l`uomo pappagallo - Storm and Light Pictures

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l`uomo pappagallo - Storm and Light Pictures
L’UOMO PAPPAGALLO
di
Inga J Sempel
Tutti i diritti riservati – Copyright 2014
…Lei ondeggia. I suoi capelli neri come lisci tentacoli di seppia ubriaca.
Apre la bocca, tocca il mio viso, il mio collo. Mi ha preso tra le sue spire, mi sta
divorando
pezzo per pezzo.
Nel vuoto della stanza, il silenzio puro incrinato solo dal suo respiro
incalzante…un respiro, poi resta sospesa, poi un altro respiro.
La sua pelle trema, piccole chiazze fioriscono sulle braccia e su quella schiena
che si arcua ad accogliermi. Come è arrendevole, come è nuda…
Aspettavo questo momento da tempo.
Lei si allenta senza paure...ecco cosa amo…lei, che non ha timore a scendere
gli abissi con me.
Lei, un tutt’uno con la sabbia del mio letto marino.
Questo suo artigliarsi alle mie lenzuola, avvolgerle intorno a se nel vano
tentativo di celare questo corpo che mi si sta sciogliendo tra le dita.
Non vergognarti, amore mio, non sfuggirmi…
Vuoi che ti insegua? Eccomi, creatura maldestra, lo sto facendo.
Ti afferro di nuovo, non preoccuparti, torna ad abbandonarti tra le mie mani,
ecco così…
La sovrasto e la domino, la posseggo, la faccio mia per sempre.
I suoi occhi si espandono, diventano increduli, poi trasparenti, infiniti, la
bocca ancora più aperta a mostrarmi la danza dei suoi denti bianchi.
É zitta al mio volere, è la sua resa ad un sentimento che finalmente sgorga in un
piacere soffocato, gocciolante. Si avviluppa disperatamente ai miei polsi
e alla mia volontà.
Ferma così…così, ci sono quasi…
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Il mio nome è Philip, ho cinquanta cinque anni e vivo qui da due.
Si sta bene qui; c’è silenzio, tepore, luce. Gli unici rumori che sento sono il
fruscio dei miei pantaloni e le voci indistinte e sfocate del mondo là fuori.
Non mi interessa cosa succede al di là di queste mura, ci sono già stato, so
cosa trovarvi e non mi attira più. Ho giocato abbastanza là fuori, in una partita
di cui non sono sicuro di aver mai compreso le regole fino in fondo.
Mi sono rotolato nei rumori, nelle persone, nei gesti; ho percorso strade,
svoltato angoli, mi sono lasciato trasportare da scale mobili, respirato gli odori
di chi non ti conosce nemmeno, ho stretto la mano di chi nemmeno ti ricorderà.
Tutta una corsa lenta, e poi veloce, a volte inebriata di felicità, di speranza,
gorgogliante di aspettative nervose, punteggiata da telefonate inaspettate o
colorata all’improvviso da un incontro che ti fa sfrigolare il cuore; altre volte
fiaccata dal peso dei vestiti bagnati sotto la pioggia, sfibrata dalla stanchezza di
un altro giorno nebbioso, indolenzita dalla prospettiva di un’alba senza
rinascita.
È difficile comprendere quello che dico?
Eppure io so perfettamente cosa voglio dire, ho le immagini qui, impresse
nella mia testa e guizzanti tra le mani. Ma se sono costretto a raccontarle, ecco
che il mio solito, testardo problema si ripresenta.
È come se le parole che mi escono lasciassero l’interlocutore stordito dalla
loro incongrua abbondanza, confuso su quale aggettivo inseguire per carpirne il
senso. Lo vedo nei suoi occhi; chi mi ascolta - per un tempo di solito limitato ad
un massimo di un minuto - incrocia le sopracciglia sulla fronte e mi scruta
perplesso.
Pazienza, io non so spiegare le cose diversamente. Perdo spesso il filo di
quello che dico, mi lascio trasportare dai miei pensieri come un bambino segue
incosciente il suo aquilone e poi, quando si rende conto che vuole
riacchiapparlo, il filo è andato troppo in alto e non ce la farà mai a
riprenderselo; proprio ieri dalla finestra, ho visto questa scena.
Un bimbo guardava il suo aquilone alto e irraggiungibile in cielo e con le sue
braccia stanche e indolenzite dopo una caccia infruttuosa, si è allontanato
sconsolato.
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L’aquilone delle mie divagazioni mi porta lontano ma mi rende talvolta
incomprensibile alle persone comuni.
Cosa intendo per comuni? Niente di classista, per carità. La linea di confine
tra persone comuni e non comuni è l’abisso. Chi non ha un abisso con cui fare i
conti tutti i giorni, rimane un essere comune ai miei occhi. Non è colpa loro,
l’abisso bisogna sentirselo crescere dentro e bisogna diventare un tutt’uno con
esso per poter capirne il linguaggio e le conseguenze.
