Paesaggi e culture Il profilo imponente della Rocca scaligera

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Paesaggi e culture Il profilo imponente della Rocca scaligera
Paesaggi e culture
una piccola capitale del turismo
Il profilo imponente della
Rocca scaligera accoglie
i visitatori a Sirmione,
collocato da una recente
indagine al terzo posto
nella classifica dei “borghi
più felici d’Italia”. La
passeggiata dal Castello
alla vasta area archeologica
delle Grotte di Catullo,
lungo le stradine dell’abitato
medievale, è un “classico”
che può arricchirsi con la
scoperta dei dipinti e dei
cicli di affreschi custoditi
nelle chiese del centro storico.
Il Castello di Sirmione,
fatto edificare alla
fine del XIII secolo da
Mastino I della Scala.
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La fortezza sul lago e la
grande villa tra gli ulivi
di Mirka Pernis
fotografie di Mauro Pini
è la rocca scaligera a definire il con-
fine del centro storico di Sirmione. Il suo
profilo compatto e imponente è talmente familiare da apparire quasi scontato. È
quello che forse accade anche per l’intero nucleo antico: abituati ad attraversarlo per una passeggiata fra i negozi o per
raggiungere le spiagge e le scogliere a lago, dimentichiamo di trovarci immersi in
un borgo dalla storia millenaria con edifici monumentali unici come le Grotte di
Catullo o che conservano quasi inalterato
il proprio valore storico e artistico.
Riscoprire Sirmione, quindi, non significa cercare luoghi nuovi, ma osservare con uno sguardo diverso quelli consueti leggendovi i segni del tempo. Il
punto di partenza non può che essere il
Castello fatto costruire sul finire del XIII
secolo da Mastino I della Scala e completato con la realizzazione della darsena fortificata nella prima metà del Trecento.
Il signore di Verona realizzò una base strategica per controllare non solo le
acque del lago e il territorio da lui governato, ma anche la rete viaria che, fin
dall’epoca romana, collegava Milano con
Brescia e Verona passando per Sirmione.
Così facendo ha lasciato un raro esempio
di fortificazione lacustre che ben conserva ed esemplifica i caratteri tipici dell’architettura militare di epoca medievale.
Nonostante il restauro dei primi anni del
Novecento abbia portato alla ricostruzione in stile di alcuni elementi come, per
esempio, le merlature ghibelline, gli elementi fondamentali dell’edificio restano
inalterati.
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Un’unica porta collegava, allora come
oggi, l’interno del borgo con la terraferma, era chiuso da un ponte levatoio che
una volta sollevato isolava completamente la parte terminale della penisola grazie anche all’acqua del lago che circonda
completamene il castello. Un secondo ingresso si apriva verso l’interno del borgo
ed era dotato di un ulteriore sistema difensivo: la saracinesca, ovvero una grata
di ferro pesante e robusta con spuntoni
lungo il profilo inferiore che si incastravano nel pavimento. In tempo di pace la
saracinesca restava sostenuta da una spessa corda, mentre in caso di attacco veniva
calata sbarrando l’ingresso. Quando però
la ritirata entro le mura doveva essere rapida e quindi non c’era tempo per azionare l’argano che abbassava la grata, la corda
veniva tagliata facendola così precipitare.
Da questa abitudine militare nasce il detto proverbiale “tagliare la corda”.
superato uno degli ingressi, si raggiunge il cortile. Lo spazio interno è definito da una cortina muraria il cui sviluppo verticale aiutava a respingere i tentativi di scalata dei soldati nemici e rendeva
più efficace la cosiddetta “difesa piombante” che consisteva nel lancio, dall’alto, di materiali vari – pietre, liquami, bastoni incendiati e quanto era reperibile
nel castello.
