olivettiano - Comune di Pisa

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olivettiano - Comune di Pisa
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" Gli amici di mio fratello, Gino, dividevano con noi le nostre cene, a base di
minestrina Liebig e frittata, e poi sedevano attorno al tavolo, ad ascoltare le storie
e le canzoni di mia madre. Tra questi amici, ve n'era appunto uno che si chiamava
Adriano Olivetti. Ed io ricordo la prima volta che entrò in casa nostra, vestito da
soldato, poichè faceva a quel tempo, il servizio militare. Adriano aveva allora la
barba, una barba incolta e ricciuta, di un colore fulvo, aveva lunghi capelli biondo
fulvi che gli si arricciolavano sulla nuca, ed era grasso e pallido. La divisa militare
gli cadeva male sulle spalle, che erano grasse e tonde, e io non ho mai visto una
persona, vestire panni grigio-verdi e con la pistola alla cintola, dall'aria più goffa e
meno marziale di lui. Aveva un aspetto malinconico, forse perchè non gli piaceva
niente fare il soldato. Era timido e silenzioso, ma quando parlava, parlava allora a
lungo, con voce bassissima, e diceva cose oscure e confuse, fissando il vuoto, con
i piccoli occhi celesti, che erano insieme, freddi e sognanti. Adriano, era allora
l'incarnazione, di quello che mio padre osava definire, "un impiastro". Tuttavia, mio
padre, non disse mai di lui che era un impiastro, né un salame, né un negro. E mi
domando perché, e penso che forse mio padre possedeva una maggiore
introspezione psicologica, di quanto noi non sospettassimo, e intravvide nelle
spoglie di quell'Adriano, timido e impacciato, l'immagine di quello che sarebbe
diventato più tardi. Ma forse non gli diede dell’impiastro soltanto perché sapeva
che andava in montagna, che era antifascista, figlio di un socialista, amico anche lui
di Turati."
Natalia Ginzburg in "Lessico familiare"
da http://www.stefanomeneghetti.it
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IL J'ACCUSE . Olivetti l'anti-manager
Franco Ferrarotti
Sono l’unico sopravvissuto, l’unico superstite e superteste, dei tre stretti collaboratori di Adriano
Olivetti. Il critico letterario Geno Pampaloni e il giornalista e scrittore Renzo Zorzi, vicino ai
socialisti, purtroppo sono morti. Quindi, non posso tacere. (...) L’imprenditore non è un
amministratore. L’amministratore amministra l’esistente. Gestisce. Calcola le entrate e le uscite.
Imposta i bilanci preventivi e analizza i bilanci consuntivi. Meticoloso, puntuale, occhiuto. Deve
essere onesto e solo in Paesi tecnicamente arretrati e moralmente discutibili si depenalizza il falso
in bilancio. In Paesi mediamente civili si va in galera. L’amministratore è un gestore.
L’imprenditore è un sovversivo. Non accetta l’esistente come dato di fatto. La sua azienda deve
essere processiva e propulsiva, senza confondere espansione caotica e priva di disegno con lo
sviluppo ordinato e omogeneo, rispettoso degli equilibri ecosistemici e dei ritmi vitali della
comunità. Olivetti era un imprenditore. Trasformò la piccola fabbrica paterna di mattoni rossi, in
via Jervis a Ivrea – la prima in Italia a produrre macchine da scrivere –, in una grande azienda
multinazionale su scala planetaria. Ma nulla in lui aveva a che vedere con la rapacità del tycoon di
oggi. E questo per almeno due aspetti essenziali. Olivetti rifiutava e denunciava polemicamente il
principio della a-territorialità su cui si fondano le iniziative, spesso piratesche, delle multinazionali,
le quali negano in tal modo ogni responsabilità etica verso la comunità d’origine. Inoltre, egli
considerava il profitto un indice indubbiamente importante della razionalità della gestione,
produttiva e distributiva, la quale però non andava concepita come obiettivo da conseguirsi nel più
breve tempo possibile, bensì tenendo presenti le caratteristiche umane e dell’ambiente. In altri
termini, industrializzare senza disumanizzare.
Come logica conseguenza, una duplice azione di grande incisività:
1) sul piano della fabbrica, massima produttività per uomo-ora e in termini di volume produttivo
globale, ma non a spese dell’integrità umana operaia. La Olivetti è fra le prime fabbriche al mondo
a rinunciare al sistema di cottimo Bédaux, il sistema di misurazione dei tempi di lavoro basato sulla
velocità del lavorato, tendente a mettere competitivamente un operaio contro l’altro; a
modificare la catena di montaggio, ripetitiva, con i suoi effetti negativi sul lavoratore; a modificare
la pratica dell’Ufficio Tempi e Metodi, in modo da non considerare le pause e i movimenti di singoli
operai che non fossero previsti dal protocollo produttivo come tempi passivi o tempi morti. Alla
domanda degli ingegneri: «Ma perché non addestrare gli operai mentre lavorano, realizzando così
notevoli risparmi?», la risposta di Olivetti, da me personalmente in più di un caso udita e
registrata, era sempre la stessa: «Gli animali si addestrano. Le persone si educano».
2) La fabbrica non vive nel vuoto sociale. La fabbrica è parte, vive e si sviluppa insieme con la
comunità. Di qui il nesso, esistenziale e produttivo, fra fabbrica e comunità. La cosa non è stata
capita dai politici e dai sindacalisti tradizionali. Sta di fatto che, per gli aspetti positivi, Olivetti
precede di almeno trent’anni l’avvento dell’homo novus del capitalismo moderno, il Chief
Executive Officer (Ceo). Questa figura nasce sulle ceneri del vecchio fondatore e dei nuovi
manager di professione, specializzati nella gestione ordinaria ma del tutto inetti quando si tratta di
affrontare situazioni eccezionali. La società per azioni moderna, d’altro canto, la corporation, vive
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e si sviluppa affrontando le sfide. Cresce nell’innovazione. Si affloscia, deperisce ed eventualmente
muore nella routine. O cade vittima del cannibalismo industriale, di una scalata ostile. Il Ceo oggi
rappresenta il nuovo potere basato sulla conoscenza degli arcani del potere; è legato all’alta
finanza, apolide, piratesca, tesa alla massimizzazione del profitto nel più breve tempo possibile. Il
Ceo è il beneficiario del risveglio del potere capitalistico. È il nuovo protagonista della gestione
creativa del capitale, al di là delle frontiere nazionali. Non ha patria. È cittadino del mondo. Ubi
bene ibi patria. Rovescia il Manifesto di Marx: «Capitalisti di tutto il mondo unitevi».
Il Ceo è il regista nella cabina di comando. È l'homo novus del potere globale. Ma il Ceo non legge.
O legge poco. Non ha tempo. Pianifica. Non sa. Intuisce. Decide. Nessuna esitazione fra pensiero e
decisione. Semplicità. Tensione verso lo scopo. Olivetti vede per tempo e con chiarezza i pericoli
della speculazione finanziaria, che è alla fonte dell’attuale crisi economica planetaria. Ma l’uomo
che aveva creato una multinazionale presente in tutto il mondo e al contempo radicata nella
«comunità naturale» del Canavese; che aveva intuito il nesso vitale fra industria e cultura, tanto
da considerare le biblioteche dei centri comunitari parte integrante del salario operaio, non poté
impedire che gli avvoltoi scendessero rapidissimi sul cadavere ancora caldo e che cominciasse lo
smembramento della sua ditta. Dopo il geniale «utopista tecnicamente provveduto» arriva chi
spezzetta il complesso industriale e comincia a venderlo sul mercato, pezzo per pezzo, ai migliori
acquirenti.
da Cultura - 15 ottobre 2013 http://www.avvenire.it/
Cronologia Olivetti
1908-1960
1908 - A Ivrea, su iniziativa di Camillo Olivetti
si costituisce la Società in accomandita
semplice "Ing. Olivetti et Compagnia" con lo
scopo di progettare e produrre macchine per
scrivere. Il capitale iniziale è di 350 mila lire.
Nei 500 metri quadrati dell'officina iniziano a
lavorare 20 operai.
1911 - Dopo quasi due anni di lavoro la prima macchina per scrivere italiana, la M1, viene
presentata all'esposizione universale di Torino; sul mercato costa 500 lire.
1912-1914 - Si aprono le prime filiali in Italia, giungono alcune commesse consistenti. Dalle officine
di Ivrea escono 23 macchine alla settimana.
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1919 - Il primo edificio dell'officina è ampliato per ospitare la produzione di macchine per scrivere,
che riprende più intensa al termine della guerra.
1920 - Viene presentato un secondo modello di macchina per scrivere, la M20, che troverà sbocchi
in nuovi mercati internazionali, europei e sudamericani soprattutto.
1924-1925 - L'ingegner Adriano Olivetti, primogenito di Camillo, entra in azienda: la sua prima
esperienza è in fabbrica, dove lavora come operaio. Nel 1925 si reca negli Stati Uniti dove raccoglie
idee ed esperienze che utilizzerà per ammodernare la tecnologia e l'organizzazione del lavoro
nell'azienda paterna.
1929-1931 - Nonostante la crisi economica mondiale, l'Olivetti investe per rafforzare la struttura
commerciale in Italia e all'estero. Si costituisce a Barcellona la prima consociata industriale, la S.A.
Hispano Olivetti. Nel 1930 esce una nuova macchina per scrivere, la M40.
1932 - Esce la prima macchina per scrivere portatile, la MP1. L'Olivetti assume la forma giuridica di
Società anonima. A fine anno Adriano Olivetti è nominato Direttore Generale.
1933 - A 25 anni dalla fondazione, l'Olivetti ha una produzione annua di 15 mila macchine per
ufficio e di 9.000 portatili; i dipendenti sono 870. In Italia l'organizzazione commerciale è costituita
da 13 filiali e 79 concessionari; all'estero Olivetti è presente in 22 paesi.
1934 - Iniziano i primi studi per la progettazione di macchine addizionatrici.
1935 - Il design della nuova macchina per scrivere "Studio 42" per la prima volta è frutto della
collaborazione tra tecnici e architetti.
1937 - Inizia una nuova produzione, quella delle telescriventi, con il modello T1.
1938 - Si avvia a Massa Carrara la costruzione di un nuovo stabilimento, destinato ad accogliere la
produzione dei mobili e schedari per ufficio Synthesis.
1940 - Esce l'addizionatrice MC4S
Summa. E' la prima macchina da
calcolo progettata e interamente
costruita da Olivetti. Viene
organizzata la biblioteca di
fabbrica.
1943-1945 - Nel dicembre del 1943
muore il fondatore, Camillo
Olivetti. Il figlio Adriano, che nel
febbraio 1944 è costretto a
riparare in Svizzera, alla fine della
guerra ritorna alla guida della società. L'attività produttiva riprende rapidamente; si riorganizza la
rete commerciale.
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1948 - La nuova macchina per scrivere Lexikon 80 e la calcolatrice Divisumma 14 segnano una
svolta importante nel campo della scrittura e del calcolo meccanico; questi prodotti sono accolti
dal mercato in maniera estremamente favorevole.
1950 - Viene introdotta una nuova organizzazione del lavoro per il montaggio dei prodotti,
secondo sistemi in linea continua con trasportatori. Si completano ulteriori ampliamenti dello
stabilimento di Ivrea su progetto degli architetti Figini e Pollini: l'edificio con la facciata in vetro per
lungo tempo costituirà nel mondo un esempio unico di nuova architettura industriale. Esce la
macchina per scrivere portatile "Lettera 22", che guadagnerà (con altre macchine Olivetti) un
posto permanente nel Museo d'Arte Moderna di New York. Viene presentata anche la macchina
per scrivere Lexikon Elettrica: è il primo modello elettrico.
1951 - Apertura in Argentina di un nuovo stabilimento. L’Olivetti si associa allo studio per un
nuovo piano regolatore della città di Ivrea.
1952 - A New Canaan, negli Stati Uniti, la Olivetti inizia attività di studio e ricerca nel campo dei
calcolatori elettronici; l'iniziativa è coordinata da Dino Olivetti.
1954 – Apre a New York il nuovo negozio Olivetti nella Quinta Strada.
1955 - Nuove sedi e fabbriche testimoniano lo sviluppo della società: si inaugurano gli stabilimenti
di Agliè, nel Canavese, e di Pozzuoli; a Milano apre la nuova sede della direzione commerciale; a
Ivrea entra in funzione il nuovo edificio del Centro studi, mentre si lavora all'ampliamento degli
stabilimenti. Si costituisce a Pisa un gruppo di ricerca, affidato all'ingegner Mario Tchou, per
sviluppare un calcolatore elettronico per applicazioni commerciali. Il gran premio nazionale
Compasso d'Oro per meriti conseguiti nel campo dell'estetica industriale viene attribuito ad
Adriano Olivetti. In Italia i dipendenti sono 11.353; in tutto il mondo raggiungono le 16 mila unità.
1956 - Esce la calcolatrice Divisumma 24, progettata da Natale Capellaro e disegnata da Marcello
Nizzoli, che avrà uno straordinario successo in tutto il mondo. 1958 - Prosegue il processo di
rapido sviluppo sui mercati internazionali: l'esportazione si aggira intorno al 60% dell'intera
produzione Olivetti.
1959 - Viene presentato l'Elea 9003, il primo calcolatore elettronico realizzato in Italia; per le
innovative soluzioni adottate è considerato un prodotto tecnologicamente di avanguardia. In
ottobre Olivetti stipula un accordo per rilevare il 30% delle azioni della Underwood, storica
fabbrica americana di macchine per scrivere, con oltre 10 mila dipendenti.