Ma credo che tutto questo diventerà più chiaro ed evidente nel corso del mio
racconto. Mi servirà tempo e concentrazione.
I medici mi dissero subito che avrei perso in parte la capacità di
concentrarmi, di mantenere la mia attenzione su un argomento o di mantenere la
lucidità di pensiero ai livelli a cui la possedevo prima.
E che sarebbe stato un grosso colpo per un uomo di scienza come me.
Era vero, non sarei stato più quello di prima e me ne sarei reso conto. Giorno
dopo giorno, nella mia vita del dopo, ho percepito la mia lentezza nel tenere
testa ai ragionamenti, il mio essere un bradipo intellettivo; vedere e sentire gli
altri procedere velocemente nella elaborazione delle informazioni ed io ad
arrancare, a raccattare le briciole.
Adesso tutto questo non importa più, finalmente. Adesso so che quella
nebulosa che avvolge la mia testa e i miei sensi non aveva molto a che fare con
ciò’ che mi dissero i medici. Ma, ripeto, adesso non importa più.
Anzi, non bisogna mai sottovalutare la nascosta preziosità dei, per così dire,
handicap; se chi ti sta intorno non si aspetta che tu riesca a tenere il passo, una
cosa meravigliosa accade. Nessuno si cura del fatto che tu vaghi altrove.
In altri termini, nessuno si cura che tu ti metta ad inseguire un aquilone.
E non sanno cosa si perdono! Correre col fiato in gola col braccio teso per
afferrare pensieri, sensazioni e ricordi è una sensazione di libertà infinita,
drogante. I polmoni si riempiono di aria nuova, il cuore galoppa stordito e la
mente grida “Lasciatemi solo nel mio labirinto!” in un tumulto di eterne
divagazioni…senza, non sarei qui oggi, in questa pace, in questo tepore.
È incredibile la varietà di uccelli che anima il cielo. Quante volte
volteggiano sulle nostre teste, guardiani superiori dei nostri percorsi terreni.
Loro, che hanno il coraggio di volare, la possibilità di posarsi a terra,
valutare, osservare e poi ripartire, su nel cielo, sospesi nel nulla con la leggera
noncuranza della loro carcassa vuota. Loro, che possono volare a braccetto con
gli aquiloni, vedere il mondo dall’alto di una montagna e non sentirsene
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inghiottiti. Se Dio avesse deciso di far parte di questo mondo, avrebbe scelto di
essere un uccello. E forse io lo avrei ammirato di più.
Credo di aver perso il filo…mi succede sempre, ogni volta che il mio
ragionare incappa in argomenti che mi fanno ricordare un mondo che non dovrò
subire più.
Una molla. Il corpo e la mente sono una molla, che se viene schiacciata e
tenuta giù per evitare che rimbalzi accumula energia e una volta rilasciata, ha il
potere di lanciare se stessa con un vigore estremo, una forza inarrestabile. La
mia testa inizia a pulsare e le mie mani si ingolfano; se le stringo a pugno,
l’interno diventa tutto bianco, quasi cereo e un formicolio insolente sale su per
le braccia a segnalare al cervello che la mia circolazione sanguigna si sta
impuntando nel punto sbagliato del mio corpo.
Sono sensazioni che ormai conosco bene e siccome so a cosa possono
portare, ecco, appoggio la testa qui sul cuscino e respiro forte per qualche
secondo. Permetto all’aria che ispiro di raffreddare e calmare il ribollire del mio
pensiero.
E guardo fuori…la finestra sul cielo.
Chissà dove si trova Paco adesso. Se è con gli aquiloni. O a terra.
Il giorno in cui l’ho lasciato volare via, sapevamo entrambi dove saremmo
approdati. Ci siamo guardati negli occhi, per quanto assurdo possa sembrare, e
poi io ho aperto la porticina della sua gabbia, quella stessa porticina che lo
aveva protetto da se stesso per così tanto tempo.
Ma io quel giorno scorsi un barlume nei suoi occhi: dalla mattina continuava
a saltare da un trespolo all’altro senza sosta, le piume gonfie, pronte a spiccare
un volo impossibile, e cantava, cantava smanioso e insistente.
Voleva che mi accorgessi di lui, io che dalla notte precedente ancora mi
tenevo la testa tra le mani, che strizzavo gli occhi per allontanare da me ciò a
cui avevo assistito impotente la sera prima. Gridava non per il cibo, no, ricordo
esattamente di averlo rifornito di mangime a volontà proprio in modo che non
mi disturbasse in quel momento.
E lui invece continuava, invasato da un urgenza che doveva essere
soddisfatta.
Mi voltai verso di lui e lui smise di colpo: era arrivato il momento. Il
momento che entrambi aspettavamo. La molla stava per essere rilasciata.
