Focus sulle operazioni con Paesi Black list

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Focus sulle operazioni con Paesi Black list
Paesi black list: il punto tra penalizzazioni, giustificazioni alla deducibilità dei componenti negativi,
sentenze che legittimano le aziende a sostenere spese verso fornitori più competitivi e conflitti tra
norma interna e clausole convenzionali.
a cura della dott.sa Cristina Gariglio, Dottore Commercialista in Torino
Operare con fornitori che hanno sede in Paesi Black list potrebbe rappresentare una eccezionale occasione di
business per le aziende italiane; tuttavia, ai fini fiscali, sono ancora rilevanti i problemi connessi alla
deducibilità dei costi sostenuti e alle incertezze sottese ad alcune actions.
A tale riguardo, le aziende italiane sono ben edotte sui lunghi tempi di attesa sottesi alle risposte ufficiali
sotto forma di interpello che, di fatto, impattano sulle decisioni di investimento e su ogni tipo di
pianificazione.
Procediamo quindi, ad un riesame delle più significative problematiche fiscali per le aziende italiane che
investono e/o acquistano beni e servizi in Paesi Black list al fine di fare il punto della situazione “as is” oggi
disponibile:
a) L’assunzione di partecipazioni:
Investire in Paesi Black list attraverso l’assunzione di partecipazioni genera la tassazione in Italia per
trasparenza dei redditi prodotti nel Paese a fiscalità privilegiata (cd. Cfc legislation).
b) L’interpello disapplicativo:
La tassazione per trasparenza, tuttavia, non si applica qualora il soggetto controllante residente, presentando
interpello, ottenga la disapplicazione della normativa. Sono previste inoltre due ulteriori condizioni di
disapplicazione, operanti in modo autonomo e indipendente l’una dall’altra.
La prima esimente si verifica qualora il soggetto controllante residente sia in grado di dimostrare che la
partecipata estera svolga “un’effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel
mercato dello stato o territorio di insediamento; per le attività bancarie, finanziarie e assicurative
quest’ultima condizione si ritiene soddisfatta quando la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi
originano nello stato o territorio di insediamento” (articolo 167, comma 5, lettera a) del TUIR). La seconda
esimente ricorre invece qualora il soggetto controllante residente dimostri che dal possesso delle
partecipazioni non consegua “l’effetto di localizzare i redditi in stati o territori diversi da quelli di cui al
decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’art. 168 bis”
c) La distribuzione dei dividendi:
Con la Circolare 51 E del 2010, poi, in materia di CFC l’Agenzia delle Entrate ha fornito rilevanti
chiarimenti anche riguardo alla tassazione dei dividendi provenienti da Stati o territori a fiscalità
privilegiata. Indipendentemente dalla tipologia della partecipazione detenuta nella società estera, qualificata
o non, il TUIR prevede una deroga alla ordinaria disciplina di tassazione degli utili da partecipazione
prevedendo che gli stessi sono tassati in maniera piena anziché parziale, se provengono da utili da società o
enti localizzati in paesi Black list. Ciò non avviene nel caso in cui i dividendi siano già stati imputati ai soci
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per trasparenza o quando sia stata fornita adeguata dimostrazione a seguito di interpello disapplicativo cha
dalle partecipazioni non è stato conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Paesi o territori a fiscalità
privilegiata. La citata Circolare ha precisato che anche nel caso di dividendi distribuiti da società conduit
“figlie” delle società madre fiscalmente residente in Italia si applica la tassazione in misura piena anziché
parziale che comporta che il reddito prodotto dal soggetto estero è tassato direttamente in capo al socio
italiano, la tassazione integrale dei dividendi a carico del socio italiano.
d) La cessione delle partecipazioni:
Tra le altre problematiche fiscali vi è anche l’impossibilità di beneficiare della participation exemption in
caso di cessione della partecipazione detenuta in Paesi black list. Si genera pertanto, per l’investitore,
sempre, una tassazione della plusvalenza per intero.
e) Prezzi di trasferimento
Sotto questo profilo l’amministrazione Finanziaria persegue da tempo con costanza ed ostinazione attività di
verifica e monitoraggio utilizzando tutti gli strumenti che le disposizioni di legge le hanno messo a
disposizione. I costi derivanti da rapporti con fornitori residenti in Paesi black list sono quindi attentamente
monitorati al fine di evitare che tra questi si nascondano manovre per sottrarre imponibile all’Erario.