1960 - Il 27 febbraio improvvisamente muore Adriano Olivetti. La guida della società è affidata a
Giuseppe Pero. Le azioni privilegiate sono quotate in borsa. La partecipazione azionaria nella
americana Underwood sale al 70%. Esce una nuova macchina contabile, la fatturatrice Mercator
5000, frutto dell'esperienza acquisita in campo meccanico ed elettronico. Produzione e vendite
registrano aumenti superiori al 40%.
da www.storiaolivetti.it
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Pionieri dell'elettronica
Fino alla metà degli anni '50 in Italia i calcolatori elettronici sono macchine pressoché sconosciute:
enormi, costose, difficili da usare, non hanno mercato. Il primo calcolatore arriva nel 1954, quando
il Politecnico di Milano acquista in California un sistema CRC; lo porta dall'America il prof. Luigi
Dadda, che ha personalmente seguito la messa a punto presso il costruttore. Le imprese italiane
non pensano ancora all'impiego di sistemi elettronici, né tanto meno sono in grado di interessarsi
alla progettazione e costruzione di queste macchine. In Italia l'Olivetti è probabilmente l'unica
impresa che, pur riscuotendo un grande successo con le sue macchine per ufficio a tecnologia
elettromeccanica, guarda avanti e si interessa all'elettronica. Nel 1949 Enrico Fermi visitando
l'Olivetti aveva richiamato l'attenzione di Adriano Olivetti sui possibili sviluppi dell'elettronica. Nel
dicembre di quello stesso anno l'azienda aveva concluso un accordo con la francese Compagnie
des Machines Bull e aveva dato vita alla joint-venture Olivetti-Bull per commercializzare macchine
a schede perforate. Nel 1950 l'Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo (INAC)
dell'Università di Roma aveva proposto all'Olivetti un progetto per realizzare un calcolatore
elettronico in Italia; ne era seguita una missione conoscitiva negli USA, con la partecipazione anche
di un rappresentante dell'Olivetti, presso i principali laboratori elettronici americani, ma poi il
progetto era stato abbandonato per mancanza di risorse economiche.
Nel 1952 Dino Olivetti (1912-1976), fratello di Adriano, aveva aperto a New Canaan nel
Connecticut (USA) un centro di ricerche elettroniche per seguire gli sviluppi della nuova
tecnologia. Questo laboratorio si era impegnato anche nello sviluppo di alcuni prodotti per il
mercato, ma è dal 1955 che l'attenzione dell'Olivetti per l'elettronica diventa molto più concreta.
Quando l'Università di Pisa accoglie una proposta di Enrico Fermi e avvia il progetto di un
calcolatore elettronico per applicazioni tecnico-scientifiche (CEP - Calcolatrice Elettronica Pisana),
l'Olivetti si associa all'iniziativa e il 7 maggio 1955 firma una convenzione con l'Università di Pisa a
cui offre un sostegno finanziario e il supporto di suoi ricercatori. Dopo pochi mesi, probabilmente
sollecitata anche da Roberto Olivetti (1927-1985), figlio di Adriano, l'azienda pur continuando a
collaborare con l'Università di Pisa, decide di lanciare un proprio progetto per realizzare un
calcolatore general purpose per scopi industriali e commerciali.
Il progetto Elea
In una villetta di via del Capannone, a Barbaricina presso Pisa, si
insedia un Laboratorio di Ricerche Elettroniche (LRE). Lo guida
Mario Tchou (1924-1961), un giovane ingegnere italo-cinese,
specializzato in fisica nucleare, incontrato da Adriano Olivetti alla
Columbia University di New York. Attorno a Tchou si raccoglie un
gruppetto di giovani ed entusiasti ricercatori che, insediati nel
novembre 1955 in una villetta di Barbaricina, alla periferia di
Pisa, iniziano a lavorare al progetto. Con nuove assunzioni il
gruppetto dei ricercatori ben presto sale a una cinquantina e i
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risultati sono eccezionali: già nella primavera 1957 viene messo a punto un prototipo (Elea 9001 o
"macchina zero", poi trasferita a Ivrea per automatizzare la gestione del magazzino), mentre
l'anno successivo è pronto l'Elea 9002 a valvole (o "macchina 1V", poi trasferita alla direzione
commerciale a Milano) che può essere considerato il prototipo di una macchina commerciale.
Tchou, però, ne sospende il lancio sul mercato per sviluppare una macchina completamente
transistorizzata, più veloce e meno costosa (la tecnologia del transistor è in rapido sviluppo negli
USA). L'8 novembre 1959, l'Olivetti è in grado di presentare al Presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi l'Elea 9003 (acronimo di Elaboratore Elettronico Aritmetico).
E' il primo calcolatore progettato e realizzato interamente in Italia e sul piano tecnologico in quel
momento è forse il più avanzato sul mercato mondiale. Si basa su una struttura logica
d'avanguardia, in larga misura pensata da Giorgio Sacerdoti (1925-2005), e presenta un design
fortemente innovativo, dovuto a Ettore Sottsass (1917-2007).
da www.storiaolivetti.it
Adriano, Tchou e il sogno dei ragazzi di Barbaricina
“lavoravamo per Olivetti, ma
pensavamo al futuro del nostro
Paese”
di Giorgia Bassi
E’ stato il primo calcolatore a transistori introdotto
sul mercato mondiale. L’Elea 9003, avanguardia
tecnologica e commerciale dei moderni computer,
è lo specchio dell’Italia di cinquant’anni fa:
operosa, creativa, proiettata al futuro. Franco
Filippazzi è uno dei “ragazzi di Barbaricina”, i
ricercatori della Olivetti in “missione” a Pisa che, in
concomitanza con l’iniziativa Cep, progettarono
l’Elea. Egli ci racconta i sogni di un gruppo di
giovani ricercatori, condotti per mano da un
industriale con l’occhio più puntato al progresso
del Paese che non ai ricavi: Adriano Olivetti. E la delusione per un’avventura finita troppo presto.
Come iniziò la sua partecipazione al progetto Cep-Elea?
Era l’autunno del 1955 quando l’Olivetti pubblicò un annuncio per la ricerca di fisici e ingegneri da
avviare ad attività in campo elettronico. Feci il colloquio di assunzione con l’ingegner Mario Tchou
e, successivamente, ebbi modo di incontrare anche Adriano Olivetti durante una delle sue visite a
Pisa. Tchou mi spiegò molto chiaramente lo scopo dell’iniziativa: l’Olivetti, allora leader nel campo
delle macchine da ufficio basate sulla meccanica, aveva la necessità di avviare un’iniziativa
strategica per entrare nel settore, ancora pionieristico, dei calcolatori elettronici. La meccanica
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aveva portato l’azienda a un successo mondiale: ma il futuro era nell’elettronica. Adriano Olivetti
l’aveva ben chiaro, in opposizione tra l’altro all’establishment conservatore dell’azienda che
vedeva in questa iniziativa uno spreco di risorse.
Come fu l’accoglienza da parte dei ricercatori pisani impegnati nella messa a punto della Cep?
Arrivai a Pisa nel novembre dello stesso anno. Allora la sede del laboratorio di ricerche Olivetti non
era stata ancora approntata, perciò lavorai qualche mese all’Istituto di Fisica insieme ai ricercatori
della Cep. I temi delle nostre ricerche erano molto simili, se non uguali, pertanto si instaurò subito
un clima di collaborazione e amicizia. Alcuni di loro, come Sibani e Cecchini, erano ricercatori della
Olivetti già assegnati al progetto della Cep: con quest’ultimo, in particolare, lavorai alla memoria a
nuclei della macchina.
Che atmosfera si respirava nel Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti, sotto la guida
dell’ing. Tchou?
Nel ’56 il gruppo di lavoro creato da Tchou si trasferì a Barbaricina, dove fu avviato il progetto
dell’Elea. All’inizio eravamo pochi: quattro laureati più qualche diplomato e alcuni tecnici. Si stabilì
da subito un clima di collaborazione, anche perché eravamo tutti giovani e molto motivati, con la
sensazione di vivere un’avventura non comune: scientifica, tecnologica e industriale. D’estate a
mezzogiorno andavamo a Marina di Pisa per poi rientrare nel primo pomeriggio e lavorare fino a
tarda notte. Non mancava mai l’allegria. Avevamo perfino dei nomignoli: io, per esempio, ero Flip,
il cagnolino spaziale di Eta Beta; Borriello era Bohr, il celebre fisico. Potevamo contare su una
grande libertà di azione e molta autonomia nell’ambito del compiti assegnati.
Dietro la realizzazione della Cep e del primo calcolatore commerciale italiano c’è una storia di
uomini che per anni lavorarono fianco a fianco, condividendo gioie e momenti critici. A chi si
sente più legato?
Su tutti vorrei ricordare Mario Tchou: non tanto come capo, ma come amico. Egli impersonava lo
spirito del gruppo, la voglia di fare qualcosa di nuovo, di dare un contributo in un settore che allora
era ancora agli albori. Con lui c’era un rapporto di autentica amicizia, ricordo con piacere le cene a
casa sua, vicino a Ponte di Mezzo: egli aveva la capacità di guidare un gruppo non con
l’imposizione, ma con la motivazione.
Quali furono gli aspetti comuni e le principali differenze tra Cep e Elea?
Gli elementi concettuali erano ovviamente comuni: c’erano però alcune differenze sostanziali tra i
due progetti. La Cep era una macchina pensata per il calcolo scientifico, quindi con un’architettura
ben precisa; l’Elea, invece, aveva come obiettivo primario le applicazioni gestionali, aziendali e
commerciali. Ancora, la Calcolatrice pisana era concepita come un prototipo di laboratorio, una
macchina da realizzare in esemplare unico, mentre l’Elea doveva essere prodotta in serie, con
caratteristiche competitive; per questo occorreva prestare molta attenzione a problemi del tutto
irrilevanti per la Cep come la standardizzazione, la producibilità, la facilità d’uso, il costo e il design.
Dopo un primo prototipo con circuiti a valvole, l’Elea fu interamente riprogettata utilizzando
soltanto transistori: decisione strategica dettata dalla consapevolezza che andare sul mercato alla
fine degli anni 50 con una macchina a valvole non sarebbe stato competitivo. La calcolatrice pisana
venne invece realizzata in prevalenza a valvole, utilizzando i transistori solo in alcune componenti.
L’Elea 9003 fu annunciata nel maggio del ‘59 alla Fiera di Milano e a quell’epoca rappresentò il
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primo elaboratore completamente a transistori messo sul mercato mondiale. Una primogenitura
giustamente rivendicata dalla Olivetti.
Tra voi ricercatori c’era la consapevolezza che i calcolatori elettronici avrebbero cambiato
radicalmente la società, innescando anche conseguenze traumatiche?
Per forma mentis parecchi di noi erano portati a filosofeggiare. Ricordo delle passeggiate serali
sulle rive dell’Arno durante le quali si parlava tra l’altro delle conseguenze di quello che anche noi
stavamo contribuendo a realizzare. Sicuramente, la percezione delle ricadute positive ma anche
negative o comunque da seguire con attenzione c’era già allora, anche se l’idea della
meccanizzazione dell’intelligenza era un argomento trattato solo nei racconti di fantascienza.
Come procedeva la ricerca scientifica negli anni ‘50 senza i moderni sistemi di diffusione e
condivisione delle conoscenze?
Era un mondo oggi quasi inconcepibile. Le comunicazioni tra gli addetti ai lavori erano scarse e
lente. Si lavorava a “isole”, ogni tanto c’erano degli scambi ma a quel tempo i ricercatori erano
veramente pochi, non esistevano libri o riviste in materia; succedeva, quindi, che si inventassero
cose che erano già state inventate altrove e magari anche scartate. Oggi è tutto diverso: dobbiamo
addirittura proteggerci dall’eccesso di informazioni. A proposito di occasioni di confronto, ricordo
un episodio divertente legato al problema del linguaggio, poiché la lingua franca del settore era,
allora come oggi, l’inglese, usato spesso in espressioni gergali. Rammento l’imbarazzo che provai
quando un americano, in visita al nostro laboratorio, mi chiese di vedere gli “shmoo” della
memoria a cui stavo lavorando. Non fu facile capire a cosa si riferiva. Gli “shmoo”, in slang, erano
le nuvolette dei personaggi dei fumetti che per la loro forma indicavano quello che noi
chiamavamo “curve marginali”.
Ci furono quindi collaborazioni anche con ricercatori stranieri?
Ci furono degli scambi, anche grazie a Tchou che aveva rapporti con ricercatori americani. Allora
però la politica aziendale era piuttosto restrittiva, si voleva proteggere quello che era stato fatto
prima di divulgarlo. Fece un grande lavoro l’ufficio brevetti Olivetti di Ivrea durante la nostra
attività a Pisa: i brevetti servivano in termini di difesa più che attacco, politica adottata allora da
tutte le grandi industrie, a cominciare da Ibm.
Quanto hanno influito, secondo lei, il momento storico favorevole e la figura di un industriale
illuminato come Olivetti nella realizzazione di “prodotti di eccellenza” come l’Elea?
Sono le personalità di spicco che determinano il corso degli eventi e Adriano Olivetti era una di
queste: un leader, un visionario nel senso positivo del termine, una persona con la capacità di
guardare avanti. E’ scomparso troppo presto, nel 1960, nel pieno della sua attività, quando la sua
presenza sarebbe stata quanto mai preziosa. Con lui la storia successiva della Olivetti e
dell’informatica italiana avrebbe potuto avere un corso diverso. Allora c’era la voglia di portare
avanti esperienze, come l’informatica, strategiche per l’intera nazione, non solo per l’azienda.