La porticina scricchiolò e lui, dapprima dubbioso e forse intontito dalla
stanchezza, non seppe avanzare i passi necessari a spiccare il volo. Ma quando
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vide che aprivo la finestra, quello stesso quadrato azzurro che vedo io adesso,
allora sì che si fece coraggio e saltò trepidante sul davanzale.
Io accanto a lui che osservavo il tappeto di case, lo scintillare delle auto in
fila sotto il sole, il tepore del sole che preannunciava l’estate e il cielo terso,
infinito, glorioso.
Paco spiccò il volo e io mi voltai. Non volevo sapere dove era diretto e dove
sarebbe approdato. Mi diressi verso il telefono.
Adesso sono seduto qui. Senza più la mia testa tra le mani.
Che sollievo…lo stesso che deve aver provato Paco a sentirsi finalmente
diretto verso il proprio destino, il proprio posto nel mondo. Per la prima volta.
Come me…
Vedo che è impaziente. D’accordo, iniziamo.
Mi permetto di offrirle uno spunto per la nostra chiacchierata da ora in poi.
La mia storia è una storia evolutiva e come tale, tenga bene a mente un
concetto: il pollice opponibile. Quel semplice strumento che ha permesso
all’uomo di dominare ogni altra specie vivente sulla terra.
Se io non avessi posseduto questo strumento, non saremmo qui oggi a
parlare della mia esistenza e del perché essa abbia subito una tale evoluzione.
Ho voglia di un caffè, posso offrirne uno anche a lei?
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Devo dire che ero nervoso. Potevo sentire il brusio delle voci provenire
dall’altra parte, camuffato dal legno pesante della porta. Tentai di allentarmi la
cravatta un poco per muovere meglio il collo e impedire a quella vena alla
tempia di pulsare così insistente. Non ho speranze: fare il nodo alla cravatta non
sarà mai un’impresa facile per me. Tantomeno lo era stata quella mattina,
quando ripetevo nella mia testa come mi sarei presentato e come avrei iniziato,
osservando la mia faccia sbarbata davanti allo specchio. Le mie mani
sembravano rifiutarsi di intrecciare la stoffa intorno al mio collo, forse loro
stesse temevano che per il nervosismo avrei potuto soffocarmi.
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Ma tutto, come al solito, si era risolto ed ero uscito di casa, devo ammetterlo,
fresco e leggero come un ragazzino al primo giorno di scuola in una bella
giornata di sole.
Adesso era arrivato il momento di affrontare quel brusio indistinto di voci.
Aprii la porta e me li trovai davanti: tutti ad osservarmi come un esemplare
raro in un’arena. I loro volti impassibili, fissi ad aspettare me. Qualche sbadiglio
da coloro che si trovavano seduti ai lati, dove si ritenevano al sicuro
dall’attenzione altrui. C’era odore di legno, probabilmente proveniente dai
pesanti banconi disposti ad anfiteatro intorno a me. Ero circondato, era fatta.
Non mi restava altro che respirare quell’odore e farlo mio.
“Buongiorno, vedo che siete numerosi oggi. Bene.”
Avanzai verso la cattedra con le mani in tasca, i loro sguardi che mi
seguivano e mi analizzavano.
Mi sedetti, appoggiandomi allo schienale morbido della poltrona, le mani sui
braccioli di legno scuro. E sorrisi. Soddisfatto. Tutto il nervosismo di qualche
ora prima era sparito e io avevo finalmente raggiunto il mio posto.
Una ragazza dalla prima fila di banchi mi sorrise. Un ragazzo vicino a lei si
gingillava con un portachiavi mentre masticava fiaccamente una gomma. Un
altro sbadigliò di nuovo dal proprio rifugio all’angolo estremo dell’aula.
“Sapete già chi sono e quindi non mi perdo in presentazioni. Cominciamo
con l’aprire quelle tende e far entrare un po’ di luce e di colore dal cortile.”
Un ragazzino sottile e livido si alzò e spalancò le tende pesanti per dare
ingresso a quella che effettivamente era una gloriosa luce esterna.
“Vi prego anche di spegnere i vostri computer e di chiudere i vostri libri.
Oggi non vi serviranno. Non preoccupatevi, potrete tornare ad essi appena finita
la nostra chiacchierata.
La nostra università è molto prestigiosa e voi siete qui per diventare domani
portatori di un messaggio là fuori, in quel cortile, in quel mondo”.
Qualcuno sbuffò in una risata soppressa.
Mi alzai, feci il giro della cattedra e mi appoggiai col sedere ad essa, le mani
incrociate lungo il corpo.
“Dicevo, se siete qua a studiare in questa prestigiosa università è per un
motivo ben preciso. Il mio compito sarà quello di scoprirlo assieme a voi.