Sui prezzi di trasferimento i gruppi d’imprese si stanno orientando verso la disciplina degli oneri
documentali per effetto della quale si forniscono al Fisco tutte le informazioni sulle operazioni infragruppo e
in cambio, se ci dovessero essere contestazioni, non vi sarà nessuna sanzione a carico del contribuente.
Nel corso della manifestazione Telefisco 2013 sono state fornite dall’Amministrazione finanziaria due
risposte, rispettivamente in tema di prezzi di trasferimento e costi black list , recepite nella Circolare
Ministeriale 15 febbraio 2013, n. 1/E, parr. 2.2 e 9.1.
Il caso affrontato riguarda una situazione abbastanza ricorrente nei contesti di gruppo, per cui le
Amministrazioni finanziarie estere richiedono una remunerazione minima per l’attività di distribuzione
svolta nel loro Paese da società controllate da capogruppo italiane.
Tenuto conto, che alcune Amministrazioni estere presumono una percentuale di redditività costante per la
remunerazione dell’attività di distribuzione, è stato chiesto all’Agenzia delle Entrate se la società italiana
controllante, titolare dei marchi, possa legittimamente garantire tale minima remunerazione alle società
distributrici mediante una politica di sconti volta a remunerare l’attività svolta.
Il caso analizzato interessa la numerosa platea delle società di distribuzione estere detenute da controllanti
italiane le quali oltre a svolgere la distribuzione dei prodotti, spesso si occupano anche di altre attività
comunque rilevanti: assistenza, promozione, pubblicità, ecc.
Queste attività complementari, in diversi casi possono addirittura essere implicite nella struttura del soggetto
estero e spesso trovano una remunerazione indiretta da parte della società controllante italiana tramite una
politica di sconti che consente al distributore di avere un margine in linea con le funzioni svolte.
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Pertanto il prezzo di vendita che viene praticato a tale operatore non potrà essere confrontato con quello
praticato ad un soggetto indipendente senza considerare la sua funzione promozionale (che incide anche, ad
esempio, sulla struttura e dimensione dei costi).
L’Agenzia delle Entrate in primo luogo ricorda che in linea generale, l’applicazione del principio del valore
normale si basa su una comparazione tra le condizioni presenti nella transazione effettuata tra parti correlate
e quelle presenti in transazioni tra imprese indipendenti.
Successivamente evidenzia che per determinare la remunerazione al valore normale da riconoscere al
distributore non si può prescindere, in generale, dall’analisi di tutti i fattori di comparabilità indicati dalle
Linee guida OCSE: le caratteristiche dei beni o servizi venduti, il profilo funzionale e di rischio, le
condizioni contrattuali, le circostanze economiche e le strategie di affari.
Quindi la risposta conclude evidenziando che in esito a tale analisi si procederà all’individuazione del
metodo più appropriato e, conseguentemente, alla determinazione della remunerazione spettante al
distributore che tenga conto delle funzioni svolte e dei rischi assunti dal distributore nello svolgimento della
sua attività commerciale e promozionale.
A tale riguardo, si osserva che il criterio di comparabilità con distributori terzi si applica anche nei casi in
cui un distributore sostenga costi straordinari di marketing che eccedono i costi che un distributore
indipendente con diritti simili sarebbe disposto a sostenere a beneficio della propria attività di distribuzione.
Detta casistica è presa in considerazione al capitolo VI delle Linee guida Ocse (Beni immateriali) al punto
D. nel quale si sostiene che in taluni casi, ad esempio a fronte del possesso del marchio, un distributore
indipendente può ottenere una maggiore remunerazione, anche attraverso sconti sui prodotti o riduzione dei
tassi di reali.
