Paesaggi e culture Il profilo imponente della Rocca scaligera
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Paesaggi e culture Il profilo imponente della Rocca scaligera
Paesaggi e culture una piccola capitale del turismo Il profilo imponente della Rocca scaligera accoglie i visitatori a Sirmione, collocato da una recente indagine al terzo posto nella classifica dei “borghi più felici d’Italia”. La passeggiata dal Castello alla vasta area archeologica delle Grotte di Catullo, lungo le stradine dell’abitato medievale, è un “classico” che può arricchirsi con la scoperta dei dipinti e dei cicli di affreschi custoditi nelle chiese del centro storico. Il Castello di Sirmione, fatto edificare alla fine del XIII secolo da Mastino I della Scala. 24 ab 120 AUTUNNO 2014 La fortezza sul lago e la grande villa tra gli ulivi di Mirka Pernis fotografie di Mauro Pini è la rocca scaligera a definire il con- fine del centro storico di Sirmione. Il suo profilo compatto e imponente è talmente familiare da apparire quasi scontato. È quello che forse accade anche per l’intero nucleo antico: abituati ad attraversarlo per una passeggiata fra i negozi o per raggiungere le spiagge e le scogliere a lago, dimentichiamo di trovarci immersi in un borgo dalla storia millenaria con edifici monumentali unici come le Grotte di Catullo o che conservano quasi inalterato il proprio valore storico e artistico. Riscoprire Sirmione, quindi, non significa cercare luoghi nuovi, ma osservare con uno sguardo diverso quelli consueti leggendovi i segni del tempo. Il punto di partenza non può che essere il Castello fatto costruire sul finire del XIII secolo da Mastino I della Scala e completato con la realizzazione della darsena fortificata nella prima metà del Trecento. Il signore di Verona realizzò una base strategica per controllare non solo le acque del lago e il territorio da lui governato, ma anche la rete viaria che, fin dall’epoca romana, collegava Milano con Brescia e Verona passando per Sirmione. Così facendo ha lasciato un raro esempio di fortificazione lacustre che ben conserva ed esemplifica i caratteri tipici dell’architettura militare di epoca medievale. Nonostante il restauro dei primi anni del Novecento abbia portato alla ricostruzione in stile di alcuni elementi come, per esempio, le merlature ghibelline, gli elementi fondamentali dell’edificio restano inalterati. ab 120 AUTUNNO 2014 25 Un’unica porta collegava, allora come oggi, l’interno del borgo con la terraferma, era chiuso da un ponte levatoio che una volta sollevato isolava completamente la parte terminale della penisola grazie anche all’acqua del lago che circonda completamene il castello. Un secondo ingresso si apriva verso l’interno del borgo ed era dotato di un ulteriore sistema difensivo: la saracinesca, ovvero una grata di ferro pesante e robusta con spuntoni lungo il profilo inferiore che si incastravano nel pavimento. In tempo di pace la saracinesca restava sostenuta da una spessa corda, mentre in caso di attacco veniva calata sbarrando l’ingresso. Quando però la ritirata entro le mura doveva essere rapida e quindi non c’era tempo per azionare l’argano che abbassava la grata, la corda veniva tagliata facendola così precipitare. Da questa abitudine militare nasce il detto proverbiale “tagliare la corda”. superato uno degli ingressi, si raggiunge il cortile. Lo spazio interno è definito da una cortina muraria il cui sviluppo verticale aiutava a respingere i tentativi di scalata dei soldati nemici e rendeva più efficace la cosiddetta “difesa piombante” che consisteva nel lancio, dall’alto, di materiali vari – pietre, liquami, bastoni incendiati e quanto era reperibile nel castello. Negli angoli del perimetro sono collocate le torri scudate. Tipiche dell’età medievale, avevano la parete interna aperta ed erano suddivise su più piani. Servivano per velocizzare la movimentazione di armi, munizioni e uomini e al tempo stesso impedivano ai nemici di usarle per difendersi. Accanto ad esse, sul lato orientale, domina il