Eppure l’Olivetti dell’epoca dovette contare solo sulle proprie forze, senza alcun sostegno da parte
del Governo, come avvenne invece in altri paesi, e senza l’appoggio delle banche. La situazione
precipitò negli anni 60 quando l’azienda, in serie difficoltà economiche fu costretta - tra
l’indifferenza dei media - a cedere l’intero settore elettronico alla General Electric. Peccato.
*Laureato in Fisica all’Università di Pavia, Franco Filippazzi ha ricoperto un ruolo pionieristico
nell’informatica italiana.
da http://www.itawards.it
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Lo stato sociale olivettiano e la filosofia di un’azienda
Responsabilità sociale o convenienza? Paternalismo o
imprenditoria illuminata? L’insolito caso di un’azienda che
investe nei servizi sociali per i dipendenti e il territorio.
Alle origini dello "stato sociale" olivettiano
L’articolato sistema dei servizi sociali della Olivetti raggiunge la maggiore estensione tra gli anni
’50 e ’70, ma le sue basi sono più antiche; sono da ricercare nello spirito e nella cultura del
fondatore Camillo Olivetti e del figlio Adriano. La prima mutua aziendale, alla quale
contribuiscono in egual misura i dipendenti e la Direzione, risale al 1909, appena un anno dopo la
costituzione della Società; nel 1932 nasce la Fondazione Domenico Burzio (intitolata al primo
direttore tecnico della Olivetti e stretto collaboratore di Camillo), creata per garantire all’operaio
“una sicurezza sociale al di là del limite delle assicurazioni”; l’ufficio assistenti sociali e il servizio di
autobus per trasportare i dipendenti dai paesi circostanti a Ivrea sono istituiti nel 1937.
Fino agli anni ’30, i servizi sociali in genere si configurano come misure assistenziali decise dalla
Direzione per venire in aiuto del singolo operaio in situazione di indigenza. Ma in seguito, con
Adriano Olivetti, i provvedimenti vengono istituzionalizzati: assumono la forma di un sistema
organico di servizi sociali, sono caratterizzati da una forte attenzione alla persona e dalla costante
ricerca della qualità e dell’efficienza. Inoltre, non sono più una concessione del padrone, ma un
diritto del lavoratore. A questa impostazione contribuisce in modo significativo il Consiglio di
Gestione, istituito nel 1948 e rimasto in carica fino al 1971. Il Consiglio è un organo interno ma
autonomo; ne fanno parte rappresentanti dell’azienda e dei dipendenti; ha potere consultivo in
materia di organizzazione del lavoro, pianificazione degli impianti industriali, programmazione
della produzione, miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori dentro e fuori la fabbrica e
ha parere vincolante per quanto riguarda la ripartizione delle risorse destinate dalla Direzione ai
servizi sociali e di assistenza.
Colmare le lacune e anticipare i tempi del welfare state
I servizi sociali della Olivetti si differenziano da analoghe esperienze di grandi industrie italiane non
solo per la vastità (coprono e assicurano tutto l’arco di vita del dipendente e dei suoi familiari), ma
soprattutto per la qualità, l’indipendenza di gestione dall’azienda e l’apertura verso la comunità
locale.
L’inizio della Carta Assistenziale, redatta tra il 1949 e il 1950 dal Consiglio di Gestione, ne
sottolinea un aspetto fondamentale: “Il servizio sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni
lavoratore dell’Azienda contribuisce con il proprio lavoro alla vita dell’Azienda medesima […] e
potrà pertanto accedere all’istituto assistenziale e richiedere i relativi benefici senza che questi
possano assumere l’aspetto di una concessione a carattere personale nei suoi riguardi”.
Dunque, in Olivetti i servizi sociali non sono intesi come elargizione paternalistica del padrone, ma
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rientrano in una visione di responsabilità sociale dell’azienda. L’impresa è uno dei principali fattori
di mutamento del tessuto sociale e quindi deve contribuire alla ricerca di una migliore qualità della
vita individuale e collettiva. Nella filosofia che ispira questa visione non è però estranea l’idea che
un ampio sistema di assistenza sociale contribuisca a migliorare il rendimento (ovvero la
produttività) e il coinvolgimento dei lavoratori, dal momento che questi sanno che il loro futuro e
quello delle loro famiglie è protetto e assicurato. In altri termini, la creazione di un ambiente
sociale positivo rafforza la fedeltà del lavoratore e la sua disponibilità a collaborare attivamente
allo sviluppo dell’impresa. In ogni caso, i servizi sociali della Olivetti non mirano a sostituirsi al
sistema pubblico, ma semmai a colmarne le carenze o ad anticiparne i tempi. E infatti, con il
progressivo rafforzarsi dello stato sociale, per effetto di nuove leggi e nuovi contratti collettivi di
lavoro, il ruolo dei servizi aziendali tende a ridursi, come si è verificato soprattutto a partire dagli
anni ’80.
Sei aree d'intervento dei servizi sociali
Nel periodo di maggiore sviluppo, i servizi sociali della Olivetti sono distribuiti in fitta trama su
tutto il territorio, non solo vicino alla fabbrica, e alcuni di essi sono aperti a tutta la popolazione. Si
possono individuare sei principali aree di intervento:
· assistenza maternità e infanzia: oltre a servizi tradizionali, come asili o colonie estive, la Olivetti
offre alle dipendenti durante la maternità una propria assistenza sanitaria e un vantaggioso
trattamento salariale (astensione dal lavoro per 9 mesi e mezzo all’80% del salario);
Borgo Olivetti a Ivrea
intorno
al
1950.
Bambini nel giardino
dell'asilo-nido
realizzato
dagli
architetti Luigi Figini e
Gino Pollini tra il 1939 e
il 1941 .
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- assistenza sanitaria: coordinata dall’ambulatorio generale, ha una copertura molto vasta. Oltre
all’assistenza in fabbrica per gli infortuni, l’ambulatorio svolge attività di prevenzione delle
malattie professionali e di profilassi per le famiglie, agendo sia attraverso i propri medici, sia
indirizzando all’esterno. Un Fondo di Solidarietà Interna, costituito nel 1960 e alimentato dai
contributi dei lavoratori e dell’azienda, integra le prestazioni del servizio sanitario nazionale;
· assistenza sociale: un aspetto innovativo dei servizi Olivetti è la presenza di assistenti sociali in
fabbrica. Il servizio, voluto da Adriano Olivetti, seppur collegato all’Ufficio Personale, agisce con
autonomia, intervenendo sia nei casi dei singoli lavoratori (ambientamento di nuovi assunti,
difficoltà di tipo economico-sociale, disadattamento al lavoro), sia a livello collettivo, rilevando le
condizioni di lavoro e collaborando per migliorare l’organizzazione della fabbrica.
Un'aula per le lezioni del Centro Formazione Meccanici a Ivrea negli anni '50. I corsi del Centro (nato nel
1935) sono biennali o triennali e rilasciano la qualifica di operaio specializzato. Gli allievi, scelti tramite
esame, sono retribuiti secondo un particolare contratto di lavoro e godono delle provvidenze sociali come i
dipendenti della Società.
· istruzione professionale: per rispondere alla necessità di formare personale specializzato la
Olivetti gestisce una scuola organizzata in vari livelli con un Centro Formazione Meccanici, un
corso per disegnatori, corsi serali, un Istituto Tecnico. La scuola è aperta tramite selezione a tutta
la popolazione e, inoltre, fornisce borse di studio per i dipendenti Olivetti;
· servizi culturali: gestiti dal Centro Culturale mirano a fornire un insieme organico di strumenti di
studio, informazione e ricreazione tramite la biblioteca di fabbrica (61.000 volumi e 3.000 periodici
nel 1961 a Ivrea), manifestazioni culturali (dibattiti con specialisti di fama su temi di attualità,
rassegne d’arte, proiezioni cinematografiche), corsi popolari, studi e pubblicazioni. Negli anni ’50 e
’60 le conferenze, i concerti e gli spettacoli si svolgono nei pressi della fabbrica anche durante le
due ore di intervallo per il pranzo;
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La foto (anni '60) mostra una sala di consultazione della biblioteca Olivetti di Ivrea, creata nel 1940. In tutti
gli stabilimenti Olivetti è annessa una biblioteca di fabbrica, suddivisa in 3 sezioni: culturale (aperta anche
alla popolazione), tecnica e ricreativa. Il loro patrimonio è molto ricco e continuamente aggiornato (61.000
volumi e 3.000 periodici nel 1961 nella biblioteca di Ivrea), per diventare strumento di diffusione di cultura
sia professionale sia umanistica.
Nel 1971 Pier Paolo
Pasolini (1922-1975) tiene una conferenza al Centro Culturale Olivetti di Ivrea. Il dibattito, coordinato da
Guido Aristarco, verte sul rapporto tra cinema e poesia nell'ultima produzione dell'autore. Pasolini in
precedenza aveva già tenuto due conferenze a Ivrea, sempre per iniziativa del Centro Culturale Olivetti, nel
1957 e nel 1966. Il Centro Culturale, nato nel 1951, organizzava per i dipendenti numerose manifestazioni
culturali con dibattiti e convegni su temi di attualità, invitando specialisti di fama e personaggi di spicco
della cultura contemporanea.
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· gestioni varie: comprendono i servizi di mensa, di trasporto e per l’abitazione (accesso alle case
per dipendenti costruite dalla Olivetti, concessione di prestiti e fidejussioni bancarie, consulenza
tecnica e architettonica gratuita, ecc.).
La mensa aziendale L'edificio, progettato da Ignazio Gardella e terminato nel 1961, ospita la mensa
aziendale e il dopomensa con una piccola biblioteca e una zona relax. Il primo servizio di mensa viene
attivato nel 1936 nel seminterrato delle Officine ICO.
Alle attività gestite direttamente dall’azienda, si aggiungono anche quelle condotte in modo
autonomo dall’Associazione Spille d’Oro, che raggruppa i dipendenti con più di 25 anni di
anzianità aziendale, e dal Gruppo Sportivo Ricreativo Olivetti (costituito nel 1947), associazioni
entrambe ancora attive.
Le case per i dipendenti e la politica edilizia dell’Olivetti,
un’industria che si sente responsabile dell’assetto urbano e del paesaggio edilizio e che investe per
aiutare i dipendenti a risolvere il problema dell’alloggio
Tra il 1926 e il 1977 l’Olivetti realizza a Ivrea e in altre località importanti iniziative di costruzione di
abitazioni per i dipendenti. In genere i progetti sono affidati ad architetti qualificati, che
garantiscono risultati di elevata qualità ambientale e costruttiva, in coerenza con l’idea di Adriano
Olivetti secondo cui le condizioni e l’aspetto dei luoghi di lavoro e di residenza influiscono sulla
qualità della vita sociale e sull’efficienza produttiva.
Le prime abitazioni sono costruite a Ivrea nel 1926 per iniziativa del fondatore Camillo Olivetti.
Sono sei case unifamiliari, realizzate in un’area vicina agli stabilimenti che prenderà il nome di
Borgo Olivetti. Il modello stilistico è di tipo tradizionale; le case dispongono di un orto-giardino,
per contribuire all’autosufficienza alimentare delle famiglie. Un deciso cambiamento delle
politiche abitative interviene nella seconda parte degli anni ’30, in coincidenza con il maggior ruolo
assunto da Adriano Olivetti, figlio di Camillo, nella conduzione dell’Azienda.
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L’incarico di progettare nuove abitazioni viene affidato ad architetti di alto profilo nella cultura
architettonica nazionale e le costruzioni, che offrono standard qualitativi di buon livello, si
inseriscono in un progetto urbanistico complessivo che prevede la nascita di nuovi quartieri
residenziali nelle aree prossime
agli stabilimenti.
Il quartiere Castellamonte
La prima realizzazione è degli
architetti Luigi Figini e Gino
Pollini. Nel 1939-1941 ad opera
dei due architetti sorge una casa
di tre piani nel Borgo Olivetti, a
ridosso della scuola materna, per
ospitare 24 famiglie. Il progetto si
ispira ai canoni dell’architettura
moderna internazionale di quegli
anni, con volumi riconducibili a figure geometriche elementari. Tra il 1940 e il 1942 gli stessi Figini
e Pollini realizzano non lontano dal Borgo Olivetti un complesso di sette case per famiglie
numerose. Le costruzioni hanno forma di parallelepipedi, con tetto piano e pareti esterne
intonacate bianche, in omaggio alla cultura architettonica di matrice razionalista.
In tempo di guerra, nel 1943, con la costruzione di un fabbricato di 3 piani da 15 alloggi l’Olivetti
avvia i lavori per il quartiere di Canton Vesco a Ivrea. Il progetto è di Ugo Sissa, che nel 1945-46
insieme a Italo Lauro realizza nella stessa area altri due edifici. Seguono, tra il 1943 e il 1954, altri
sette fabbricati, tutti direttamente finanziati dalla Olivetti. All’ampliamento del quartiere
contribuiscono anche quattro case di Annibale Fiocchi e Marcello Nizzoli.
La collaborazione tra Fiocchi e Nizzoli è determinante per la definizione dell’assetto architettonico
e urbanistico del quartiere, ma anche per l’avvio di nuove iniziative nel contiguo Canton Vigna. Qui
nel 1950-51 si costruiscono tre fabbricati basati su tre diverse tipologie costruttive. Il quartiere di
Canton Vesco si espande (le ultime costruzioni nelle aree ancora libere sono del 1976) secondo un
modello, tipicamente britannico o scandinavo, che prevede infrastrutture viarie, scuole, servizi
commerciali e sociali (la chiesa è progettata da Nizzoli e Oliveri, la scuola materna da Ridolfi e
Frankl, quella elementare da Ludovico Quaroni) capaci di rendere il quartiere semi-autonomo.