Il corso di etologia rappresenta una tappa fondamentale nel percorso di uno
studioso del mondo animale; capire le regole fondamentali secondo le quali gli
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animali agiscono e interagiscono gli uni con gli altri serve a capire il loro ruolo
nel mondo naturale. E il nostro ruolo nel mondo.
Questo è il motivo per cui sedete qui oggi e per il quale pagate fior fiore di
soldi per essere parte di questo edificio.
Dovete aprire la vostra mente ad ascoltare gli animali prima di studiarli in
manuali o di analizzarne i corpi in un laboratorio. Ciò che essi ci insegnano, ciò
che ci suggeriscono, ciò che ci trasmettono è la conoscenza più preziosa che
possiate acquisire. Noi siamo animali d’altronde.
E voi dovete uscire da qui e portare il messaggio della nostra bestialità.
La bestialità rappresenta, nel suo significato intrinseco, la nostra origine e
per la fine del nostro corso, sarà anche il nostro obbiettivo”.
Ah, se avessi potuto fotografare le facce che mi si palesavano davanti ad
ogni parola che pronunciavo! Labbra pendule, smorfie di disapprovazione,
sopracciglia incrociate a respingere la stupidaggine dei miei concetti.
“Immagino abbiate già sentito parlare di Konrad Lorenz. Vedo che alcuni di
voi possiedono già qualcuno dei suoi manuali.
Lorenz ha avuto il merito di bagnarsi il culo per ore nelle acque oceaniche
per studiare i comportamenti aggressivi dei pesci colorati delle barriere
coralline. La connessione tra noi e quei pesci è imprescindibile; le regole che
valgono per loro, valgono anche per noi. Questo corso sarà un’immersione nel
loro oceano e nel nostro oceano di esseri umani. Ma senza bagnarsi il culo, ve lo
prometto”.
La ragazza che prima sorrideva, adesso rideva divertita.
“Domande?”
Silenzio.
“Bene, sicuramente ne avrete molte più avanti. Vorrei dedicare le prime
nostre lezioni all’opera di Lorenz “L’aggressività”.
Nessuno di voi lo ha letto ancora? Non importa, lo farete nei prossimi mesi.
A coloro che sono scettici farà piacere sapere che questo libro ha suscitato
molte critiche ed è pieno di lacune e di teorie ormai considerate errate.
Ma un concetto importante rimane intaccato: l’aggressione come pulsione
intrinseca in ogni animale, compreso l’uomo.”
Mi staccai dalla scrivania e cominciai a passeggiare avanti e indietro davanti
ai miei studenti, cercando di nuovo di allentare la cravatta che ancora una volta
si aggrappava stretta al mio collo.
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“Quando parlo di aggressione badate bene che non mi riferisco
all’aggressione, ad esempio, del leone verso la gazzella. Mi riferisco
all’aggressione entro la stessa specie. L’aggressività tra animali della stessa
specie ha una funzione di conservazione della specie, non è mai distruttiva.
È selettiva, mira a selezionare il migliore, il più forte, a difendere un
territorio, ad attrarre l’attenzione delle femmine. Un po’ come sta facendo lei,
praticando la ruminazione come tecnica di attrazione della signorina seduta qui
accanto”
Osservai il giovane prestigiatore di portachiavi che riluttante si sfilò la
gomma dalla bocca per alzarsi e buttarla nel cestino.
“Avete mai visto un cervo uccidere il proprio rivale in un duello? No, o
almeno molto raramente. Adesso ditemi se questo succede anche nell’uomo”.
Mi stavo accalorando, stavo raggiungendo il punto dove, nonostante
l’ostacolo della cravatta, avevo programmato di arrivare.
“L’uomo è l’unico animale che aggredisce i propri simili per il puro piacere
di uccidere. Intrinsecamente non c’è differenza tra ognuno di noi e un cecchino
che spara dall’alto di un palazzo ad una folla di bambini che escono da scuola.
Ve lo garantisce uno come me, che rifiuta qualsiasi forma di violenza e vuole
vivere un’esistenza più pacifica e serena possibile. Anzi mi considero un essere
umano felice”.
Fu allora che la mia memoria uscì da quella stanza, da quell’odore di legno
per tuffarsi di nuovo nella mia stanza, davanti a quello specchio mentre mi
vestivo poche ore prima.
Le mani di Anne erano sopraggiunte in mio aiuto; quelle mani e quel
profumo di spezie, leggero, volteggiava vicino a me, mentre lei abilmente aveva
in quattro e quattr’otto creato un nodo fermo, deciso e ben stretto intorno al mio
collo.
“Non credi sia troppo stretto?” avevo fatto notare io, divincolandomi
divertito.
“Se non stringi abbastanza, si scioglie”
Era vero, Anne mi aveva stretto in un nodo di amore e devozione che non si
sarebbe mai sciolto. Un nodo che mi faceva pulsare le vene nelle tempie ogni
volta che respiravo quell’odore di spezie.
Decisi di smettere di combattere con la cravatta.