Il presupposto è che la correlazione tra i costi di marketing (e di altre attività assimilabili) ed il beneficio per
l’ente che li sostiene direttamente si affievolisca e che non venga messo in atto alcun diverso meccanismo
per garantire al distributore il rimborso dei costi sostenuti (caso anch’esso ammesso e previsto al punto D.
prima citato). Lo sconto sul prezzo dei prodotti o sulle royalties oppure il rimborso dei costi sono coerenti
con la logica guidata dall’analisi funzionale, in quanto remunerano funzioni ulteriori rispetto a quelle svolte
da un distributore indipendente.
Le Linee guida Ocse forniscono anche un’indicazione metodologica relativa alla modalità di quantificazione
dello sconto o del rimborso rinviando alla raccomandazione (contenuta nei parr. 3.75 e 3.79) di considerare i
comportamenti assunti dalle parti in un certo periodo di tempo (“Dati a un anno di più“).
Nell’ambito della risposta fornita dall’Agenzia, è stata sottolineata l’importanza di impostare una corretta
analisi funzionale, al fine di definire e quantificare le funzioni svolte e la remunerazione delle stesse anche
se rimangono, tuttavia, aperte numerose questioni, derivanti dalle ormai datate indicazioni di prassi sul tema
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(il riferimento è in particolare alla C.M. 22 settembre 1980, n. 32/E). Si attende, quindi,
dall’Amministrazione una serie di indicazioni operative, oltre che di principio, al fine di fornire alle società e
agli operatori del settore delle linee guida per impostare al meglio questa complessa tematica che interessa e
interesserà una platea sempre maggiore di contribuenti.
f) L’acquisto di beni e servizi:
Nel seguito esaminiamo la disciplina in vigore per i soggetti italiani che acquistano beni e servizi da soggetti
domiciliati in Paesi black list
L’ordinamento italiano, ai commi 10, 11, 12 e 12-bis dell’art. 110 del T.U.I.R., disciplina la disposizione in
tema di deducibilità dei costi sostenuti da società residenti e originati da transazioni con soggetti localizzati
in Stati o territori a fiscalità privilegiata.
La ratio di tale disposizione è quella di evitare trasferimenti di base imponibile dall’Italia a paesi a fiscalità
bassa o nulla attraverso operazioni dettate non da ragioni di natura commerciale quanto, piuttosto, da ragioni
meramente finalizzate ad abbattere l’onere tributario in Italia.
La presunzione di indeducibilità si verifica in presenza dei seguenti requisiti:
1 - Soggettivi
2 - Oggettivi
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3 – Territoriali:
PAESI A FISCALITA’ PRIVILEGIATA “PURI”
Alderney (Isole del Canale), Andorra, Anguilla, Antille Olandesi, Aruba, Bahamas, Barbados, Barbuda, Belize, Bermuda, Brunei,
Filippine, Gibilterra, Gibuti (ex Afar e Issas), Grenada, Guatemala, Guernsey (Isole del Canale), Herm (Isole del Canale), Hong
Kong, Isola di Man, Isole Cayman, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini britanniche, Isole Vergini
statunitensi, Jersey (Isole del Canale), Kiribati (ex Isole Gilbert), Libano, Liberia, Liechtenstein, Macao, Maldive, Malesia,
Montserrat, Nauru, Niue, Nuova Caledonia, Oman, Polinesia francese, Saint Kitts e Nevis, Salomone, Samoa, Saint Lucia, Saint
Vincent e Grenadine, Sant’Elena, Sark (Isole del Canale), Seychelles, Tonga, Tuvalu (ex Isole Ellice),Vanuatu.