mastio che fungeva da punto di avvistamento e di strenua difesa in caso i nemici fossero riusciti a penetrare entro le mura. È la torre più alta e i suoi 146 scalini permettono di accedere ai camminamenti di ronda oltre che di avere una visione perfetta della darsena fortificata, una struttura che rende unico il castello di Sirmione. Si tratta di un porto per la flotta chiuso su quattro lati da un muro con La vista dal castello verso l’abitato e le Grotte di Catullo. nella pagina a destra, in basso, una parte della darsena fortificata. sopra, un angolo del cortile e la piccola cappella all’esterno della fortezza. 26 ab 120 AUTUNNO 2014 un’unica apertura a grata e torri a proteggerla. Legata alla fortezza era anche la piccola cappella che si trova a destra dell’ingresso principale: probabilmente era la cappella della guarnigione ed è composta da un ambiente molto piccolo, con un’unica navata schiacciata verso l’area presbiteriale. La volta a crociera e la piccola abside sono riccamente decorate da statue e cornici in stucco databili al XVII secolo. La pala d’altare è un frammento di dipinto murale trecentesco e raffigura una santa che stringe fra le braccia una bimba. La tradizione popolare identifica l’immagine con Sant’Anna e la Vergine bambina per cui la chiesetta, ufficialmente dedicata a santa Maria al Ponte, è comunemente indicata come Sant’Anna. Rara è l’immagine dipinta ad affresco e posta sulla parete a sinistra dell’arco trionfale: è datata 1514 e raffigura Sant’Eligio, mentre tiene in mano la zampa di un cavallo. L’immagine fa riferimento a un episodio della vita di Eligio secondo il quale il santo, dovendo ferrare un cavallo particolarmente focoso, gli staccò la zampa per terminare il lavoro e, poi, miracolosamente gliela riattaccò, diventando il patrono fra gli altri anche di cavalli e maniscalchi. ab 120 AUTUNNO 2014 27 28 ab 120 AUTUNNO 2014 ab 120 AUTUNNO 2014 29 brello con costoloni rilevati. Il portico che precede l’ingresso è più tardo, ma di grande interesse perché ingloba materiali di reimpiego provenienti da edifici romani. In particolare si può riconoscere un miliare dell’epoca di Giuliano l’Apostata. A Sirmione sono stati ritrovati cinque di questi cippi marmorei che segnavano le distanze sulle strade romane e ricordavano le opere di manutenzione volute dagli imperatori. Erano posti sulla via Emilia Gallica che, passando da Sirmione, collegava Milano con Brescia e Verona dove si innestava sulla Postumia che arrivava fino ad Aquileia. costeggiando il fossato interno del Castello e inoltrandosi nel borgo fra il lago e via Vittorio Emanuele ci si immerge nelle strette e tortuose stradine dell’abitato medievale raggiungendo la parrocchiale di Santa Maria Maggiore, la cui origine resta incerta. Secondo alcuni studiosi sarebbe da identificare con la chiesa di San Martino, citata come esistente in epoca longobarda, ma mancano dati certi relativi a questa ipotesi. Un edificio religioso in questa posizione esisteva certamente nel XIV secolo, quando furono costruite le mura che dalla rocca scaligera delimitavano il perimetro del borgo passando per via Antiche Mura e chiudendosi in corrispondenza dell’area del porto. L’abside della parrocchiale, infatti, ancora oggi è protetta dalla cinta muraria e da una torre. Dell’antico edificio medievale resta il lato settentrionale, mentre il resto della struttura presenta i caratteri tipici dell’ar- chitettura lombarda del tardo Quattrocento: facciata a capanna, archetti ciechi in cotto che decorano il sottogronda del prospetto e delle pareti perimetrali; aula unica scandita in quattro campate da archi acuti a cui corrispondono, lungo il paramento murario esterno, i contrafforti che terminano con eleganti pinnacoli; abside poligonale con volta ad om- a destra, particolari di affreschi nella parrocchiale di Santa Maria Maggiore: il ciclo dedicato alla vita di Cristo e parte del frammento con Sant’Orsola che accoglie le Vergini compagne. sopra, il portico, che ingloba materiali di reimpiego provenienti da edifici romani. nella pagina a destra, in alto, una Madonna in trono, tra gli affreschi della parrocchiale. 