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“Ecco perché dobbiamo recuperare la nostra bestialità. Per allontanarci e
neutralizzare ciò di cui siamo capaci, compresa la nostra abilità di saper
compromettere consapevolmente la nostra esistenza su questo pianeta.
In questo gli animali sanno gestire se stessi molto più intelligentemente di
noi, non si estingueranno mai per libera scelta”.
Lasciai un momento di pausa per vedere questo ultimo concetto penetrare le
teste di quei ragazzi e godermene l’effetto.
Il giovane livido che aveva aperto le tende per me alzò il braccio per
richiamare la mia attenzione.
“Se non sbaglio, le teorie di Lorenz sono state palesemente contraddette
dalla teoria della frustrazione e del rifiuto. Quindi che senso ha riportarla in vita
come una verità conclamata?”
Quel ragazzo mi piaceva! Stava sfidando il mio approccio, la mia lezione e
faceva barcollare tutti i preparativi che avevo fatto la sera prima alla mia
scrivania, mentre Anne lavorava a maglia nella poltrona accanto a me.
Come il cervo al suo duellante, mi aveva lanciato il guanto della sfida e io
avevo voglia di combattere. Avremmo lottato con le armi delle nostre rispettive
convinzioni e non ci saremmo uccisi.
“Perché voglio che voi mi sfidiate su quale delle due teorie sia la più
affascinante. O la più pericolosa. O entrambe queste cose. Altrimenti, vi
avverto, spenderemo un anno intero ad annoiarci a vicenda, come sta facendo
quel signore lassù che non smette di sbadigliare”.
Tutta la classe si voltò verso dove il mio sguardo si era posato e il possessore
dello sbadiglio perpetuo si ritrovò accerchiato dagli occhi di tutti puntati su di
lui. Un po’ come era successo a me appena ero entrato nell’aula; era divertente
vedere il disagio della nudità dipinto sulla faccia di qualcuno che non fosse me
stesso.
“Potrebbe dirci tra uno sbadiglio e l’altro se, secondo lei, aggrediamo per
natura o per reazione, ammesso che ne sia capace?”
Il giovane sbadigliante ebbe una smorfia di impazienza.
“Pensavo di essere alla facoltà veterinaria, non a quella di psicologia”
E con quella frase, aveva rilanciato strafottente la palla della nudità a me;
tutti tornarono a voltarsi verso la cattedra, dietro alla quale le mie gambe
sapientemente mi riportarono a sedermi.
L’odore di legno diventò marcio e fui assalito da una nausea rabbiosa e
prepotente. Le mie mani tornarono a tremare e a formicolare impercettibilmente
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come era successo con la cravatta, divennero incapaci di posarsi stabili e decise
sui braccioli della poltrona. Le dovetti incrociate sul grembo, affinché l’una
fermasse l’altra, affinché il pollice dell’una bloccasse il pollice dell’altra.
Qualcuno aveva solo saputo sbadigliare sulle mie parole. Per uccidere me e le
mie convinzioni. Sarebbe stato un duello mortale, questo.
“C’è un fondo oscuro dentro di noi. Un pozzo dove scorre un’acqua
primordiale, una corrente incessante di stimoli… Basta esserne consapevoli, per
neutralizzare la sua carica distruttiva e diventare esseri pacifici che agiscono
secondo natura”.
Il mio sfidante alzò gli occhi al cielo in segno di incomprensione, gli altri si
fecero seri, forse anch’essi presi in contropiede da quelle mie parole che
apparentemente non c’entravano niente con l’appunto rivoltomi.
Dovevo uscire da quell’aula. E sfilarmi la cravatta.
“Ho finito per oggi, approfondiremo tutti i singoli aspetti di questa breve
introduzione nelle prossime settimane. E se è vero, come dice Lorenz, che
l’umorismo e il sapere sono due grandi speranze dell’umanità, vi consiglio di
sorridere molto, oltre a studiare.
Almeno che non vogliate soccombere alla vostra innata aggressività”.
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Il collega professore di anatomia si fece strada nel mio ufficio senza
chiedermi se poteva entrare o meno. Non era da lui.
“Devo farti le mie congratulazioni, Philip. Non vedevo gli studenti così
sconvolti da quando il precedente professore di patologia dette fuoco al
laboratorio, bruciando vive una ventina di cavie. Ricordo ancora che uscì dalla
stanza piena di fumo con un topo ustionato e se lo passava da una mano all’altra
come una polpetta troppo cotta”.
“Credo che tu stia esagerando in entrambe le tue affermazioni” presi posto
sulla mia poltrona, davanti alla mia scrivania, nel mio ufficio. Nel giro di una
settimana avevo trasformato tutto lì dentro per renderlo mio e ci ero riuscito.
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Avevo portato libri, su libri, su libri e anche la mia collezione di soldatini.
