si è visto che in
esso si realizzano delle condizioni semplicemente aerobiche (e non già anossiche ed
anaerobiche come si pensava inizialmente) ma si è proceduto lasciando inalterati i
parametri operativi del reattore R2 per valutare l’influenza del tempo di aerazione
sull’efficienza del trattamento.
Nei diagrammi in figura 6.10 sono riportati gli andamenti delle concentrazioni di IPA ed
i relativi errori standard nella prima fase di regime (Test 1 e Test 2) quando,
presumibilmente, nei reattori si erano stabilite condizioni stazionarie.
Dal diagramma di figura 6.10 si può osservare che in entrambi i reattori si ha una
discreta rimozione degli IPA a 2-3 anelli, la cui concentrazione si mantiene
uniformemente al disotto di 2,5 mg kg
–1
TS. Analogamente si osserva un andamento
uniforme e costantemente inferiore a 5 mg kg
–1
TS per gli IPA a 4 anelli ed inferiore a
7 mg kg –1 TS per gli IPA a 5-6 anelli.
In questa fase della sperimentazione è stata montata sul bioreattore una trappola di
amberlite (XAD-2) per valutare la perdita di IPA per volatilizzazione; la trappola è stata
montata subito dopo l’operazione di carico e tolta prima della fase di scarico. Le analisi
eseguite hanno dimostrato per tutti gli IPA investigati un livello di concentrazione
inferiore al limite analitico dello strumento.
150
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
t [giorni]
0
7
14
21
28
35
7
IN
Test 1
Test 2
IPA 2-3 anelli [mg Kg-1 TS]
6
5
4
3
2
1
0
1
2
3
4
5
6
0
7
14
21
28
35
12
IN
Test 1
Test 2
IPA 4 anelli [mg Kg-1 TS]
10
8
6
4
2
0
1
2
3
4
5
6
0
7
14
21
28
35
IPA 5-6 anelli [mg Kg-1 TS]
20
IN
Test 1
Test 2
15
10
5
0
1
2
3
4
5
6
Ciclo
Fig 6.10 Andamento nel tempo di IPA a 2-3, 4 e 5 anelli durante il Test 1 ed il Test 2.
151
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Nelle figure successive (figg. 6.11 e 6.12) sono diagrammate le concentrazioni medie
di IPA presenti nello slurry in ingresso, ed i quello scaricato da R1 ed R2
rispettivamente nelle condizioni operative del Test 1 e del Test 2.
24
IN
Test 1
Test 2
22
20
18
IPA [mg Kg-1TS]
16
14
12
10
8
6
4
2
0
IPA 2-3 Anelli
IPA 4 Anelli
IPA 5-6 Anelli
IPA Totali
Fig. 6.11 Confronto tra le concentrazioni di IPA suddivise per numero di anelli nello slurry in
ingresso ed in uscita dai due bioreattori R1 (Test 1) e R2 (Test 2) durante la prima fase di
regime.
24
22
2-3 Anelli
4 Anelli
5-6 Anelli
20
-1
IPA [mg Kg TS]
18
16
14
12
10
8
6
4
2
0
IN
Test 1
Test 2
Fig. 6.12 Concentrazioni di IPA totali in ingresso ed in uscita dai due bioreattori R1 (Test 1) e
R2 (Test 2) durante la prima fase di regime.
152
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Nella tabelle 6.5 sono riportate le concentrazioni medie e le percentuali di rimozione
per i due reattori.
Tab. 6.5 Concentrazioni di IPA e rendimento di rimozione.
IPA
R2
R1
IN
η Test 1
η Test 2
[mg kg –1 TS] [mg kg –1 TS] [%] [mg kg –1 TS] [%]
2-3 Anelli
3,7 ± 1,1
1,1 ± 1,2
69,2%
1,7 ± 0,6
54,6%
4 Anelli
7,2 ± 0,4
2,6 ± 1,1
63,7%
3,2 ± 1,0
56,0%
5-6 Anelli
10,3 ± 1,7
5,9 ± 3,2
42,6%
5,9 ± 2,4
42,8%
Totali
21,2 ± 1,2
9,6 ± 5,3
54,4%
10,7 ± 3,6
49,3%
Dai risultati relativi ad R1 (Test 1), si evince che le efficienze più elevate si hanno in
corrispondenza degli IPA con 2-3 anelli ottenendo un’efficienza media del 69,2%.
Aumentando il numero degli anelli si nota una diminuzione dell’abbattimento (come del
resto ci si attendeva): più precisamente si passa a valori del 63,7% nel caso dei 4 anelli
e del 42,6% per i 5-6 anelli. Gli IPA a più basso peso molecolare sono stati degradati
con rendimenti migliori, in accordo con quanto riportato in letteratura. Infatti secondo
Nocentini et al. (1996) gli IPA presenti nei suoli e sedimenti sono biodegradabili con
cinetiche differenti in base al peso molecolare ed al grado di aromaticità: gli IPA con 23, 4 anelli vengono degradati in tappe successive, con tassi che decrescono
all’aumentare del numero di anelli.
La distribuzione percentuale di IPA tra l’ingresso e l’uscita non varia in modo evidente
(cfr. figg. 6.11 e 6.12). Si può comunque notare un aumento degli IPA a 5-6 anelli (dal
46% al 59%), a conferma del più basso rendimento di rimozione, mentre quelli con 4
anelli si mantengono costanti (intorno al 29%) e quelli con 2-3 anelli diminuiscono (dal
25% al 12%).
La rimozione media degli IPA totali risulta essere del 54,4%.
Per quanto riguarda il reattore R2 nelle condizioni del Test 2, le efficienze più elevate si
hanno in corrispondenza degli IPA con 2-3 e 4 anelli, con valori intorno al 55% mentre
per quelli con 5-6 anelli si ottiene il 42,8%. Si ottengono rendimenti di rimozione simili a
quelli ottenuti nel corso del Test 1 in quanto non si raggiungono le previste condizioni
anaerobiche (per queste condizioni in letteratura sono riportati rendimenti minori).
La distribuzione di IPA tra l’ingresso e l’uscita non varia in modo evidente. Si nota un
lieve aumento degli IPA a 5-6 anelli (dal 46% al 55%) ed una buona riduzione di quelli
a 2-3 (dal 25% al 16%).
La rimozione media degli IPA totali risulta essere del 49,3%.
153
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Si noti infine che i fanghi scaricati da entrambi gli SS-SBR rientrerebbero nella
categoria B (max 10 mg IPA kg
–1
TS) secondo i parametri individuati nel Protocollo di
Venezia.
In tabella 6.6 sono riportati le percentuali medie di solidi volatili nello slurry in ingresso
ed in uscita dai reattori R1 ed R2
Tab. 6.6 Composizione dello slurry in ingresso ed in uscita da R1 ed R2.
Umidità
%
Solidi Totali
%
Ceneri
%
Solidi Volatili
%
IN
89,5 ± 1,8
10,5 ± 1,9
7,9 ± 1,7
2,6 ± 1,5
R1 (Test 1)
89,8 ± 0,8
10,2 ± 0,8
8,4 ± 0,8
1,8 ± 0,6
R2 (Test 2)
89,1 ± 0,6
10,9 ± 0,6
8,9 ± 0,8
2,0 ±0,7
In particolare i VS (che rappresentano un indice della sostanza organica) si riducono,
passando dal 2,6% dello slurry in ingresso all’1,8% riscontrato nello slurry scaricato dal
reattore R1 (Test 1) ed al 2% nello slurry scaricato dal reattore R2 (Test 2). Tale
comportamento è confermato anche dall’andamento del contenuto di carbonio
organico totale sulla frazione solida dello slurry in ingresso ed in uscita da R1 ed R2
(cfr. tab. 6.7).
Tab. 6.7 Concentrazioni medie di TOC nello slurry in ingresso ed in uscita dai reattori R1 ed R2
IN
TOC
R1
(Test 1)
R2
(Test 2)
[g Kg-1 TS] 86,5 ± 1,7 80,0 ± 4,0 83,5 ± 1,6
In particolare si realizza una riduzione del carbonio organico totale di circa l’8% per
entrambi i reattori.
Per poter stimare la quantità di biomassa presente sia nello slurry alimentato che
quello in uscita dai due bioreattori è stata eseguita la determinazione dei microrganismi
eterotrofi su piastre agarizzate calcolate come Unità Formanti Colonie (CFU) alla
temperatura di 22°C.
I valori riscontrati nello slurry in ingresso sono compresi in un intervallo tra 2,16 107 e
5,27 107 CFU KgTS-1, mentre quelli riscontrati nello slurry in uscita dal reattore
operante nelle condizioni del Test 1 sono compresi nell’intervallo 9 107 e
154
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
3,2 108 CFU KgTS-1, infine quelli riscontrati nello slurry in uscita dal reattore operante
nelle condizioni del Test 2 sono compresi nell’intervallo 1,9 108 e 4,11 108 CFU KgTS-1.
La pur lieve differenza dei valori riscontrati tra slurry in ingresso e slurry in uscita dai
due bioreattori dimostra comunque un incremento nella crescita dei microrganismi.
Dalla fase di avvio alla fine della prima fase della sperimentazione si è verificato un
andamento decrescente nei valori della concentrazione di biomassa in entrambi i
reattori. Tale comportamento può essere imputato al fatto che la durata del ciclo sia
tanto elevata da indurre condizioni endogene, tra l’altro riscontrate dalle valutazioni
respirometriche, i cui risultati saranno illustrati nel successivo paragrafo.
155
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.2.4 Seconda fase di regime
Durante la seconda fase sperimentale sono state modificate le condizioni operative dei
due reattori. Come evidenziato nel paragrafo precedente durante il Test 2 non sono
mai state raggiunte le condizioni anaerobiche-anossiche ipotizzate (eccetto durante il
giorno del carico/scarico in cui è forte la domanda chimica di ossigeno), e dallo studio
delle unità formanti colonie e dei dati respirometrici è ipotizzabile che al termine del
ciclo si erano già instaurate condizioni endogene (quest’ultima osservazione è valida
anche per il reattore R1 nelle condizioni del Test 1).
Pertanto si è deciso di mantenere entrambi i reattori continuamente aerati e diminuire
la durata del ciclo da 7 a 3,5 giorni ed aggiungere 0,5 g di lattosio nel R2 (Test 4) ad
ogni operazione di carico e scarico; in particolare si intende verificare se l’aggiunta di
lattosio, utilizzato per favorire la produzione biologica di tensioattivi, comporti
miglioramenti sia in termini di riduzione dei tempi che di efficienze di rimozione. Diversi
studi hanno mostrato che l’aggiunta sia di tensioattivi sintetici (Aronstein, 1991), che di
tensioattivi naturali, cosidetti biosurfactants (Providenti et al., 1995), migliora
sensibilmente la rimozione di IPA. Recenti ricerche (Desai and Banat, 1997), infatti,
hanno dimostrato l’efficacia dei “biosurfactants” nei processi di mineralizzazione
biologica di idrocarburi. Inoltre i biosurfattanti sono meno tossici, più biodegradabili e
molto attivi sia a temperature estreme che con elevata salinità (come nel caso di
sedimenti lagunari) rispetto ai tensioattivi chimici. I biosurfattanti sono prodotti
naturalmente da molti microrganismi durante la fase di crescita su composti idrofobici
(Miller, 1995); questi favoriscono il desorbimento degli IPA rendendoli quindi più
biodisponibili. Inoltre sembra che i tensiattivi biologici vengano consumati solo dopo
l’esaurimento della sostanza organica naturalmente presente (Cassidy, 1995). I
principali fattori che governano la loro produzione sono il rapporto carbonio/azoto,
compreso tra 16:1 e 18:1, il pH (6,5 ÷ 8), la modalità di trasferimento dell’ossigeno e la
concentrazione di sali (anche se Ruwaida et al. (1991) non hanno osservato variazioni
sulla produzione di “biosurfactants” fino a concentrazioni saline del 10%). In scala reale
il lattosio potrebbe essere sostituito da reflui agroindustriali o zootecnici contenenti
un’elevata concentrazione di sostanza organica e, quindi, ridurre ulteriormente i costi
(Bortone e Giordano, 2001).
Nei diagrammi in figura 6.13 sono riportati gli andamenti delle concentrazioni di IPA a
2-3, 4 e 5-6 anelli.
156
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
t [giorni]
0
7
14
21
28
35
42
49
7
IN
Test 3
Test 4
IPA 2-3 anelli [mg Kg-1 TS]
6
5
4
3
2
1
0
1
2
0
3
4
7
5
6
14
7
8
21
9
28
10 11 12 13 14 15 16
35
42
49
IPA 4 anelli [mg Kg-1 TS]
10
IN
Test 3
Test 4
8
6
4
2
0
1
2
0
3
4
7
5
6
14
7
8
21
9
28
10 11 12 13 14 15 16
35
42
49
IPA 5-6 anelli [mg Kg-1 TS]
12
IN
Test 3
Test 4
10
8
6
4
2
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10 11 12 13 14 15 16
Ciclo
Fig 6.13 Andamento nel tempo di IPA a 2-3, 4 e 5 anelli durante il Test 3 e nel Test 4.
157
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Gli IPA a 2-3 anelli in uscita si mantengono a concentrazioni inferiori a 2,5 mg kg-1 TS
per il Test 3 ed inferiori a 2 mg kg-1 TS nel Test 4. Nel caso degli IPA a 4 anelli, invece,
per entrambi i reattori si mantengono concentrazioni inferiori a 3 mg kg-1 TS. I valori più
alti si riscontrano, come prevedibile, in corrispondenza degli IPA a più elevato peso
molecolare.
Nelle figure successive, (figg. 6.14 e 6.15), sono diagrammate le concentrazioni medie
di IPA per lo slurry in ingresso e per quello scaricato da R1 (Test 3) ed R2 (Test 4).
20
IN
Test 3
Test 4
18
16
IPA [mg Kg-1TS]
14
12
10
8
6
4
2
0
IPA 2-3 Anelli
IPA 4 Anelli
IPA 5-6 Anelli
IPA Totali
Fig. 6.14 Confronto tra le concentrazioni di IPA suddivise per numero di anelli nello slurry in
ingresso ed in uscita dai due bioreattori R1 (Test 3) e R2 (Test 4) durante la seconda fase di
regime.
18
IPA 2-3 Anelli
IPA 4 Anelli
IPA 5-6 Anelli
16
-1
IPA [mg Kg TS]
14
12
10
8
6
4
2
0
IN
Test 3
Test 4
Fig. 6.15 Concentrazioni di IPA totali in ingresso ed in uscita dai due bioreattori R1 (Test 3) e
R2 (Test 4) durante la seconda fase di regime.
158
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Nella tabella 6.8 sono riportate le concentrazioni medie e le percentuali di rimozione
per i due reattori.
Tab. 6.8 Concentrazioni di IPA e rendimento di rimozione.
R1
IN
-1
[mg kg TS] [mg kg-1 TS]
IPA
η Test 3
[%]
R2
[mg kg-1 TS]
η Test 4
[%]
2-3 Anelli
4,0 ± 0,4
1,43 ± 1,01
64,8%
1,2 ± 0,3
69,8%
4 Anelli
5,3 ± 0,9
2,8 ± 0,8
66,1%
1,9 ± 0,8
64,6%
5-6 Anelli
7,1 ± 1,2
4,0 ± 1,3
43,1%
4,2 ± 1,5
40,8%
Totali
16,3 ± 1,8
7,2 ± 2,4
55,8%
7,2 ± 2,4
55,6%
Rispetto alle condizioni del Test 3, nel Test 4 (che prevedeva l’aggiunta di lattosio), si
nota una più elevata efficienza di rimozione di IPA 2-3 anelli, con valori del 69,8%
contro il 64,6% del Test 3. Per le altre classi di IPA invece si hanno efficienze di
rimozione che differiscono tra loro di pochi punti percentuali. Questi risultati
probabilmente sono imputabili al fatto che il lattosio facilita la produzione di agenti
biosurfattanti in grado di desorbire i composti organici dalla matrice solida ed
aumentarne la biodisponibilità e biodegradabilità, almeno quelli a più basso peso
molecolare. Si potrebbe anche ipotizzare che il lattosio promuova la degradazione
degli IPA mediante reazioni cometaboliche. Il meccanismo d’azione del lattosio non è
stato indagato comunque i risultati evidenziano che tutto il lattosio aggiunto all’inizio di
ciascun ciclo viene metabolizzato durante la fase di reazione. Il rendimento di
rimozione degli IPA totali nelle condizioni del Test 4 è del 43,7% mentre è del 46,2%
nelle condizioni del Test 3.
La distribuzione degli IPA sullo scarico da entrambi i bioreattori evidenzia sempre una
maggiore prevalenza dei composti a 5-6 anelli.
In tabella 6.9 sono riportati le percentuali medie di solidi volatili nello slurry in ingresso
ed in uscita dai reattori R1 ed R2
Tab. 6.9 Composizione dello slurry in ingresso ed in uscita da R1 ed R2.
Umidità
[%]
Solidi Totali
[%]
Ceneri
[%]
Solidi Volatili
[%]
IN
90,8 ± 1,1
9,2 ± 1,1
6,9 ± 1,1
2.2 ± 1,1
R1 (Test 3)
90,6 ±1,8
9,4 ±1,8
8,1 ± 1,7
1,3 ± 0,2
R2 (Test 3)
90,7 ±0,8
9,3 ±0,8
8,1 ± 0,7
1,2 ± 0,1
Come si può osservare anche durante la seconda fase si verifica una riduzione dei
solidi volatili VS (indice della sostanza organica) passando dal 1,5% dello slurry in
159
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
ingresso all’1,3% di R1 (Test 3) ed al 1,2% di R2 (Test 4). Tale comportamento è
confermato anche dall’analisi del contenuto di carbonio organico (cfr Tab. 6.10). In tab.