30 ab 120 AUTUNNO 2014 all’interno della parrocchiale si può apprezzare la decorazione pittorica ad affresco realizzata in un arco temporale compreso fra il Trecento e il primo Cinquecento. Sulle pareti si alternano semplici riquadri con singole figure di santi di buona qualità esecutiva – come, per esempio, il Sant’Alberto da Trapani datato 1510 o la Santa martire del registro sottostante, posti sul lato destro della aula fra la prima e la seconda navata – a cicli narrativi più articolati come quello della prima campata che racconta la vita di Cristo con tratti caratterizzati da un’interessante vivacità narrativa e da una eleganza disegnativa e decorativa che risente dell’influenza dei pittori veneti. I dipinti murali più antichi, risalenti al XIV secolo, si trovano sulla parete settentrionale: interessanti sia per la qualità stilistica sia per la rarità iconografica nel territorio bresciano, sono il frammento con Sant’Orsola che accoglie le Vergini compagne così come i riquadri della quarta campata, pienamente immersi nella cultura figurativa gotica. Gli altari risalgono ai secoli XVII e XVIII secolo, quando la chiesa è adeguata ai dettami della Controriforma: le belle strutture presentano mense decorate da specchiature in marmi policromi accostate a formare decori geometrici, e ancone composte da elementi architettonici come colonne, architravi e frontoni variamente combinati e arricchiti, nel caso dell’altare della Madonna del Rosario, da statue a tutto tondo. Al centro sono collocate tele di un certo interesse: l’Ultima Cena e la Madonna in Gloria con i santi Girolamo, Andrea e Antonio di Padova sono di Andrea Voltolini. L’altare maggiore, invece, è coronato da una elegante e preziosa statua in legno policromo raffigurate la Madonna con il Bambino. Uscendo dalla chiesa parrocchiale e seguendo via Regina Ansa in direzione della punta della penisola di Sirmione, si raggiunge l’area archeologica che conserva i resti dell’abside e delle murature della chiesa longobarda di San Salvatore che faceva parte di un complesso monastico più ampio voluto da re Desiderio e dalla regina Ansa. Purtroppo la scarsità delle vestigia materiali di età longobarda non rende merito al ruolo di primo piano che la città ebbe in quell’epoca e soprattutto durante il regno degli ultimi sovrani. Sirmione infatti era una iudicaria, cioè un distretto autonomo che dipendeva direttamente dal sovrano e di Sirmione erano personalità di spicco della corte, come quel Cunimondo ricordato in molti documenti perché donò alle tre chiese di Sirmione gran parte dei suoi beni. Della storia longobarda restano anche alcuni frammenti scultorei che facevano parte forse di plutei, e alcuni materiali di scavo conservati nel museo delle Grotte di Catullo, oltre a un curioso toponimo: il lido delle “bionde” che deriva dalla volgarizzazione del termine biunda. Il vocabolo indica un luogo recintato con riferimento alle mura costruite dai longobardi e che arrivavano a lambire l’area dell’attuale spiaggia e delle Grotte di Catullo, ultima tappa del nostro itinerario. ab 120 AUTUNNO 2014 area archeologica occupa la parte terminale della penisola e accoglie i resti di una struttura monumentale che non ha uguali in tutta l’Italia settentrionale. Si tratta infatti di una villa romana costruita sul modello di quelle imperiali, senza dunque alcuna pertinenza relativa alla coltivazione dei campi come era tipico delle residenze extra urbane, per quanto ricche, e dotata di un impianto termale privato, oltre che di strutture maestose dalle dimensioni ragguardevoli. Il lato più lungo misura 167,5 metri, 105 quello più corto, il giardino interno si estendeva per quasi quattromila metri quadrati, la cisterna interrata è lunga poco meno di 43 metri. Il nome trae in inganno sia nel riferimento al poeta latino Catullo di casa a Sirmione, ma che mai abitò in questa villa (gli studi più recenti ne attribuiscono la