PAESI A FISCALITÀ’ PRIVILEGIATA “PURI”, CON ECCEZIONI
Bahrein (rilevano tutti i soggetti ad esclusione delle società che svolgono attività di esplorazione, estrazione e raffinazione nel
settore petrolifero); Emirati Arabi Uniti (rilevano tutti i soggetti ad esclusione delle società operanti nei settori petrolifero e
petrolchimico assoggettate ad imposta); Monaco, con esclusione delle società che realizzano almeno il 25% del fatturato fuori dal
Principato; Singapore (rilevano tutti i soggetti ad esclusione della Banca Centrale e degli organismi che gestiscono anche le
riserve ufficiali dello Stato).
PAESI A FISCALITA’ NON PRIVILEGIATA, SALVO ECCEZIONI
Angola (rilevano solo le società petrolifere che hanno ottenuto l’esenzione dall’Oil Income Tax, le società che godono di
esenzioni o riduzioni d’imposta in settori fondamentali dell’economia angolana e per gli investimenti previsti dal Foreign
Investment Code); Antigua (rilevano solo le international business companies, esercenti le loro attività al di fuori del territorio di
Antigua, quali quelle di cui all’International Business Corporation Act, n. 28 del 1982 e successive modifiche e integrazioni,
nonché le società che producono prodotti autorizzati, quali quelli di cui alla locale legge n. 18 del 1975, e successive modifiche e
integrazioni); Costarica (rilevano solo le società i cui proventi affluiscono da fonti estere, nonché le società esercenti attività ad
alta tecnologia); R. Dominicana (rilevano solo le international companies esercenti l’attività all’estero); Ecuador (rilevano solo le
società operanti nelle Free Trade Zones che beneficiano dell’esenzione dalle imposte sui redditi); Giamaica (rilevano solo le
società di produzione per l’esportazione che usufruiscono dei benefici fiscali dell’Export Industry Encourage Act e le società
localizzate nei territori individuati dal Jamaica Export Free Zone Act); Kenia (rilevano solo le società insediate nelle Export
Processing Zones); Mauritius (rilevano solo le società “certificate” che si occupano di servizi all’export, espansione industriale,
gestione turistica, costruzioni industriali e cliniche e che sono soggette a Corporate Tax in misura ridotta, le Off-shore Companies
e le International Companies); Panama (rilevano solo le società cui proventi affluiscono da fonti estere, secondo la legislazione di
Panama, le società situate nella Colon Free Zone e le società operanti nelle Export Processing Zone); Portorico (rilevano solo le
società esercenti attività bancarie e le società previste dal Puerto Rico Tax Incentives Act del 1988 o dal Puerto Rico Tourist
Development Act del 1993); Svizzera, con riferimento alle società non soggette alle imposte cantonali e municipali, quali le
società Holding, ausiliarie e “di domicilio”; Uruguay (rilevano solo le società esercenti attività bancarie e le holding che
esercitano esclusivamente attività off-shore).
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Contro tale presunzione di indeducibilità viene ammessa la prova contraria, da fornire a cura del
contribuente, in base alla quale le spese e gli altri componenti negativi di reddito sono deducibili se il
soggetto residente in Italia dimostra, alternativamente:
che l’impresa estera svolga prevalentemente un’attività commerciale “effettiva”; oppure
che le operazioni poste in essere rispondano ad un “effettivo interesse economico”; e
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che le stesse abbiano avuto “concreta esecuzione”.
Tale prova può essere prodotta o in sede di interpello preventivo oppure in occasione di controllo da parte
dell’Amministrazione Finanziaria, atteso l’obbligo per gli uffici, prima di procedere all’emanazione
dell’avviso di accertamento, di notificare all’interessato un apposito questionario con cui concedono novanta
giorni utili al contribuente al fine di documentare la deducibilità dei suddetti costi “black list”.
Ulteriore e non trascurabile obbligo per il contribuente consiste nella separata indicazione in dichiarazione
delle spese e degli altri componenti negativi di reddito in argomento.