6.10 inoltre sono riportate le concentrazioni medie (e relative deviazioni standard) di
TOC, TKN e fosforo totale nello slurry in ingresso ed in uscita dai reattori R1 ed R2.
Tab. 6.10 Concentrazioni medie di TOC, TKN e fosforo totale nello slurry in ingresso ed in
uscita dai reattori R1 ed R2
TOC
[g Kg-1 TS]
TKN
[g Kg-1 TS]
P tot
[g Kg-1 TS]
IN
86,5 ± 18,8
2,30 ± 0,30
1,18 ± 0,07
R1 (Test 3)
78,9 ± 17,2
2,14 ± 0,19
1,18 ± 0,04
R2 (Test 4)
81,7 ± 16,0
2,10 ± 0,19
1,13 ± 0,12
Complessivamente si è avuto un consumo di carbonio organico totale rapportato al
consumo di TKN (∆TOC:∆TKN) nelle condizioni operative dei Test 3 e Test 4
rispettivamente pari a 47 g TOC/g TKN e 40 g TOC/g TKN. Ipotizzando che la
riduzione del contenuto di carbonio organico totale derivi dalla degradazione degli
idrocarburi, e considerando che il 30% sia metabolizzato dalla biomassa si realizza un
rapporto TOC:TKN pari rispettivamente a 14:1 e 12:1, ritrovando quindi il valore tipico
riportato in letteratura per tale rapporto. (10:1).
Infine le unità formanti colonie UFC nello slurry in uscita dai due reattori sono state pari
a 1,9 108 CFU KgTS-1 e 4,4 108 CFU KgTS-1 rispettivamente nelle condizioni operative
del Test 3 e del Test 4; mentre in ingresso sono state misurate 2,5 107 CFU KgTS-1.
Pertanto l’uniformità dei rendimenti di rimozione di IPA totali valutati per il Test 3 ed il
Test 4 è confermata anche dalle misure di unità formanti colonie che durante i due test
sono pressoché stabili (dell’ordine di 108 UFC KgTS-1), tali valori sono inoltre superiori
a quelli misurati nel corso del Test 1 e del Test 2, tale comportamento è da attribuirsi
alla riduzione della durata del ciclo di trattamento: da 7 giorni (per i Test 1 e 2) a 3,5
giorni per i Test 3 e 4.
L’aggiunta di lattosio (Test 4) invece non ha stimolato la crescita, ma aumentato
l’attività respiratoria dei microrganismi per la sua ossidazione.
Il riconoscimento della morfologia dei microrganismi dei sedimenti marini presenti nei
due reattori, tramite osservazioni microscopiche, è risultato difficoltoso data la natura
dello slurry. Infatti i microrganismi risultavano attaccati alla matrice sabbiosa ed alle
particelle inerti. Pertanto si è reso necessario pretrattare mediante sonicazione i
160
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
campioni prelevati dai reattori, fissati preventivamente in paraformaldeide al 4% (p/v).
Gli stessi campioni dopo opportuna diluizione in tampone fosfato salino (PBS), colorati
con DAPI, venivano osservati al microscopio con lampada epifluorescente, è stato così
possibile evidenziare e distinguere i microrganismi fluorescenti dalla matrice sabbiosa
non fluorescente. Nelle figure 6.16 e 6.17 sono riportate le osservazioni microscopiche
di aggregazioni microbiche rilevate nello slurry in uscita dai due reattori.
Fig. 6.16 Osservazione microscopica in epifluorescenza con DAPI di aggregazioni microbiche
del bioslurry dei reattori: la fluoresecenza identifica i microorganismi distinguibili dalla matrice
sabbiosa di colore arancione (1000X).
Fig. 6.17 Osservazione microscopica in epifluoresecnza con DAPI di aggregazioni microbiche
del bioslurry dei reattore: gli aggregati fluorescenti (gialli e blu) rappresentano i microorganismi,
distinguibili dalla matrice sabbiosa di colore arancione (1000X).
161
Cap. 6
6.3
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Definizione di una tecnica DO-STAT per
slurry di sedimenti
La definizione della Tecnica DO-Stat applicata a slurry di sedimenti è stata articolata in
due fasi: durante la prima fase si è provveduto alla ottimizzazione della procedura
agendo in particolare sul titolo dell’acqua ossigenata ed il quantitativo di slurry da
utilizzare durante i test respirometrici; durante la seconda fase si è provveduto al
monitoraggio dell’andamento dell’attività respiratoria nei due bioreattori operanti nelle
condizioni del Test 3 e del Test 4, prelevando ad intervalli di tempo più o meno regolari
500 g di slurry da entrambi i reattori. Parallelamente sono state condotte delle prove
respirometriche tradizionali, utilizzando un respirometro chiuso, al fine di validare la
tecnica a titolazione DO-stat.
Tutte le prove respirometriche del tipo DO-stat sono state condotte utilizzando come
valore di set point per l’ossigeno quello a saturazione: in questo modo si è certi che
non vi sia trasferimento di ossigeno dalla fase gassosa (aria) a quella liquida, e
viceversa. L’ossigeno necessario alla respirazione batterica viene quindi fornito
direttamente dall’H2O2.
162
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.3.1 Prima fase
Nella prima fase della sperimentazione sono state eseguite tre prove (P1, P2 e P3),
della durata di una settimana ciascuna, in cui sono stati variati due parametri
fondamentali dell’esperimento quali il titolo della soluzione di acqua ossigenata ed il
volume dei campioni di slurry, in particolare lo slurry utilizzato è stato prelevato dal
reattore operante nelle condizioni del Test 1. Non essendo disponibili in letteratura dati
relativi alla respirometria applicata a slurry di sedimenti lagunari si è deciso di iniziare
le prove con una soluzione avente lo stesso titolo di quella utilizzata per i fanghi attivi,
cioè 2 volumi, per poi passare ad una soluzione ad 1 volume. Per quanto concerne il
volume di slurry da considerare, si è partiti con un volume iniziale di 100 g, poi
aumentato a 250 g.
La prove eseguite possono essere così riassunte:
•
P1: 100 g di slurry, soluzione titolante 2 volumi;
•
P2: 100 g di slurry, soluzione titolante 1 volume;
•
P3: 250 g di slurry, soluzione titolante 1 volume.
Aumentando il volume di slurry e diminuendo la concentrazione dell’H2O2 si è riusciti
ad ottenere più punti sperimentali (ossia il numero di volte in cui viene dosata H2O2)
all’interno di una stessa prova in modo tale da ottenere una interpolazione degli stessi
dati più precisa (si ottiene un coefficiente di correlazione, R2, più elevato). Infatti, a
parità di volume di slurry, utilizzando una soluzione di H2O2 più diluita è necessario
effettuare più dosaggi nello stesso intervallo di tempo per soddisfare la richiesta di
ossigeno da parte dei microrganismi; di conseguenza si hanno più punti a disposizione
per l’interpolazione. Se poi si considera che è anche aumentato il volume risulta
evidente l’aumento dei dati sperimentali acquisiti. La differenza tra il numero di punti
raccolti durante le prime prove e le ultime è rappresentata in figura 6.18.
163
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
volume H 2O2 (ml)
0,5
0,4
0,3
P1
P3
0,2
0,1
0
0
50
100
tempo (ore)
Fig. 6.18 Aumento del numero di punti raccolti passando da P1 (R2 = 0,91) a P3 (R2 = 0,98).
Nel momento in cui si passa da 100 a 250 g di slurry, la variazione di R2 è poco
significativa, anche se è possibile notare un aumento. Nella prima settimana l’R2 varia
in un intervallo di 0,9172 ÷ 0,9841 mentre nelle successive non è mai inferiore a
0,9828 (cfr. tab. 6.11, nella colonna “tempo” si riportano le ore trascorse dalla
operazione di carico/scarico).
Tab. 6.11 Tasso di respirazione e coefficiente di correlazione delle prime tre settimane.
Prova
P1
P2
P3
164
H2O2 Tempo
[conc.]
[h]
2 vol.
1 vol.
1 vol.
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1 h-1]
R2
1
99,6
3,0
0,9841
26
95,9
1,9
0,9578
48
97,3
1,4
0,9493
72
101,7
0,7
0,9172
3
106,7
6,9
0,9901
25
97,0
5,5
0,9964
49
99,9
2,9
0,9950
73
99,3
1,5
0,9899
99
100,1
1,1
0,9828
4
255,3
8,2
0,9877
25
258,1
2,2
0,9965
49
253,3
1,2
0,9948
72
255,5
1,2
0,9943
96
252,8
0,9
0,9943
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
In tabella 6.11 è riportato anche il tasso di respirazione ottenuto durante i cicli di
trattamento; durante la prova P1 è stato misurato un tasso inferiore rispetto alle altre
due prove. Tale comportamento potrebbe essere imputabile all’utilizzo di una
concentrazione di H2O2 pari a 2 volumi probabilmente inibente per i microrganismi.
Il tasso di respirazione della biomassa è direttamente stimato dal tasso di aggiunta del
titolante: lo strumento registra i millilitri di acqua ossigenata dosati nel tempo; e dal
coefficiente angolare m della retta che interpola questi dati ([m] = [ml H2O2 min-1]) è
possibile ricavare il tasso di respirazione r ([r] = [mg O2 kg-1h-1]) attraverso la relazione
[7.1]:
r = m ⋅ Tsol ⋅
32
1000
⋅
⋅ 60
22,414 M s
[6.1]
dove Tsol indica il titolo della soluzione di acqua ossigenata e con Ms la massa del
campione espressa in grammi, mentre 32 [g mol-1], 22,414 [l mol-1], 1000 e 60 sono dei
fattori di conversione per passare tra le due dimensioni. In figura 6.19 è rappresentato
un grafico H2O2 (t) tipico; infatti, in tutti i test condotti durante l’intera sperimentazione è
stato ottenuto lo stesso andamento. Come ci si attende, al trascorrere del tempo
dall’operazione di carico la pendenza della retta diminuisce (cfr.fig. 6.19).
1.2
H2O2 added [ml]
1.0
0.8
I giorno
II giorno
III giorno
IV giorno
V giorno
0.6
0.4
0.2
0.0
0
20
40
60
80
100
120
140
t [min]
Fig. 6.19 Variazione della pendenza durante una prova (corrisponde alla diminuzione
dell’OUR).
165
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
In particolare tale comportamento si attribuisce da un lato all’ossidazione chimica delle
sostanze contenute nello slurry (solfuri e composti allo stato ridotto di ferro e
manganese (3000 mg l-1)), soprattutto durante le prime ore di ciascuna prova, e
dall’altro all’attività respiratoria di microrganismi. Per confrontare i risultati ottenuti
durante le tre settimane si è tenuto conto delle ore trascorse dall’operazione di
carico/scarico dei bioreattori.
In figura 6.20 sono rappresentati gli andamenti del tasso di respirazione ottenuti in
questa prima fase sperimentale.
P1
P2
4
8
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
DO-stat
7
DO-stat
3
2
1
6
5
4
3
2
1
0
0
0
20
40
60
80
t [ore]
0
20
40
60
80
100
120
t [ore]
Andamento OUR P1
Andamento OUR P2
P3
10
DO-stat
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
8
6
Fig. 6.20 Andamento del tasso di respirazione
dello slurry prelevato dal reattore operante
nelle condizioni del Test 1.
4
2
0
0
20
40
60
80
t [ore]
Andamento OUR P3
166
100
120
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.3.2 Seconda fase
Sulla base dei risultati ottenuti nella prima fase, nei due reattori, nel corso del Test 1 e
del Test 2, si è verificata una diminuzione della concentrazione della biomassa,
confermata dai dati respirometrici e microbiologici, di conseguenza si è reso
necessario apportare delle modifiche nei due reattori prima di avviare la seconda fase.
Al fine di validare la tecnica a titolazione DO-stat sono state effettuate anche delle
prove respirometriche tradizionali utilizzando un respirometro chiuso. Lo strumento
registra il valore della concentrazione di ossigeno disciolto ad intervalli regolari di
tempo (30 secondi); dal coefficiente angolare m della retta che interpola questi dati ([m]
= [mg O2 l-1min-1]) è possibile ricavare il tasso di respirazione r ([r] = [mg O2 kg-1h-1])
attraverso la relazione [6.2]:
r = −m ⋅
60
[6.2]
ρ slurry
dove con ρslurry (1,065 kg l-1) si indica la densità dello slurry.
L’andamento dell’ossigeno disciolto in un test con respirometro chiuso è riportato in
figura 6.21.
10
-1
O2 [mg O2 l min ]
8
-1
6
4
2
0
0
20
40
60
80
100
120
140
160
180
tempo [min]
Fig. 6.21 Andamento di DO in un test con respirometro chiuso.
167
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Con il respirometro DO-stat è stato effettuato un test al giorno e verso la fine del
monitoraggio, più precisamente durante le prove P9 e P10, è stato possibile effettuare
2 ripetizioni (è stato deciso di ricavare un punto sperimentale in più perché la
diminuzione maggiore del tasso di respirazione si ottiene nelle prime ore del ciclo). Con
il respirometro chiuso invece è stato possibile effettuare anche più prove al giorno.
In entrambi i casi, nell’analisi dell’andamento del tasso di respirazione r, si è tenuto
conto delle ore trascorse dall’operazione di carico/scarico dei bioreattori.
Il monitoraggio dell’attività respiratoria è stato effettuato per i due bioreattori operanti
nelle condizioni operative del Test 3 e del Test 4.
Le prove hanno una durata di circa due ore, la temperatura si mantiene costante
attorno ai 20 °C con oscillazioni di ± 1°C; verso la fine di ogni singola prova, infatti, si
osservava un lieve aumento di temperatura da imputare alla presenza dell’agitatore,
mantenuto a valori di 300 ÷ 400 rpm. Tale valore di miscelazione è stato scelto in modo
tale da evitare la sedimentazione delle particelle, ma il più basso possibile per non
favorire il trasferimento dell’ossigeno.
Le oscillazioni dell’ossigeno disciolto si mantengono entro un intervallo di 0,01 ÷ 0,3
mg l-1, raramente vi sono picchi oltre questo valore. In figura 6.22 è rappresentato un
andamento tipico della concentrazione di ossigeno disciolto ottenuto durante i test.
DO
Andamento DO
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
0
50
100
t [min]
Fig. 6.22 Andamento tipo del DO durante una prova.
168
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Le oscillazioni intorno al valore di “up-bound” dell’ossigeno sono dovute alla
sovrapposizione di diversi effetti, tra cui di maggior importanza è l’aggiunta discreta di
H2O2 e la sua trasformazione in acqua ed ossigeno. Le oscillazioni di DO generano il
tipico andamento a scalini della curva di titolazione (cfr. fig.6.22).
Durante l’arco della sperimentazione sono state condotte periodicamente verifiche del
titolo della soluzione di H2O2: il titolo rimane stabile anche per più di 15 giorni se
opportunamente conservata in contenitori scuri al riparo dai raggi UV. Più
precisamente è stato misurato il titolo della soluzione subito dopo la sua preparazione
ricavando un valore di concentrazione pari a 0,98 vol. contro l’1 vol. teorico, dopo 15
giorni 0,92 vol. e dopo 1 mese 0,88 vol.
Di seguito sono riportati i risultati ottenuti durante il monitoraggio dell’attività
respiratoria dei microrganismi presenti nei bioreattori utilizzando il DO-stat ed il
respirometro chiusi.