Per fronteggiare la crescente domanda di abitazioni, connessa all’espansione dell’Olivetti, tra il
1958 e il 1962 l’Azienda promuove un altro insediamento residenziale a est di Canton Vesco,
nell’area denominata la Sacca (o Montemarino), dove in seguito sorgeranno varie costruzioni di
cooperative di dipendenti Olivetti. A sud di Canton Vesco viene progettato il nuovo quartiere di
Bellavista, per 4000 abitanti. La progettazione urbanistica, affidata nel 1957 a Luigi Piccinato,
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prevede che il complesso, con ampie aree verdi e a bassa densità abitativa, sia delimitato da una
strada perimetrale da cui si dipartono le vie di accesso ai vari edifici; al centro sono posizionati la
chiesa, le scuole e gli edifici per i servizi.
Anche al di fuori di Ivrea, in altre aree di presenza aziendale come Aglié (TO), Roma e Massa
Carrara, l’Olivetti costruisce case per i dipendenti. Ma il quartiere Olivetti più interessante è
certamente quello di Pozzuoli, posto in prossimità della fabbrica e realizzato in collaborazione con
l’Ina-Casa. Il progetto, contestuale a quello dello stabilimento, è affidato nel 1951 da Adriano
Olivetti a Luigi Cosenza. Tra il 1952 e il 1963 vengono realizzati tre lotti; le case sono disposte
secondo uno schema a corte, in una sequenza continua di fabbricati di due o tre piani uniti dai
corpi scala all’aperto
Parco giochi situato nella zona centrale del quartiere
di Canton Vesco
Le agevolazioni per i dipendenti
Tra il 1926 e il 1976 gli alloggi costruiti
dall’Olivetti, direttamente o in collaborazione con
enti pubblici, sono 1.213 (973 a Ivrea). Le
abitazioni erano date in affitto o a riscatto a
condizioni decisamente vantaggiose rispetto ai
prezzi di mercato; la selezione dei dipendenti era
affidata a una commissione, formata dal
Consiglio di Gestione e dai rappresentanti di
alcuni enti aziendali sulla base di criteri quali: il reddito, le condizioni familiari, l’anzianità
aziendale, ecc. La politica abitativa dell’Olivetti si completava con l’assistenza gratuita e il
finanziamento agevolato dei dipendenti interessati alla costruzione o ristrutturazione delle proprie
abitazioni. L’ente aziendale incaricato era l’Ufficio Consulenza Case Dipendenti (UCCD), dal 1949
al 1969 diretto da Emilio Tarpino. Grazie alla consulenza (e ai prestiti) fornita dall’UCCD con
architetti di prim’ordine si è diffuso nel territorio un certo gusto e stile architettonico che ha
influito positivamente sul paesaggio edilizio. Negli anni ’50 a Ivrea furono progettate per conto di
dirigenti Olivetti alcune abitazioni di notevole interesse architettonico, tra cui casa Gerardi, villa
Rossi, casa Capellaro.
La morte di Adriano Olivetti nel 1960 segna una svolta anche nella politica edilizia della Società:
cambiano i criteri di selezione e cooptazione degli architetti, alcuni progetti sono rallentati o
abbandonati. Mentre i vincoli di bilancio diventano più stringenti, migliorano le condizioni socioeconomiche dei dipendenti, il cui numero – a partire dagli anni ’70 – inizia a calare. Poco alla volta
sfumano, quindi, le ragioni che avevano giustificato i rilevanti investimenti dell’Azienda per
fronteggiare il problema dell’abitazione dei dipendenti.
da www.storiaolivetti.it
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Ricordo di Laura Curino, autrice del testo teatrale" Camillo" e "Adriano"
" Io sono figlia dell'altro modello, io sono stata una bambina Fiat, con tutti gli annessi e connessi,
scuola Fiat, casa Fiat,..."
"Per me d'estate c'erano le colonie Fiat, praticamente il carcere, nelle lunghe ore passate in cella o
nelle ore d'aria, tra noi bambini circolavano leggende, tra quelle, ve n'era una che raccontava
dell'esistenza vicino a noi del paradiso. Quel paradiso, era la colonia Olivetti. Anche perché poi era
una colonia dove i bambini erano ben vestiti, avevano una signorina ogni sei, sette, invece che
ogni trenta bambini, una signorina che non piangeva tutto il giorno, anzi, era contenta di stare lì, i
bambini mangiavano bene, in tavolate piccole, potevano fare il bagno senza fischietti, (che
servivano per richiamarci all’ordine) potevano scrivere lettere che non sarebbero state lette prima
di essere spedite, potevano leggere, non si poteva leggere alle colonie Fiat. Non si poteva neppure
scrivere, chi teneva un diario, doveva farlo di nascosto, ingegnarsi a trovare un posto dove celarlo,
visto che non avevamo la chiave del nostro portello. Là, in paradiso, si diceva che i bambini
avessero un armadietto, con la chiave, quel paradiso era la colonia Olivetti."
"Ma davvero non si poteva leggere alle colonie Fiat?"
"No, non si poteva leggere, perché si doveva prendere il sole, e mangiare molto, io infatti che sono
di carnagione bianca, arrivavo sempre tutti gli anni a casa ustionata. Però, questo non era un
problema, cioè, finchè pensavi che la parola colonia volesse dire quello, ehh behh....un mese
all'anno, si fa, arrivava il medico, ti toccava sotto la gola, la bambina è linfatica, e quando la
bambina era linfatica, ti toccava la colonia, il guaio è stato quando scopri il tradimento delle
parole, cioè che c'è un'altra cosa che si chiama colonia, la parola è la stessa, però lì si può leggere,
si può leggere, noi facevamo commercio sotterraneo di giornalini.... "
"La registrazione di "Camillo" avvenne sul tetto della mensa, lì abbiamo ricostruito un teatro, ed
era veramente emozionante, mentre raccontavo, c'era una di queste macchine dinosauro, che col
suo lungo braccio...., citavo il Convento, e sotto di noi c'era il Convento, dove aveva vissuto
Camillo, la fabbrica di Figini e Pollini, le torri di Ivrea, è stato davvero emozionante, non è un caso
che quelle strutture quelle architetture siano così duttili, da permettere ancora oggi, di fare arte."
"Il suo lavoro, arriva dopo un silenzio di alcuni anni, perché l'ultimo romanzo su Adriano Olivetti
era "Le mosche del capitale" di Paolo Volponi a fine anni ottanta. Ecco, ha grande forza però, cioè,
lei, andando a lavorare dentro alla figura di Adriano Olivetti, quindi, documentandosi, ascoltando
testimonianze ha trovato una figura di fascino...."
"Ho trovato una figura di grande fascino, una figura di statura tragica, ha la forza di un grande
personaggio tragico, mi spiego, la forza anticipatrice il fatto che Adriano fosse così squilibrato in
avanti, rispetto al pensiero della fabbrica, dell'industria, ma anche il pensiero etico, politico,
urbanistico, questa differenza, questo scarto di anni ne fa un personaggio, che racconta senza
essere compreso fino in fondo, e che sa prima degli altri, che è una delle caratteristiche dei grandi
personaggi della tragedia, sapere, vedere di più, vedere più lungo. Come se fosse a volte Tiresia, a
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volte Cassandra, a volte un mago, a volte un veggente, e questo ne fa davvero una figura
incredibile, e gli consente di avere una grande statura, di non essere comprensibile a pieno nel
senso che, adesso ho detto basta, perchè dopo averne fatti due di spettacoli, ho passato cinque
anni e non credo di aver capito bene, anzi, e poi la grande figura di personaggio sono il numero
altissimo
di
leggende che si
raccontano su di
lui, quindi c'è la
storia,
c'è
la
leggenda..."
Olivetti, colonia a Marina di Massa, 1955-75
"A proposito, a questo proposito invece, visto che abbiamo parlato prima dei tempi suoi di invidia
di bambina Fiat, noi siamo andati in giro per Ivrea e abbiamo sentito anche dei non Olivettiani.....
"Se uno lavorava all'Olivetti, qui ad Ivrea, aveva anche lo sconto commerciale, andava nei negozi a
comprare qualcosa e gli chiedevano: "Lei lavora all'Olivetti" se rispondeva di sì e faceva vedere il
tesserino gli facevano lo sconto, e invece noi che non lavoravamo all'Olivetti, niente sconto.
Eravamo un po' emarginati noi che non lavoravamo all'Olivetti."
"Si avvertiva nei vostri amici che invece li lavoravano, tra di loro c'era un senso di appartenenza
che li rendeva diversi?"
"Ehh...un po' diversi sì, perché loro potevano permettersi...avere qualcosa in più di noi, tanti che
lavoravano alla Olivetti avevano la macchina, e invece quelli che lavoravano fuori della Olivetti la
macchina non ce l'aveva no ancora."
Da “Il Canavese la Olivetti e Adriano Olivetti a cent'anni dalla sua nascita”. Liberamente tratto
dalla trasmissione radiofonica: Grammelot: una storia infinita Radio 3 8/4/2001
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La Biblioteca aziendale e il Centro Culturale Olivetti
Quando nella pausa pranzo gli operai ascoltavano la chitarra di
Van Wood e alla sera incontravano Salvemini o Moravia…
La cultura come strumento di crescita personale e di emancipazione sociale anche
per le categorie più povere. E’ questa l’idea che spinge Adriano Olivetti a
promuovere in modo sistematico ogni iniziativa che possa contribuire ad accrescere
il livello culturale dei dipendenti e dell’ambiente sociale in cui sono inseriti.
Innanzi tutto una grande biblioteca…
La biblioteca è il perno di tutto il sistema culturale
Olivetti. E’ Umberto Campagnolo che sul finire
degli anni ’30 organizza la prima biblioteca di
fabbrica. Agli inizi prevalgono le finalità ricreative,
ma ben presto la biblioteca amplia le sue funzioni
e dimensioni, tanto che Geno Pampaloni,
subentrato nel 1948 a Campagnolo, la suddivide in
tre diverse sezioni: culturale, tecnica e divulgativoricreativa.
I criteri di gestione per quei tempi sono molto
innovativi: la biblioteca fornisce ampie schede di
lettura, acquisisce volumi di elevato valore
culturale di autori stranieri ancora poco conosciuti in Italia, favorisce le consultazioni e i prestiti,
offre programmi d’istruzione popolare, corsi di lingue straniere e cicli di conferenze. Pampaloni nel
1958 lascia l’Olivetti e la guida della biblioteca è affidata prima a Luciano Codignola, che rafforza
ulteriormente le iniziative culturali, e poi, dal 1963, a Ludovico Zorzi. Questi, in un documento del
1964, fa il punto della situazione. I volumi disponibili sono 90.000, di cui 20.000 appartenenti alla
sezione culturale, che raccoglie opere in prevalenza umanistiche: collane di classici, libri di storia
dell’arte, enciclopedie, saggistica letteraria, politica, filosofica.
La sezione culturale, a cui è annessa un’emeroteca costituita da circa 2.500 testate di giornali e
riviste (metà delle quali straniere), è aperta a tutti i cittadini. Di fatto, si tratta di una biblioteca
aziendale che svolge le funzioni di biblioteca civica. La sezione tecnica, riservata ai dipendenti,
contiene circa 30.000 volumi su argomenti di interesse aziendale: ingegneria, matematica, fisica,
elettronica, economia e materie giuridiche.
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La sezione divulgativo-ricreativa è la più
estesa: 40.000 volumi di narrativa e
letteratura contemporanea, saggistica di
attualità su svariati temi. Comprende anche
2.000 volumi dedicati a bambini e ragazzi,
per i quali è disponibile una saletta
attrezzata con basse scaffalature, sedie e
tavolini appositamente studiati.
Per favorire l’accesso dei dipendenti,
vincolati da orari e ritmi di lavoro, la sezione
divulgativo-ricreativa è dislocata in più sedi;
la parte più consistente (25.000 volumi) si trova presso l’edificio dei Servizi Sociali, proprio di
fronte al complesso dei principali stabilimenti Olivetti in Ivrea. Altre sedi sono in prossimità delle
mense aziendali delle altre fabbriche eporediesi. Gli stabilimenti di Aglié e Pozzuoli dispongono di
una propria biblioteca. Le statistiche citate da Ludovico Zorzi lasciano intendere che l’uso del
servizio è piuttosto intenso: nel 1963 i prestiti a domicilio sono oltre 72.000, senza contare circa
36.000 consultazioni fatte in sede e quasi 1,5 milioni di consultazioni di giornali e riviste.
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Il Centro Culturale: mostre, conferenze e spettacoli per tutti
Attorno alla Biblioteca nel secondo dopoguerra nascono molte iniziative culturali che Geno
Pampaloni riconduce nell’ambito di un Centro Culturale Olivetti. Il Centro comprende un settore
interno, per le iniziative riservate a dipendenti e familiari, ed uno esterno, aperto a tutti. Tra il
1950 e il 1964 si organizzano 249 conferenze, 71 concerti di musica da camera, 103 mostre d’arte,
52 altre manifestazioni (dibattiti, presentazione di libri, ecc.).
Al di là delle statistiche, ciò che sorprende nell’attività della Biblioteca e del Centro Culturale è la
qualità dei contenuti. Con il passare degli anni la domanda degli utenti si sposta verso le opere più
significative della letteratura contemporanea, verso i classici e la saggistica di storia
contemporanea, mentre sono molto frequentati gli incontri e conferenze organizzati dal Centro
Culturale su temi impegnativi: la storia del movimento operaio, la questione razziale negli USA, la
figura e le opere di Tolstoj, gli aspetti sociologici della rivoluzione industriale… Talvolta gli eventi si
svolgono durante la pausa pranzo, che in quegli anni dura un paio d’ore, nei pressi degli
stabilimenti (il “salone dei 2000”) o della mensa, così da favorire una maggiore partecipazione.