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Sanzioni Applicabili
Nel corso di Telefisco 2013 e, successivamente, con la Circolare Ministeriale 15 febbraio 2013, n. 1/E,
l’Agenzia delle Entrate ha anche chiarito le sanzioni applicabili nel caso in cui venga omessa l’indicazione
nella dichiarazione dei redditi dei costi sostenuti con operatori residenti in Paesi a fiscalità privilegiata.
Il caso analizzato riguarda le sanzioni a cui è soggetta un impresa che:
•
non indichi separatamente nel Modello Unico del periodo di riferimento gli acquisti con operatori black
list e
•
riesca comunque, in sede di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria, a dimostrare l’esistenza
di una delle esimenti richiamate nell’art. 110, co. 11 TUIR.
L’Agenzia delle Entrate ritiene che in tale fattispecie risulti applicabile la sanzione proporzionale stabilita in
misura pari al 10% dell’importo complessivo dei costi non indicati separatamente, con il minimo di euro 500
ed un massimo di euro 50.000 ai sensi dell’art. 8, co. 3 –bis, DLgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
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Secondo l’Agenzia, la sanzione proporzionale del 10% è sempre applicabile quando un’impresa omette di
indicare separatamente nella dichiarazione dei redditi i costi sostenuti nei confronti di operatori residenti in
Paesi a fiscalità privilegiata e non presenta la dichiarazione integrativa con l’indicazione di costi, ovvero
quando l’integrativa è presentata solo successivamente alla formale conoscenza dell’avvio dei controlli
dell’Amministrazione finanziaria. La posizione dell’Agenzia si basa sulla considerazione che la sanzione
proporzionale del 10% è finalizzata a preservare l’obbligo di separata indicazione in dichiarazione che
consente all’Amministrazione finanziaria di indirizzare puntualmente i controlli verso quelle operazioni per
le quali il Legislatore ha voluto alzare la soglia di attenzione poiché effettuate con soggetti residenti o
localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata e, quindi, potenzialmente elusive.
Si osserva che il chiarimento fornito dall’Agenzia mediante la Circolare Ministaeriale 1/E/2013 conferma un
precedente orientamento espresso con la Circolare del 3/11/2009, n. 46/E anche se è bene ricordare un
significativo intervento della Corte di Cassazione con la sentenza 29 dicembre 2010, n. 26298 anche se con
riferimento ad annualità precedenti il 2007, anno per il quale sono entrate in vigore le attuali disposizioni.
Infatti, secondo la Suprema Corte la sanzione proporzionale del 10% dell’importo dei costi non indicati in
dichiarazione deve essere irrogata “soltanto qualora l’impresa avente sede in Italia non provi le circostanze
che le danno diritto alla deduzione, in deroga al principio generale d’indeducibilità del costo di merci
importate da Paesi black list”.
Nella diversa ipotesi in cui l’impresa riesca dimostrare l’esistenza di una delle esimenti la Corte di
Cassazione ritiene invece applicabile la sanzione da euro 258 ad euro 2.065, prevista dall’art. 8, co.1, D.Lgs
471/1997 per le violazioni formali. In sostanza, a differenza dell’Agenzia delle Entrate, la Corte di
Cassazione è orientata a ritenere, anche se per i periodi precedenti il 2007, che la misura della sanzione
applicabile in caso di omessa indicazione dei costi sostenuti con operatori black list dipenda dall’esito della
valutazione delle circostanze che consentirebbero la deduzione, in tutto o in parte, di tali costi.
In Conclusione, in base all’orientamento dell’Agenzia delle Entrate, le sanzioni applicabili alle violazioni
connesse alla normativa dei costi black list sono due:
•
la prima di natura formale relativa alla mancata separata indicazione in dichiarazione dei redditi dei
componenti negativi previsti dalla norma pari al 10% di tali costi con un minimo di Euro 500 e un
massimo di Euro 50.000;
•
la seconda di natura sostanziale che determina l’indeducibilità dei componenti negativi con le relative
sanzioni per infedele dichiarazione nel caso di mancata prova delle esimenti previste dalla disposizione
di legge.