169
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P4: quarta prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
4
24
46
510,2
511,1
503
5,3
1,9
1,4
0,9955
0,9982
0,9971
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
490,4
494,6
493,1
10,9
4,3
2,5
0,9984
0,9974
0,9962
2
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
[h]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
4
6
21
29
41
4,4
2,2
1,3
1,1
0,7
0,9951
0,9969
0,9979
0,9970
0,9976
P4
R1 DO-stat
P4
R2 DO-stat
6
12
DO-stat
DO-stat
10
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
5
4
3
2
8
6
4
2
1
0
0
0
10
20
30
40
0
50
10
20
30
t [ore]
t [ore]
P4
R1 chiuso
P4
R1 confronto
5
DO-stat
Resp chiuso
5
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
4
-1 -1
50
6
Resp chiuso
r [mg O2 Kg h ]
40
3
2
4
3
2
1
1
0
0
10
20
30
t [ore]
170
40
50
0
0
10
20
30
t [ore]
40
50
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P5: quinta prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
1
19
44
504,3
510,0
502,3
9,2
2,5
1,8
0,9862
0,9989
0,9984
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
505,4
495,7
504,0
19,9
4,6
3,4
0,9760
0,9983
0,9970
2
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
[h]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
1
2
4
15
20
39
11,9
8,1
5,6
1,9
1,7
0,9
0,9979
0,9977
0,9962
0,9979
0,9991
0,9988
P5
R1 DO-stat
P5
R2 DO-stat
25
10
DO-stat
DO-stat
20
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
8
6
4
15
10
5
2
0
0
0
10
20
30
40
0
50
10
20
t [ore]
P5
R1 chiuso
50
14
12
DO-stat
Resp chiuso
12
Resp chiuso
10
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
40
P5
R1 confronto
14
r [mg O2 Kg h ]
30
t [ore]
8
6
4
2
10
8
6
4
2
0
0
0
10
20
30
t [ore]
40
50
0
10
20
30
40
50
t [ore]
171
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P6: sesta prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
1
24
43
501,74
502,89
504,93
8,3
1,5
0,9
0,9882
0,9985
0,9965
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
494,1
497,71
504
18,3
3,7
3,2
0,9789
0,9973
0,9962
2
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
[h]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
1
2
24
43
8,8
6,5
1,7
1,1
0,9963
0,9979
0,9980
0,9975
P6
R2 DO-stat
P6
R1 DO-stat
10
20
DO-stat
DO-stat
15
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
8
6
4
2
0
0
10
20
30
40
10
5
0
50
0
t [ore]
10
50
10
DO-stat
Resp chiuso
Resp chiuso
8
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
8
-1 -1
40
P6
R1 confronto
10
r [mg O2 Kg h ]
30
t [ore]
P6
R1 chiuso
6
4
2
6
4
2
0
0
0
10
20
30
t [ore]
172
20
40
50
0
10
20
30
t [ore]
40
50
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P7: settima prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
1
21
44
506,61
504,53
504,22
10,7
3,2
1,4
0,9797
0,9993
0,9969
2
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
501,81
492,28
503,63
21,2
5,2
3,9
0,9837
0,9988
0,9979
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
r
[h] [mg O2 kg-1h-1]
1
2
4
21
44
12,9
7,4
4,9
2,1
1,7
Test 4
R2
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
0,9987
0,9985
0,9983
0,9996
0,9992
19,3
12,8
10,4
2,9
1,7
0,9982
0,9986
0,9993
0,9991
0,9987
173
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P7
R1 DO-stat
P7
R2 DO-stat
12
25
DO-stat
DO-stat
20
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
10
8
6
4
0
0
0
10
20
30
40
50
0
30
P7
R1 chiuso
P7
R2 chiuso
40
50
22
20
12
Resp chiuso
18
10
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
20
t [ore]
Resp chiuso
r [mg O2 Kg h ]
10
t [ore]
14
8
6
4
16
14
12
10
8
6
4
2
2
0
0
0
10
20
30
40
50
0
10
20
30
t [ore]
t [ore]
P7
R1 confronto
P7
R2 confronto
40
50
25
14
DO-stat
Resp chiuso
12
DO-stat
Resp chiuso
20
10
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
10
5
2
r [mg O2 Kg h ]
15
8
6
4
15
10
5
2
0
0
0
10
20
30
t [ore]
174
40
50
0
10
20
30
t [ore]
40
50
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P8: ottava prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
10
24
48
522,3
514,9
505,5
2,1
1,9
1,1
0,9984
0,9965
0,9983
2
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
507,3
501,1
505,5
6,2
4,4
5,9
0,9992
0,9991
0,9988
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
r
[h] [mg O2 kg-1h-1]
10
24
48
1,9
1,5
1,1
Test 4
R2
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
0,9997
0,9992
0,9998
2,0
2,1
2,6
0,9998
0,9994
0,9993
Durante questa prova sono state eseguite in parallelo le prove con aggiunta di
substrato dall’esterno ed i campioni sono stati reintrodotti prima di essere stati aerati a
sufficienza. È plausibile, quindi, che all’interno del bioreattore ci fosse una
concentrazione
superiore
di
sostanza
organica
prontamente
biodegradabile
(soprattutto in R2), tale da giustificare un aumento della respirazione nell’ultimo giorno.
175
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P8
R1 DO-stat
P8
R2 DO-stat
2.5
10
DO-stat
DO-stat
8
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
2.0
1.5
1.0
0.5
6
4
2
0.0
0
10
20
30
40
50
0
60
0
10
20
30
t [ore]
t [ore]
P8
R1 chiuso
P8
R2 chiuso
2.0
40
r [mg O2 Kg h ]
3
-1 -1
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
Resp chiuso
1.5
1.0
0.5
0.0
0
10
20
30
40
50
2
1
0
60
0
t [ore]
10
30
40
50
60
P8
R2 confronto
3.0
10
DO-stat
Resp chiuso
DO-stat
Resp chiuso
8
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
2.5
2.0
1.5
1.0
6
4
2
0.5
0.0
0
10
20
30
t [ore]
176
20
t [ore]
P8
R1 confronto
-1 -1
60
4
Resp chiuso
r [mg O2 Kg h ]
50
40
50
60
0
0
10
20
30
t [ore]
40
50
60
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P9: nona prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
2
7
21
45
512,1
497,7
510,7
504,6
4,1
2,6
1,9
1,0
0,9962
0,9991
0,9987
0,9975
2
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
490,6
492,5
516,4
505,2
15,4
8,4
6,0
5,7
0,9937
0,9990
0,9989
0,9989
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
r
[h] [mg O2 kg-1h-1]
2
21
45
3,5
1,5
1,1
Test 4
R2
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
0,9989
0,9991
0,9985
5,0
1,9
1,7
0,9979
0,9997
0,9991
Durante questa settimana si sono verificati problemi con le sonde di ossigeno, infatti,
quando sono state pulite si sono trovate tracce di particelle sulla membrana tanto che
si è resa necessaria la sostituzione della stessa.
177
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P9
R2 DO-stat
P9
R1 DO-stat
20
5
DO-stat
DO-stat
15
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
4
3
2
10
5
1
0
0
0
10
20
30
40
0
50
10
20
30
t [ore]
t [ore]
P9
R1 chiuso
P9
R2 chiuso
4
50
6
Resp chiuso
Resp chiuso
5
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
3
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
40
2
1
4
3
2
1
0
0
0
10
20
30
40
50
0
30
P9
R1 confronto
P9
R2 confronto
40
50
20
DO-stat
Resp chiuso
DO-stat
Resp chiuso
15
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
3
-1 -1
20
t [ore]
3
r [mg O2 Kg h ]
10
t [ore]
2
2
1
10
5
1
0
0
0
10
20
30
t [ore]
178
40
50
0
10
20
30
t [ore]
40
50
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P10: decima prova
DO-stat
Test 3
Test 4
Tempo
[h]
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R
2
9
24
47
513,0
514,3
511,8
509,2
3,8
2,2
1,9
1,3
0,9949
0,9990
0,9990
0,9975
2
Peso
[g]
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
500,9
491,2
512,4
498,0
12,9
7,5
7,1
5,5
0,9991
0,9971
0,9989
0,9985
Respirometro chiuso
Test 3
Tempo
r
[h] [mg O2 kg-1h-1]
2
9
24
47
2,4
1,3
1,1
0,9
Test 4
R
2
0,9976
0,9991
0,9997
0,9995
r
[mg O2 kg-1h-1]
R2
13,2
5,1
4,7
3,5
0,9998
0,9966
0,9979
0,9981
179
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
P 10
R2 DO-stat
P 10
R1 DO-stat
20
4
DO-stat
15
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
3
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
DO-stat
2
1
10
5
0
0
0
10
20
30
40
0
50
10
20
30
t [ore]
t [ore]
P 10
R1 chiuso
P 10
R2 chiuso
40
50
3
14
Resp chiuso
Resp chiuso
12
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
2
2
1
1
10
8
6
4
2
0
0
0
10
20
30
40
0
50
10
20
30
t [ore]
t [ore]
P 10
R1 confronto
P 10
R2 confronto
40
50
4
14
DO-stat
Resp chiuso
12
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
3
-1 -1
r [mg O2 Kg h ]
DO-stat
Resp chiuso
2
1
10
8
6
4
2
0
0
0
10
20
30
t [ore]
180
40
50
0
10
20
30
t [ore]
40
50
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Da quanto detto si può ritenere che il respirometro DO-stat rappresenti un valido
strumento per lo studio della attività respiratoria di slurry di sedimenti. I valori ricavati
con le due diverse metodologie sono risultati prossimi in tutte le prove, ad eccezione di
quelle condotte sullo slurry proveniente dal reattore R2 (Test 4) durante le prove P8 e
P9; tale scostamento è da imputarsi, come già detto, all’utilizzo di una sonda ad
ossigeno in condizioni non ottimali. Per comprendere meglio i risultati ottenuti si è
deciso di riportare in un grafico le coppie di valori del tasso di respirazione ottenuti con
i due diversi strumenti, sia per lo slurry proveniente da R1 operante nelle condizioni del
Test 3 (fig. 6.23), che per quello da R2 (fig. 6.24 a). Per quest’ultimo si è deciso di
effettuare un’ulteriore elaborazione nella quale non vengono presi in considerazione i
valori delle prove P8 e P9 (cfr. fig. 6.24 b).
14
y=0,95x
r resp. chiuso [mg O2 Kg-1h-1]
12
2
R =0.933
10
8
6
4
2
0
0
2
4
6
8
10
12
14
-1 -1
r DO-stat [mg O2 Kg h ]
Fig. 6.23 Confronto respirometrica chiusa DO-stat per il Test 3 (R1).
L’obiettivo è quello di ottenere una retta del tipo y = x, sia nelle prove effettuate con lo
slurry proveniente da R1 (Test 3) che da R2 (Test 4) l’approssimazione è
soddisfacente: risulta
-
per R1 y = 0,98 x con R2 = 0,93;
-
per R2 y = 0,93 x con R2 = 0,94 se si considerano solo le settimane in cui non si
sono presentati problemi.
181
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
25
-1 -1
r resp. chiuso [mg O 2 Kg h ]
-1 -1
r resp. chiuso [mg O2 Kg h ]
25
y=0,74x
2
R =0.727
20
15
10
5
y=0,93x
2
R =0.940
20
15
10
5
0
0
0
5
10
15
20
r DO-stat [mg O2 Kg-1h-1]
25
0
5
10
15
20
25
-1 -1
r DO-stat [mg O2 Kg h ]
(a)
(b)
Fig. 6.24 Confronto respirometria chiusa e DO-stat per il Test 4 (R2)).
Come per la prima fase si nota che il tasso di respirazione decresce durante il ciclo
raggiungendo condizioni di respirazione endogena. È interessante evidenziare come
per il Test 4 i valori di respirazione siano più elevati rispetto a quelli del Test 3: è
plausibile pensare che all’interno del bioreattore si instaurino delle condizioni più
favorevoli.
Per cercare di interpretare i dati si è supposto che la domanda di ossigeno possa
essere la somma di due termini: uno costante che indica il tasso di respirazione
endogeno (a) ed uno variabile secondo una cinetica del primo ordine per rappresentare
la respirazione esogena (b 10-ct). L’equazione utilizzata, quindi, è :
y = a + b ⋅ 10 − c⋅t
[6.3]
Descrivendo il processo biologico è stato detto che la richiesta di ossigeno è imputabile
anche al contributo chimico e sembrerebbe, quindi, ragionevole cercare di inserire
questo termine all’interno dell’equazione [6.3]. Ciò non è stato preso in considerazione
perché alcuni studi precedenti (e riportati in precedenza), sempre sugli stessi slurry di
sedimenti, hanno evidenziato che la richiesta chimica è si molto elevata (circa il 50%
del totale), ma può ritenersi esaurita dopo 2 ore dall’operazione di carico/scarico
182
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
[Giordano et al., 2002]. Per ricavare i parametri della curva sono stati scartati i dati
ottenuti prima delle due ore.
I valori dei parametri ottenuti nel corso dei due test sono riportati in tabella 6.12.
Tab. 6.12 Equazione e relativi parametri per R1 ed R2.
Equazione
Test 3
y = 1,93 + 21,33 × 10 −0,46⋅t
Test 4
y = 4,74 + 18,97 × 10 −0,12⋅t
r2
Parametri
0,88
a = 1,93 ± 0,23
b = 21,33 ± 6,5
c = 0,46 ± 0,12
0,95
a = 4,74 ± 0,37
b = 18,97 ± 1,05
c = 0,12 ± 0,02
Si deduce che i valori di respirazione corrispondenti all’endogeno sono 1,93 ed 4,74
mg O2 kg -1h-1 rispettivamente per il Test 3 ed il Test 4. Dall’osservazione dei grafici
riportati nelle figure 6.25 e 6.26 si nota come la respirazione esogena possa ritenersi
conclusa dopo 24 ÷ 30 ore dall’operazione di carico/scarico.
183
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
R1
12
DOstat
y=1,93+21,33 x 10-0,46t
r [mg O2 Kg-1h-1]
10
8
6
4
2
0
0
10
20
30
40
50
t [h]
Fig. 6.25 Andamento del tasso di respirazione per il Test 3.
R2
25
DOstat
y=4,74+18,97 x 10-0,12t
r [mg O2 Kg-1h-1]
20
15
10
5
0
0
10
20
30
t [h]
Fig. 6.26 Andamento del tasso di respirazione per il Test 4.
184
40
50
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
6.3.4 Prove con aggiunta di substrato
Durante queste prove è stata adottata una configurazione chiusa per cercare di
ottenere sensibili variazioni nella curva volume di H2O2 (t) come nel caso dei fanghi
attivi (Ficara, 2000), cioè ottenere andamenti come quello mostrato in figura 6.27 per
ricavare dalla differenza tra respirazione totale ed endogena il valore della respirazione
esogena.
H2O2
H2O2 [ml], DO [mg l-1]
1
1
respirazione
endogena
respirazione
totale
DO
8
4 respirazione
endogena
0
0
1
2
3
4
tempo [min]
Fig. 6.27 Curva di titolazione in un respirometro chiuso con aggiunta di substrato.
Le prime prove sono state condotte aggiungendo acetato in quantità tale per cui nel
campione vi fossero 10 mg COD l-1. Questa concentrazione iniziale è stata scelta
facendo riferimento ai valori utilizzati con i fanghi attivi, riportati in bibliografia, e
riducendoli a causa del basso valore di OUR che si ha con lo slurry di sedimenti. Non
riuscendo ad individuare i 2 cambi di pendenza, indici rispettivamente del passaggio in
condizioni di respirazione totale e del ritorno in condizioni endogene (solo conducendo
una prova per 16 ore si è evidenziato un lieve cambio dipendenza ma, forse, dovuto
all’effetto tossico/inibente dell’acqua ossigenata) si è deciso di provare ad aumentare
progressivamente la concentrazione fino a 50 mg COD l-1. Un andamento tipico della
curva di titolazione ottenuto con slurry di sedimenti è riportato in figura 6.28.
185
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
1.4
H2O2 added [ml]
1.2
1.0
0.8
0.6
0.4
Aggiunta di acetato
0.2
0.0
0
20
40
60
80
100
120
140
t [min]
Fig. 6.28 Tipica curva di titolazione ottenuta con aggiunta di substrato.
In tabella 6.13 sono riportati i risultati delle prove condotte con slurry prelevato dal
bioreattore operante nelle condizioni del Test 3 (R1), in tabella 6.14 con slurry
prelevato dal bioreattore operante nelle condizioni del Test 4 (R2) aggiungendo
acetato.
Tab. 6.13 Risultati ottenuti nelle prove con campione proveniente da R1 ed aggiunta
di una soluzione di acetato.
Conc.
[mg COD l-1]
Peso
[g]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r es
[mg O2 kg-1h-1]
r es
var.%
10
10
10
20
20
20
30
40
50
50
50
501,3
502,9
513,0
509,0
506,1
518,9
508,3
512,9
512,8
509,7
518,7
0,99
0,95
1,36
1,23
1,62
4,52
1,08
5,68
2,66
1,43
1,44
0,9616
0,9586
0,9969
0,9631
0,9966
0,9981
0,9904
0,9964
0,9956
0,9972
0,9929
1,55
1,69
1,78
2,30
2,11
5,19
1,62
4,42
2,33
1,67
1,88
0,9936
0,9961
0,9962
0,9973
0,9969
0,9987
0,9963
0,9983
0,9969
0,9933
0,9965
0,56
0,74
0,42
1,07
0,48
0,66
0,54
-1,26
-0,33
0,25
0,43
56,1
78,2
30,8
86,6
29,8
14,6
50,2
-22,1
-12,5
17,3
29,9
186
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Tab. 6.14 Risultati ottenuti nelle prove con campione proveniente da R2 ed aggiunta
di una soluzione di acetato.
Conc.
[mg COD l-1]
Peso
[g]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r es
[mg O2 kg-1h-1]
r es
var.%
10
10
10
20
20
20
30
40
50
50
50
499,3
501,4
490,2
493,2
500,4
512,8
504,1
504,9
497,9
495,7
500,5
5,02
4,13
7,05
4,55
6,27
4,52
4,07
16,18
8,73
5,09
4,75
0,9857
0,9752
0,9960
0,9817
0,9976
0,9968
0,9923
0,9984
0,9977
0,9946
0,9956
5,10
4,63
8,05
5,69
7,39
4,83
4,57
13,64
10,03
5,77
5,69
0,9959
0,9963
0,9970
0,9960
0,9961
0,9983
0,9947
0,9989
0,9985
0,9960
0,9973
0,08
0,50
1,01
1,14
1,12
0,31
0,50
-2,54
1,29
0,68
0,94
1,5
12,2
14,3
24,9
17,8
6,8
12,4
-15,7
14,8
13,4
19,8
Vanno sottolineati i seguenti aspetti:
•
non tutte le prove sono state effettuate in condizioni endogene e può quindi essere
che non sia possibile notare nessun aumento dell’attività respiratoria dopo
l’aggiunta di acetato, anzi, sembra che la respirazione diminuisca (durante le
elaborazioni successive i risultati di tali prove non sono stati considerati);
•
durante le elaborazioni dei dati ricavati per il reattore R2 (Test 4) è stato
considerato un valore di endogeno lievemente superiore poiché queste prove sono
state condotte durante le settimane in cui si erano presentati problemi con le sonde
di ossigeno.
Attesa la difficoltà di esecuzione della prova, i risultati ottenuti sono molto variabili
anche confrontando i risultati ottenuti con la stessa concentrazione di substrato
aggiunto, ad esempio si possono osservare i valori di respirazione esogena (aumento
percentuale) ricavati con 10 mg COD l-1: per R1 56,1%, 78,2% e 30,8%.
Si è cercato di ricavare, comunque, un andamento generale e si può osservare come i
valori di respirazione esogena non dipendano apprezzabilmente dalla concentrazione
di substrato aggiunto (cfr. fig. 6.29). Nelle tabelle 6.15 e 6.16 si riportano le
elaborazioni statistiche, ricavate rispettivamente per il Test 3 e per il Test 4.