Negli angoli del perimetro sono collocate le torri scudate. Tipiche dell’età medievale, avevano la parete interna aperta
ed erano suddivise su più piani. Servivano
per velocizzare la movimentazione di armi, munizioni e uomini e al tempo stesso
impedivano ai nemici di usarle per difendersi. Accanto ad esse, sul lato orientale,
domina il mastio che fungeva da punto di
avvistamento e di strenua difesa in caso i
nemici fossero riusciti a penetrare entro
le mura. È la torre più alta e i suoi 146
scalini permettono di accedere ai camminamenti di ronda oltre che di avere una
visione perfetta della darsena fortificata,
una struttura che rende unico il castello di
Sirmione. Si tratta di un porto per la flotta chiuso su quattro lati da un muro con
La vista dal
castello verso
l’abitato e le
Grotte di Catullo.
nella pagina a
destra, in basso,
una parte
della darsena
fortificata.
sopra, un angolo
del cortile e la
piccola cappella
all’esterno della
fortezza.
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un’unica apertura a grata e torri a proteggerla. Legata alla fortezza era anche la piccola cappella che si trova a destra dell’ingresso principale: probabilmente era la
cappella della guarnigione ed è composta da un ambiente molto piccolo, con
un’unica navata schiacciata verso l’area
presbiteriale. La volta a crociera e la piccola abside sono riccamente decorate da
statue e cornici in stucco databili al XVII
secolo. La pala d’altare è un frammento di
dipinto murale trecentesco e raffigura una
santa che stringe fra le braccia una bimba.
La tradizione popolare
identifica l’immagine con Sant’Anna e la
Vergine bambina per
cui la chiesetta, ufficialmente dedicata a santa Maria al
Ponte, è comunemente indicata come Sant’Anna.
Rara è l’immagine dipinta ad affresco e posta sulla parete a sinistra dell’arco trionfale: è datata 1514 e raffigura Sant’Eligio, mentre tiene in mano la
zampa di un cavallo. L’immagine fa riferimento a un episodio della vita di Eligio
secondo il quale il santo, dovendo ferrare un cavallo particolarmente focoso, gli
staccò la zampa per terminare il lavoro
e, poi, miracolosamente gliela riattaccò,
diventando il patrono fra gli altri anche
di cavalli e maniscalchi.
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brello con costoloni rilevati. Il portico
che precede l’ingresso è più tardo, ma di
grande interesse perché ingloba materiali di reimpiego provenienti da edifici
romani. In particolare si può riconoscere
un miliare dell’epoca di Giuliano l’Apostata. A Sirmione sono stati ritrovati
cinque di questi cippi marmorei che segnavano le distanze sulle strade romane
e ricordavano le opere di manutenzione
volute dagli imperatori. Erano posti sulla
via Emilia Gallica che, passando da Sirmione, collegava Milano con Brescia e
Verona dove si innestava sulla Postumia
che arrivava fino ad Aquileia.
costeggiando il fossato interno del
Castello e inoltrandosi nel borgo fra il
lago e via Vittorio Emanuele ci si immerge nelle strette e tortuose stradine
dell’abitato medievale raggiungendo la
parrocchiale di Santa Maria Maggiore,
la cui origine resta incerta. Secondo alcuni studiosi sarebbe da identificare con
la chiesa di San Martino, citata come esistente in epoca longobarda, ma mancano dati certi relativi a questa ipotesi. Un
edificio religioso in questa posizione esisteva certamente nel XIV secolo, quando
furono costruite le mura che dalla rocca
scaligera delimitavano il perimetro del
borgo passando per via Antiche Mura e
chiudendosi in corrispondenza dell’area
del porto. L’abside della parrocchiale,
infatti, ancora oggi è protetta dalla cinta
muraria e da una torre.
Dell’antico edificio medievale resta il
lato settentrionale, mentre il resto della
struttura presenta i caratteri tipici dell’ar-
chitettura lombarda del tardo Quattrocento: facciata a capanna, archetti ciechi
in cotto che decorano il sottogronda del
prospetto e delle pareti perimetrali; aula unica scandita in quattro campate da
archi acuti a cui corrispondono, lungo
il paramento murario esterno, i contrafforti che terminano con eleganti pinnacoli; abside poligonale con volta ad om-
a destra,
particolari di affreschi nella
parrocchiale di Santa Maria Maggiore: il
ciclo dedicato alla vita di Cristo e parte del
frammento con Sant’Orsola che accoglie le
Vergini compagne.
sopra, il portico, che ingloba materiali di
reimpiego provenienti da edifici romani.
nella pagina a destra, in alto, una Madonna in
trono, tra gli affreschi della parrocchiale.