Adesso la stanza nuda e neutra era guarnita degli strumenti necessari per
lavorare felice e protetto da ciò che amavo: gli animali e la guerra.
“Siediti, dai. E raccontami da dove viene tutto questo stupore”
“Non sto scherzando. Erano attoniti, forse hanno anche pensato che tu sia
matto”
Il mio collega mi faceva molta tenerezza; magro, incerto, traballante nei suoi
gesti di scienziato e nei suoi dialoghi da essere umano. Era come se si reggesse
ad una balaustra invisibile, dai chiodi allentati; lo avevo visto aggirarsi nei
corridoi dell’università qualche giorno prima e per poco non mi ero affrettato a
sorreggerlo e a farlo sedere. Ma lui continuava imperterrito e umile nella sua
camminata silenziosa e minuta, fatta di passi insicuri e friabili. Non cadeva mai
e non gli cadeva mai niente di mano, ma la sensazione era che fosse sempre
bisognoso di aiuto e di sostegno, altrimenti si sarebbe sbriciolato prima di
entrare in aula per la lezione. I suoi occhiali spessi e marroni lo rendevano
ancora più insicuro, la miopia era la sua protesi, la sua dichiarazione di
vulnerabilità al mondo; parlava ed era impossibile per l’interlocutore capire se il
suo sguardo fosse focalizzato nel dialogo o fosse rimasto incastrato dietro al
vetro delle lenti.
E allora in ogni suo colloquio con gli studenti e con i colleghi si creava una
vaghezza comunicativa, una fila di puntini di sospensione alla fine di ogni frase,
che rendeva l’interazione umana per entrambe le parti un’esperienza difficoltosa
e sostanzialmente inutile.
Tutti gli riservavano un’attenzione minima, fatta di conversazioni frettolose
e di saluti al volo. Lui afferrava quei saluti, risucchiava tutto il suo sapere, che
era vastissimo e variegato, e si avviava verso il suo ufficio camminando a filo
della invisibile balaustra d’appoggio, i libri stretti sotto braccio e la mano a
ricacciare la propria autostima nella tasca della giacca. Mi chiedevo da dove
venisse tutta quella fragilità e prima o poi glielo avrei chiesto.
Certo il successo o insuccesso della mia prima lezione doveva aver avuto
una eco incredibile se il collega era riuscito a sormontare la balaustra e
presentarsi nel mio ufficio prendendo l’iniziativa di un dialogo.
Forse, pensai, aveva solo bisogno di essere partecipe di una rivoluzione di
qualche tipo. Forse gli serviva un terremoto che lo scuotesse finalmente in un
boato tremendo, lo facesse cadere e gli permettesse di ricostruirsi più forte e più
solido di prima. Gli era già successo quando il precedente collage patologo era
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uscito dai fumi del laboratorio con un topo ridotto a polpetta e adesso il nuovo
terremoto era apparentemente la mia lezione di poco prima.
“Raccontami un po’: cosa credi ci sia di così matto in quello che ho spiegato
ai ragazzi?”
“Beh…mi permetto di pensare che possa essere l’approccio che hai seguito.
O meglio, il modo con cui ti sei rivolto a loro. Le parole usate…”
“Si concordo. Ma non so insegnare diversamente e la mia materia richiede
una dose di schiettezza indispensabile per essere compresa nella sua utilità”
Mi chinai verso il collega dall’altra parte della scrivania.
“Come pensi che possano diventare un giorno dei bravi veterinari se non
imparano a mettersi sullo stesso piano dell’animale che stanno curando? Non si
capiranno mai”
“Si certo, credo che l’empatia e la compassione siano componenti
importanti, ma noi insegnami scienza. E se tu destabilizzi gli studenti,
paragonandoli a dei cecchini, non puoi non aspettarti di essere visto come un
sovvertitore e provocatore”.
Il collega pronunciò queste parole con una impercettibile invidia e voluttà, in
cuor suo geloso che quegli epiteti non avrebbero potuto mai essere riferiti a lui.
Sorrisi, per nulla offeso o sorpreso dalle sue parole.
“La scienza avulsa dalla consapevolezza di se stesso come essere umano da
parte dello scienziato è pura nozionistica. Se tu li punzecchiassi e li
sconvolgessi facendoli dubitare di se stessi e del proprio posto in questo
edificio, ti considererebbero o un pazzo o un genio ma sicuramente si
ricorderebbero delle tue lezioni”
Il collega sorrise del piacere che si ha a ricevere la formula magica della
propria rinascita. La consapevolezza di se stesso che aveva perduto
camminando sorretto dalla balaustra.
(…)
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Decisi di dedicare la mia vita agli animali quando incontrai il vecchio mulo
di mio nonno. Quella bestia malconcia e silenziosa passava il suo tempo a
ruminare nella stalla, a razzolare nella paglia, protetta dalla pioggerellina
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insistente che sembrava non abbandonare mai la casa in campagna di mio
nonno.