187
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
1.4
R1
R2
r es [mg O2 Kg-1h-1]
1.2
1.0
0.8
0.6
0.4
0.2
0.0
10
20
30
50
-1
Acetato [mg COD l ]
Fig. 6.29 Andamento di r esogeno in funzione della concentrazione di acetato.
Tab. 6.15 Andamento dei tassi di respirazione in R1 (media ± deviazione standard)
Conc.
[mg COD l-1]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
r es
[mg O2 kg-1h-1]
10
1,10 ± 0,23
1,67 ± 0,11
0,57 ± 0,16
20
1,43 ± 0,28
2,20 ± 0,14
0,78 ± 0,41
30
1,08
1,62
0,54
50
1,44 ± 0,01
1,06 ± 0,14
0,34 ± 0,13
Tab. 6.16 Andamento dei tassi di respirazione in R2 (media ± deviazione standard)
Conc.
[mg COD l-1]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
r es
[mg O2 kg-1h-1]
10
4,58 ± 0,63
4,87 ± 0,33
0,29 ± 0,30
20
4,54 ± 0,02
5,26 ± 0,60
0,72 ± 0,59
30
4,07
4,57
0,50
50
4,92 ± 0,24
5,73 ± 0,06
0,81 ± 0,18
Si può sottolineare come l’andamento sia confrontabile tra i due bioreattori.
Per i substrati rimanenti si è deciso di aggiungere soluzioni di etanolo e glucosio in
modo da ottenere nel campione 20 mg COD l-1; è stato mantenuto un valore
abbastanza basso perché durante l’arco della prova il substrato non viene
188
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
completamente degradato e potrebbe modificare in modo decisivo le condizioni del
bioreattore. Per ognuno di questi due substrati sono state eseguite tre prove.
Nelle tabelle seguenti sono riportati i risultati ottenuti con etanolo (cfr. tab. 6.17 e 6.18)
e glucosio (cfr. tab. 6.19 e 6.20).
Tab. 6.17 Risultati ottenuti nelle prove con campione proveniente da R1 ed aggiunta di
20 mg COD l-1 di una soluzione di etanolo.
Peso
[g]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
R2
1
513,5
1,67
0,9963
1,90
0,9960
2
512,2
1,57
0,9962
1,79
0,9961
3
512,7
1,56
0,9928
1,81
0,9962
media ± dev. st 1,60 ± 0,06
1,83 ± 0,06
r es
[mg O2 kg-1h-1]
r es
var.%
0,23
0,22
0,25
13,6
13,8
15,8
0,23 ± 0,02
Tab. 6.18 Risultati ottenuti nelle prove con campione proveniente da R2 ed aggiunta di
20 mg COD l-1 di una soluzione di etanolo.
Peso
[g]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
R2
1
528,5
3,62
0,9948
3,93
0,9934
2
513,4
4,40
0,9939
4,48
0,9958
3
520,0
1,71
0,9932
1,92
0,9945
media ± dev. st 3,24 ± 1,38
3,44 ± 1,35
r es
[mg O2 kg-1h-1]
r es
var.%
0,31
0,08
0,20
8,6
1,8
11,7
0,20 ± 0,12
Anche con questo substrato l’andamento è confrontabile tra i due bioreattori, risulta
sempre lievemente inferiore il tasso di respirazione esogena per il Test 4, anche se
non significativo.
Attesa la difficoltà di far coincidere i tempi tecnici necessari per eseguire le prove e
quelli necessari per avere più o meno gli stessi valori di base dell’endogeno, nel caso
delle prove eseguite con campioni prelevati da R1 (Test 3) si sono considerati validi
tutti i risultati.
Tab. 6.19 Risultati ottenuti nelle prove con campione proveniente da R1 ed aggiunta di 20 mg
COD l-1 di una soluzione di glucosio.
Peso
[g]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
R2
1
500,0
2,21
0,9968
2,37
0,9966
2
502,4
2,84
0,9981
3,04
0,9977
3
507,3
2,57
0,9972
2,68
0,9981
media ± dev. st 2,54 ± 0,32
2,70 ± 0,33
r es
[mg O2 kg-1h-1]
r es
var.%
0,17
0,20
0,12
7,5
7,0
4,6
0,16 ± 0,04
189
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Tab. 6.20 Risultati ottenuti nelle prove con campione proveniente da R2 ed aggiunta di
20 mg COD l-1 di una soluzione di glucosio.
Peso
[g]
r end
[mg O2 kg-1h-1]
R2
r tot
[mg O2 kg-1h-1]
R2
1
505,84
4,11
0,9949
4,36
0,9958
2
478,50
5,93
0,9976
6,59
0,9981
3
494,69
4,17
0,9971
4,46
0,9964
media ± dev. st 4,14 ± 0,04
4,36 ± 0,07
r es
[mg O2 kg-1h-1]
r es
var.%
0,24
0,66
0,29
5,9
11,2
6,9
0,27 ± 0,03
Dopo l’aggiunta di glucosio il tasso di respirazione esogeno in R2 (Test 4) risulta
superiore rispetto a R1 (Test 3), ciò, probabilmente, è da imputare al fatto che dalla
degradazione del lattosio si forma glucosio; per cui i microrganismi già acclimatati in
presenza di lattosio riescono a degradare più facilmente il glucosio.
Di seguito si riporta una tabella (cfr. tab. 6.21) in cui si riassumono i valori di
respirazione esogena ottenuti dopo l’aggiunta dei diversi substrati in concentrazione
pari a 20 mg COD l-1 mentre in figura 6.30 se ne riporta l’andamento grafico.
Tab. 6.21 Tabella riassuntiva per concentrazione 20 mg COD l-1 (valori in mg O2 kg-1h-1).
Substrato
Reattore
r es
media ± dev.st
Acetato
R1
R2
R1
R2
R1
R2
0,78 ± 0,41
0,72 ± 0,59
0,23 ± 0,02
0,20 ± 0,12
0,16 ± 0,04
0,27 ± 0,03
Etanolo
Glucosio
190
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
1.50
R1
R2
1.35
r es [mg O2 Kg-1h-1]
1.20
1.05
0.90
0.75
0.60
0.45
0.30
0.15
0.00
Acetato
Etanolo
Glucosio
Fig. 6.30 Andamento di r esogeno con concentrazione di 20 mg COD l-1.
Si nota che il substrato preferito è l’acetato, infatti si ottengono valori di respirazione
esogena quasi 4 volte superiori di quando si aggiungono etanolo e glucosio.
Probabilmente questo è dovuto al fatto che l’acetato è il substrato più degradabile tra
quelli scelti. Inoltre, si evidenzia che tra i due bioreattori non vi sono sostanziali
differenze.
191
Cap. 6
6.4
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Valutazione delle efficienze di rimozione di IPA in
reattore a bioslurry in scala pilota
Il reattore a bioslurry in scala pilota è stato alimentato (mensilmente), sia durante la
fase di avvio che di regime, con uno slurry al 13% in peso di secco. I sedimenti
utilizzati appartenevano alla categoria “oltre C” secondo la classificazione riportata nel
protocollo di Venezia.
Durante la fase di avvio (della durata di 4 mesi) non sono stati effettuati
campionamenti. Successivamente a partire dal mese di Gennaio 2002, con cadenza
mensile è partita la fase di campionamento.
La concentrazione media di IPA Totali è risultata di 14,1 (± 1.5) mg/kg secco per cui i
sedimenti in esame sono classificabili (considerando come unico parametro gli IPA)
come fanghi di tipo oltre C secondo il protocollo di Venezia.
Nella figura 6.31 vengono suddivisi gli IPA in base al numero di anelli
25
IPA [mg Kg-1TS]
20
15
10
5
0
IPA 2-3 Anelli
IPA 4 Anelli
IPA 5-6 Anelli
IPA Totali
Fig. 6.29 Distribuzione degli IPA Totali in base al numero di anelli.
In questo caso la frazione predominante è rappresentata dagli IPA a 2-3 anelli (45 %)
rispetto alle altre due frazioni.
Nella tabella 6.1 sono riportati i valori medi e le relative deviazioni standard di IPA,
suddivisi in base al numero di anelli, misurate nei campioni di slurry in ingresso ed in
uscita al bireattore.
192
Cap. 6
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Tab. 6.22 Concentrazioni medie di IPA in ingresso ed in uscita dal reattore in scala pilota
IN
OUT
% di rimozione
IPA 2-3 anelli [mg/kg TS]
6,2 ± 1,3
2,5 ± 0,2
60 %
IPA 4 anelli [mg/kg TS]
5,6 ± 0.8
2,3 ± 0,7
58 %
IPA 5-6 anelli [mg/kg TS]
6,3 ± 0,4
3,8 ± 0,3
40 %
IPA totali [mg/kg TS]
18,1 ± 1,5
8,6 ± 2,4
52 %
Sui campioni di slurry prelevati durante il mese di febbraio 2002 sono state anche
effettuate determinazioni analitiche di alcuni PCB, i risultati di tali determinazioni
analitiche sono riportate nella tabella seguente:
Tab. 6.23 Concentrazioni di PCB in ingresso ed in uscita dal reattore in scala pilota
IN
[ng/g]
OUT
[ng/g]
% di
rimozione
CB-TetraCl (87)
38,82
15,06
61,21
CB-PentaCl (101)
120,74
43,21
64,21
CB-TetraCl (66)
135,66
50,51
62,77
CB-PentaCl (110)
168,75
70,08
58,47
CB-PentaCl (118)
108,65
42,71
60,69
CB-HesaCl (153)
207,02
75,70
63,43
CB-HeptaCl(183)
27,65
12,86
53,48
CB-HeptaCl(187)
65,94
28,09
57,41
CB-HesaCl (128)
39,23
15,54
60,38
CB-HesaCl (156)
19,84
8,32
58,06
CB-HeptaCl(180)
112,63
45,47
59,63
CB-HeptaCl(170)
89,46
34,97
60,90
CB-HesaCl(169)
42,39
15,22
64,10
CB-OctaCl(194)
28,57
10,24
64,17
CB-NonaCl(206)
16,13
6,36
60,59
CB-HesaCl (132)
91,60
32,29
64,74
CB-TetraCl (28)
58,25
19,50
66,53
CB-TetraCl (74)
27,45
10,54
61,59
CB-TetraCl (52)
66,81
25,76
61,44
CB- TetraCl(70)
34,65
10,85
68,67
1500,25
573,28
61,79
PCB
PCB
193
Cap. 6
194
Presentazione e discussione dei risultati: reattori a bioslurry
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Capitolo 7
PRESENTAZIONE E DISCUSSIONE DEI
RISULTATI: IMPIANTO DI PHYTOREMEDIATION
Introduzione
Come detto nel capitolo 5, gli obiettivi relativi alla linea di ricerca riguardante i sistemi di
trattamento di phytoremediation sono stati i seguenti:
•
Verificare la capacità di alcune piante di sopravvivere in ambienti con un livello di
contaminazione superiore a quello naturale;
•
Verificare la capacità di azione delle piante sui metalli pesanti presenti nel
substrato di crescita (sedimenti).
In particolare tale linea di ricerca è stata articolata in due distinte fasi sperimentali:
•
Esecuzione di test condotti su alcune specie alofile selezionate in seguito ad un
censimento concernente le principali specie presenti nella laguna veneta al fine di
testarne la capacità di crescita su sedimenti contaminati da elementi pesanti e ad
elevato contenuto di sali e selezionare le specie da utilizzare successivamente
nell’impianto pilota;
•
Progettazione, realizzazione e monitoraggio dell’impianto pilota di phytoremediation
realizzato presso la piattaforma di inertizzazione della VESTA S.p.A. (già Azienda
Multiservizi Ambientali Veneziana, AMAV S.p.A.) in località Fusina (VE).
195
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
7.1
Esecuzione di test su specie alofile
Inizialmente sono state identificate diverse specie come potenziali candidate per
l’impiego in sistemi di phytoremediation.
In particolare, atteso l’elevato contenuto salino presente nei sedimenti, e considerato il
fatto che molte piante utilizzate per tecniche di fitoestrazione non sono in grado di
tollerare composti salati sia nel substrato di crescita che nell’acqua, si è resa
necessaria l’esecuzione di prove volte alla selezione di specie vegetali in grado di
crescere su substrati salati e contaminati da elementi pesanti; tali test sono stati
eseguiti mediante specie alofile e psammofile selezionate tre le principali presenti nella
laguna Veneta.
In particolare sono state utilizzate per l’esecuzione di tali test la Oenothera biennis, il
Limonium serotinum, il Graminacee alofite ed infine l’ Arthrocnemum fruticosus
(Salicornia Veneta).
Ciascuna specie è stata piantata in vasi (aventi un diametro pari a 18 cm) riempiti sia
con sabbia non contaminata da metalli, che con sedimenti ad elevato contenuto di
cloruri e contaminati da metalli pesanti (Tabella 7.1). Tali sedimenti (prevalentemente
sabbiosi) sono stati prelevati in una spiaggia nei pressi di un’area industriale di Bagnoli
(Napoli).
Tab. 7.1: Concentrazioni dei metalli pesanti presenti nei sedimenti prima della
piantumazione e quelle previste dal Protocollo di Venezia.
Protocollo di Venezia
Sedimenti oggetto
di studio
Classe A Classe B Classe C
Cloruri
[% TS]
0.75
As
[mg KgTS-1]
15
25
50
106
Cd
[mg KgTS-1]
1
5
20
0.4
Cr
[mg KgTS-1]
Cu
20
100
500
5.8
-1
40
50
400
40
-1
[mg KgTS ]
Hg
[mg KgTS ]
0.5
2
10
2.2
Ni
[mg KgTS-1]
45
50
150
8
Pb
[mg KgTS-1]
45
100
500
92
Zn
[mg KgTS-1]
200
400
3.000
170
Le prove, della durata complessiva di 6 mesi, sono state eseguite in triplicato e le
piante sono state mantenute all’interno di una zona coperta ricevendo la luce naturale.
196
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
I campioni di sedimenti contaminati utilizzati durante la sperimentazione sono stati
analizzati sia prima della fase di piantumazione che al termine della coltivazione (dopo
6 mesi); in particolare le determinazioni analitiche effettuate hanno riguardato la misura
delle concentrazioni dei cloruri solubili, Mercurio, Cadmio, Piombo, Arsenico, Cromo
totale, Rame, Nichel e Zinco.
Solo Limonium s. e Arthrocnemum hanno rivelato risultati interessanti. Le analisi
condotte dopo sei mesi hanno mostrato che nei vasi con Arthrocnemum fruticosum,
quattro metalli pesanti sono diminuiti come mostrato nee diagramma di fig. 7.1; il
risultato più importante ha riguardato il cloro che è stato ridotto del 53%, ciò significa
che Arthrocnemum fruticosum potrebbe consumare sali consentendo ad altre piante
(eventualmente iperaccumulatrici) di sopravvivere nello stesso substrato.
60%
% di rimozione
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Cloruri
Zinco
Piombo
Arsenico
Rame
Fig. 7.1: Percentuali di rimozione di cloruri ed alcuni metalli pesanti nei vasi piantati con
Arthrocnemum fruticosum (Salicornia Veneta)
197
Cap. 7
7.2
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Monitoraggio impianto di phytoremediation
Una volta individuate le specie vegetali (Salicornia Veneta) che meglio si adattavano
ad elevati contenuti di cloruri ed elementi pesanti, si è proceduto alla realizzazione di
un impianto di phytoremediation in scala pilota presso la piattaforma di inertizzazione
fanghi della Vesta S.p.A. in località Fusina (VE).
I sedimenti oggetto di sperimentazione sono stati prelevati dall’impianto di
disidratazione fanghi della Alles sempre in località Fusina (VE).
Come detto nel capitolo 5 l’impianto consiste di tre letti geometricamente identici,
ciascuno con una superficie superiore di 16 m2 (4 m x 4 m), una superficie di fondo di
9 m2 (3 m x 3 m) ed una profondità totale di 1.2 m.
I sedimenti sono stati alloggiati all’interno delle vasche in luglio 2001, mentre la
piantumazione delle essenze vegetali è stata effettuata in agosto 2001: due delle tre
vasche sono state piantumate (una con Phragmites australis ed una con Salicornia
veneta), mentre la terza è stata utilizzata come riferimento (attenuazione naturale). In
settembre si è proceduto alla verifica dell’attecchimento ed eventuale sostituzione delle
piante, in ottobre è stata avviata la stazione di rilevamento dei parametri ambientali.
Il ricorso all’utilizzo di Phragmites australis è stato quasi obbligato in quanto è noto che
è una pianta pioniera, in grado di tollerare i sali ed inoltre esistono applicazioni di
Phragmites nel trattamento di reflui industriali che ne hanno evidenziato la robustezza
e resistenza ai metalli pesanti.
L’impianto è stato gestito in modo da consentire la crescita di eventuali specie aliene
solo nelle vasche vegetate (denominate Vasca A quella vegetata con Phragmites
Australis e Vasca B quella vegetata con Salicornia Veneta), mentre in quella utilizzata
come riferimento (Vasca C) le piante estranee venivano periodicamente estirpate.
Inoltre si è proceduto sistematicamente alla identificazione delle eventuali specie
vegetali che si sono sviluppate sul substrato di crescita (sedimenti) e successiva
valutazione del contenuto di metalli pesanti.
198
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
7.2.1 Caratterizzazione dei sedimenti
L’analisi dei sedimenti oggetto della sperimentazione, costituiti da sabbia (per il 71%),
limo (21%) e argilla (8%), ha comportato la stima delle concentrazioni medie di metalli
pesanti, riportate in tabella 7.2, ove sono anche riportati i limiti di concentrazione
previsti dal Protocollo di Venezia, da cui si evince che i sedimenti oggetto di studio
sono classificabili come “oltre C”.
Tab. 7.2: Concentrazioni dei metalli pesanti presenti nei sedimenti prima della
piantumazione e quelle previste dal Protocollo di Venezia.