A Ivrea i dipendenti Olivetti possono visitare mostre di Guttuso, Rosai, Casorati, De Pisis, Metelli,
ecc., ascoltare concerti, incontrare intellettuali e uomini di cultura di primo piano (Salvemini, C.
Musatti, Sylos Labini, G. Friedmann…), personaggi illustri del teatro e del cinema (Gassman, De
Filippo, Buazzelli, Fo, Bene…), scrittori e artisti (Moravia, Pasolini, Piovene, Eco, Salvaneschi…).
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Ottorino Beltrami, nel libro autobiografico “Sul ponte di comando dalla Marina Militare
all’Olivetti” (Ed. Mursia, 2004), ricorda in questi termini la sua prima visita a Ivrea nel 1949: “Sono
stato ospite di Adriano Olivetti a Ivrea e ho assistito ad una riunione nella biblioteca. Erano riunioni
serali a cui intervenivano personalità di primo piano, che a quei tempi a me sembravano dei veri
mostri sacri. Quella sera c’era Gaetano Salvemini e il tema era la ricostruzione del Paese e della
democrazia. Dopo un breve intervento dell’ospite, iniziava la discussione che durava fino a tardi.
Parlava Adriano Olivetti e parlavano gli operai; mi sorprese l’estrema libertà e democrazia con cui
tutti interloquivano. Adriano parlava come se fosse uno dei tanti: lo interrompevano anche. Non ho
mai visto un simile esempio di democrazia neppure in America: erano tutti eguali, una cosa
emozionante, da far venire i brividi. Mi sembrava di essere entrato nella città dell’utopia. Me ne
sono tornato a Roma più che mai convinto di aver fatto la scelta giusta accettando la proposta” di
entrare in Olivetti.
Un diverso modo di promuovere la cultura
1955, il chitarrista e cantante olandese Peter Van Wood
tiene un affollatissimo concerto
Negli anni ‘60 alcune iniziative più specifiche si
distaccano dal Centro Culturale e diventano
strutture operative autonome con programmi
eccellenti: il cineclub, la società musicale, un circolo
per il turismo culturale… Nel 1965, in seguito
all'improvvisa morte di Ludovico Zorzi, la
responsabilità della biblioteca e delle relazioni
culturali viene affidata a Renzo Zorzi, che accentua
l'impegno della Olivetti nel campo dell'arte con la
realizzazione di grandi mostre, interventi di
restauro di opere famose, pubblicazioni raffinate
ecc. Allo stesso tempo, la biblioteca continua ad
espandersi, ma con il passare degli anni, in
presenza dell’accresciuto livello culturale delle
nuove generazioni e di una più ricca offerta di iniziative da parte di enti e strutture pubbliche, il
ruolo della Olivetti in questo campo si modifica, anche per vincoli di bilancio. Negli anni '90 viene
dapprima decisa la cessione dei volumi della sezione divulgativo-ricreativa alla Biblioteca Civica di
Ivrea; poi, poco alla volta, anche le altre sezioni vengono smembrate e in gran parte cedute.
Alcune attività del Centro Culturale sono affidate al GSRO (Gruppo Sportivo Ricreativo Olivetti),
altre sono gestite in modo autonomo da associazioni che per qualche tempo ricevono un
contributo dalla Olivetti, altre ancora – come le mostre d’arte – si esauriscono o assumono sempre
più un carattere promozionale dell’immagine, abbandonando la funzione originaria di interventi
mirati al progresso sociale e culturale dei dipendenti.
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Le Edizioni di Comunità
Una casa editrice non solo per fare generica cultura, ma anche per
rafforzare le basi teoriche su cui fondare l’agire dell’impresa nella società
civile
L’idea di Adriano e la nascita della casa editrice
Tra le tante iniziative culturali della Olivetti, riveste una particolare importanza la casa editrice che
Adriano Olivetti fonda negli anni ’40. L’idea matura durante la II Guerra Mondiale: in Italia è un
momento molto povero sul piano culturale, che segue un ventennio durante il quale l’accesso ai
libri e alle idee di grandi autori stranieri in vari campi è stato impedito o limitato. Adriano Olivetti
sviluppa dentro di sé la convinzione che il Paese abbia bisogno di una svolta culturale, per rendere
possibile alla fine del conflitto un profondo rinnovamento della società. La cultura e l’impegno
sociale sono sempre stati alla base del suo agire; così, nel 1942, nonostante i difficili tempi di
guerra, decide di fondare le Nuove Edizioni Ivrea. Egli stesso indica gli scopi dell’iniziativa: “le
Nuove Edizioni Ivrea sono nate con l’obiettivo di offrire al pubblico italiano la possibilità di accedere
ad una cultura totale […]. Si tratta di un’impresa complessa, alla quale cooperano nello stesso
tempo uomini di cultura e uomini d’azione”.
Le Nuove Edizioni Ivrea
Le prime pubblicazioni della casa editrice sono di carattere psicologico: Adriano Olivetti,
personalmente interessato a questo tema e convinto che alla fine della Guerra si sarebbe
rapidamente sviluppata una forte attenzione per tutto ciò che riguardava la psicologia, predispone
un programma editoriale di opere psicologiche straniere. Inoltre, il piano delle pubblicazioni
comprende una vasta serie di lavori in diversi altri campi della cultura: dalle opere complete di
Kierkegaard agli scritti di Ortega y Gasset, Rudolf Kassner, Alfred Weber, Carl Jung; da opere nel
campo dell’arte, a lavori dedicati interamente all’architettura contemporanea.
Le Edizioni di Comunità negli anni di Adriano Olivetti
Alla fine della Guerra, sugli interessi più specificamente culturali e
scientifici, prevalgono in Olivetti quelli politico-sociali e alle Nuove
Edizioni Ivrea subentrano le Edizioni di Comunità. La nuova casa
editrice è una iniziativa personale di Adriano Olivetti, disgiunta
dall'attività e dal capitale della società Olivetti, ma idealmente
intrecciata con la visione e le strategie che guidano lo sviluppo
dell'azienda eporediese. L’atto formale di nascita delle Edizioni di
Comunità è costituito dall’apparizione nelle edicole, nel marzo del 1946, del primo numero di
Comunità, rivista di politica e di cultura che verrà pubblicata per quasi 50 anni.
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Nel 1950, dopo neppure 5 anni di attività, la casa
editrice ha già proposto una decina di aree tematiche
differenti. Nelle diverse collane che spaziano su svariate
materie (storia, politica, sociologia, economia, diritto,
religione, psicologia, psicoanalisi, pedagogia, filosofia,
arte, architettura, urbanistica...) in breve vengono
pubblicate opere di illustri autori, come Adorno, Bobbio,
Buber, Claudel, Durkheim, Einaudi, Fromm, Friedmann,
Galbraith, Jaspers, Jung, Kierkegaard, Le Corbusier,
Maritain, Mumford, Quaroni, Schumpeter, Weber, Weil.
Alle Edizioni di Comunità va il merito di aver fatto
conoscere alcuni di questi importanti autori, in Italia fino
allora sconosciuti. Per Adriano Olivetti il ruolo di questa
casa editrice è in primo luogo culturale: non mira ai
bestseller della prosa letteraria, ma alla saggistica e alla
ricerca socio-politica. Come nel 2000 ricordava Walter
Barberis, responsabile editoriale delle Edizioni di
Comunità: “Le opere di architettura, urbanistica, design,
scienze sociali, filosofia politica e storia delle dottrine
politiche pubblicate negli anni ’50 richiamavano nel loro insieme l’immagine di una fabbrica che
anteponeva l’uomo al profitto, che cercava di continuo di perfezionarsi, ma sempre nel dichiarato
rispetto della persona umana, che voleva creare ricchezza e cultura, ma per distribuirle anzitutto ai
suoi partecipanti e diffonderle, sotto forma di opere e servizi, nel territorio entro il quale era e si
sentiva profondamente radicata”.
Le Edizioni di Comunità sono anche state “accompagnate” da una serie di riviste molto qualificate,
come con maggiore dettaglio indicato in un altro percorso di questo portale.
Le riviste edite o promosse da Olivetti
In mille modi Adriano Olivetti, imprenditore industriale che crede nella cultura, contribuisce alla
pubblicazione di numerose riviste di elevato valore culturale
L'interesse e la passione di Adriano Olivetti per la cultura editoriale si manifesta molto presto: non
ancora ventenne nel 1920 tiene una rubrica, Osservando la vita, sul settimanale L'Azione
Riformista fondato dal padre Camillo che in precedenza aveva collaborato a varie testate di
ispirazione socialista. Il settimanale ha vita breve, ma nel 1922 Camillo pubblica un nuovo
periodico, Tempi Nuovi, a cui collabora anche il figlio Adriano, almeno sino all'inizio del 1925
quando il settimanale è costretto a chiudere a causa della sua posizione antifascista. Negli anni
successivi cresce l'impegno di Adriano nell'azienda paterna, ma numerosi sono i suoi articoli
pubblicati su varie riviste: L'organizzazione scientifica del lavoro, Casabella, Quadrante, La
Industria Meccanica, Il Lavoro Fascista, Ingegneria, ecc. Il 1937 con l'uscita del primo numero di
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Tecnica ed Organizzazione segna una svolta importante. La rivista è pubblicata dalla società
Olivetti, ma non ha il carattere di un house organ aziendale: è piuttosto una iniziativa editoriale
con cui Adriano Olivetti si propone di divulgare anche in Italia le teorie dell'organizzazione
scientifica del lavoro di cui egli ha fatto tesoro in occasione dei suoi viaggi negli Stati Uniti. Si colma
così un vuoto nell'editoria italiana di quel tempo, affrontando con spirito fortemente innovativo
varie tematiche dello sviluppo industriale: problemi organizzativi, aspetti tecnico-produttivi,
esigenze di formazione, problematiche dell'architettura industriale, ecc.
Comunità, un punto di riferimento culturale non solo italiano
Una seconda e ancor più importante rivista, frutto di una iniziativa editoriale di Adriano Olivetti, è
Comunità - Giornale mensile di politica e cultura. Il primo numero esce nel marzo 1946 ed è
pubblicato dalle Edizioni di Comunità. La rivista affronta con serietà e rigore intellettuale una vasta
gamma di problemi di fondo della politica e della cultura, come ricorda il catalogo della casa
editrice del 1964: "l'informazione [...] è sempre frutto di accurate ricerche, condotte da autori di
grande probità intellettuale e competenza. Ogni fascicolo, ampiamente illustrato, contiene articoli
e saggi politici, di economia, sociologia, letteratura, arti figurative, architettura, urbanistica,
rassegne bibliografiche, note di costume, inchieste". Si può affermare che Comunità, per i
contributi autorevoli, per la diffusione e per i temi dibattuti sia stata una tra le più qualificate
pubblicazioni a livello europeo.
Le Edizioni di Comunità pubblicano varie altre riviste, dando vita a
nuove iniziative o rilanciando iniziative preesistenti: nel 1948
pubblicano la Rivista di Filosofia, trimestrale, rilevata da un altro
editore per evitarne la cessazione e affidata alla guida di Norberto
Bobbio. Negli anni 1950-1952 la pubblicazione di Tecnica ed
Organizzazione passa dalla Olivetti alle Edizioni di Comunità, ma
nel 1953 la rivista ritorna, con una nuova serie fino al 1958, sotto la
diretta gestione della società di Ivrea. Nel 1950 esce Metron
Architettura, bimestrale acquisito da un precedente editore e
rinnovato in modo tale da affrontare le tematiche del settore con
grande apertura e vivacità; affidato tra gli altri a Riccardo Musatti e
Bruno Zevi, viene pubblicato fino al 1954. Dal 1960 e per diversi anni le Edizioni di Comunità
assumono la gestione di Urbanistica, rivista di cui Adriano Olivetti era direttore dal 1949; la rivista
nata nel 1932 è l'organo ufficiale dell'Itituto Nazionale di Urbanistica. […]Sele Arte, "bimestrale di
cultura, selezione, informazione artistica internazionale", è pubblicato a cura dell'Ufficio Stampa
della Olivetti per 78 numeri da luglio-agosto 1952 al giugno 1966. Diretto da Carlo Ludovico
Ragghianti, come nel caso di Tecnica ed Organizzazione, è una pubblicazione aziendale di
notevole livello culturale rivolta al grande pubblico. Accolta con molto favore, è un esempio di
come un'azienda industriale può operare a favore della cultura umanistica e artistica. L'Espresso,
settimanale, viene fondato nel 1955 da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti con la partecipazione
di maggioranza di Adriano Olivetti e della società Olivetti.
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L'elenco delle riviste a cui è legato il nome di Adriano
Olivetti comprende inoltre quelle numerose "riviste che come ricorda Renzo Zorzi - egli aiutava a vivere, che non
sarebbero state in piedi, senza di lui, nemmeno un trimestre
e a cui mai, mai impose qualcosa". Volendosi limitare alle
testate di maggior prestigio, un elenco sommario include
L'Italia socialista, i Quaderni di sociologia, Nuova Repubblica,
Nuovi Argomenti, Tempo Presente, Tempi Moderni,
Casabella-Continuità, Europa Federata, Nord-Sud, Comuni
d'Europa.
Da ricordare inoltre le numerose pubblicazioni aziendali
della Olivetti che spesso si distinguono per l'elevata qualità
culturale e grafica.
Anche nel campo dell'arte l'Olivetti ha fatto ricorso a una varietà di strumenti di promozione: dalla
organizzazione di mostre alla sponsorizzazione non solo finanziaria di impegnativi, alla
pubblicazione di libri d'arte di prestigio, di agende, libri strenna e calendari illustrati con opere
d'arte. Tanti modi diversi per puntare ad un medesimo obiettivo: far conoscere l'arte e farla
amare.