Io ero un bambino e osservavo la sua piccola casa e la sua piccola stalla
affascinato; c’era sempre odore di thè caldo appena fatto.
Mio nonno se ne preparava una tazza e poi usciva nell’umido del cortile,
attraversava le galline, e si dirigeva nella stalla a far compagnia al suo mulo.
Mi portava con sé e io adoravo passare del tempo da lui perché mi insegnava
un sacco di cose sulle piante, gli insetti e la guerra.
La guerra che lui aveva combattuto con il suo mulo: al fronte, nel fango fino
alla pancia, mio nonno mi diceva di come aveva incontrato il suo leale
compagno di battaglie e di digiuni.
E quando mi raccontava le sue storie, voleva farlo nella stalla, lui con la
tazza fumante di thè e il mulo con le narici fumanti di freddo.
Ho sempre pensato che fossero molto simili, sia nel colore sbiadito dei
capelli e del manto, sia nel loro comune atteggiamento di riposo e
contemplazione del mondo. Dalla porta della stalla, si affacciavano ad un
mondo circostante fatto di verde, quiete, vento e silenzio, appagati dall’ozio
faticosamente riconquistato.
Entrambi avevano visto le stesse orrende cose ed entrambi erano rimasti
feriti in battaglia.
Al mulo mancava una delle zampe anteriori e quindi ora, nelle passeggiate
che mio nonno gli faceva fare quando era bel tempo, camminava grazie ad una
ruota di legno che mio nonno gli legava con dei lacci alla schiena e al collo e
che gli funzionava da quarta zampa. Con quella groppa eccessivamente arcuata
a mostrare i mesi di pesi, munizioni e vettovaglie che aveva dovuto sopportare
per anni, il vecchio animale grottescamente meccanizzato camminava tutto
inceppato, a singhiozzi.
Io camminavo a fianco di mio nonno che con il solo braccio rimastogli dava
una pacca sul sedere al mulo per farlo partire.
Prendevamo stradine nascoste e protette dai cespugli e a me piaceva pensare
che eravamo ancora tre soldati intenti a goderci una scappatella dal campo di
battaglia. Volevo che quelle ore non finissero mai e ogni volta che mio padre
veniva poi a riprendermi, salutavo con la stessa nostalgia il nonno e il mulo.
Un giorno gli posi una domanda bruciante che mi tormentava da tempo:
“Perché non gli hai mai dato un nome?”
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Mio nonno sorrise alla mia ingenuità malcelata dalle mie sopracciglia
aggrottate e dalla seriosità del mio tono di voce.
“Non ha bisogno di un nome, lui. É l’unico amico che ho e gli amici si
riconoscono anche se non hanno un nome”
Io non capii. A scuola ognuno di noi aveva un nome, serviva eccome a
riconoscersi, a prendersi in giro, a passare la responsabilità di un errore al
compagno di banco. Chissà perché mio nonno si rifiutava di dare un’identità al
suo animale.
“E allora come fai se lui si perdesse, a chiamarlo?”
“Lui non si perderà. Non può stare lontano da me e io da lui; l’uno senza
l’altro non sarebbe qua oggi. Ti ho mai detto come ci siamo incontrati?”
Eccome se me lo aveva detto: mille volte. E quando io avevo chiesto alla
mamma perché il nonno si fissava a raccontare gli stessi episodi, lei sosteneva
che era colpa della vecchiaia e della sua testardaggine di voler vivere da solo in
mezzo al nulla. Ecco perché mi portava da lui controvoglia.
Ma io insistevo e allora lei storceva la bocca e mi metteva in macchina in
direzione della campagna.
In effetti il nonno non parlava con molte persone, a parte me e il suo amico
mulo, scambiava qualche parola al negozio dove si riforniva di cibo e poi più
nulla. Non voleva nemmeno il telefono.
“Tanto nessuno mi chiamerebbe anche se ce l’avessi”
“Ma se ti succede qualcosa come fai a farcelo sapere?” gli chiesi un giorno.
“Me ne sono successe tante e non potevo chiamare nessuno in aiuto. Non ho
paura di quello che mi può capitare. Non avere mai paura di quello che ti può
capitare. Ad un certo punto si muore e finisce lì”
Aveva persino relegato il suo braccio artificiale sopra l’armadio della camera
dove mi faceva dormire. Lo aveva spinto in fondo, dove non poteva, secondo
lui, essere scovato.
Ma io sapevo che esisteva e con la furbizia tipica della mia giovane età,
avevo setacciato tutti gli angoli della casa finché non lo avevo trovato avvolto in
un lenzuolo vecchio, polveroso; la mano cerea con ancora la fede nuziale
all’anulare, che sbucava dalla stoffa.
“No, non me lo hai mai raccontato. Dai, dai, racconta!”