Protocollo di Venezia
Sedimenti oggetto
di studio
Classe A Classe B Classe C
Cd
[mg KgTS-1]
1
5
20
79.5
Cr
[mg KgTS-1]
20
100
500
113.2
Cu
[mg KgTS-1]
40
50
400
431.3
Ni
[mg KgTS-1]
Pb
Zn
45
50
150
75.8
-1
45
100
500
1188
-1
200
400
3.000
6230
[mg KgTS ]
[mg KgTS ]
Al momento della sistemazione nelle vasche i sedimenti presentavano una consistenza
piuttosto fluida, con un tenore di umidità di circa il 55%.
Il valore di pH misurato è stato pari a 7,9.
Nella tabella 7.3 sono riportate le determinazioni analitiche del contenuto di nutrienti:
Carbonio Organico Totale (TOC), Azoto Kjieldhal (TKN), Fosforo Totale (P-tot) e Zolfo
Totale (S-tot):
Tab. 7.3: Valori di concentrazione dei nutrienti nei sedimenti.
TOC
[%]
P-tot
[g KgTS-1]
TKN
[g KgTS-1]
S-tot
[g KgTS-1]
6.7 ± 0.9
5.9 ± 0.1
0.57 ± 0.08
39.9 ± 3.3
Particolarmente significativa risulta la contaminazione da Fosforo totale (5.9 ± 0.1 g
KgTS-1) e Zolfo totale (39.9 ± 0.1 g KgTS-1).
199
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Per quel che riguarda il fosforo totale, Pesaud et al. (1992) hanno individuato i valori
del livello di effetto più basso (che indica un livello di contaminazione che può essere
tollerato dalla maggioranza degli organismi bentici, ma che causa tossicità a poche
specie) e del livello di effetto elevato (che indica una contaminazione in corrispondenza
della quale è lecito attendersi tossicità pronunciata) rispettivamente pari a 0.6 e 2 g
KgTS-1.
Per quel che riguarda lo zolfo totale, Tack et al. (1997), affermano che i sedimenti
contaminati possono presentare un contenuto di zolfo totale superiore anche a 5 g
KgTS-1.
Infine la concentrazione media di IPA totali è risultata pari a 31.8 mg kg
–1
TS, quindi
anche con riferimento agli IPA, i sedimenti in esame sono classificabili come fanghi di
tipo “oltre C” secondo il protocollo di Venezia.
Le determinazioni analitiche hanno evidenziato il seguente contenuto di IPA (Zuin et
al., 2002):
Composto
Concentrazione
[mg kg –1 TS]
Naftalene
1.1 (0,10)
Acenaftilene
0,8 (0,04)
Acenaftene
0,2 (0,07)
Fluorene
0,2 (0,10)
Fenantrene
1.3 (0,71)
Antracene
0,7 (0,09)
Fluorantene
5.5 (0,49)
Pirene
4.0 (0,54)
Benzo[a]antracene
2.8 (0,23)
Crisene
3.4 (0,26)
Benzo[b+k+j]fluorantene
6.1 (0,39)
Benzo[a]pirene
2.5 (0,32)
Benzo[g,h,i]perilene
1.4 (1,07)
Dibenzo[a,h]antracene
0.3 (0,02)
Indeno[1,2,3-cd]pirene
1.5 (0,12)
Le frazioni predominanti sono costituite dagli IPA a 4 anelli (il 49%) e da quelli a 5-6
anelli (37%), la restante frazione (il 14%) è rappresentata dagli IPA a 2-3 anelli.
200
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
7.2.2 Valutazioni analitiche nei sedimenti
Il periodo di monitoraggio si è svolto a partire dal mese di agosto 2001 fino a tutt’oggi
(ottobre 2002), e corrisponde dunque al primo anno di funzionamento dell’impianto;
pertanto non ci si attende una significativa capacità di rimozione da parte delle piante
nel tempo, poiché, come specificato in letteratura (Gabisu e Alkorta, 2001) sono
necessari, in alcuni casi, anche tempi superiori a 10 anni.
Durante tale periodo di monitoraggio, i valori di pH presentano un andamento piuttosto
stabile (cfr. Fig. 7.2) con valori medi di 7,75, 7,93 e 7,74 rispettivamente nelle vasche
A, B e C.
10
Vasca A
Vasca B
Vasca C
9
pH
8
7
6
5
01/08/01
01/12/01
01/04/02
01/08/02
01/12/02
Fig. 7.2: Andamento del pH nel tempo misurato nelle tre vasche
Tale andamento uniforme del pH fa supporre una ridotta presenza di metalli pesanti
nelle acque di percolazione (ipotesi confermata anche dalle determinazioni analitiche di
metalli pesanti effettuate nelle acque di percolazione) infatti come è noto la
solubilizzazione di metalli avviene in condizioni di acidità del suolo (Forstner, 1995).
In figura 7.3 viene riportato l’andamento del contenuto di cloruri nel tempo rilevato nello
strato superficiale (0 – 3 cm) dei sedimenti. In particolare da tale diagramma è
possibile rilevare come dopo circa 250 giorni dall’avvio dell’impianto, l’andamento del
contenuto dei cloruri diviene uniforme nel tempo per tutte le vasche. Confrontando i
valori rilevati nelle vasche vegetate (A e B) con quella non vegetata (C) è possibile
valutare l’effetto della vegetazione sul contenuto di cloruri: nella vasca B, inizialmente
vegetata con la Salicornia Veneta si riscontra un contenuto di cloruri pari a
201
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
0.03 ± 0.01 g KgTS-1 mentre quello rilevato nella vasca non vegetata è di
1.88 ± 0.02 g KgTS-1; nella vasca A, inizialmente vegetata con Phragmites australis si
riscontra un contenuto di cloruri pari a 0.52 ± 0.05 g KgTS-1 inferiore di circa il 70%
rispetto a quello riscontrato nella vasca non vegetata.
14
Vasca A
Vasca B
Vasca C
Cloruri [g KgTS-1]
12
10
8
6
4
2
0
0
100
200
300
400
500
t [giorni]
Fig. 7.3: Andamento del contenuto di cloruri nello strato superficiale dei sedimenti nelle tre
vasche
In figura 7.3 viene riportato l’andamento dello zolfo totale e dello zolfo da solfati rilevato
nello strato superficiale (0 - 3cm) dei sedimenti durante il trattamento.
Da tali diagrammi si può notare una sensibile riduzione dello zolfo totale nella vasca A
e nella vasca B rispettivamente del 65% e 60%, mentre la riduzione di zolfo totale del
30% nella vasca C non vegetata è attribuibile al passaggio dei solfati nell’acqua di
percolazione.
La riduzione di zolfo totale nelle vasche vegetate è dovuta alla riduzione di zolfo da
solfati da imputare presumibilmente alla presenza della vegetazione, in particolare si
ha una riduzione dello zolfo da solfati nella vasca A e nella vasca B dell’85%, mentre la
riduzione di zolfo da solfati del 65% nella vasca C non vegetata è attribuibile alla
solubilizzazione dei solfati nell’acqua di percolazione; inoltre supponendo che tale
riduzione abbia luogo solo nello strato superficiale (0 – 3 cm), è possibile ricavare un
consumo di solfati per entrambe le vasche vegetate pari a 0.22 Kg S-SO4 m-2.
L’andamento temporale delle concentrazioni dei metalli pesanti rilevati nello strato
superficiale (0 - 3 cm) dei sedimenti durante il trattamento viene riportato nella tabelle
7.4 e rappresentato nei grafici di figura 7.5.
202
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
50
S tot Vasca A
S-SO4 Vasca A
S [gr (Kg TS)-1]
40
30
20
10
0
Ago 01
Gen 02
Mar 02
Mag 02
Lug 02
Set 02
Nov 02
50
S-tot Vasca B
S-SO4 Vasca B
S [gr (Kg TS)-1]
40
30
20
10
0
Ago 01
Gen 02
Mar 02
Mag 02
Lug 02
Set 02
Nov 02
50
S-tot Vasca C
S-SO4 Vasca C
S [gr (Kg TS)-1]
40
30
20
10
0
Ago 01
Gen 02
Mar 02
Mag 02
Lug 02
Set 02
Nov 02
Fig. 7.4: Andamento del contenuto di zolfo totale e zolfo da solfati nelle tre vasche
203
204
ZINCO
[g KgTS-1]
RAME
[mg KgTS-1]
PIOMBO
[g KgTS-1]
NICKEL
[mg KgTS-1]
CROMO
[mg KgTS-1]
CADMIO
[mg KgTS-1]
7.03 (0.04)
Vasca C
5.82 (0.64)
Vasca A
5.83 (0.11)
433.3 (1.3)
Vasca C
Vasca B
443.8 (17.5)
416.8 (3.0)
Vasca A
Vasca B
0.78 (0.00)
Vasca C
1.92 (0.3)
Vasca A
0.86 (0.01)
74.7 (1.0)
Vasca C
Vasca B
77.1 (0.4)
75.7 (4.5)
Vasca A
Vasca B
112.3 (0.5)
Vasca C
118.3 (10.0)
Vasca A
108.8 (0.1)
81.8 (1.9)
Vasca C
Vasca B
73.5 (0.5)
83.0 (9.3)
Vasca B
Vasca A
25/08/01
6.16 (0.52)
6.19 (0.09)
3.80 (0.02)
430.9 (4.5)
440.7 (3.2)
419.4 (0.2)
2.36 (0.42)
0.90 (0.00)
0.79 (0.04)
84.8 (2.6)
72.9 (4.7)
73.1 (1.1)
104.5 (0.1)
97.7 (21.3)
133.6 (5.9)
89.4 (0.6)
84.4 (7.5)
75.1 (3.5)
09/11/01
6.58 (0.26)
4.69 (0.05)
4.90 (0.01)
419.2 (12.0)
396.2 (10.0)
373.7 (10.8)
0.92 (0.01)
0.85 (0.02)
0.85 (0.03)
77.8 (3.2)
66.2 (2.1)
69.6 (4.3)
136.9 (0.8)
102.2 (4.2)
134.0 (22.4)
80.2 (1.8)
73.4 (1.8)
69.5 (0.1)
15/01/02
6.17 (0.11)
5.54 (0.39)
8.34 (0.01)
430.2 (3.6)
410.2 (27.6)
410.9 (0.9)
1.01 (0.01)
1.87 (0.63)
1.25 (0.20)
76.5 (0.7)
90.3 (8.1)
71.8 (3.0)
131.8 (6.2)
134.8 (7.7)
112.3 (15.2)
90.1 (1.7)
76.6 (2.5)
77.9 (6.0)
18/02/02
5.78 (0.40)
6.65 (0.76)
6.18 (1.12)
543.7 (10.7)
547.7 (11.3)
504.5 (9.1)
0.99 (0.08)
0.80 (0.05)
0.49 (0.09)
86.4 (4.8)
80.1 (2.5)
76.9 (1.2)
154.5 (20.5)
68.4 (4.9)
87.4 (8.6)
73.3 (2.4)
74.8 (1.8)
66.3 (2.6)
14/03/02
6.02 (0.09)
6.01 (0.04)
6.34 (0.30)
502.6 (12.0)
491.8 (13.3)
549.4 (7.3)
0.70 (0.08)
0.73 (0.04)
0.80 (0.11)
76.5 (2.2)
70.5 (4.4)
76.6 (3.3)
106.4 (4.4)
55.6 (7.6)
67.1 (15.1)
50.8 (14.6)
72.2 (2.2)
81.6 (1.1)
17/05/02
5.75 (0.06)
6.50 (0.03)
5.72 (0.05)
442.1 (3.1)
465.5 (6.0)
423.1 (6.1)
0.93 (0.02)
1.02 (0.03)
0.88 (o.01)
89.0 (0.5)
85.4 ((1.2)
90.7 (1.6)
135.0 (1.0)
61.3 (0.5)
65.5 (0.2)
97.8 (2.8)
68.5 (3.6)
67.7 (1.5)
15/07/02
Tab. 7.3: Concentrazioni medie di metalli pesanti presenti rilevate nei sedimenti (deviazione standard in parentesi)
75.0 (3.2)
76.9 (3.4)
68.5 (0.6)
53.8 (3.1)
48.4 (3.7)
12/11/02
0.72 (0.01)
87.5 (0.4)
77.4 (0.8)
90.2 (0.5)
635.0 (0.0)
1.10 (0.02)
6.72 (0.02)
642.3 (4.1)
n. a.
7.05 (0.09)
5.96 (0.05) 7.42 (0.05)
n. a.
n. a.
423.2 (1.8) 626.1 (8.3)
n. a.
n. a.
0.68 (0.01) 0.89 (0.01)
n. a.
n. a.
70.4 (0.1)
n. a.
110.2 (3.2) 128.0 (2.1)
85.0 (3.1)
n. a.
n. a.
39.1 (2.0)
n. a.
25/09/02
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
140
200
120
150
100
Cr [mg KgTS-1]
Cd [mg KgTS-1]
Vasca A
Vasca B
Vasca C
Vasca A
Vasca B
Vasca C
80
60
40
100
50
20
0
0
0
100
200
300
400
500
0
100
t [giorni]
400
500
3000
Vasca A
Vasca B
Vasca C
120
Vasca A
Vasca B
Vasca C
2500
Pb [mg KgTS-1]
100
Ni [mg KgTS-1]
300
t [giorni]
140
80
60
40
2000
1500
1000
500
20
0
0
0
100
200
300
400
0
500
100
200
300
400
500
t [giorni]
t [giorni]
800
10000
Vasca A
Vasca B
Vasca C
Vasca A
Vasca B
Vasca C
8000
-1
Zn [mg KgTS ]
600
Cu [mg KgTS-1]
200
400
200
6000
4000
2000
0
0
0
100
200
300
400
500
0
t [giorni]
100
200
300
400
500
t [giorni]
Fig. 7.5: Andamento del contenuto di metalli nelle tre vasche
Dalla osservazione dei grafici si evince una generale stabilità delle concentrazioni dei
metalli, in particolare per zinco, nickel e rame.
Lo zinco viene più fortemente adsorbito nella matrice solida quanto più il pH risulta al
disopra della neutralità, poiché nel sistema il pH è sempre maggiore di 7, si può
giustificare l’andamento del grafico di fig. 7.5, che vede l’elemento quasi totalmente
immobilizzato. I sedimenti oggetto di studio, sono costituiti da materiale argilloso e
sostanza inorganica, che generalmente hanno le maggiori capacità di immobilizzazione
205
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
per adsorbimento nei confronti dello zinco: gli ossidi di manganese e di ferro hanno
una capacità d’accumulo che va dal 30 al 60%, le porzioni argillose una capacità dal 20
al 45%, ed i carbonati immobilizzano il metallo in un intervallo compreso tra il 10 e il
15%.
Anche per quanto riguarda il cadmio, le condizioni di pH presenti favoriscono la sua
immobilizzazione nella matrice solida, in particolare nella frazione argillosa; la
presenza
di
fosfati
inorganici
rilevati
nei
sedimenti
favorisce
ulteriormente
l’adsorbimento dell’elemento.
Una situazione di analoga stabilità nei sedimenti si presenta per il nickel.
Il rame mostra anch’esso un andamento decisamente uniforme nel tempo, eccetto in
due campionamenti in cui è osservabile un leggero aumento di concentrazione, da
attribuire probabilmente ad una non omogenea distribuzione dell’elemento nei
sedimenti della vasca.
Il piombo manifesta un andamento oscillante nel tempo, se confrontato con gli
andamenti degli altri metalli, dovuto in parte alle stesse motivazioni addotte per il rame
(questo vale comunque per tutti i metalli), ma soprattutto all’instabilità strumentale
generata dalle numerose interferenze di altre sostanze (fosfati, carbonati, ioduri,
fluoruri e acetati).
A differenza degli altri metalli, per il cromo si osserva una generale tendenza alla
diminuzione nel tempo nelle vasche vegetate, tale comportamento viene giustificato,
come vedremo nel seguito in un accumulo del metallo stesso nei tessuti vegetali.
Nelle figure 7.6, 7.7 e 7.8 sono mostrati gli andamenti delle differenti frazioni di metalli
presenti nei sedimenti rispettivamente nella vasca A, B e C. Tali diagrammi
confermano gli andamenti rilevati nei sedimenti.
206
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
18
70
H2O
50
H2O
16
CaCl2
HCl
DTPA
CaCl2
HCl
DTPA
14
Cromo [mg (Kg TS) -1]
-1
Cadmio [mg (Kg TS) ]
60
40
30
20
12
10
8
6
4
10
2
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
16
250
12
HCl
DTPA
H2O
CaCl2
200
Piombo [mg (Kg TS)-1]
CaCl2
-1
Nichel [mg (Kg TS) ]
H2O
14
10
8
6
4
HCl
DTPA
150
100
50
2
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
250
5000
H2O
H2O
CaCl2
CaCl2
HCl
DTPA
150
100
HCl
DTPA
4000
Zinco [mg (Kg TS)-1]
-1
Rame [mg (Kg TS) ]
200
3000
2000
1000
50
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
Fig. 7.6: Andamento delle differenti frazioni di metalli nella vasca A
207
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
18
70
H2O
CaCl2
HCl
DTPA
HCl
DTPA
14
-1
50
H2O
16
CaCl2
Cromo [mg (Kg TS) ]
-1
Cadmio [mg (Kg TS) ]
60
40
30
20
12
10
8
6
4
10
2
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
18
-1
Nichel [mg (Kg TS) ]
14
250
H2O
H2O
CaCl2
CaCl2
HCl
DTPA
200
Piombo [mg (Kg TS)-1]
16
12
10
8
6
4
HCl
DTPA
150
100
50
2
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
250
5000
H2O
H2O
CaCl2
CaCl2
HCl
DTPA
150
100
HCl
DTPA
4000
Zinco [mg (Kg TS)-1]
-1
Rame [mg (Kg TS) ]
200
3000
2000
1000
50
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
Fig. 7.7: Andamento delle differenti frazioni di metalli nella vasca B
208
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
20
100
H2O
H2O
CaCl2
CaCl2
HCl
DTPA
HCl
DTPA
Cromo [mg (Kg TS) ]
15
-1
-1
Cadmio [mg (Kg TS) ]
80
60
40
10
5
20
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
18
H2O
CaCl2
HCl
DTPA
CaCl2
200
HCl
DTPA
-1
-1
Nichel [mg (Kg TS) ]
14
250
H2O
Piombo [mg (Kg TS) ]
16
12
10
8
6
4
150
100
50
2
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
250
5000
H2O
H2O
CaCl2
CaCl2
HCl
DTPA
4000
Zinco [mg (Kg TS)-1]
-1
Rame [mg (Kg TS) ]
200
150
100
HCl
DTPA
3000
2000
1000
50
0
0
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
25 ago 2001 15 gen 2002 17 mag 2002 15 lug 2002 25 set 2002
Fig. 7.8: Andamento delle differenti frazioni di metalli nella vasca C
209
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
7.2.3
Valutazioni analitiche nella fase liquida
L’attività di monitoraggio è consistita nella determinazione della concentrazione dei
metalli pesanti presenti nell’acqua di drenaggio prelevata da ciascun pozzetto di
raccolta.