Il tagliacarte di Marcello Nizzoli, prodotto nel 1960, diventa uno dei
simboli dell’Olivetti che, proprio a partire dagli anni ’60, avvia la
produzione di una serie di oggetti di design da donare come omaggi
natalizi. Agli inizi questi oggetti vengono disegnati e curati
soprattutto da Marcello Nizzoli e da Giovanni Pintori.
Una delle fotografie di Enzo Ragazzini che illustrano
“Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, libro
strenna per l’anno 1973.
da www.storiaolivetti.it
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Scrittori e poeti in fabbrica: i letterati olivettiani
L’idea che anche nell’industria
la cultura tecnico-ingegneristica debba integrarsi con quella umanistica porta e dà spazio in
Olivetti a una colonia di letterati
Giudici, Fortini, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni... Dagli anni '40 fino agli anni '80 poeti, letterati e
scrittori di rilievo della letteratura contemporanea lavorano nella fabbrica di Ivrea ricoprendo ruoli
diversi, anche di grande responsabilità. Non è casuale che la Olivetti inserisca nel proprio organico
intellettuali di formazione umanistica. Nell’idea di Adriano Olivetti la formazione tecnicoscientifica e quella umanistica si integrano e quindi devono coesistere e cooperare in ogni
ambiente. Negli anni '50 questa visione si traduce in una politica di selezione del personale che,
per i livelli più alti, si basa sul "principio delle terne": per ogni nuovo tecnico o ingegnere che entra
in azienda si assume anche una persona di formazione economico-legale e una di formazione
umanistica. Per Adriano Olivetti, intellettuali e letterati sono necessari dovunque, anche in
un'industria a elevato contenuto tecnologico: il loro contributo favorisce un progresso equilibrato
dell’impresa ed evita gli eccessi del tecnicismo. Gli scrittori che operano in Olivetti non sono quindi
visti come un lusso o un "ornamento" dell'alta direzione, ma come fattori organici dello sviluppo
aziendale, in particolare in settori critici come la pubblicità e comunicazione, le relazioni con il
personale, i servizi sociali.
Mostra di Osvaldo Licini ad Ivrea nel 1958 con U. Fedeli, G. Scheiwiller, Osvaldo Licini, L. Codignola, Caterina
e Nanny Hellstrom, M. Valsecchi.
Da http://www.laprimaweb.it
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L'Ufficio Pubblicità
Nel 1931 Adriano Olivetti crea l'Ufficio Sviluppo e Pubblicità in cui collaborano artisti e architetti
d'avanguardia, sviluppando una comunicazione innovativa e incisiva, basata soprattutto sulla
grafica e l'immagine. Dal 1937 al 1940 l’ufficio è diretto da Leonardo Sinisgalli (1908-1981), il
poeta ingegnere. Lasciata l'Olivetti, Sinisgalli mantiene rapporti di attiva collaborazione; sua
l'ispirazione per un famoso manifesto della Studio 44 del 1952, con la rosa nel calamaio, ad
indicare la fine dell'epoca della scrittura a mano. Nel 1947 viene assunto Franco Fortini (19171994), l’intellettuale che si occupa, fino al 1960, delle pubblicazioni aziendali, delle campagne
pubblicitarie e dei nomi dei prodotti (suoi i nomi scelti per la Lexikon, la Tetractys e la Lettera 22).
Nel 1958 inizia l'attività di copywriter, proseguita fino al 1980, il poeta Giovanni Giudici (1924),
che già dal 1956 si occupava della biblioteca aziendale. A lui si devono i testi con venature
poetiche della vasta campagna pubblicitaria per la macchina per scrivere Valentine (1970).
L'immagine della Olivetti è affidata anche all'ufficio Pubblicità e Stampa dove dal 1956 lavora
Giorgio Soavi (1923-2008), scrittore e designer. Contribuisce all'organizzazione di eventi culturali,
promuove la produzione di raffinati libri strenna, litografie, agende e oggetti promozionali che
diventano occasione per collaborazioni con grandi artisti (Folon, Munari, Botero...) e per rafforzare
l'immagine dell'Olivetti come azienda sensibile all'arte e alla cultura.
I servizi sociali e l'ufficio personale
Mentre in altre imprese il letterato interviene soprattutto nei rapporti aziendali verso l'esterno, lo
"stile Olivetti" comincia dall'interno e il letterato deve contribuire alla qualità delle relazioni con i
dipendenti e della proposta culturale rivolta al mondo del lavoro.
Ottiero Ottieri (1924-2002) nel 1955 entra in Olivetti come addetto alla selezione del personale. E'
laureato in lettere e si interessa di sociologia e psicologia. La sua esperienza di selezione degli
operai per la nuova fabbrica di Pozzuoli (Napoli) ispira il suo romanzo più famoso, "Donnarumma
all'assalto". Paolo Volponi (1924-1994) nel 1956 è chiamato da Adriano Olivetti a Ivrea per dirigere
i Servizi Sociali aziendali, un vasto complesso di attività a tutela del lavoratore. Divenuto capo del
Personale, nel 1971 è candidato ad assumere il ruolo di amministratore delegato; alla fine, però,
viene scelto Ottorino Beltrami e Volponi lascia l'Olivetti. All'interno dei Servizi Sociali un'attenzione
particolare è rivolta alle iniziative in campo culturale, che hanno il loro centro nella biblioteca di
fabbrica. Con i suoi numerosi volumi e con le conferenze di alcuni tra i più significativi scrittori ed
esponenti della cultura italiana, la biblioteca Olivetti diviene fattore di promozione culturale e
sociale nella fabbrica e nel territorio. Dal 1947 direttore della biblioteca è il critico Geno
Pampaloni (1918-2001) che aderisce intimamente alle idee di Adriano tanto che, alla carica di
direttore della Relazioni Culturali e di capo dell'Ufficio della Presidenza, intreccia gli incarichi
affidatigli dal Movimento Comunità, di cui diviene segretario. La sua figura ai vertici dell'azienda è
tanto carismatica che "Olivetti S.p.a." diventa ironicamente "Se Pampaloni Acconsente".
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Lezione di Libero Biagiaretti al personale
della Olivetti sui pittori impressionisti
Da http://www.laprimaweb.it
I giornali aziendali
Lo strumento principale per la
diffusione della cultura aziendale tra i
dipendenti sono i giornali aziendali
che, secondo Adriano Olivetti, non
devono essere "la voce del padrone"
ma un luogo di libero scambio di idee
e critiche sull'azienda e le sue attività,
con contributi di intellettuali esterni ed interni. Per rispondere a questo intento l’ingegner Adriano
chiama nel 1952 lo scrittore Libero Bigiaretti (1906-1993), che assume fino al 1963 la carica di
direttore dell'Ufficio Stampa; inoltre coordina il reparto fotografia e l'ufficio cinematografico,
utilizzando il cinema come mezzo sia di formazione degli operai sia di comunicazione verso
l'esterno. Nel 1952 Bigiaretti introduce "Notizie Olivetti", rivista di informazioni aziendali
inizialmente riservata al personale, a cui dal 1960 affianca "Notizie di fabbrica", mentre "Notizie
Olivetti" diviene sempre più strumento di comunicazione verso l'esterno con lettori anche tra i
clienti e i fornitori.
Tanti modi per avvicinare industria e cultura umanistica
Per Adriano Olivetti l'incontro tra cultura e impresa è necessario per sostenere il progresso
industriale e per trasformare la fabbrica in luogo di elevazione materiale, culturale e sociale di
quanti vi lavorano. Questo incontro non può quindi limitarsi ad un rapporto di lavoro all'interno
dell'azienda, ma deve manifestarsi anche con
altre forme di collaborazione. Conferenze e
dibattiti con letterati e artisti, promozione e
finanziamento di nuove riviste (da Tecnica e
Organizzazione a SeleArte, da Urbanistica a
Comunità, dalla Rivista di Filosofia a L’Espresso),
investimenti in iniziative editoriali, come le
Edizioni di Comunità fondate nel 1946, non sono
fatti separati dalla vita dell’impresa: per Adriano
Olivetti sono gli strumenti che servono ad
animare il dibattito sociale, ad avvicinare
intellettuali e umanisti all’impresa, a “fare
cultura” nel mondo industriale.
L’architetto Gae Aulenti e Giorgio Soavi nel negozio Olivetti di Parigi, il 20 novembre 1967.
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Geno Pampaloni
Il critico Geno (Agenore) Pampaloni (Roma 1918-2001)
in occasione del ciclo di conferenze sul “Riesame della
letteratura italiana del Novecento”, organizzato dai
Servizi Culturali Olivetti nel febbraio del 1982.
Pampaloni inizia a lavorare in Olivetti nel 1947, come
direttore della biblioteca aziendale, diventando poi
direttore delle relazioni culturali e capo dell’ufficio della
presidenza. Aderisce profondamente alle idee di
Adriano Olivetti, tanto da entrare anche nel Movimento
di Comunità. La figura di Geno Pampaloni a capo
dell’Ufficio della Presidenza è tanto carismatica che
"Olivetti S.p.a." diventa ironicamente "Se Pampaloni Acconsente". Dopo la morte di Adriano
Pampaloni lascia la Olivetti diventando dirigente editoriale presso importanti case editrici, nonché
collaboratore di vari quotidiani. Il suo libro più famoso è “Fedele alle amicizie” (1984), una raccolta
di prose in cui ricorda gli anni passati ad Ivrea e l’intensa amicizia con Adriano; del 1980 è “Adriano
Olivetti: un’idea di democrazia”.
da www.storiaolivetti.it
Un bibliotecario alla corte di Olivetti, dove divenne l' «eminenza ligia»
Arrivò a Ivrea alla fine degli anni Quaranta per dirigere la biblioteca di fabbrica,
Franco Fortini gli dedicò una poesia che cantava il «manzoniano Geno»
Quando penso a Geno Pampaloni devo associare il suo nome a quello di Franco Fortini visto che,
tutti e tre, lavoravamo sotto la stessa bandiera, quella di Adriano Olivetti a Ivrea. E tirando in ballo
il toscano Fortini non posso dimenticare il giudizio che, di Fortini, aveva dato, con statuaria
indelicatezza, Cesare Garboli, toscano come Pampaloni. Garboli aveva scritto: «Se c' è un luogo
dove non vorrei entrare neppure per tutto l' oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini». E
Fortini, commentando l' arrivo a Ivrea di Geno Pampaloni, che veniva da un liceo di Borgosesia,
ma aveva già pubblicato eccellenti saggi sui romanzieri italiani contemporanei per la rivista
fiorentina Il Ponte, aveva composto un poemetto che mi consegnò all' istante, visto che anche la
mente toscana di Fortini amava applicare le proprie taglienti lamette, alle persone che lo
incuriosivano. Ecco la poesia-ritratto: «Poeti e romanzieri / piccoli ma sinceri / voi sa stimare
almeno / il Pampaloni Geno. / Trattieni i tuoi trasporti / o giovine che scrivi: / ama i morti un po' vivi
/ ed i vivi un po' morti. / Meno il più / il più meno / il manzoniano Geno». Alla fine degli anni
Quaranta Geno Pampaloni fu sistemato da Adriano Olivetti a dirigere la biblioteca aziendale, tanto
per cominciare, visto e considerato che la grande azienda di Ivrea aveva bisogno di essere, nei
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limiti di quella comunità nascente, una specie di Stato sovrano assolutamente perfetto: quello che
Adriano Olivetti sognava, non soltanto per la piccola Ivrea, ma per l' Italia tutta intera. La biblioteca
di fabbrica poteva rappresentare, insieme ai servizi sociali, il primo gruppo dei tasselli di quell' idea
di perfezione umanitaria e sindacale che era il sogno di quegli anni, come esempi non tanto astratti
ma certamente profetici di quello che Adriano Olivetti tentava di realizzare in Italia. Pampaloni fece
funzionare la biblioteca, precisò in quale modo le schede bibliografiche dovessero essere redatte e
soprattutto convinse operai e impiegati ad accorrere alle mostre d' arte, alle serate letterarie e
politiche contribuendo alla non facile definizione di cosa fosse mai quel «personalismo
comunitario» al quale si ispirava la filosofia politica di Olivetti. Adriano aveva saputo radunare a
Ivrea un discreto gruppo di giovani talenti, da Paolo Volponi a Renzo Zorzi, Libero Bigiaretti e
Ottiero Ottieri, Egidio Bonfante, Franco Momigliano e Luciana Nissim (ma i veri interpreti di quel
tempo sono stati una legione e non li posso elencare). Quasi tutti erano fatalmente attratti nel
piccolo studio dove il Pampaloni Geno, illuminandosi per la gioia di ricevere così tante carezze si
lasciava andare in affascinanti conversazioni. Si degnava di riceverci, in quegli anni non c' era l'
abitudine di interrompere il lavoro per prendere un caffè, ma lo si abbandonava per una decina di
minuti per andare da Pampaloni e chiedergli ragione e confessione di mille incertezze. Perché non
dava un' occhiata ai nostri racconti di giovani scrittori? Avevamo sufficienti briciole di ingegno per
chiamarci poeti o eravamo inevitabilmente privi del più elementare talento? E poiché la Dc era
detestata, che senso aveva, in quella Ivrea traboccante di operai votare per il Fronte, cioè per le
sinistre di Nenni e di Togliatti come tentava di indottrinarci, in tutt' altra parte della fabbrica, a
labbra tremanti dallo sdegno, Fortini, visto che non saremmo andati tanto più in là, come coraggio,
anche estetico, di continuare a preferire il Partito d' Azione? A tutte queste domande, per noi
drammatiche o rimaste senza conclusione, sapeva dare una risposta sempre meditata il sublime,
conciliante e serenamente convincente, ma anche diabolico come un pilastro della chiesa, il nostro
amico bibliotecario. Nessuno sapeva essere più accondiscendente, più regista di lui. E nessuna
domanda anche impertinente o feroce riusciva a ferirlo o a farlo arrossire, anzi: risplendeva come
una piccola equilibrata, sapiente divinità locale. Come chiamarla? Era forse quello l' esempio della
carità cristiana, così come la intendono e sanno praticare i cattolici italiani, nel migliore dei casi, nel
bene e nel male così stretti il primo all' altro, e anche ironici per il buon senso nemmeno tanto
segretamente perfido, con quel sistema accattivante che fece esclamare al giovane pittore Egidio
Bonfante che Pampaloni fosse ormai diventato «l' Eminenza ligia» di Adriano Olivetti. Il quale
pochi mesi più tardi lo aveva ormai strappato alla biblioteca, lo aveva fatto salire ai piani alti della
presidenza e ne aveva fatto il proprio segretario particolare. Giorgio Soavi
da Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2001
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Ottiero Ottieri
Lo scrittore è qui ripreso durante una visita
nella fabbrica di Pozzuoli (Napoli) nel 1955.