proprietà a una famiglia veronese legata all’imperatore, che la fece costruire fra il primo secolo a.C. e il successivo), sia nel termine “grotte” che fa pensare più alle grotte naturali che a resti archeologici (il termine fa riferimento agli appassionati di arte antica che già nel Rinascimento si introducevano negli edifici romani calandovisi con corde e cesti). Ma anche la lettura dei resti dell’edificio non è delle più agevoli. Degli ambienti abitativi della villa vera e propria così questa vasta 31 Piazza Castello e una via del nucleo medievale. a destra, una parte del criptoportico a due navate della villa romana nel sito archeologico delle Grotte di Catullo. Per le immagini delle Grotte: aut. Soprintendenza archeologica della Lombardia, prot. n. 9856 del 19.09.2014. 32 come dei pavimenti a mosaico e dei dipinti che coprivano le pareti resta ben poco: quello che si vede di fatto sono le fondamenta e qualche elemento dei portici, ciò nonostante ci si può immergere nella sapienza costruttiva dei romani e godere di un luogo unico in cui natura e architettura si fondono e si esaltano a vicenda ab 120 AUTUNNO 2014 basta iniziare la visita dalle sostruzioni – le cosiddette “botteghe” – del lato occidentale. Questi imponenti archi di sostegno furono costruiti digradando verso il lago per creare una base uniforme sulla quale appoggiare il piano residenziale dell’edificio sfruttando la morfologia del terreno. Sono costituiti da corsi regolari di materiale lapideo proveniente dalle opere di scavo alternate a mattoni che permettono di regolarizzare i piani di posa delle murature. Nel “campo delle noci” che si affaccia direttamente sul lago si vedono, invece, i tagli operati nella roccia della penisola per ricavare l’avancorpo dell’edificio e fornire la base per le sostruzioni di questo lato. Raggiunta “l’aula dei giganti” si riconoscono larghe porzioni di un pavimento in laterizio disposto a lisca di pesce che i romani usavano abitualmente per pavimentare ambienti aperti: il pavimento, caduto dal livello superiore, era il piano di camminamento di una grande terrazza, dotata addirittura di un velario, una copertura costituita da vele mobili che serviva per riparare dal sole e che generalmente si usava nei teatri e negli anfiteatri. Sui lati dell’Aula dei giganti si scorgono ancora le pietre con un ab 120 AUTUNNO 2014 33 34 ab 120 AUTUNNO 2014 foro che erano la base dei pali di sostegno del velarium. Salendo una delle rampe di scale si raggiunge il lungo corridoio sul quale si affacciano delle stanze, le cui dimensioni – ridotte rispetto alla struttura nella quale sono inserite – sono un indizio del fatto che la villa fosse strutturata per godere più degli spazi aperti che di quelli chiusi. Ipotesi confermata dalla “trifora del paradiso” che si apre su uno splendido paesaggio quasi come un cannocchiale prospettico. Dal corridoio si raggiunge il criptoportico, una lunga passeggiata coperta a due navate che si trovava al livello inferiore rispetto a quello del grande giardino centrale quadrato che oggi è coltivato a ulivi, ma in epoca romana ospitava sicuramente piante ed essenze di vario tipo ed era arricchito da statue e forse fontane poste lungo i sentieri che lo attraversavano. Gli archi supersiti del criptoportico sono costruiti con materiali diversi (si distinguono pietra, mattoni e una roccia tufacea), la loro distribuzione asseconda magistralmente la struttura del pia- Una delle rampe di accesso laterali. sotto, le imponenti sostruzioni che affacciano sul “campo delle noci”. nella pagina a sinistra, veduta del criptoportico. ab 120 AUTUNNO 2014 35 no sottostante: dove il colonnato insiste sulle sostruzioni, pilastri e capitelli sono in tufo, dove appoggiano sulla roccia del promontorio viene usata la pietra. anche nella cosiddetta “piscina” è il materiale costruttivo a darci indicazioni sulla funzione della struttura. L’ampia vasca, infatti, è ricoperta di laterizi che garantiscono una buona distribuzione e conservazione del calore. La presenza di questo