I metalli pesanti presenti nella fase liquida derivano esclusivamente dalla lisciviazione
dei sedimenti, in quanto si assume non significativa la loro presenza nell’acqua di rete,
utilizzata per il l’innaffiamento iniziale dell’impianto, e nell’acqua di pioggia.
Al fine di effettuare un bilancio delle quantità di metalli presenti in fase liquida, in
corrispondenza della fase di campionamento dai pozzetti di drenaggio, è stato misurato
il livello idrico all’interno di ciascun letto. Conoscendo tale livello, è possibile risalire al
volume di acqua complessivamente presente in ciascuna vasca (assegnando a
ciascuno strato un valore medio di porosità (n) in base a quanto riportato in letteratura
tecnica).
In particolare in tabella 7.5 vengono riportati i valori di porosità assunti alla base del
calcolo ed il valore del volume dei vuoti per ciascuno strato della vasca, mentre in
figura 7.9 viene riportato l’andamento del volume dei vuoti al variare del livello idrico
misurato in vasca:
(*)
Tab. 7.5: Valori medi di porosità per gli strati delle vasche. Per i sedimenti è stato
considerato il valore di porosità media relativa all’argilla compatta.
Strato
Spessore Volume totale Volume dei vuoti
[cm]
[m3]
[m3]
0,40 (*)
0.6
8,44
3,38
Sabbia
0,30
0.2
2,34
0,70
Ghiaietto
0,35
0.2
2,11
0,73
Ghiaione
0,4
0.2
1,90
0,76
1.2
14,79
5,57
Sedimenti
Totale
210
Porosità
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
6
5
3
V [m ]
4
3
2
1
0
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
1.2
1.4
h [cm]
Fig. 7.9: Andamento del volume dei vuoti al variare del livello idrico in vasca
In tabella 7.6 vengono riportati i dati di pioggia rilevati in ciascun periodo di
campionamento ed i relativi volumi stimati di acqua presenti durante il campionamento.
Tab. 7.6: Valutazione delle quantità idriche in gioco negli intervalli di campionamento.
Periodo di rilevamento
Pioggia VA
[m3]
[mm]
VB
[m3]
VC
[m3]
18/10/01 - 09/11/01
44.4
3000 2500 2500
10/11/01 - 14/01/02
50,0
2500 2500 2000
15/01/02 - 13/03/02
52,2
2200 2200 2000
14/03/02 - 17/05/02
101
3000 3000 2500
18/05/02 - 17/07/02
216
2800 2600 2400
18/07/02 - 25/09/02
222
2100 1700 500
25/09/02 - 12/11/02
63.4
1600 1600 500
Le concentrazioni dei metalli nelle acque di drenaggio sono riportate in tabella 7.7.
In fig. 7.10 vengono mostrati gli andamenti nel tempo della massa dei metalli presenti
nell’acqua di percolazione, la massa dei contaminanti presenti nella fase acquosa è
stata determinata moltiplicando i volumi di acqua stimati per le concentrazioni dei
metalli misurate nei differenti intervalli di campionamento.
211
212
ZINCO
[mg l-1]
RAME
[mg l-1]
PIOMBO
[mg l-1]
NICKEL
[mg l-1]
CROMO
[mg l-1]
CADMIO
[mg l-1]
0.019 (0.002)
0.057 (0.015)
Vasca C
0.216 (0.002)
Vasca A
Vasca B
0.012 (0.003)
Vasca C
0.036 (0.017)
Vasca A
0.014 (0.000)
0.672 (0.400)
Vasca C
Vasca B
0.154 (0.005)
0.127 (0.048)
Vasca A
Vasca B
0.083 (0.007)
Vasca C
0.085 (0.003)
Vasca A
0.091 (0.009)
0.010 (0.004)
Vasca C
Vasca B
0.023 (0.002)
Vasca B
0.017 (0.002) 0.0016 (0.001) 0.021 (0.011)
0.553 (0.011)
0.232 (0.007)
0.384 (0.009)
0.037 (0.021)
0.017 (0.002)
0.026 (0.000)
0.526 (0.258)
0.232 (0.042)
0.223 (0.006)
0.146 (0.011)
0.128 (0.007)
0.277 (0.011)
0.039 (0.003)
0.022 (0.002)
0.350 (0.006)
0.189 (0.001)
1.184 (0.001)
0.026 (0.003)
0.010 (0.000)
0.017 (0.004)
0.335 (0.151)
0.130 (0.020)
0.170 (0.028)
0.157 (0.004)
0.079 (0.016)
0.115 (0.005)
0.058 (0.002)
0.038 (0.002)
0.088 (0.001)
Vasca A
0.011 (0.053)
0.022 (0.006)
0.067 (0.007)
0.158 (0.012)
Vasca C
0.028 (0.002)
0.033 (0.001)
18/02/02
0.029 (0.002)
0.057 (0.021)
15/01/02
Vasca B
Vasca A
09/11/01
Tab. 7.7: Concentrazioni di metalli pesanti presenti nel percolato
0.000
0.000
0.000
17/05/02
0.021 (0.000)
0.002 (0.000)
0.0025 (0.000)
15/07/02
0.126 (0.008) 0.121 (0.002)
0.090 (0.006) 0.138 (0.005)
0.004 (0.000) 0.000 (0.000)
0.039 (0.001) 0.086 (0.004)
n. a.
0.277 (0.001) 0.210 (0.002)
0.086 (0.001) 0.228 (0.002) 0.105 (0.003)
0.914 (0.004) 0.811 (0.018) 0.197 (0.002)
n. a.
0.055 (0.039) 0.025 (0.001) 0.074 (0.002)
0.027 (0.001) 0.030 (0.006) 0.057 (0.002)
n. a.
0.003 (0.138) 0.003 (0.000) 0.000 (0.000)
0.003 (0.122) 0.002 (0.000) 0.000 (0.000)
n. a.
0.213 (0.098) 0.084 (0.002) 0.132 (0.013)
0.130 (0.002) 0.079 (0.005) 0.157 (0.013)
n. a.
0.049 (0.000) 0.116 (0.010) 0.113 (0.003)
0.030 (0.000) 0.104 (0.011) 0.118 (0.001)
n. a.
0.034 (0.006)
0.063 (0.002)
14/03/02
0.072
0.090
0.270
0.031
0.028
0.033
0.001
0.001
0.001
0.064
0.061
0.081
0.072
0.099
0.112
0.008
0.007
0.007
25/09/02
n.a.
0.026
0.0370
n.a.
0.028
0.031
n.a.
0.002
0.003
n.a
0.073
0.089
n.a
0.209
0.222
n. a.
0.005
0.006
12/11/02
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
500
500
Vasca A
Vasca B
Vasca C
Vasca A
Vasca B
Vasca C
400
300
Cr [mg]
Cd [mg]
400
200
100
300
200
100
0
0
0
100
200
300
400
500
0
100
200
300
400
500
3000
1000
Vasca A
Vasca B
Vasca C
800
Vasca A
Vasca B
Vasca C
2500
Pb [mg]
Ni [mg]
2000
600
400
1500
1000
200
500
0
0
0
100
200
300
400
500
0
400
100
200
300
400
500
3000
Vasca A
Vasca B
Vasca C
Vasca A
Vasca B
Vasca C
2500
300
Zn [mg]
Cu [mg]
2000
200
1500
1000
100
500
0
0
0
100
200
300
400
500
0
100
200
300
400
500
Fig. 7.10: Andamento delle masse di metalli presenti nelle acque di percolazione
L’osservazione dell’andamento dei grafici relativi alle masse dei metalli nella fase
liquida del sistema, presenta una situazione di generale uniformità nel tempo per
quanto riguarda il cadmio, il nichel, il rame e lo zinco, del resto tale comportamento era
previsto attesi i valori di pH misurati nei sedimenti. Per il piombo ed il cromo invece, la
situazione appare diversa: il primo aumenta nel tempo, mentre per il secondo si nota
una progressiva riduzione, imputabile ad un assorbimento da parte della vegetazione.
Una valutazione del fenomeno della lisciviazione può essere ottenuta confrontando la
massa dei contaminanti presenti in fase liquida con quella contenuta nei sedimenti al
momento della sistemazione nelle vasche.
213
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Ipotizzando per i sedimenti sistemati in vasca un peso secco nell’unità di volume (γd) di
1630 KgTS m-3 si è provveduto alla stima delle masse di metalli pesanti presenti al
momento della sistemazione nelle vasche (cfr. tabella 7.7). Il confronto tra le quantità di
metalli in fase liquida e in fase solida viene espresso come rapporto (in unità per mille)
tra le medesime, considerando come massa nel liquido quella che ha il valore più alto
in tutto il periodo di monitoraggio (cfr. tab. 7.7).
Tab. 7.7: Confronto tra la massa di metalli inizialmente presente nei sedimenti di ogni vasca
e la massa dei metalli pesanti presenti nelle acque di percolazione al 15 luglio 2002
Sedimenti
Metallo
Percolato
Concentrazione Massa Vasca A Vasca B Vasca C
[mg/kg TS]
[Kg]
[‰]
[‰]
[‰]
Cadmio
79,48
1.1
0.13
0.08
0.09
Cromo
113,12
1.6
0.21
0.19
0.19
Nickel
75,82
1.0
0.42
0.33
0.32
1.187,17
16.3
0.00
0.00
0.00
Rame
431,31
5.9
0.03
0.03
0.03
Zinco
6.228,08
85.7
0.01
0.01
0.01
Piombo
Da un esame della tabella 7.7 è evidente che la frazione di contaminanti che passa
dalla fase solida alla fase liquida per lisciviazione è decisamente trascurabile.
214
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
7.2.4 Valutazioni analitiche nella vegetazione
Durante la sperimentazione sono stati prelevati in più occasioni (marzo, maggio, luglio,
settembre e novembre) campioni di vegetazione ed analizzati per valutarne il
contenuto di metalli pesanti.
Va osservato che a partire dal mese di maggio 2002 nella vasca B la Salicornia è
scomparsa completamente (appartenendo alla varietà annuale) ma si sono sviluppate
nuove specie pioniere non alofile che hanno completamente colonizzato la superficie
della vasca. Anche nella vasca A, accanto alla Phragmites, sono comparse nuove
piante pioniere non alofile. Nella vasca C non vegetata, cominciano a comparire alcune
piante erbacee pioniere alofile solo a partire dal mese di maggio 2002, e come detto
nel capitolo 5 tale vegetazione è stata periodicamente asportata.
Tab. 7.7: Impianto nel mese di maggio 2002
Vasca A
Vasca B
Vasca C
La vegetazione aliena si è sviluppata in modo non uniforme nelle tre vasche,
evidenziando una diversità numerica di specie ed una biodiversità sia all’interno delle
singole vasche che tra queste e le specie cresciute naturalmente nei pressi
dell’impianto.
In occasione del campionamento di luglio 2002 nella vasca A, oltre a Phragmites
australis, presente per il 90% della copertura totale con una lunghezza media del fusto
di 120 cm ed una profondità dell’apparato radicale di circa 30 cm, compaiono Conyza
Canadensis, Sonchus oleraceus, Polygonum hydropiper, Aster tripolium e Conyza
albida (fig. 7.11). Per quel che riguarda la vasca B si osserva che la vegetazione sorta
spontaneamente si è distribuita su tutta la superficie della vasca e che Salicornia
veneta è pressoché scomparsa totalmente, rimpiazzata da Conyza Canadensis,
Sonchus oleraceus, Polygonum hydropiper Aster tripolium, Conyza albida, Senecio
inaequidens e Daucus carota. Nella vasca C, la vegetazione spontanea occupa circa il
50% della superficie della vasca, in particolare si tratta di Conyza Canadensis,
215
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Sonchus oleraceus, Polygonum hydropiper e Conyza albida, da rilevare, inoltre, la
presenza di alcuni esemplari di Calistegia sepium.
Durante il campionamento di settembre 2002, le essenze vegetali sopravvissute
(molte annuali hanno terminato il ciclo biologico e sono quindi scomparse) si
presentavano particolarmente rigogliose (fig. 7.12). Le lunghezze del fusto e
dell’apparato radicale arrivano rispettivamente fino a 130 cm e 35 cm in Phragmites
australis; fino a 143 cm e 21 cm in Conyza albida; fino a 139 cm e 22 cm in Conyza
canadensis; fino a 166 cm e 25 cm in Aster tripolium; fino a 75 cm e 20 cm in
Polygonum hydropiper. Particolarmente interessante è l’assenza di alcune specie
vegetali presenti nelle vasche all’esterno delle stesse, ossia sui terreni intorno
all’impianto: questo fenomeno è evidente soprattutto per Conyza albida e Conyza
canadensis.
Nella Vasca A si nota una riduzione della popolazione di Phragmites australis ed un
aumento di Conyza albida, dimostratasi pianta estremamente competitiva e
particolarmente adattabile alle condizioni del substrato. Per quanto riguarda le piante
presenti al precedente rilevamento, si osservano la cospicua riduzione di Poligonum
hydropiper e la scomparsa di Sonchus oleraceus (fine ciclo biologico) e di Conyza
canadensis.
Nella Vasca B si è assistito ad un notevole aumento della popolazione di Conyza
albida ai danni di Conyza canadensis, alla scomparsa di Daucus carota e di Sonchus
oleraceus per la fine del ciclo biologico (come testimoniato dalla contemporanea
scomparsa nell’ambiente esterno alle vasche); vi è inoltre una riduzione delle rimanenti
specie presenti nel campionamento precedente.
Nella Vasca C è evidente un incremento della percentuale di copertura vegetale totale,
sebbene quest’ultima non raggiunga ancora i valori delle altre vasche, è possibile
osservare una netta prevalenza di Conyza albida.
Durante il campionamento di novembre 2002 (fig. 7.13), le uniche specie presenti
nelle vasche sono Phragmites australis, Conyza albida, Conyza canadensis, Aster
tripolium (solamente nelle vasche A e B) e Senecio inaequidens (solamente nella
vasca B), le dimensioni della lunghezza del fusto e dell’apparato radicale sono
rispettivamente di 145 cm e 40 cm in Phragmites australis; di 160 cm e 22 cm in
Conyza albida; di 135 cm e 21 cm in Conyza canadensis. Senecio inaequidens
mantiene le medesime dimensioni del campionamento precedente.
Rilevanti sono le condizioni di senescenza delle due specie di Conyza le quali,
sebbene abbiano raggiunto una notevole densità (14 esemplari m-2), sono comunque
216
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
piante annuali e perciò si avviano gradualmente verso la scomparsa.
Nella Vasca A, rispetto al campionamento di settembre, è evidente un aumento di
Conyza albida ai danni di un ulteriore riduzione di Phragmites australis. Polygonum
hydropiper è scomparsa mentre sono ancora presenti alcuni esemplari di Aster
tripolum.
La Vasca B è interamente colonizzata dalla popolazione di Conyza albida e di Conyza
canadensis, notevolmente aumentata. Senecio inaequidens e Aster tripolium riempiono
le zone più esposte ai raggi solari.
Nella Vasca C, l’unica specie vegetale sopravvissuta è Conyza albida (108 piante) che
si è sviluppata su quasi tutta la superficie della vasca a discapito delle altre specie
presenti in precedenza. Dopo il campionamento, la vasca è stata riportata alle
condizioni iniziali mediante sradicamento delle piante per attuare il ripristino del ruolo
originario, vasca non vegetata.
In particolare nella tabella 7.9 sono riassunte le specie vegetali che via via si sono
susseguite all’interno di ciascuna vasca.
Tab. 7.9: Identificazione delle specie vegetali susseguitesi nelle tre vasche.
Periodo di
rilevamento
Vasca A
18/10/01 - 17/05/02 • Phragmites Australis
• Phragmites Australis
• Conyza canadiensis
17/05/02 - 15/07/02
• Polygonum hydropiper
• Sonchus Oleraceus
• Aster Tripolium
• Conyza sp.
• Phragmites Australis
• Conyza canadiensis
15/07/02 - 25/09/02 • Polygonum hydropiper
• Conyza sp.
• Aster Tripolium
• Phragmites Australis
• Conyza canadiensis
25/09/02 - 12/11/02 • Polygonum hydropiper
• Conyza sp.
• Aster Tripolium
Vasca B
• Salicornia Veneta
Vasca C
Assente
• Sonchus Oleraceus
• Daucus carota
• Conyza canadiensis
• Polygonum hydropiper
• Senecio inaequidens
• Aster Tripolium
• Polygonum hydropiper
• Conyza canadiensis
• Sonchus Oleraceus
• Conyza sp.