Laureato in lettere, molto attento ai temi di
sociologia e psicologia, Ottiero Ottieri (19242002) entra in Olivetti nel 1955; tra i suoi
incarichi vi è quello della selezione degli operai
per la fabbrica di Pozzuoli.
Pubblicato nel 1959, Donnarumma all’assalto, romanzo-reportage che Ottiero Ottieri scrisse in
forma di diario, nel periodo in cui aveva il complicato incarico di selezionatore del personale alla
Olivetti di Pozzuoli, l’avveniristica “fabbrica sul mare” disegnata dall’architetto Luigi Cosenza, è
uno dei più fortunati esempi di “letteratura industriale” del panorama letterario italiano del ’900.
Il protagonista del romanzo è uno psicologo lombardo
inviato al sud per sottoporre a test psicotecnici gli
aspiranti operai della fabbrica-modello appena
realizzata, a cui il dovere professionale impone di
decidere del destino di ognuno di loro, rendendolo
sempre più consapevole di quanto “selezione scientifica
e disoccupazione si negano. La selezione potrebbe
avere anche un valore umano, se la domanda e l’offerta
di lavoro stessero in equilibrio; la selezione sarebbe un
orientamento, anche per loro, una scala di attitudini
relative, non di meriti assoluti.”
L’incontro con un disoccupato, Antonio Dommarumma,
ostinato e caparbio, il quale pretende di essere assunto
senza passare per i test psicotecnici, diventerà uno dei
temi centrali del romanzo nel quale, man mano che
procede il suo lavoro, il selezionatore entra sempre più
nel vivo della realtà di sottosviluppo della “città” che
circonda la fabbrica. Il suo lavoro diventa sempre più
coinvolgente fino alla partecipazione al dramma che
vivono sia gli esclusi dalla fabbrica che i lavoratori.
La descrizione dei processi di lavorazione ed organizzazione aziendale fanno di questo romanzo
uno dei documenti più importanti per comprendere il periodo del boom italiano degli anni ’50 e
’60.
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Paolo Volponi
Lo scrittore Paolo Volponi (Urbino
1924 – Ancona 1994) viene
chiamato da Adriano Olivetti nel
1956 con l’incarico di dirigere i
servizi sociali aziendali. Nel 1959
sposa Giovina Jannello, assistente
personale di Adriano Olivetti.
Avvocato, nella Società raggiunge i
massimi gradi, fino a divenire
responsabile
delle
Relazioni
Aziendali e a sfiorare l'incarico di
amministratore delegato; ma, per
contrasti sulla politica industriale
con il presidente Visentini, si
dimette nel 1971. Dopo una breve
esperienza alla Fiat entra in politica
con il Partito Comunista. Nei suoi romanzi, tra cui “Memoriale” (1962) che ha molti riferimenti alla
esperienza in Olivetti, si occupa in particolare della rappresentazione dei rapporti, a volte
alienanti, tra individuo e strutture produttive. La foto ritrae Paolo Volponi a Ivrea nel 1965.
''Le mosche del capitale'' di P. Volponi
Prima edizione del romanzo di Paolo Volponi, dedicato
ad Adriano Olivetti “maestro dell’industria mondiale”.
L’opera, che narra le vicende di un brillante dirigente
industriale di formazione umanistica negli anni ’70,
analizza il confronto tra gli intellettuali e il mondo
dell’industria, della finanza, del denaro e del potere: se
attualmente, secondo Volponi, la letteratura elude il
confronto con la realtà, vi è stata invece un’epoca, quella
di Adriano, in cui scrittori e umanisti si sono misurati con
l’oggettività della produzione alla ricerca di un incontro.
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Franco Fortini
Franco Fortini (1917-1995), pseudonimo usato da
Franco Lattes, nel 1947 entra in Olivetti, dove opera
fino al 1960. Si occupa delle pubblicazioni aziendali,
delle campagne pubblicitarie e dei nomi dei prodotti
(tra questi, si ricordano “Lexikon”, “Tetractys” e
“Lettera 22”). E’ uno dei principali estensori dello
Statuto del Consiglio di Gestione Olivetti.
Nella foto del Centro Studi Franco Fortini (Università di
Siena), l’intellettuale è ripreso in una fabbrica Olivetti
nel 1947.
La Lexicon o la Lettera 22, nomi partoriti dalla geniale inventiva di Franco Fortini
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Leonardo Sinisgalli
Il poeta Leonardo Sinisgalli (Montemurro, Potenza
1908 – Roma 1981) nel suo studio Olivetti a Milano,
davanti ad uno schema di vetrina. Il “poetaingegnere” è capo dell’Ufficio Tecnico della
Pubblicità dal 1937 al 1940, pur mantenendo
successivamente rapporti di collaborazione esterna
con la Olivetti. Nel dopoguerra fonda e dirige la
rivista "Civiltà delle macchine" (1953-1959).
La Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai
quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti, senza il rischio di
mummificazione o di una fossilizzazione totale della nostra coscienza e della nostra
vita. L'uomo nuovo che è nato dalle equazioni di Einstein e dalle ricerche di
Kandinskij è forse una specie di insetto che ha rinunciato a molti postulati: è un
insetto che sembra incredibilmente sprovvisto di istinto di conservazione. […] L'Arte
deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una verità di
natura sfuggevole, probabile più che certa, una verità “al limite”, che sconfina nelle
ragioni ultime, dove il calcolo serve fino ad un certo punto e soccorre una
illuminazione; una folgorazione improvvisa. Scienza e poesia non possono
camminare su strade divergenti.
Leonardo Sinisgalli, “Natura calcolo fantasia”, dalla rivista Pirelli del giugno 1951
“Io non ho mai pensato che la matematica e la meccanica siano la stessa cosa della
poesia… Quello che ci trovo in comune è una tensione dell’intelligenza, e la felicità
nella fatica, nello sforzo... Nel sonetto c’è molto di più di quello che c’è scritto. E in
una macchina c’è molto di più di quello che è disegnato. Sono forse entrambi
dispositivi capaci di produrre energia e di trasformarla, di trasfigurarla”
da http://www.scienzainrete.it
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Giovanni Giudici
Il poeta Giovanni Giudici (Le Grazie, La Spezia 1924) entra in
Olivetti nel 1956, occupandosi della biblioteca aziendale. Nel 1958
inizia l’attività di copywriter, proseguita fino al 1980, all'interno
dell’Ufficio Pubblicità; tra le numerose campagne pubblicitarie da
lui curate si ricorda quella per la macchina per scrivere Valentine,
con i suoi testi brevi e quasi poetici. Giudici ha svolto
parallelamente attività di saggista e giornalista.
Ivrea. L'utopia dell'ingegner Adriano. Volponi, Fortini, Ottieri, Sinisgalli:
e l'industria sposò la poesia Oggi non resta che il Carnevale. Ma con Olivetti, tra
gli anni '50 e '60, la piccola capitale del Canavese era diventata un centro di cultura
democratica di GIOVANNI GIUDICI
"Tutto è perduto, fuorché il carnevale" potrebbe dire di sé la città di Ivrea. Centro, fino a pochi anni
fa, di uno di quegli imperi industriali sui quali il sole sembrava non dovesse mai tramontare, Ivrea si
appresta anche quest'anno alla grande kermesse carnevalizia che rinnoverà un rituale antico di
due secoli. Per poco meno di un secolo sotto il protettivo ombrello di una sempre più grande
Olivetti ridottasi in breve giro d'anni a una dimensione poco più che modesta, "Ivrea la bella", la
piccola capitale del Canavese, fa oggi pensare a una vedova in gramaglie... Chi ancora si trovi a
dover entrare nel grande Palazzo degli Uffici, costruito negli anni '60, in prossimità del casello
dell'autostrada, trova vuote (dicono) tre stanze su quattro. Ma nel febbraio del 1956, quando chi
scrive vi arrivava da Roma per redigere un giornale di fabbrica, la Olivetti e la città legata al suo
nome potevano ben essere pensate come una moderna Atene periclea, una nuova montefeltresca
Urbino.
Di Urbino era (come si sa) Paolo Volponi, arrivato anche lui proprio in quei giorni a occuparsi,
come direttore dei servizi sociali, di asili, di mense, di assistenza sanitaria, di colonie estive, di
"memoriali" come quello dello pseudo Albino Saluggia, occasione del suo più bel romanzo. Volponi
avrebbe poi proseguito una carriera che lo portò quasi ai vertici dell'organigramma aziendale. Egli
credeva fortemente in una missione sociale e culturale dell'industria. Ma la sua intensa vocazione
democratica si sarebbe a lungo andare scontrata con orientamenti di fondo di segno opposto: sia
alla Olivetti che poi nella breve esperienza di consulenza alla Fiat. Noto è il suo successivo
impegno politico. A capire che Ivrea non fosse poi tanto una favola bastavano, però, pochi giorni:
anche per uno che, come me, si proponesse appena di sopravvivere facendo il proprio lavoro e
riservando il tempo libero alla letteratura.
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A Ivrea non si poteva non sentirsi nel mondo: per la quantità e la qualità delle persone che vi
circolavano, degli stimoli che ne derivavano. Non solo letteratura: c'erano economisti (come
Franco Momigliano e Gian Antonio Brioschi), sociologi (come Luciano Gallino e Roberto Guiducci),
giovani funzionari come Franco Tatò e Guido Rossi e tanti, tanti architetti. I laureati nuovi assunti
alloggiavano all'Albergo Dora, dove (in attesa di essere raggiunti dalle famiglie) trascorrevano
serate da scapoli, stemperando in pensose conversazioni la malinconia. Circolavano epigrammi di
cui non si è rintracciato l'autore: "Il Dora / Umile e angusta / Dimora - ma è lo stesso -/ Alle cui
soglie si affacciano a quest'ora / Gli uomini di successo". Tra gli "uomini di successo" non
mancavano tuttavia quelli che, dopo un'esperienza di pochi mesi, trovavano che il miglior partito
sarebbe stato per loro tornare ai luoghi di provenienza. A Ivrea si potevano incontrare o ascoltare
personaggi di fama internazionale: architetti, appunto, o sociologi come Edgar Morin e Friedmann,
poeti, artisti e critici d'arte. Pochi giorni dopo il mio arrivo mi vidi davanti, venuto a Ivrea per una
lettura di versi, il poeta Giorgio Caproni. Avevo appena cenato con lui alla vigilia della mia partenza
da Roma. Il programma del Centro culturale Olivetti prevedeva in genere due o anche tre
conferenze ogni mese, oltre a mostre di pittura: Morlotti e Licini, Paulucci e Rosai... Rosai morì
improvvisamente all'indomani dell'inaugurazione. Mi ricordo Giovanni Testori venuto a Ivrea per
l'affresco di Martino Spanzotti restaurato nell'ex convento adiacente allo stabilimento principale (la
Ico, dalle iniziali del fondatore: l'Ingegner Camillo Olivetti, immortalato da Emilio Greco nella
fontana sulla Dora). Non si deve pensare che alla Olivetti un intellettuale fosse un soprammobile
da salotto buono. L'"ingegner Adriano" (come si usava nominarlo a Ivrea) era tutto l'opposto del
mecenate paternalistico. Un intellettuale egli stesso, uno che aveva letto Bergson e Péguy,
Mounier e Simone Weil, credeva fermamente in una funzione attiva degli intellettuali; nell'industria
e, insieme, nel progetto sociale di una "comunità" di cui l'industria fosse momento propulsore: il
Canavese, col suo territorio "a misura d'uomo", rappresentava un laboratorio ideale.