Le sanzioni sono autonome e quindi quella formale resta applicabile anche quando il contribuente è in grado
di fornire tutte le giustificazioni per la deducibilità dei costi.
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Analisi della Giurisprudenza:
a) Sui Prezzi di Trasferimento
Sentenza della Corte di Cassazione del 13 luglio 2012, n. 11949
Un primo importante tema verte sul soggetto a cui spetti l’onere di fornire gli elementi di prova della
congruità o meno dei prezzi di trasferimento, se tale onere incomba sull’Amministrazione o sul contribuente.
A tale proposito si cita la sentenza della Corte di Cassazione 13 ottobre 2006, n. 22023 nella quale si
afferma che “l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava in ogni caso
sull’Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche (…)”.
Dello stesso avviso è la Sentenza del 16 maggio 2007, n. 11226 nella quale la Cassazione, nel contesto di un
accertamento di prezzi di trasferimento, confermava nuovamente che l’onere della prova grava
sull’Amministrazione finanziaria.
Con la sentenza in commento la Cassazione è ritornata sulla tematica dell’onere della prova arrivando alle
seguenti conclusioni:
•
quest’ultimo, in linea di principio, grava sull’Amministrazione finanziaria che intende procedere alle
rettifiche, per cui relativamente alle componenti positive di reddito tocca al fisco dimostrare la
fondatezza delle proprie ragioni per quanto concerne lo scostamento tra importo pattuito tra le parti e
valore normale dei beni scambiati;
•
tuttavia, per quanto riguarda i costi, è necessario che la società controllata dia dimostrazione
dell’inerenza del costo sostenuto. In questo senso è necessario che la società fornisca gli elementi di
prova che giustifichino la congruità del costo sostenuto sia in ordine alla correlazione con i ricavi sia con
riferimento ad una effettiva utilità ottenuta.
Successivamente ma sempre nel 2012 la
Sentenza della Corte di Cassazione del 19 ottobre 2012, n. 17953
ha chiarito che:
•
la norma italiana detta quale unico criterio legale da adottare, da parte del contribuente, quello del valore
normale a prescindere dal corrispettivo effettivamente pattuito e con assoluta irrilevanza delle concrete
ragioni economiche per le quali lo stesso è stato fissato dai contraenti in misura minore;
•
le disposizioni nazionali, tra i metodi proposti dall’Ocse hanno adottato, con il richiamo all’art. 9 TUIR,
il metodo tradizionale del confronto dei prezzi;
•
a tale metodo legale il giudice deve rimanere orientato;
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•
generici raffronti infrannuali o comparazioni per rinvio ad elaborati statistici così come generiche
affermazioni, ragionevoli ma non decisive, quali che “la società ha applicato ai beni venduti alle
consociate estere identici prezzi di vendita indipendentemente dalle quantità vendute” non sono
sufficienti ad identificare il valore normale avendo riguardo agli elementi previsti dal modello legale di
cui all’art. 9 del TUIR
b) Sull’acquisto di beni e servizi: i confini incerti delle esimenti
Commissione Tributaria Regionale Lombardia Milano Sez. XXXV, 08-11-2012, n. 138
Con riferimento all’acquisto di materiale metallico da un operatore black list, la Commissione Tributaria
Regionale della Lombardia ha stabilito che l’effettivo interesse economico è idoneo a superare la
presunzione di indeducibilità dei relativi costi (art. 110 co. 10 e 11 del TUIR), se il contribuente prova:
- di essere riuscito a ottenere costi più bassi trattando con la società black list, rispetto ad altri contraenti,
anche italiani, anche con riferimento alla borsa metalli;
- di essere riuscito a realizzare un utile superiore a quello medio;
- di aver adottato una formula contrattuale comprensiva del trasporto;
- di aver calibrato l’operazione, atteso che maggiori acquisti avrebbero comportato la lievitazione dei costi a
fronte di un mercato scarno.