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all’interno della parrocchiale si può
apprezzare la decorazione pittorica ad
affresco realizzata in un arco temporale compreso fra il Trecento e il primo
Cinquecento. Sulle pareti si alternano
semplici riquadri con singole figure di
santi di buona qualità esecutiva – come, per esempio, il Sant’Alberto da Trapani datato 1510 o la Santa martire del
registro sottostante, posti sul lato destro
della aula fra la prima e la seconda navata – a cicli narrativi più articolati come
quello della prima campata che racconta la vita di Cristo con tratti caratterizzati da un’interessante vivacità narrativa
e da una eleganza disegnativa e decorativa che risente dell’influenza dei pittori veneti.
I dipinti murali più antichi, risalenti
al XIV secolo, si trovano sulla parete settentrionale: interessanti sia per la qualità
stilistica sia per la rarità iconografica nel
territorio bresciano, sono il frammento con Sant’Orsola che accoglie le Vergini compagne così come i riquadri della
quarta campata, pienamente immersi
nella cultura figurativa gotica.
Gli altari risalgono ai secoli XVII e
XVIII secolo, quando la chiesa è adeguata ai dettami della Controriforma:
le belle strutture presentano mense decorate da specchiature in marmi policromi accostate a formare decori geometrici, e ancone composte da elementi
architettonici come colonne, architravi
e frontoni variamente combinati e arricchiti, nel caso dell’altare della Madonna del Rosario, da statue a tutto tondo.
Al centro sono collocate tele di un certo
interesse: l’Ultima Cena e la Madonna
in Gloria con i santi Girolamo, Andrea e
Antonio di Padova sono di Andrea Voltolini. L’altare maggiore, invece, è coronato da una elegante e preziosa statua in
legno policromo raffigurate la Madonna
con il Bambino.
Uscendo dalla chiesa parrocchiale e
seguendo via Regina Ansa in direzione
della punta della penisola di Sirmione,
si raggiunge l’area archeologica che conserva i resti dell’abside e delle murature
della chiesa longobarda di San Salvatore
che faceva parte di un complesso monastico più ampio voluto da re Desiderio e
dalla regina Ansa.
Purtroppo la scarsità delle vestigia
materiali di età longobarda non rende
merito al ruolo di primo piano che la
città ebbe in quell’epoca e soprattutto
durante il regno degli ultimi sovrani. Sirmione infatti era una iudicaria, cioè un
distretto autonomo che dipendeva direttamente dal sovrano e di Sirmione erano personalità di spicco della corte, come quel Cunimondo ricordato in molti
documenti perché donò alle tre chiese di
Sirmione gran parte dei suoi beni.
Della storia longobarda restano anche alcuni frammenti scultorei che facevano parte forse di plutei, e alcuni
materiali di scavo conservati nel museo
delle Grotte di Catullo, oltre a un curioso toponimo: il lido delle “bionde” che
deriva dalla volgarizzazione del termine biunda. Il vocabolo indica un luogo
recintato con riferimento alle mura costruite dai longobardi e che arrivavano a
lambire l’area dell’attuale spiaggia e delle
Grotte di Catullo, ultima tappa del nostro itinerario.
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area archeologica occupa la parte terminale della penisola
e accoglie i resti di una struttura monumentale che non ha uguali in tutta
l’Italia settentrionale. Si tratta infatti di
una villa romana costruita sul modello
di quelle imperiali, senza dunque alcuna pertinenza relativa alla coltivazione
dei campi come era tipico delle residenze extra urbane, per quanto ricche, e
dotata di un impianto termale privato,
oltre che di strutture maestose dalle dimensioni ragguardevoli. Il lato più lungo misura 167,5 metri, 105 quello più
corto, il giardino interno si estendeva
per quasi quattromila metri quadrati, la
cisterna interrata è lunga poco meno di
43 metri.
Il nome trae in inganno sia nel riferimento al poeta latino Catullo di casa
a Sirmione, ma che mai abitò in questa
villa (gli studi più recenti ne attribuiscono la proprietà a una famiglia veronese
legata all’imperatore, che la fece costruire fra il primo secolo a.C. e il successivo),
sia nel termine “grotte” che fa pensare
più alle grotte naturali che a resti archeologici (il termine fa riferimento agli appassionati di arte antica che già nel Rinascimento si introducevano negli edifici romani calandovisi con corde e cesti).