Il "catalogo" dei collaboratori di tipo un po' speciale di cui quell'imprenditore di tipo molto speciale
amò circondarsi rischia sicuramente di risultare incompleto: poeti come Leonardo Sinisgalli e
Franco Fortini, scrittori come Ottieri e Soavi, Giancarlo Buzzi e Libero Bigiaretti, studiosi di teatro
come Luciano Codignola e Ludovico Zorzi. Ognuno aveva una sua responsabilità aziendale. Geno
Pampaloni? Grande critico, sì; ma, a Ivrea, carismatico capo dell'Ufficio di Presidenza, al punto da
autorizzare il "bon mot" che "Olivetti Spa" volesse dire "se Pampaloni acconsente". Saggisti come
Riccardo Musatti e Renzo Zorzi si sarebbero succeduti alla Direzione della Pubblicità e delle
Relazioni Culturali che comprendeva l'organizzazione di grandi mostre e la pubblicazione dei
raffinati calendari d'arte. Molte le presenze importanti nel campo del design: da Sinisgalli e
Giovanni Pintori (autori del famoso poster con la rosa nel calamaio a significare il superamento dell
a scrittura carta-e-penna), a Marcello Nizzoli ed Ettore Sottsass; dal pittore Egidio Bonfante a
Walter Ballmer; da Franco Bassi al più giovane Roberto Pieracini... Per tacere di altri collaboratori
tra i maestri della grafica mondiale: Saul Steinber g, Savignac, J.M. Folon, Milton Glaser. Cantata
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dal Carducci e da Guido Gozzano, Ivrea annovera tra i suoi ricordi illustri anche l'aver ospitato nel
1797 Stendhal, intendente dell'armata francese nella prima campagna d'Italia. Vi si era fermato per
assistere a una rappresentazione del "Matrimonio segreto" del suo amatissimo Cimarosa. A Ivrea
si arriva adesso con un rapido collegamento autostradale: mezz'ora da Torino, poco più di un'ora
da Milano. Ma, nel '56, chi prendeva il treno doveva c ambiare a Chivasso: e così anch'io. In attesa
della coincidenza diedi un'occhiata al termometro della stazione: segnava -17º. All'insegna del
gran freddo cominciava dunque la mia avventura in una Olivetti che era ancora avviata al suo
destino di azienda "speciale" che quella sua "specialitudine" riverberava non soltanto sulla qualità
estetica dei suoi prodotti, ma anche sulle persone di coloro che li progettavano, li fabbricavano, li
vendevano su tutti i mercati del mondo. Il "prodotto" più prestigioso era il nome. Come il fantaccino
della "Grande Armée" aveva nel suo zaino (si diceva) il bastone di maresciallo, così anche l'umile
"zonista" che andava porta a porta per convincere le famiglie ad acquistare una portatile "Lettera
22" (così denominata da un ispirato e giovane Franco Fortini), aveva nella sua cartella una virtuale
nomina a direttore generale. C'erano capi di filiali estere che esibivano un tratto da ambasciatori.
Quelli delle filiali italiane potevano invitare a cena banchieri e prefetti. E non vendevano che
macchine.
Il Corriere della sera, 17 febbraio 1998
da www.menstyle.it
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Tiziano Terzani
« Per cinque anni ho fatto il manager all’Olivetti; vi ero entrato come giovane laureato con lode
alla normale di Pisa. Avevo scelto l’Olivetti, perché a quel tempo un giovane come me, che veniva
da una famiglia povera e che voleva impegnarsi socialmente aveva la scelta tra l’Olivetti e il Partito
comunista. Io scelsi l’Olivetti perché rappresentava la modernità. Perché era moderna l’Olivetti di
Adriano? Cosa c’era di grandioso e che oggi non riesco più a vedere in questo sistema economico,
esclusivamente fondato sul concetto di crescita? Certo, anche allora bisognava produrre macchine
da scrivere e venderle, ma il processo non era fine a se stesso o funzionale alla crescita; era
funzionale a qualcos’altro, un qualcosa che Adriano Olivetti chiamava comunità, che, attraverso
l’azienda cresceva in cultura, in comunicazione in senso di fratellanza; era cioè un progetto
culturale e sociale e questo secondo me era un grande aspetto positivo dell’economia. »
Tiziano Terzani
Nel 1962 Terzani accetta la proposta di impiego dall’Olivetti di Ivrea. Dalla catena di montaggio alla
vendita porta a porta è un duro tirocinio che lo conduce all’ufficio del personale dove conosce lo
scrittore Paolo Volponi e riceve l’incarico di reclutare nuovi laureati nelle filiali europee e
internazionali. Il lavoro dell’Olivetti lo porta prima a viaggiare in tutta Europa (Danimarca,
Portogallo, Olanda, Gran Bretagna) abitando all’estero per lunghi periodi quindi in Oriente. Nel
gennaio 1965 mette piede in Giappone: la sua prima volta in Asia. Vede Hong Kong, ne resta
affascinato. Il sogno della Cina, così vicina, inizia a prendere forma. Nel 1966 acquista con i primi
risparmi il terreno all’Orsigna dove piano piano costruisce una casa. In autunno l’Olivetti lo manda
in Sud Africa. Dal paese sconvolto dall’apartheid manda i primi crudi reportage che pubblica su
«l’astrolabio», settimanale diretto da Ferruccio Parri. Mostra un talento innato che documenta
anche con l’inseparabile macchina fotografica. Intuisce che il giornalismo può essere la sua strada.
Nel 1967, dopo aver viaggiato in Australia e Thailandia, prende l’aspettativa dall’Olivetti e su
indicazione di Samuel Gorley Putt – professore a Cambridge, già dirigente dell’Harkness House e
conosciuto per caso alla Hopkins University di Bologna − si aggiudica una borsa di studio che gli
apre le porte della Columbia University di New York.
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Furio Colombo
«Alla catena di montaggio, nei miei sei mesi da operaio, per farmi perdonare dei pezzi che mi
scappavano di mano raccontavo romanzi. I tre moschettieri e Il Conte di Montecristo, per esempio.
E le operaie si lamentavano perché non conoscevo i romanzi rosa». Furio Colombo, giornalista e
uomo politico, è stato uno dei ragazzi di Adriano Olivetti. Anche a lui, al primo incontro, l'ingegnere
di Ivrea ha detto «io voglio che lei conosca il buio del lunedì», all'ingresso in fabbrica alle sei e
mezza di mattino, in un'ora fredda come l'aria della vicina Valle d'Aosta e umida come i laghi e
fiumi del Canavese.
L’Olivetti dei sogni perduti
di Furio Colombo
Dice un passante dall’aria normale, fermandosi
davanti all’edicola: “Vi dico quel che bisogna fare.
Bisogna ammazzarli tutti, come hanno fatto in Libia.
Tutti, senza stare a guardare. Solo così ci liberiamo
di quei parassiti e sanguisughe una volta per
sempre”. Il gestore della edicola, che ha fatto
politica a sinistra e ha sempre predetto, a volte con
furore, dalla sua finestrella in mezzo ai giornali, la
caduta di Berlusconi, guarda perplesso.
Destra o sinistra? Vecchia ruggine verso l’inutile democrazia o sdegno emergente per ciò che
accade o si viene a sapere e si denuncia soltanto adesso? E come confrontare il livello di rabbia
dell’uomo di fronte all’edicola e le frasi, le parole, la voce, degli operai Fiat che escono per l’ultima
volta da quella loro fabbrica di Termini Imerese, la fabbrica perfetta che da due giorni non esiste
più?
Eppure una cosa in comune, una sorta di saldo legame c’è. Nè il passante dell’edicola di Roma nè i
gruppi di operai fra i trenta e cinquant’anni, messi fuori per sempre, hanno un riferimento o un
futuro, o un pensiero a cui aggrapparsi. È un vuoto pauroso in un Paese che ha avuto la base
operaia più colta e più internazionale d’Europa e personaggi, a volte unici, dalla parte della
proprietà e del management, di solito così poveramente rappresentati dai grandi e costosi
convegni di Confindustria.
Ne parlo non per cambiare discorso, ma perché c’entra il lavoro, come quello che adesso viene
svilito e zittito (che non si sogni di avanzare pretese in periodo di sacrifici e di crisi), c’entra
l’impresa, che qualcuno, appena pochi decenni fa ha sognato (e in parte progettato) in modo
completamente diverso. Soprattutto c’entra la politica, perché chi si occupava di impresa e lavoro
come di un buon legame possibile, sapeva che intorno alla vita organizzata di esseri umani meno
infelici bisognava riorganizzare e ridefinire la politica.
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E c’entra l’edicola. C’entra perché un editore coraggioso ha appena pubblicato un libro a fumetti
su Adriano Olivetti (Un secolo troppo presto di Marco Peroni e Riccardo Cecchetti, edizioni Il Becco
Giallo). I disegni hanno una strana consonanza con i giorni vissuti con Olivetti, mi sento di dire dal
momento che quei giorni li ho vissuti. Mi occupavo del personale, che era un impegno grande
quanto la finanza ai tempi in cui si assumevano persone come Tiziano Terzani.
Le parole del fumetto sono vere, anche se citate da un documento che si finge sia stato scritto un
secolo dopo. È una lunga conversazione che si immagina avvenga tra una giovane laureanda e
l’imprenditore di immenso successo che la Confindustria non voleva nei suoi ranghi. È un testo che
ci riguarda, oggi, adesso, in questi giorni, con questa politica, mentre infuria il dibattito fra politici,
tecnici e strategie di sopravvivenza. Cito pagine di questo importante libro-fumetto (ma forse il più
bel testo di politica contemporanea), sequenze di una riflessione lunga e rara, per Olivetti, che non
faceva discorsi e preferiva scrivere.
“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura,
servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre
superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura. A volte,
quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati,
degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza.
Abbiamo portato in tutti i paesi della comunità le nostre armi segrete. I libri, i corsi culturali,
l’assistenza tecnica nel campo della agricoltura. In fabbrica si tengono continuamente concerti,
mostre, dibattiti. La biblioteca ha decine di migliaia di volumi e riviste di tutto il mondo. Alla
Olivetti lavorano intellettuali, scrittori, artisti, alcuni con ruoli di vertice. La cultura qui ha molto
valore”.
Ma poi Adriano Olivetti, molto più avanti del suo tempo (siamo nel 1960) ripensa al ruolo dei
partiti. “Alla fine del fascismo la maggior parte degli intellettuali vedeva nei partiti uno
strumento di libertà. Io no. Sono organismi che selezionano personale politico inadeguato. Un
governo espresso da un Parlamento così povero di conoscenze specifiche non precede le
situazioni, ne è trascinato. Ho immaginato una Camera che soddisfi il principio della
rappresentanza nel senso più democratico; e poi sappia scegliere ed eleggere un senato
composto delle persone più competenti di ogni settore della vita pubblica, della economia,
dell’architettura, dell’urbanistica, della letteratura”.
C’era nel suo “progetto” (ricordo l’uso continuo di questa parola) il raccordo fra la visione politica
della vita e la competenza tecnica per affrontare i problemi. Gli è stato chiesto se tutto questo non
fosse utopia, ovvero un ponte lanciato nel vuoto. E ha risposto pensando a un futuro che non è
ancora venuto: “Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più
comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra
un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di
infinitamente più grande”.
Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2011
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«Bello. Però cosa ci resta oggi dei sogni di Camillo e Adriano?», mi chiede l’Orsini.
«Niente, te l’ha detto. Non resta niente!», dice sconsolato Dado.
«Ma come niente?», s’arrabbia la Pucce.
«Io non sono mica d’accordo che sia finito tutto», fa Roccopanza ingrugnito.
«Neanch’io», mi viene da dire non so da dove.
«Sennò perché ci hai raccontato questa storia?», protestano tutti a gran voce, scuotendo la testa e
gesticolando. Dado si alza perfino e mi viene sotto al naso, come se fosse colpa mia questo finale
che non gli piace nemmeno un po’.
«Calma!», dico. «Non piace neanche a me. Il punto però è questo: vuoi conoscere la versione di
Eugenio, o vuoi che me ne inventi una tutta mia, come piacerebbe a te? Vuoi una versione per
bambini o quella vera?».
E siccome i bambini non ci piacciono né poco né punto e la musica di Roccopanza ci trascina come
un bel tappeto volante, ci sediamo e continuiamo a ragionarne.
«Purtroppo è andata così».
«Tutto a catafascio?».
«Tutto Dado. Quegli uomini sono morti. Quelle idee si sono perse. È andato tutto a patatrac».
«Del resto», mugola l’Orsini, «ho letto da qualche parte che anche il sole si spegnerà, sapete?». E
non è che questo pensiero giocondo ci tiri su il morale.
«Beh», dico «anch’io adesso avrei 0nito».
«Ma non rimane davvero nulla? Nulla nulla?», chiede la Pucce facendo gli occhioni.
«No, Pucce. Qualcosa rimane sempre».
«Sei sicuro? Me lo giuri?».
«Certo», dico io. «Ci restano i saluti… gli auguri. Quando finisce una storia si fanno sempre ed
Eugenio ce n’ha fatto uno speciale. Ha detto che vale per tutti».
«Che augurio ci ha fatto?».
«Sogni d’oro!».
«Sì! Proprio d’oro li farò! Stasera mi verranno gli incubi piuttosto».
«Non hai capito, Pucce. Sogni d’oro come quelli di Camillo e Adriano», le dice Roccopanza che per
una volta ha l’occasione di correggerla.
«Perché le notti, ha detto Eugenio, passano tutte. Anche quelle buie come l’inchiostro».
«Ha detto davvero così?», fa lei.
«Te lo giuro Pucce!».
Poi Eugenio aveva proseguito in un modo che non me lo dimenticherò mai.
«Vi diranno che i sogni svaniscono all’alba. Ma invece è proprio di giorno che abbiamo bisogno dei
sogni. Quindi ve lo auguro di cuore, per far passare un po’ prima questa notte: “Buongiorno!
Buongiorno e sogni d’oro!”».
da “Il coraggio di un sogno italiano” di Roberto Scarpa
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I testi e le immagini riportate sono tratti – per la maggior parte - dal portale dell’ Archivio Storico
Olivetti www.storiaolivetti.it
Olivetti, storia di un'impresa, un sito che si propone di offrire a tutti, ma in particolare ai giovani,
agli analisti e studiosi dell'industria, al mondo della ricerca e innovazione tecnologica, agli
operatori della comunicazione, la possibilità di conoscere vari aspetti della storia di un'impresa che
tanta parte ha avuto nello sviluppo dell'industria e della società italiana.
smsBIBLIOpisa, novembre 2013 - a cura di Paola Bernardini
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