materiale, unita a quella di dodici fornici che si aprono lungo i bordi e si collegano a un’intercapedine parallela ai bordi della vasca, ha indotto a ipotizzare che questa costruzione sia una sorta di piscina riscaldata. Il pavimento si appoggiava sulla sporgenza visibile appena sopra i fornici contenendo l’acqua; nell’intercapedine sottostante venivano accesi i fuochi per riscaldarla. Era l’ambiente principale dell’impianto termale della villa che si sviluppava in quest’area con il frigidarium e il calidarium. L’acqua non mancava: l’ampia cisterna per l’acqua piovana è ancora perfettamente conservata e si individua dal pavimento in mattoni disposti a lisca di pesce. Allontanandosi dal promontorio e avvicinandosi al museo, le tracce dell’antica costruzione si fanno più minute e di difficile lettura, i pochi mosaici pavimentali superstiti sono molto frammentari e non danno conto della complessità dell’apparato decorativo nel suo insieme. Nel Museo delle Grotte si può ammirare ciò che resta dei dipinti murali che probabilmente coprivano le pareti interne della villa, e delle sculture che la arricchivano. Piccoli tasselli che aiutano a ricostruire l’immagine di questo stupefacente edificio che con la sua mole intonacata di bianco si ergeva sulle acque turchesi del lago ed era visibile da grandi distanze. Un frammento di parete decorata a mosaico, conservato nel museo dell’area archeologica. in alto, un tratto del criptoportico affacciato sul lago. 36 ab 120 AUTUNNO 2014 I canneti del Garda di tipo ghiaioso e sabbioso e di moderate pendenze nella zona più meridionale del lago di Garda ha favorito l’instaurarsi dei canneti, all’interno dei quali si osserva la presenza della cannuccia di palude (Phragmites australis), pianta erbacea perenne della famiglia delle Graminacee. Nei diversi tratti di litorale che la accolgono, questa caratteristica associazione vegetale riveste un ruolo di primaria importanza per gli ecosistemi acquatici, fungendo da elemento di transizione tra gli ambienti propriamente lacustri e quelli terrestri. Il canneto (detto anche fragmiteto) si estende dalla riva per pochi metri all’interno dell’acqua fin dove questa non supera i due metri di profondità; alla cannuccia di palude possono associarsi salici, tife, giunchi e altre specie. Le piante che compongono un canneto realizzano in modo del tutto naturale la depurazione dei sedimenti lacustri. I loro apparati radicali, oltre a favorire la decomposizione della sostanza organica, contribuiscono a stabilizzare il terreno, e di conseguenza ad abbassare i fenomeni di erosione, riducendo la velocità della corrente. La densità degli steli svolge un ruolo di filtro nei confronti del materiale movimentato dal moto ondoso: la realizzazione di periodiche raccolte di questi depositi galleggianti ne elimina la presenza dalla superficie del lago. la presenza di substrati Un altro ruolo di rilevanza dei canneti si lega alla possibilità di accogliere numerose specie animali. Tra gli uccelli, che lo frequentano per le attività legate all’accoppiamento, alla nidificazione, all’alimentazione o alla cura dei piccoli, si riscontrano sia specie direttamente legate agli ambienti acquatici, sia altre che con l’acqua non entrano a contatto. Al primo gruppo appartengono ad esempio anatre e svassi, al secondo il cannareccione (Acrocephalus arundinaceus) e il più piccolo pendolino (Remiz pendulinus). Oltre agli uccelli i canneti accolgono anche numerose specie di pesci (circa il 40% di quelle presenti nel lago di Garda), anfibi, rettili e insetti. Particolare attenzione ai canneti, ma più in generale alla qualità delle acque del lago di Garda, alle sue caratteristiche climatiche e all’educazione ambientale, vengono posti nelle attività svolte dal Centro di rilevamento ambientale di Sirmione, che ha sede in via Punta Staffalo sul litorale occidentale della penisola catulliana. Ruggero Bontempi bontempi pettinari ab 120 AUTUNNO 2014 37 Paesaggi e culture un edificio ricco di storia di Mirka Pernis I resti di un abside e di alcune sepolture, riportati alla luce grazie a un lungo intervento di recupero, confermano la fondazione longobarda della chiesa romanica di San Pietro in Mavinas, a Sirmione. 