Ma anche la lettura dei resti dell’edificio
non è delle più agevoli. Degli ambienti abitativi della villa vera e propria così
questa vasta
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Piazza Castello e una via del nucleo medievale.
a destra, una parte del criptoportico a due
navate della villa romana nel sito archeologico
delle Grotte di Catullo.
Per le immagini delle Grotte: aut. Soprintendenza
archeologica della Lombardia, prot. n. 9856 del
19.09.2014.
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come dei pavimenti a mosaico e dei dipinti che coprivano le pareti resta ben
poco: quello che si vede di fatto sono le
fondamenta e qualche elemento dei portici, ciò nonostante ci si può immergere
nella sapienza costruttiva dei romani e
godere di un luogo unico in cui natura
e architettura si fondono e si esaltano a
vicenda
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basta iniziare la visita dalle sostruzioni – le cosiddette “botteghe” – del lato
occidentale. Questi imponenti archi di
sostegno furono costruiti digradando
verso il lago per creare una base uniforme sulla quale appoggiare il piano residenziale dell’edificio sfruttando la morfologia del terreno. Sono costituiti da
corsi regolari di materiale lapideo proveniente dalle opere di scavo alternate a
mattoni che permettono di regolarizzare
i piani di posa delle murature. Nel “campo delle noci” che si affaccia direttamente sul lago si vedono, invece, i tagli operati nella roccia della penisola per ricavare l’avancorpo dell’edificio e fornire la
base per le sostruzioni di questo lato.
Raggiunta “l’aula dei giganti” si riconoscono larghe porzioni di un pavimento in laterizio disposto a lisca di pesce che i romani usavano abitualmente
per pavimentare ambienti aperti: il pavimento, caduto dal livello superiore,
era il piano di camminamento di una
grande terrazza, dotata addirittura di un
velario, una copertura costituita da vele
mobili che serviva per riparare dal sole
e che generalmente si usava nei teatri e
negli anfiteatri. Sui lati dell’Aula dei giganti si scorgono ancora le pietre con un
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foro che erano la base dei pali di sostegno del velarium.
Salendo una delle rampe di scale si
raggiunge il lungo corridoio sul quale si affacciano delle stanze, le cui dimensioni – ridotte rispetto alla struttura nella quale sono inserite – sono un
indizio del fatto che la villa fosse strutturata per godere più degli spazi aperti
che di quelli chiusi. Ipotesi confermata
dalla “trifora del paradiso” che si apre
su uno splendido paesaggio quasi come
un cannocchiale prospettico. Dal corridoio si raggiunge il criptoportico, una
lunga passeggiata coperta a due navate
che si trovava al livello inferiore rispetto a quello del grande giardino centrale
quadrato che oggi è coltivato a ulivi, ma
in epoca romana ospitava sicuramente
piante ed essenze di vario tipo ed era arricchito da statue e forse fontane poste
lungo i sentieri che lo attraversavano.
Gli archi supersiti del criptoportico sono costruiti con materiali diversi (si distinguono pietra, mattoni e una roccia
tufacea), la loro distribuzione asseconda magistralmente la struttura del pia-
Una delle rampe di accesso
laterali.
sotto, le imponenti sostruzioni
che affacciano sul “campo
delle noci”.
nella pagina a sinistra, veduta del
criptoportico.
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no sottostante: dove il colonnato insiste
sulle sostruzioni, pilastri e capitelli sono
in tufo, dove appoggiano sulla roccia del
promontorio viene usata la pietra.
anche nella cosiddetta “piscina” è il
materiale costruttivo a darci indicazioni
sulla funzione della struttura. L’ampia
vasca, infatti, è ricoperta di laterizi che
garantiscono una buona distribuzione e
conservazione del calore. La presenza di
questo materiale, unita a quella di dodici fornici che si aprono lungo i bordi e
si collegano a un’intercapedine parallela
ai bordi della vasca, ha indotto a ipotizzare che questa costruzione sia una sorta
di piscina riscaldata.