“Ero a combattere al fronte. Una giornata infinita di appostamenti e di attesa
sotto la pioggia; avevamo fame, la razione della mattina l’avevamo già
consumata a forza di caricarci sacchi sulle spalle per rinforzare la trincea. Tieni
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a mente che io ero magrolino e un po’ curvo, non avevo mai mangiato a
sufficienza da bambino. Ma questo all’esercito importava poco; ti mandavano a
combattere per la patria senza curarsi troppo del tuo peso.
Mentre camminavamo in fila con i sacchi in direzione degli scavi dove poi la
nostra trincea sarebbe stata costruita, mi vidi affiancare da un mulo. Era
magrolino, curvo e fradicio come me. Dondolava la testa avanti e indietro e
portava dei sacchi il doppio dei miei. Come osava? Dapprima lo ignorai poi,
quando riuscii a portare a destinazione l’ultimo carico e potetti ripararmi dalla
pioggia per riprendere fiato, lo vidi lì, sotto la pioggia, e frugare col muso in
mezzo al fango alla ricerca impossibile di qualche ciuffo d’erba”.
“Non hai cercato di portarlo al riparo con te?”
“I muli sono testardi! Non riesci mica a spostarli da un posto se non si
decidono da soli! No, io lo osservai per un po’ ma non per molto perché
all’improvviso il nostro campo fu colpito da una granata. Un tonfo assordante
che gettò nel panico tutti noi soldati. Non ci aspettavamo certo di essere colpiti
così, a tradimento! Purtroppo io mi ritrovai molto vicino al punto di scoppio e
mi ferii questo braccio, questo che non ho più.
Mi ritrovai mezzo incosciente su una barella che viaggiava veloce verso
l’infermeria. Mentre mi trasportavano, buttai l’occhio a lato e vidi che il povero
mulo era a terra, anche lui, con la zampa anteriore tranciata dallo scoppio!
Anche lui! Mugolava e si dibatteva. Allora mi aggrappai a quelle poche forze
che avevo in corpo e tirai uno dei barellerei per la manica. Gli dissi che quello
era il mulo del nostro comandante e io quello che era incaricato di accudirlo.
Poteva mandare un veterinario a soccorrerlo? Poi svenni”.
Io potevo percepire la mia bocca spalancata di fronte al racconto, il palato
secco per aver respirato senza deglutire. Come era possibile che quel racconto
che conoscevo così bene da anni continuasse a tenermi col cuore in gola ancora
una volta? Il nonno si grattò la barba crespa e bofonchiò una bestemmia
accompagnata da un mezzo sorriso.
“Credevo che sarei morto e non pensai più al povero mulo per giorni.
Quando finalmente mi fecero uscire dopo l’operazione, monco e disorientato, lo
rincontrai. L’avevano salvato! Era vivo, porca miseria! Quella bestiola che non
ci avresti scommesso nulla che sopravvivesse, ce l’aveva fatta. Ed era monco
anche lui. La zampa ferita dalla bomba l’avevano tagliata. Era su un pagliericcio
umido e sudicio vicino all’accampamento del comandante, aveva finalmente
una scodella con dell’avena accanto e un secchio con l’acqua.
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Mi sedetti accanto a lui e capii che le nostre due vite sarebbero state uguali
da allora in poi; io non avrei potuto più combattere e lui non avrebbe più potuto
trasportare niente. Il comandante ci esonerò dal campo di battaglia entrambi e
così la guerra per noi finì lì.
Quando tornai a casa con un mulo zoppo, tua nonna si stupì nel vederci
entrambi piuttosto beati e felici. Mi esortò ad abbatterlo, dopotutto non ci
serviva a molto avere un animale invalido nella fattoria, quando c’era da
ricostruire i campi, la stalla, gli attrezzi dopo la guerra. Ma io fui irremovibile.
Quel viaggio di ritorno dal fronte sarebbe stato lunghissimo senza la sua
compagnia e sapevo che senza di lui, io unico invalido nella nostra famiglia,
sarei stato visto con pietà e compassione.
No, io ero stato un combattente e il mio amico era lì a ricordarmelo.”
Mio nonno finiva sempre il suo racconto con un finale diverso, unica nota
creativa nella sua nostalgica litania: una volta diceva che il mulo lo seguì fino a
casa nonostante le sue proteste di cacciarlo via, un’altra volta diceva che il mulo
gli venne riportato a casa dal suo compagno barelliere, un’altra volta ancora
sosteneva che il mulo lo aveva allontanato dall’esplosione prendendolo per
l’uniforme con i denti.
Era per questo che facevo sempre finta di non sapere la storia e ogni volta gli
chiedevo di raccontarmela.
Per scoprire quale nuovo finale mio nonno gli avrebbe dato. E per arrivare
alla stessa sorprendente magnifica conclusione: in un modo o nell’altro, mio
nonno era stato salvato da un mulo.
CONTINUA…
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