38 Le pietre sacre di Desiderio un po’ appartata rispetto alla tradizionale passeggiata che conduce dal centro storico di Sirmone alle Grotte di Catullo, la chiesa di San Pietro in Mavinas costituisce un interessante e ben conservato esempio di architettura romanica alla cui storia i recenti restauri hanno restituito la certezza di una fondazione longobarda, già supposta dalla letteratura critica sulla base delle fonti storiche. L’edificio, infatti, è menzionato in alcuni documenti relativi al longobardo Cunimondo, perso- naggio di spicco della corte di re Desiderio. Fino ad ora l’attestazione documentaria mancava di un riscontro materiale che è stato fornito dai lavori di recupero conclusi, dopo dieci anni, nello scorso maggio riportando alla luce i resti di un’abside e di alcune sepolture che si possono vedere nell’area presbiteriale e sotto l’altare dell’edificio attuale. È però la rinascita del Mille, con il fervore religioso e costruttivo che la caratterizza, a qualificare la chiesa di ab 120 AUTUNNO 2014 San Pietro secondo le forme dell’architettura e della pittura di età romanica. I volumi disomogenei delle tre absidi – strette e lunghe quelle laterali, più larga e leggermente più elevata quella centrale – e le finestre monofore con doppia strombatura che creano un ritmico alternarsi di pieni e di vuoti fanno della zona absidale l’area sicuramente più antica dell’intero edificio, databile alla prima metà dell’XI secolo. È di poco posteriore il campanile che fu costruito nella seconda metà del Mille: uno stretto giro d’anni, sufficiente per comporre una struttura architettonica ben definita nei volumi e negli elementi decorativi secondo i canoni di un romanico essenziale ma non privo di eleganza. Le murature sono costituite da conci di materiali vari – sassi, pietre di reimpiego, ciottoli – che però vengono disposti in corsi regolari legati da malta fine; i contrafforti angolari rilevati costituisco la conclusione non scontata dei lati della struttura e ne seguono il profilo verticale; gli archetti in cotto posti a metà dell’altezza con funzione puramente decorativa e le bifore della cella campanaria, oggi tamponate, alleggeriscono il paramento murario. La stessa essenzialità caratterizza la facciata, connotata dal profilo a capanna e dalle aperture che comprendono un piccolo oculo, due monofore con arco a pieno centro e il portale di ingresso sopra il quale si possono individuare due pietre scolpite, probabilmente materiali di reimpiego dell’edificio longobardo o addirittura di epoca romana. La prima è decorata da un motivo a graticcio, la seconda da fiori stilizzati. Poco sotto l’imposta dell’arco del portale di ingresso, un mattone riporta la data 1320 a testimoniare l’ultima importante fase costruttiva dell’edificio che comportò l’ampliamento della facciata stessa ma anche della navata, allargata e allungata. Solo nel corso nel XVII secolo fu aperta lungo il mu- pini ro perimetrale sinistro la cappella dedicata a San Nicola da Tolentino che, però, non altera i volumi dell’unica navata con copertura a capriate lignee e delle tre absidi. la partizione temporale che scandisce l’architettura della chiesa di San Pietro in Mavinas si specchia negli affreschi che occupano le superfici interne. Nel registro inferiore dell’abside centrale i due riquadri affiancati ma divisi dalla monofora manifestano caratteri legati alla cultura pittorica del XIII secolo: le figure di san Nicola da Tolentino con il bastone a forma di Tau, dei santi Pietro e Paolo – a sinistra, di san Pa- olo e di san Giacomo che si accompagnano a un apostolo di non certa identificazione non hanno volume; fisionomie e panneggi sono tracciati con un semplice tratto nero che ne definisce nettamente i contorni, la frontalità delle figure – eredità della cultura pittorica bizantina – è leggermente attenuata dai profili di alcuni visi e dal movimento delle mani che suggeriscono un tentativo di ricerca di profondità che, però, non va molto oltre la superficie. Le copertine dei libri che i santi stringono fra le mani, le aureole e i manti sono arricchiti di dettagli decorativi preziosi che conferiscono una certa eleganza all’insieme. A destra nella foto, i resti dell’abside di datazione longobarda ritrovati all’interno della chiesa di San Pietro in Mavinas. nella pagina a sinistra, la facciata e il campanile dell’edificio romanico. 