Il pavimento si appoggiava sulla sporgenza visibile appena sopra i fornici
contenendo l’acqua; nell’intercapedine
sottostante venivano accesi i fuochi per
riscaldarla. Era l’ambiente principale
dell’impianto termale della villa che si
sviluppava in quest’area con il frigidarium e il calidarium. L’acqua non mancava: l’ampia cisterna per l’acqua piovana è ancora perfettamente conservata e
si individua dal pavimento in mattoni
disposti a lisca di pesce.
Allontanandosi dal promontorio e
avvicinandosi al museo, le tracce dell’antica costruzione si fanno più minute e
di difficile lettura, i pochi mosaici pavimentali superstiti sono molto frammentari e non danno conto della complessità dell’apparato decorativo nel suo
insieme. Nel Museo delle Grotte si può
ammirare ciò che resta dei dipinti murali che probabilmente coprivano le pareti
interne della villa, e delle sculture che la
arricchivano. Piccoli tasselli che aiutano
a ricostruire l’immagine di questo stupefacente edificio che con la sua mole intonacata di bianco si ergeva sulle acque
turchesi del lago ed era visibile da grandi distanze.
Un frammento di parete decorata a mosaico,
conservato nel museo dell’area archeologica.
in alto, un tratto del criptoportico affacciato sul
lago.
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I canneti del Garda
di tipo ghiaioso e
sabbioso e di moderate pendenze nella zona più
meridionale del lago di Garda ha favorito l’instaurarsi dei canneti, all’interno dei quali si osserva la
presenza della cannuccia di palude (Phragmites
australis), pianta erbacea perenne della famiglia
delle Graminacee.
Nei diversi tratti di litorale che la accolgono, questa
caratteristica associazione vegetale riveste un
ruolo di primaria importanza per gli ecosistemi
acquatici, fungendo da elemento di transizione tra
gli ambienti propriamente lacustri e quelli terrestri.
Il canneto (detto anche fragmiteto) si estende dalla
riva per pochi metri all’interno dell’acqua fin dove
questa non supera i due metri di profondità; alla
cannuccia di palude possono associarsi salici, tife,
giunchi e altre specie.
Le piante che compongono un canneto realizzano
in modo del tutto naturale la depurazione dei sedimenti lacustri. I loro apparati radicali, oltre a favorire
la decomposizione della sostanza organica, contribuiscono a stabilizzare il terreno, e di conseguenza
ad abbassare i fenomeni di erosione, riducendo
la velocità della corrente. La densità degli steli
svolge un ruolo di filtro nei confronti del materiale
movimentato dal moto ondoso: la realizzazione di
periodiche raccolte di questi depositi galleggianti
ne elimina la presenza dalla superficie del lago.
la presenza di substrati
Un altro ruolo di rilevanza dei canneti si lega alla
possibilità di accogliere numerose specie animali.
Tra gli uccelli, che lo frequentano per le attività
legate all’accoppiamento, alla nidificazione, all’alimentazione o alla cura dei piccoli, si riscontrano sia
specie direttamente legate agli ambienti acquatici,
sia altre che con l’acqua non entrano a contatto. Al
primo gruppo appartengono ad esempio anatre e
svassi, al secondo il cannareccione (Acrocephalus
arundinaceus) e il più piccolo pendolino (Remiz
pendulinus).
Oltre agli uccelli i canneti accolgono anche numerose specie di pesci (circa il 40% di quelle presenti
nel lago di Garda), anfibi, rettili e insetti.
Particolare attenzione ai canneti, ma più in generale
alla qualità delle acque del lago di Garda, alle sue
caratteristiche climatiche e all’educazione ambientale, vengono posti nelle attività svolte dal Centro
di rilevamento ambientale di Sirmione, che ha sede
in via Punta Staffalo sul litorale occidentale della
penisola catulliana.
Ruggero Bontempi
bontempi
pettinari
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Paesaggi e culture
un edificio ricco di storia
di Mirka Pernis
I resti di un abside e
di alcune sepolture,
riportati alla luce grazie
a un lungo intervento di
recupero, confermano la
fondazione longobarda
della chiesa romanica di
San Pietro in Mavinas,
a Sirmione.