• Conyza sp.
• Conyza canadiensis
• Conyza canadiensis
• Polygonum hydropiper • Polygonum hydropiper
• Conyza sp.
• Conyza sp.
• Aster Tripolium
• Aster Tripolium
• Conyza canadiensis
• Polygonum hydropiper • Conyza canadiensis
• Conyza sp.
• Conyza sp.
• Aster Tripolium
217
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Vasca A:
Conyza canadensis (25 piante)
Sonchus oleraceus (20 piante)
Polygonum hydropiper (18piante)
Aster tripolium (6 piante)
Conyza albida (5 piante)
Vasca B:
Conyza canadensis (100 piante)
Sonchus oleraceus (60 piante)
Polygonum hydropiper (50 piante)
Conyza albida (40 piante)
Senecio inaequidens (20 piante)
Daucus carota (20 piante)
Aster tripolium (14 piante)
Vasca C:
Conyza albida (40 piante)
Polygonum hydropiper (25 piante)
Sonchus oleraceus (8 piante)
Conyza canadensis (7 piante)
Fig 7.11: Immagini delle 3 vasche dell’impianto in occasione del campionamento del
17/07/2002 e stima del numero di piante rilevate.
218
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Vasca A:
Phragmites (80% di copertura)
Conyza albida (20% di copertura)
Polygonum hydropiper (3 piante)
Aster tripolium (3 piante)
Vasca B:
Conyza albida (60% di copertura)
Conyza can. (20% di copertura)
Polygonum hydropiper (12 piante)
Senecio inaequidens (10 piante)
Aster tripolium (6 piante)
Vasca C:
Conyza albida (50 piante)
Conyza canadensis (20 piante)
Polygonum hydropiper (6 piante)
Fig 7.12: Immagini delle 3 vasche dell’impianto in occasione del campionamento del
25/09/2002 e stima del numero di piante rilevate.
219
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Vasca A:
Conyza albida (50% di copertura)
Phragmites (40% di copertura)
Conyza canadensis (9 piante)
Aster tripolium (2 piante)
Vasca B:
Conyza albida. (200 piante, 60% di
copertura)
Conyza canadensis (150 piante,
40% di copertura)
Senecio inaequidens (16 piante);
Aster tripolum (3 piante).
Vasca C:
Conyza albida (108 piante)
Fig 7.13: Immagini delle 3 vasche dell’impianto in occasione del campionamento del
12/11/2002 e stima del numero di piante rilevate.
220
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Nella Vasca B vegetata con Salicornia Veneta è stata misurata una riduzione del
contenuto di cloruri di circa il 70% (cfr. fig. 7.2) rispetto a quello rilevato nella vasca C
non vegetata, tale riduzione probabilmente ha favorito la crescita di specie spontanee
già a partire dal mese di marzo 2002 osservata in occasione del campionamento
effettuato nel mese di marzo.
Ciò conferma l’effettivo potenziale di rimozione salina espletato dalla Salicornia veneta,
rispondente alle specifiche di progetto che prevedevano la possibilità su un impianto
pilota di far vegetare fitospecie diverse.
In fig 7.14, viene riportato il contenuto di metalli presenti nella Salicornia veneta
prelevata dall’impianto confrontati con il contenuto di metalli presenti in alcuni
esemplari prelevati (nel mese di maggio) dal luogo originario, ma ad un diverso stadio
vegetativo: un campione presumibilmente giovane dato il limitato sviluppo della sua
parte aerea (alta circa 4 cm), e l’altro in uno stadio di sviluppo più avanzato (altezza di
circa 15 cm).
Per quanto riguarda le piante prelevate nel luogo originario si osserva che le
concentrazioni dei diversi elementi sono simili nei due stadi di sviluppo della specie, ciò
indica che il ritmo di prelievo dei metalli si mantiene costante nel tempo.
Un confronto diretto tra la specie dell’impianto e quelle prelevate dal luogo originario
non sarebbe del tutto corretto perché le piante appartengono a due annate differenti.
Dagli istogrammi si evince che le piante di Salicornia raccolte nell’impianto di
phytoremediation hanno mostrato concentrazioni superiori rispetto a quelle delle
popolazioni del luogo originale solo nel caso del nickel. Tutti gli altri elementi presi in
considerazione sono stati assorbiti solo in parte da queste piante, essendo le loro
concentrazioni comparabili, e talvolta inferiori a quelle delle piante del luogo di origine.
Diversi fattori possono concorrere a questo comportamento: il tenore di sodio del luogo
di origine può essere superiore a quello delle vasche o, più probabilmente, la presenza
di concentrazioni tossiche di diversi metalli pesanti può influenzare negativamente
l’intero metabolismo della pianta compromettendone la funzionalità; in tal modo anche
la capacità di assorbire metalli può essere negativamente influenzata.
221
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
50
100
Parte radicale
Parte aerea
Parte Radicale
Parte Aerea
40
Cr [mg KgTS-1]
Cd [mg KgTS-1]
80
60
40
20
30
20
10
0
0
Impianto
Adulta
Giovane
Impianto
500
Adulta
Giovane
Adulta
Giovane
Parte radicale
Parte aerea
200
Pb [mg KgTS-1]
400
Ni [mg KgTS-1]
Giovane
250
Parte radicale
Parte aerea
300
200
100
150
100
50
0
0
Impianto
Adulta
Giovane
Impianto
100
500
Parte radicale
Parte aerea
Parte radicale
Parte aerea
400
Zn [mg KgTS-1]
80
Cu [mg KgTS-1]
Adulta
60
40
20
300
200
100
0
0
Impianto
Adulta
Giovane
Impianto
Fig. 7.14: Confronto tra il contenuto di metalli nella Salicornia raccolta presso l’impianto e
due esemplari prelevati dal luogo originario
Relativamente a Phragmites australis, va osservato che nel campionamento di marzo
la specie non era in piena attività vegetativa, presentandosi essiccata nella sua parte
aerea, mentre nel mese di maggio l’attività metabolica visivamente era in pieno
sviluppo.
In fig. 7.15 è riportato il contenuto di metalli pesanti rilevato in Phragmites australis
raccolta presso l’impianto di phytoremediation
222
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
50
500
Parte Radicale
Parte Aerea
Parte radicale
Parte aerea
450
Cr [mg KgTS-1]
Cd [mg KgTS-1]
40
475
30
20
425
400
100
75
50
10
25
0
0
14-mar-02 17-mag-02 15-lug-02 25-set-02 12-nov-02
14-mar-02 17-mag-02 15-lug-02 25-set-02 12-nov-02
160
140
Parte radicale
Parte aerea
140
120
100
-1
Pb [mg KgTS ]
Ni [mg KgTS-1]
120
Parte radicale
Parte aerea
100
80
60
40
80
60
40
20
20
0
0
14-mar-02 17-mag-02 15-lug-02 25-set-02 12-nov-02
14-mar-02 17-mag-02 15-lug-02 25-set-02 12-nov-02
120
8000
Parte radicale
Parte aerea
7500
100
Parte radicale
Parte aerea
Zn [mg KgTS-1]
Cu [mg KgTS-1]
7000
80
60
40
6500
6000
2000
1500
1000
20
500
0
0
14-mar-02 17-mag-02 15-lug-02 25-set-02 12-nov-02
14-mar-02 17-mag-02 15-lug-02 25-set-02 12-nov-02
Fig. 7.15: Contenuto di metalli in Phragmites australis raccolta presso l’impianto di
phytoremediation.
Dai diagrammi riportati in fig. 7.15 si osserva che il contenuto di metalli pesanti rilevati
in Phragmites australis presenta un andamento variabile nel tempo, attingendo i valori
massimi in corrispondenza dei campionamenti di maggio e luglio 2002, ossia quando la
Phragmites era in pieno sviluppo. In generale la frazione con maggiore potere
assorbente è rappresentata dalla parte radicale
In tabella 7.9 vengono confrontati i valori di alcuni metalli pesanti rilevati nella parte
aerea (foglia) della Phragmites raccolta dall’impianto e dal luogo originario da cui è
stata prelevata.
223
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Tab. 7.9: Concentrazioni di metalli nella parte aerea della Phragmites raccolta presso
l’impianto e dal luogo originario
Luogo
Impianto
Originario 14/03/02 17/05/0 15/07/02 25/09/02 12/11/02
Cadmio [mg Kg TS-1]
0.0
0
[mg Kg TS ]
12.2
0
Piombo [mg Kg TS-1]
0.2
Nickel
-1
-1
16.7
0.25
0.11
22.0
8.0
50.4
17.4
14.6
3.8
2.5
7.4
1.0
Rame
[mg Kg TS ]
4.9
37.3
11.9
22.1
14.3
3.4
Zinco
[mg Kg TS-1]
84
400.5
1270
430
201
67.4
Le parti aeree di Phragmites prelevate dall’impianto di phytoremediation mostrano
concentrazioni di metallo sempre superiori rispetto a quelle delle popolazioni del luogo
originario a conferma dell’estrazione di questi metalli da parte delle piante.
Infine nelle tabelle 7.10, 7.11 e 7.12 viene riportato il contenuto di metalli pesanti
rilevato nella vegetazione cresciuta spontaneamente all’interno delle tre vasche e
raccolta in occasione del campionamento del rispettivamente 17 luglio 2002, 25
settembre 2002 e 12 novembre 2002.
Dall’analisi della tabella 7.11 si evince che il contenuto di metalli nella vegetazione
presenta una generale stabilità rispetto al campionamento precedente, ad eccezione
del cromo il cui contenuto in Conyza canadensis si riduce di un ordine di grandezza,
viceversa nel caso dell’apparato radicale di Conyza albida il contenuto di cromo triplica.
Tale comportamento potrebbe essere imputabile a meccanismi fisiologici meritevoli di
ulteriori approfondimenti.
Esaminando la tabella 7.12 si nota che il contenuto di tutti i metalli monitorati nella
vegetazione (in particolare nel genere Conyza) si riduce drasticamente. La riduzione
del contenuto di metalli che nel caso di Conyza canadensis era stata già rilevata nel
campionamento di settembre 2002, si manifesta anche per Conyza albida; il ritardo del
fenomeno di riduzione del contenuto di metalli pesanti, è probabilmente imputabile da
un lato al differente periodo vegetativo delle due specie (sembrerebbe che solo nello
stadio iniziale di crescita si verifichi un significativo uptake di metalli pesanti) e dall’altro
ad un fenomeno di diluizione per cui all’incremento della biomassa vegetale non
corrisponde un proporzionale aumento dell’uptake di metalli.
224
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Tab. 7.10: Concentrazioni di metalli rilevati nella vegetazione cresciuta spontaneamente in
occasione del campionamento del 15 luglio 2002
Cadmio Cromo Nickel Piombo Rame Zinco
[mg Kg TS-1]
Radici
65.4
55.9
23.5
52.5
89.4
1409.3
Parte aerea
30.7
56.0
8.7
-
16.3
345.4
Radici
51.5
69.2
36.6
256
131.7
2253
Fusto
76.8
50.9
8.5
4.5
37.0
430.0
Foglie
37.0
84.0
15.3
10.8
48.9
535.2
Frutti
10.5
400.4
33.7
164.1
77.8
323.7
Radici
Conyza
Canadensis Fusto
37.9
381.2
76.1
331.8
132.0
1121
27.5
399.7
73.7
303.6
125.0
824
Radici
23.7
324.3
25.9
227.2
90.3
1394
Fusto
13.2
377.1
42.8
302.5
67.3
1693
Soncus
Daucus
Conyza
Albida
Tab. 7.11: Concentrazioni di metalli rilevati nella vegetazione cresciuta spontaneamente in
occasione del campionamento del 25 settembre 2002
Cadmio Cromo Nickel Piombo Rame Zinco
[mg Kg TS-1]
Radici
15.0
94
41.4
15.0
104.3 1157
Parte aerea
14.5
80
47.8
14.8
41.7
Polygonum Radici
hydropiper Fusto
14.7
110
47.8
14.7
121.3 1547
40.5
85
37.6
40.5
22.6
309.3
Radici
Conyza
canadensis Parte aerea
45.2
48.5
49.5
45.2
115.6
712
30.2
6.0
23.7
30.2
71.1
1438
30.6
950
29.1
30.6
95.7
1465
3
440
100.7
2.6
57.8
291
Aster
tripolium
Conyza
albida
Radici
Parte aerea
884
Tab. 7.12: Concentrazioni di metalli rilevati nella vegetazione cresciuta spontaneamente in
occasione del campionamento del 12 novembre 2002
Cadmio Cromo Nickel Piombo Rame Zinco
[mg Kg TS-1]
Radici
Conyza
canadensis Parte aerea
Conyza
albida
Radici
Parte aerea
4.9
21.7
8.5
13.4
24.2
173
7.5
13.2
16.9
24.5
30.8
359
5.0
10.1
15.7
6.1
19.3
189
0
5.2
14.3
0.2
14.2
359
225
Cap. 7
Presentazione e discussione dei risultati: impianto di phytoremediation
Una volta analizzato il tenore di metalli nelle diverse frazioni delle specie vegetali
presenti nell’impianto, è stata stimata la percentuale di ciascun metallo assorbita dalla
vegetazione rispetto a quella presente inizialmente nello strato superficiale (3 cm) di
sedimenti ipotizzando una produzione di biomassa vegetale pari a 1,2 kg m-2 (valore
abbastanza ragionevole per il tipo di vegetazione).
I risultati sono riportati in tabella 7.13.
Tab. 7.13: Masse totali dei metalli presenti nei tessuti vegetali
Strato 3cm
% nella vegetazione
Vasca A Vasca B sedimenti
Vasca A – Vasca B
[g]
Cadmio
[g]
1.3
1.6
41.2
3.1 % - 3.9 %
Cromo
[g]
12.8
14.7
58.9
21.7 % - 25.0 %
Nickel
[g]
2.2
2.9
39.2
5.7 % - 7.4 %
Piombo
[g]
9.6
11.2
619
1.5 % - 1.8 %
Rame
[g]
3.5
4.8
224.8
1.6 % - 1.9 %
Zinco
[g]
38.2
44.8
3250
1.2 % - 2.4 %
Come si osserva dalla tabella, la percentuale di metalli assorbita dalla vegetazione
rispetto a quella inizialmente presente nei sedimenti è sempre inferiore al 7% ad
eccezione del cromo per il quale tale valore risulta del 21 % e del 25 % rispettivamente
nella vasca e nella vasca B, confermando quindi la riduzione di cromo riscontrata nello
strato superficiale dei sedimenti.
226
Conclusioni
CONCLUSIONI
Il problema del risanamento dei sedimenti marini contaminati sta assumendo, nei paesi
industrializzati, sempre maggiore rilevanza, in virtù dei sensibili impatti, sia diretti che
indiretti, che ad esso sono associati nei confronti dell’uomo e, più in generale, degli
ecosistemi ambientali.
Il problema deriva dall’esigenza, imprescindibile, di dragare periodicamente i sedimenti
che si accumulano sul fondo di porti, fiumi e vie di comunicazione d’acqua al fine di
mantenere le profondità utili di navigazione. La presenza di sostanze inquinanti in livelli
non accettabili, solitamente adsorbite alla frazione fine dei sedimenti, impone, a valle
del dragaggio, il trattamento dei sedimenti stessi, che non possono essere
direttamente scaricati a mare, per evitare di contaminare ulteriormente l’ambiente
acquatico.
Nell’ambito del presente lavoro di tesi sono state organizzate e sviluppate due diverse
campagne sperimentali, volte a verificare la possibilità di trattare mediante processi
biologici sedimenti marini contaminati prelevati dai fondali di Porto Marghera, nella
laguna di Venezia. In particolare, avvalendosi di:
•
reattori a bioslurry, sia in scala di laboratorio che pilota, operanti in modalità semibatch, è stata valutata la trattabilità di sedimenti contaminati da IPA;
•
un bacino pilota di phytoremediation è stata verificata l’efficienza di rimozione dei
metalli pesanti.
In entrambi i casi, le difficoltà operative e la scarsa quantità di informazioni sui processi
biologici applicati ai sedimenti marini contaminati, hanno imposto l’esigenza di
condurre la sperimentazione attraverso più fasi.
I risultati ottenuti durante la sperimentazione sulla trattabilità biologica di sedimenti
lagunari in fase semisolida contaminati da IPA hanno dimostrato che la microflora
autoctona si adatta alle condizioni ambientali che si determinano all’interno degli SSSBR, consentendo di raggiungere efficienze di rimozione degli IPA totali anche
superiori al 55%. Lo slurry così trattato, ai sensi del Protocollo di Venezia, rientrerebbe
nella classe B, e quindi potrebbe essere usato “per gli interventi riguardanti il recupero
e il ripristino di isole lagunari, realizzati in maniera tale da garantire un confinamento
permanente del materiale utilizzato così da impedire ogni rilascio di inquinanti nelle
acque lagunari”.
227
Conclusioni
Ulteriori indagini sperimentali potranno, in futuro, consentire di ottenere informazioni
più dettagliate in merito all’ottimizzazione dei parametri fondamentali per il
dimensionamento degli SS-SBR. Particolare attenzione dovrà essere posta al tempo
totale del processo, in quanto una riduzione dei tempi di trattamento (tempo del ciclo)
comporterebbe notevoli vantaggi in termini di volumetrie da assegnare al reattore.
Inoltre, si potrebbe condurre una sperimentazione mirata alla ricerca di tensioattivi
biologici, e delle relative modalità di utilizzo, in grado di migliorare i rendimenti di
rimozione per tutte le classi di IPA.