39 ma anche la Madonna in trono con il Bambino fra i santi Giovanni Battista ed Evangelista dell’abside di sinistra e la Crocifissione dell’abside di destra che possono essere attribuiti al medesimo autore su base stilistica. Un anonimo maestro, forse veneto o comunque influenzato dalla pittura veneta del XIII secolo, che su un linguaggio ancora legato alla cultura bizantina inserisce elementi innovativi ispirati ai modi della pittura giottesca. Alla prima fanno riferimento la prospettiva simbolica – evidente nel Giudizio – secondo la quale le dimensioni dei personaggi sono direttamente proporzionali alla loro importanza; la ricchezza e la raffinata ricercatezza dei dettagli decorativi nelle gemme che ornano la veste di cristo, nel decoro a certosino del trono della Vergine o nella raffinata cromia che caratterizza gli alberelli e le cornici decorativi a motivi floreali. Impensabili, invece, senza la “rivoluzione giottesca” sono l’intensità espressiva del gruppo delle pie donne che sostengono la Madonna svenuta al cospetto di Cristo cro- Esterno e (in basso) interno dell’abside, ricoperto da affreschi databili al XIII secolo. Diverso il clima che si respira nel registro superiore, dove compare una sintetica rappresentazione del Giudizio Universale: Cristo siede su un arco simboleggiante il cielo, una grande mandorla lo isola dai personaggi circostanti, mentre con le braccia allargate chiama i defunti all’ultimo giudizio. Ai lati gli angeli suonano la tromba, mentre Maria e san Giovanni pregano e intercedono presso Gesù per le anime dei defunti. Ai piedi delle figure due piccoli recinti: in quello di sinistra si scorgono i beati, nell’altro ci sono i dannati con i corpi tormentati da serpi. Sullo sfondo, eleganti alberelli con i rami carichi di fiori dai colori vivaci e raffinati. 40 la composizione era completata nel registro inferiore dell’abside, secondo uno schema iconografico piuttosto diffuso, dalla teoria degli Apostoli che ora si trova sulla parete sinistra della navata. Il dipinto murale venne staccato dalla sede originaria e riportato su tela per mettere in luce i due dipinti del XIII secolo. Nonostante l’ampia lacuna che ha completamente cancellato le figure di due apostoli e danneggiato le fisionomie di altri tre, vi si legge un dato importante: la targa indicata dall’apostolo Simone contiene la data 1321, anno in cui sono stati eseguiti non solo il Giudizio Universale e gli Apostoli, pini pini ab 120 AUTUNNO 2014 cifisso, il raffinato drappeggio e la trasparenza del panno che avvolge i fianchi di Gesù, o ancora il tentativo di creare uno spazio tridimensionale nel recinto che racchiude le anime dannate. Se i dipinti dell’area absidale si qualificano come un ciclo decorativo unitario con intenti didascalici, gli affreschi che ornano le pareti dell’aula sono invece ex voto che raffigurano i santi taumaturghi più comuni come sant’Antonio Abate che ai suoi piedi ha le figurette degli offerenti, o la Madonna della Misericordia e la Madonna con Gesù Bambino. Prima di lasciare la collina su cui si trovano San Pietro in Mavinas e il bel giardino di ulivi che la circonda resta un piccolo segreto da svelare, legato proprio alla sua posizione geografica. Sembra, infatti, che il curioso toponimo mavinas, presente fin dalle origini nella designazione della chiesa (talvolta anche nell’accezione maschile mavino), derivi dalla sua suggestiva posizione: mavinas sarebbe infatti il volgarizzamento del latino summavinea, la vigna più alta della città.