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Le pietre sacre di Desiderio
un po’ appartata rispetto
alla tradizionale passeggiata
che conduce dal centro storico di Sirmone alle Grotte di
Catullo, la chiesa di San Pietro in Mavinas costituisce un
interessante e ben conservato
esempio di architettura romanica alla cui storia i recenti restauri hanno restituito la
certezza di una fondazione
longobarda, già supposta dalla letteratura critica sulla base
delle fonti storiche. L’edificio,
infatti, è menzionato in alcuni documenti relativi al longobardo Cunimondo, perso-
naggio di spicco della corte di
re Desiderio.
Fino ad ora l’attestazione
documentaria mancava di un
riscontro materiale che è stato
fornito dai lavori di recupero conclusi, dopo dieci anni,
nello scorso maggio riportando alla luce i resti di un’abside e di alcune sepolture che
si possono vedere nell’area
presbiteriale e sotto l’altare
dell’edificio attuale.
È però la rinascita del Mille, con il fervore religioso e
costruttivo che la caratterizza, a qualificare la chiesa di
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San Pietro secondo le forme
dell’architettura e della pittura di età romanica. I volumi
disomogenei delle tre absidi
– strette e lunghe quelle laterali, più larga e leggermente
più elevata quella centrale – e
le finestre monofore con doppia strombatura che creano
un ritmico alternarsi di pieni e di vuoti fanno della zona
absidale l’area sicuramente
più antica dell’intero edificio, databile alla prima metà
dell’XI secolo.
È di poco posteriore il
campanile che fu costruito
nella seconda metà del Mille: uno stretto giro d’anni,
sufficiente per comporre una
struttura architettonica ben
definita nei volumi e negli
elementi decorativi secondo i
canoni di un romanico essenziale ma non privo di eleganza. Le murature sono costituite da conci di materiali vari
– sassi, pietre di reimpiego,
ciottoli – che però vengono
disposti in corsi regolari legati da malta fine; i contrafforti
angolari rilevati costituisco la
conclusione non scontata dei
lati della struttura e ne seguono il profilo verticale; gli archetti in cotto posti a metà
dell’altezza con funzione puramente decorativa e le bifore
della cella campanaria, oggi
tamponate, alleggeriscono il
paramento murario.
La stessa essenzialità caratterizza la facciata, connotata
dal profilo a capanna e dalle
aperture che comprendono
un piccolo oculo, due monofore con arco a pieno centro e
il portale di ingresso sopra il
quale si possono individuare
due pietre scolpite, probabilmente materiali di reimpiego
dell’edificio longobardo o addirittura di epoca romana. La
prima è decorata da un motivo a graticcio, la seconda da
fiori stilizzati.
Poco sotto l’imposta
dell’arco del portale di ingresso, un mattone riporta
la data 1320 a testimoniare l’ultima importante fase
costruttiva dell’edificio che
comportò l’ampliamento
della facciata stessa ma anche
della navata, allargata e allungata. Solo nel corso nel XVII
secolo fu aperta lungo il mu-
pini
ro perimetrale sinistro la cappella dedicata a San Nicola
da Tolentino che, però, non
altera i volumi dell’unica navata con copertura a capriate
lignee e delle tre absidi.
la partizione temporale
che scandisce l’architettura
della chiesa di San Pietro in
Mavinas si specchia negli affreschi che occupano le superfici interne. Nel registro
inferiore dell’abside centrale
i due riquadri affiancati ma
divisi dalla monofora manifestano caratteri legati alla
cultura pittorica del XIII secolo: le figure di san Nicola
da Tolentino con il bastone a
forma di Tau, dei santi Pietro
e Paolo – a sinistra, di san Pa-
olo e di san Giacomo che si
accompagnano a un apostolo
di non certa identificazione
non hanno volume; fisionomie e panneggi sono tracciati con un semplice tratto nero
che ne definisce nettamente
i contorni, la frontalità delle
figure – eredità della cultura
pittorica bizantina – è leggermente attenuata dai profili di
alcuni visi e dal movimento
delle mani che suggeriscono un tentativo di ricerca di
profondità che, però, non va
molto oltre la superficie. Le
copertine dei libri che i santi
stringono fra le mani, le aureole e i manti sono arricchiti
di dettagli decorativi preziosi che conferiscono una certa
eleganza all’insieme.