La campagna sperimentale condotta per valutare l’applicabilità dei processi di
phytoremediation ha consentito l’individuazione di una caratteristica flora spontanea di
specie vegetali che hanno mostrato ottime capacità di assorbimento di metalli pesanti
ed in grado di tollerare la presenza, nel substrato di crescita, di elevati contenuti sia di
cloruri che di metalli pesanti.
In particolare, durante il primo anno di trattamento, il contenuto di metalli pesanti,
presenti nello strato superficiale, si è mantenuto pressoché costante nell’intero periodo
di osservazione ad eccezione del cromo, per il quale si osserva una riduzione di circa il
30%, imputabile all’assorbimento dello stesso metallo da parte della vegetazione,
complessivamente i tessuti vegetali contengono un quantitativo di metalli inferiore al
7% di quelli inizialmente presenti nello strato superficiale dei sedimenti, nel caso del
cromo si riscontra un valore del 24 % – 30% Nelle acque di percolazione la
concentrazione dei metalli ha mostrato un andamento decisamente stabile e la frazione
di metalli che passa dalla fase solida a quella liquida è trascurabile.
Le piantine cresciute spontaneamente nelle vasche, sistematicamente identificate,
hanno mostrato interessanti livelli di metalli pesanti: rame, nickel, cadmio, zinco,
piombo e soprattutto cromo hanno raggiunto concentrazioni largamente superiori
rispetto ai valori riportati in letteratura. In considerazione sia delle rilevanti
concentrazioni di metalli rilevate che della capacità che dette piantine hanno mostrato
nel tollerare elevati livelli di cloruri, Sonchus oleraceo, Conyza sp., Polygonum
hydropiper e Daucus meritano ulteriori approfondimenti per valutarne l’impiego nel
trattamento di fanghi salati contaminati da elementi pesanti.
Il proseguimento del periodo di monitoraggio protratto nel tempo consentirà di valutare
eventuali effetti più significativi sulla qualità dei sedimenti e del percolato quando
l’apparato radicale arriverà a coinvolgere l’intero strato di sedimenti.
228
Appendice
PROCEDURE ANALITICHE
Solidi Totali (TS) e Solidi Volatili (VS)
Con il termine sostanza secca, indicato con TS (Total Solids), si intende il residuo che
permane in una capsula dopo evaporazione di un campione ed il suo susseguente
essiccamento in stufa a temperatura di 105 °C. Le sostanze volatili, VS (Volatile
Solids), rappresentano la differenza tra i solidi totali e le ceneri ottenute per
calcinazione a 550 °C.
I solidi totali sono stati determinati applicando la metodica 2540 B dello Standard
Method (1995): il campione e la tara (capsula di porcellana) vengono pesati
(rispettivamente Pesonetto e Pesotara), il campione viene essiccato per almeno 12 ore in
stufa a 105°C e dopo raffreddamento si pesa nuovamente (Peso105°C). I solidi volatili ed
il residuo fisso sono ricavati seguendo la metodica 2540 E dello Standard Method
(1995): il campione viene pesato, calcinato in muffola a 550°C e, dopo raffreddamento,
pesato nuovamente (Peso550°C).
I solidi totali ST e volatili SV si ottengono da:
[
] (Peso
[
] (Peso
ST g ⋅ kg −1 =
SV g ⋅ kg −1 =
[g] − Peso tara [g])
⋅ 1000
Peso netto [g]
105° C
[g] − Peso 550°C [g])
⋅ 1000
Peso netto [g]
105° C
229
TOC
Il calcolo del contenuto di TOC (Total-Organic-Carbon) è stato effettuato avvalendosi di
un analizzatore di carbonio prodotto dalla Shimadzu (modello TOC-V SSM 5000). La
procedura si svolge in 2 fasi distinte. La prima prevede la determinazione del Carbonio
Totale (TC) ponendo modeste aliquote di sedimento (40-60 mg), preventivamente
essiccate (in forno a 50°C per 48 ore) e ridotte in polvere, all’interno di un’apposita
camera di combustione alla temperatura di 900°C, sia il carbonio inorganico che quello
organico vengono convertiti in CO2, analizzata mediante spettrofotometro ad infrarossi;
il dato viene espresso in % di carbonio totale (TC) rispetto al peso iniziale. La seconda
fase prevede la determinazione del Carbonio Inorganico (IC), una aliquota di campione
(6-11 mg) viene introdotta in una camera di combustione operante a 200°C ed
acidificata con acido fosforico 2M: la temperatura minore e l’acidificazione convertono il
carbonio inorganico in CO2, misurata poi al medesimo spettrofotometro ad infrarossi, il
dato viene nuovamente espresso in % di carbonio inorganico (IC) rispetto al peso
iniziale.
La differenza tra TC e IC, infine, esprime il TOC presente nel campione.
TKN
Il TKN - azoto Kjeldahl – è stato determinato in accordo alla metodica 4500 prevista
nello Standard Method (1995). Il principio del metodo si basa sulla trasformazione
dell’azoto organico in bisolfato di ammonio in seguito alla mineralizzazione del
campione tal quale con acido solforico (20 ml al 65%) a 350 °C per 24 ore in presenza
di K2SO4 (2 g) ed un catalizzatore. Dal bisolfato di ammonio si libera ammoniaca
tramite alcalinizzazione con idrossido di sodio 2M (20 ml). Quest’ultima viene distillata
in corrente di vapore e raccolta in una soluzione di 100 ml di acido borico in presenza
dell’indicatore verde di bromocresolo. Infine un volume di 250 ml di distillato viene
titolato con una soluzione di acido solforico 0,02 M fino al viraggio dell’indicatore dal
colore verde al colore rosa intenso.
[
]
TKN mg ⋅ l −1 =
ml titolante ⋅ N titolante ⋅ 14 ⋅ 1000
ml campione
Fosforo totale (Ptot)
Il fosforo totale è stato determinato mediante digestione con acido nitrico e perclorico
seguendo la metodica 4500-P B dello Standard Method (1995).
230
Ad un’aliquota di sedimento secco (200 mg) si aggiunge acido nitrico (10 ml al 65%) e
perclorico (4 ml al 65%) in rapporto 5/2; la miscela ottenuta viene digerita in fornetto a
microonde Mars 5 (CEM) seguendo un programma prestabilito. Il prodotto della
mineralizzazione e l’acqua (Milli-Q) di lavaggio del contenitore teflonato in cui è stata
condotta la digestione, vengono filtrati e versati in un matraccio da 100 ml e portati poi
a volume. Successivamente dalla soluzione neutralizzata con NaOH vengono prelevati
2 ml e si portano a volume in 25 ml.
La determinazione del fosforo totale ottenuto dalla digestione viene effettuata per via
spettrofotometrica secondo il metodo dell’acido ascorbico che prevede l’aggiunta di 2,5
ml di reattivo misto preparato nel modo seguente: si mescolano nell’ordine 25 ml di
acido solforico 5N con 10 ml di ammonio molibdato [(NH4)6Mo7O24*4H2O 2,4x10-2M]
con 10 ml di acido ascorbico e 5 ml di potassio antimonio tartrato [K(SbO)C4H4O*1/2
H2O 5,3*10-3M].
In ambiente acido l’ortofosfato reagisce con l’ammonio molibdato ed il potassioantimonio tartrato dando origine a composti fosfo-molibdici successivamente ridotti
dall’acido ascorbico a blu-molibdeno, dosabile colorimetricamente a lunghezza d’onda
di 700 nm. L’intensità del colore sviluppatasi è direttamente proporzionale alla
concentrazione di ortofosfato presente nel campione.
Zolfo totale
La determinazione dello zolfo totale è stata effettuata seguendo la procedura proposta
da Tuck et al. (1997).
Ad un’aliquota di 0,5 g di sedimento secco (a 40 °C per 24 ore) vengono aggiunti circa
2,5 g di NaHCO3 e 0,1 g di Ag2O; il prodotto viene posto in muffola a 550 °C per 3 ore
al fine di ossidare tutto lo zolfo a solfato.
Successivamente si pone la miscela in ebollizione per 3 ore sotto riflusso in 50 ml di
una soluzione mista carbonato/bicarbonato (2,6 mmol l-1 di Na2CO3 + 2,4 mmol l-1 di
NaHCO3) per estrarre i solfati, che vengono successivamente determinati mediante
cromatografia liquida ad alta pressione (High Performance Ion Chromatograph-Dionex
4000i).
Solfati
Un’aliquota di sedimento umido, equivalente a circa 0,5 g di materia secca, viene
estratta in 50 ml di una soluzione mista carbonato/bicarbonato (2,6 mmol l-1 di
Na2CO3 + 2,4 mmol l-1 di NaHCO3); si versa il quantitativo in un tubo da centrifuga di
231
polietilene da 250 ml, si chiude con pellicola di paraffina e si agita meccanicamente per
1 ora. Successivamente, si centrifuga (1500g x 20 min) ed il supernatante viene
analizzato mediante cromatografia liquida ad alta pressione (High Performance Ion
Chromatograph-Dionex 4000i).
Contenuto di cloruri
Il contenuto di cloruri è stato determinato in accordo ai metodi normalizzati di analisi
del suolo della Società Italiana della Scienza del Suolo: un’aliquota di sedimento
essiccato (20 gr) ed acqua Milli-Q in rapporto 1/5 vengono miscelati, centrifugati ed
infine filtrati.
L’analisi dei cloruri (Cl-) è stata eseguita mediante cromatografia liquida ad alta
pressione (High Performance Ion Chromatograph-Dionex 4000i).
Determinazione del pH
Ad un campione di sedimento setacciato a 2 mm si addiziona acqua deionizzata nella
proporzione di 1:2,5. Si agita meccanicamente per 15 minuti. Si lascia a riposo circa
un’ora e si misura il pH immergendo l’elettrodo di un pH-metro a misura diretta
(modello SA 520) nel liquido limpido. La lettura viene fatta dopo che il valore si è
stabilizzato.
Per i campioni liquidi, la misura si attua mediante immersione diretta dell’elettrodo ed
agitando lentamente.
232
Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA)
L’analisi di IPA è stata effettuata seguendo la metodica descritta dall’EPA, EPA-SW846 (1995). L’analisi si articola in tre diverse fasi. Estrazione in Soxlet, purificazione su
colonne di gel di silice e determinazione degli IPA mediante analisi GC-MS.
Si pesano circa 5-10 g di sedimento secco in un ditale di cellulosa, vi si aggiungono
circa 2 grammi di Na2SO4 Anidro e la minima quantità di lana di vetro per impedire la
fuoriuscita del campione solido dal ditale di cellulosa durante l’estrazione, e si pongono
nell’estrattore Soxhlet. Quindi si introducono 150 ml di miscela 1:1 di acetone/esano e
si procede all’estrazione a caldo (45 °C circa) per 24 ore a circa 4 cicli/ora.
Dopo raffreddamento l’estratto viene disidratato con sodio solfato anidro direttamente
nel pallone, filtrato e lavato con la miscela 1:1 di acetone/esano.
Successivamente la soluzione di acetone/esano viene fatta evaporare a 40 °C in
corrente di N2 fino a raggiungere un volume di circa 2ml. Sulla soluzione concentrata si
opera un cambio di solvente in n-pentano per permettere la successiva procedura di
purificazione su colonna di gel di silice.
La Procedura di purificazione degli IPA su colonna di gel di silice prevede la
preparazione di una colonna con 10 g di silica gel precedentemente disidratata
ponendo sul fondo della colonna la minima quantità di lana di vetro e tappando la
colonna con 1-2 g di Na2SO4.
Si solvata la colonna facendo percolare 40 ml di n-pentano che vengono scartati e
successivamente si aggiungono 2 ml di campione in n-pentano. Si eluisce quindi con
altri 25 ml di n-pentano che vengono scartati e che permettono la separazione della
frazione organica (per lo più alcani) dagli IPA.
Si eluisce quindi con 25 ml di miscela 2:3 di cloruro di metilene/n-pentano controllando
la scomparsa della fascia fluorescente caratteristica degli IPA.
L’eluato viene ridotto di volume fino a 1.5 ml in corrente di N2 a 40°C e
successivamente si opera il cambio di solvente in esano prima dell’analisi
gascromatografica.
Per l’analisi del campione purificato è stato utilizzato un gascromatografo modello
Agilent Tecnologies 5973 con rivelatore spettrometro di massa dotato di colonna
capillare 30m x 0.25 mm con una fase stazionaria dello spessore di 0.25µm costituita
dal 95% di dimetilpolisilossano e dal 5% di difenilpolisilossano. Come fase mobile
viene utilizzato elio (gas di trasporto).
233
Analisi di metalli pesanti
La determinazione dei metalli pesanti nei campioni solidi prevede 2 distinte fasi, la
prima di mineralizzazione del campione in fornetto a micronde e la seconda di lettura
allo spettrometro ad assorbimento atomico.
Ad un’aliquota di campione (500 mg) essiccata in stufa a 105o C per 24 ore si aggiunge
in contenitori teflonati acido nitrico (9 ml di HNO3 al 65%) e fluoridrico (3 ml di HF al
50%) in rapporto 3:1, la miscela così ottenuta viene digerita in fornetto a microonde
(MARS 5 della CEM) seguendo un programma prestabilito.
La soluzione mineralizzata ottenuta e l’acqua utilizzata per il lavaggio del contenitore
teflonato vengono posti in un matraccio da 50 ml, il matraccio viene portato a volume
con acqua Milli-Q ed il suo contenuto filtrato su filtri Millipore da 0,22 µm per eliminare
eventuali impurezze rimaste in sospensione.
La soluzione ottenuta viene analizzata per la determinazione delle concentrazioni dei
metalli pesanti all’assorbimento atomico con la modalità della fiamma per i solidi
(strumento Spectr AA-20 della Varian), ad eccezione del Pb e del Cd che sono stati
misurati con il fornetto di grafite (strumento Perkin-Elmer 2100). I liquidi sono stati
analizzati in fornetto di grafite.
Estrazione delle frazioni di metalli pesanti
Scopo delle seguenti determinazioni analitiche è la valutazione della estraibilità dei
metalli pesanti dai sedimenti lagunari mediante l’uso di sostanze chelanti.
Le soluzioni estraenti applicate sono le seguenti: H2O, CaCl2 0,01M, HCl 1M e DTPA
(Acido Dietiletriamminopentacetico) 0.005 moli/l.
I metalli estratti con le suddette soluzioni risultano essere rispettivamente :
1) presenti in forme solubili in acqua e quindi prontamente disponibili;
2) adsorbiti sulle superfici delle particelle solide e facilmente scambiabili;
3) associati ad ossidi di Mn e Fe;
4) precipitati come carbonati.
Estrazioni con H2O, CaCl2 0,01M e HCl 1M
Un’aliquota di sedimento umido, equivalente a circa10 g, viene aggiunta a 100 ml di
una delle soluzioni estraesti (H2O, CaCl2 0,01M e HCl 1M). La miscela ottenuta viene
posta in un tubo da centrifuga di polietilene da 250 ml; che viene coperto con pellicola
di paraffina ed agitato meccanicamente per 3 ore in agitatore alla temperatura di 22°C
a 30 rpm. In seguito, si centrifuga (3000g x 10 min) ed un’aliquota di surnatante viene
analizzata mediante assorbimento atomico.
234
La soluzione estraente con CaCl2 si ottiene sciogliendo 1,47 g di CaCl2·2H20 (0,01
moli) in 1 l di acqua Milli-Q.
Estrazione con DTPA
La soluzione estraente di DTPA viene preparata sciogliendo 0,005 moli/l di DTPA con
0,01 moli/l di TEA (trietanolammina) e portando il pH intorno a 7,3. In un litro di
soluzione vengono sciolti 14,92 g di TEA, 1,967 g di DTPA e 1,47 g di CaCl2·2H2O in
acqua Milli-Q. La soluzione è stabile per parecchi mesi.
Un’aliquota di sedimento umido, equivalente a circa 10 g, viene aggiunta a 20 ml di
soluzione estraente. Il quantitativo risultante viene messo in un tubo da centrifuga di
polietilene da 250 ml; coperto con pellicola di paraffina e si agita meccanicamente per
3 ore in agitatore termostatato a 30 rpm. In seguito, si centrifuga (3000g x 10 min) ed il
surnatante viene analizzato mediante assorbimento atomico.
235
236
Ringraziamenti
Desidero ringraziare il mio Tutor, Dott. Giuseppe Bortone, che mi ha seguito con
grande impegno e scrupolosità, tanto da rendere piacevole il mio lavoro di ricerca ed il
relatore Prof. Ing. Francesco Pirozzi per l’attenzione che ha mostrato nei riguardi del
lavoro di ricerca.
Un ringraziamento particolare va:
all’intero personale dell’ENEA che mi ha supportato (e soprattutto sopportato), in
particolare alla dott.sa Loredana Stante, alla dott.sa Carmela Cellammare, dott.
Alessandro Spagni, dott. Roberto Farina, al dott. Gilberto Garuti, dott. Franz Avorio,
all’ing. Luca Luccarini e a Meris;
al Prof Mario Malagoli del Dipartimento di Biotecnologie Agrarie dell’Università di
Padova per il prezioso contributo fornitomi nell’ambito dell’attività di phytoremediation;
agli amici della VESTA S.p.A., dott. Giorgio Marchiori e Fabio Vettorazzo;
a tutti i colleghi del Ministero dell’Ambiente per i consigli ed i suggerimenti forniti
durante la sperimentazione.
a tutti i componenti della Staz. CC di S. Giorgio la M. (BN) ed al Mar. Ca. Antonio
Peluso per aver compreso le mie esigenze.
Un ringraziamento speciale agli Studenti, ormai Dottori (o quasi), che hanno
collaborato nell’ambito della propria tesi di Laurea: Pina, Floriana, Simona, Sonia,
Alberto, Raffaele, Carletto, Steven e in particolare Paolo.
Grazie infine a Gigi, Leo e soprattutto Patty per avermi “sostenuto” con immensa (?)
pazienza.
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