A destra nella foto, i resti
dell’abside di datazione
longobarda ritrovati all’interno
della chiesa di San Pietro in
Mavinas.
nella pagina a sinistra, la facciata e il
campanile dell’edificio romanico.
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ma anche la Madonna in trono con il Bambino fra i santi
Giovanni Battista ed Evangelista dell’abside di sinistra e
la Crocifissione dell’abside di
destra che possono essere attribuiti al medesimo autore
su base stilistica. Un anonimo maestro, forse veneto o
comunque influenzato dalla
pittura veneta del XIII secolo,
che su un linguaggio ancora
legato alla cultura bizantina
inserisce elementi innovativi
ispirati ai modi della pittura
giottesca.
Alla prima fanno riferimento la prospettiva simbolica – evidente nel Giudizio
– secondo la quale le dimensioni dei personaggi sono direttamente proporzionali alla
loro importanza; la ricchezza
e la raffinata ricercatezza dei
dettagli decorativi nelle gemme che ornano la veste di cristo, nel decoro a certosino del
trono della Vergine o nella
raffinata cromia che caratterizza gli alberelli e le cornici
decorativi a motivi floreali.
Impensabili, invece, senza la
“rivoluzione giottesca” sono l’intensità espressiva del
gruppo delle pie donne che
sostengono la Madonna svenuta al cospetto di Cristo cro-
Esterno e (in
basso) interno
dell’abside,
ricoperto da
affreschi databili
al XIII secolo.
Diverso il clima che si respira nel registro superiore, dove
compare una sintetica rappresentazione del Giudizio Universale: Cristo siede su un arco simboleggiante il cielo, una
grande mandorla lo isola dai
personaggi circostanti, mentre
con le braccia allargate chiama
i defunti all’ultimo giudizio. Ai
lati gli angeli suonano la tromba, mentre Maria e san Giovanni pregano e intercedono presso
Gesù per le anime dei defunti.
Ai piedi delle figure due piccoli recinti: in quello di sinistra
si scorgono i beati, nell’altro ci
sono i dannati con i corpi tormentati da serpi. Sullo sfondo,
eleganti alberelli con i rami carichi di fiori dai colori vivaci e
raffinati.
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la composizione era completata nel registro inferiore dell’abside, secondo uno
schema iconografico piuttosto diffuso, dalla teoria degli
Apostoli che ora si trova sulla
parete sinistra della navata. Il
dipinto murale venne staccato dalla sede originaria e
riportato su tela per mettere
in luce i due dipinti del XIII
secolo. Nonostante l’ampia lacuna che ha completamente cancellato le figure di
due apostoli e danneggiato
le fisionomie di altri tre, vi
si legge un dato importante:
la targa indicata dall’apostolo Simone contiene la data
1321, anno in cui sono stati eseguiti non solo il Giudizio Universale e gli Apostoli,
pini
pini
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cifisso, il raffinato drappeggio
e la trasparenza del panno che
avvolge i fianchi di Gesù, o
ancora il tentativo di creare
uno spazio tridimensionale
nel recinto che racchiude le
anime dannate.
Se i dipinti dell’area absidale si qualificano come
un ciclo decorativo unitario
con intenti didascalici, gli affreschi che ornano le pareti
dell’aula sono invece ex voto
che raffigurano i santi taumaturghi più comuni come
sant’Antonio Abate che ai
suoi piedi ha le figurette degli
offerenti, o la Madonna della Misericordia e la Madonna
con Gesù Bambino.
Prima di lasciare la collina
su cui si trovano San Pietro
in Mavinas e il bel giardino
di ulivi che la circonda resta
un piccolo segreto da svelare,
legato proprio alla sua posizione geografica. Sembra, infatti, che il curioso toponimo
mavinas, presente fin dalle origini nella designazione
della chiesa (talvolta anche
nell’accezione maschile mavino), derivi dalla sua suggestiva posizione: mavinas sarebbe
infatti il volgarizzamento del
latino summavinea, la vigna
più alta della città.