La vicenda all’origine del contenzioso riguarda quanto appena descritto in materia da una parte di obbligo di
segnalazione in dichiarazione dei redditi dei costi sostenuti da un soggetto italiano acquirente di beni e
servizi e dall’altra una necessaria giustificazione di questi oneri per fruire della deducibilità dei costi
sostenuti.
Questa sentenza si attesta su posizioni analoghe ad un’altra sentenza emessa dalla Commissione Tributaria
Regionale del Piemonte.
Commissione Tributaria Regionale Piemonte Sez. I, 13.12.2012, n. 91
La vicenda legata a questa sentenza è ancor più intricata; infatti la Commissione è stata chiamata a
riesaminare una vicenda che era già stata trattata da un’altra sezione della medesima Commissione
Tributaria Regionale del Piemonte. Sentenza, peraltro, cassata dalla Suprema corte (sentenza 26298/2010)
per insufficiente motivazione e quindi la causa era stata rinviata ad altra sezione della Commissione
Tributaria Regionale del Piemonte. La “nuova” Sentenza arriva anch’essa alle stesse conclusioni della
precedente evidenziando l’esistenza delle condizioni per la deducibilità dei costi sulla base della
documentazione esibita dal contribuente.
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Commissione Tributaria Provinciale Lombardia Milano Sez. V, 13-12-2012, n. 294
Questa Sentenza apporta interessanti spunti sulla deducibilità dei costi black list; in essa si afferma che le
convenzioni tra Stati valgono più delle norme interne. Il caso specifico riguardava uno spedizioniere che, per
portare a termine il trasporto commissionatogli, coordinava l’attività svolta con mezzi propri e quella di altri
vettori. Nei casi in cui il cliente ordinava un trasporto da un Paese black list a un altro Paese, lo
spedizioniere dava l’incarico a un soggetto in loco per la tratta nel Paese di partenza dei beni.
La sentenza accogliendo la tesi sostenuta dal contribuente ha precisato che l’effettività dell’interesse
economico perseguito deriva, tenuto conto dell’attività richiesta al contribuente, dalla necessità di acquisire
il prodotto/servizio esclusivamente in un Paese inserito nella black list. Inoltre, viene messo in evidenza che
risulta assurdo e impossibile ricercare un interesse economico nel compiere un’attività che è essenziale per
l’intera transazione. Un ulteriore elemento fondamentale per la decisione è stato quello che i costi sostenuti
sono stati riaddebitati alle società clienti e quindi si è trattato di costi che sono serviti a produrre profitto.
La Clausola di non discriminazione:
Un ulteriore aspetto, peraltro affrontato di recente in occasione del Telefisco 2013 è la questione riguardante
il possibile conflitto di alcune clausole convenzionali con la norma interna di cui all’art. 110, co. 10 – 12 bis,
del TUIR.
Le Convenzioni per evitare le doppie imposizioni sono trattati internazionali con i quali i Paesi contraenti
disciplinano le spettanti potestà impositive, al fine di eliminare o almeno ridurre la doppia tassazione sui
redditi e/o sul patrimonio dei rispettivi residenti.
Generalmente, le Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia si ispirano al Modello di
convenzione dell’OCSE che prevede all’art. 24, il c.d. principio di “non discriminazione” in materia fiscale.
Il paragrafo 4 del menzionato articolo prevede che “fatta salva l’applicazione delle disposizioni dell’art.9,
del paragrafo 6 dell’art.11 o del paragrafo 4 dell’art.12, gli interessi, i canoni ed altre spese pagati da
un’impresa di uno Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono deducibili ai fini della
determinazione degli utili imponibili di detta impresa, nelle stesse condizioni in cui sarebbero deducibili se
fossero pagate ad un residente del primo Stato.
Parimenti, i debiti di un’impresa di uno Stato contraente nei confronti dei residenti dell’altro Stato
contraente sono deducibili, ai fini della determinazione del patrimonio imponibile di detta impresa, nelle
stesse condizioni in cui sarebbero deducibili se fossero contratti nei confronti di un residente del primo
Stato”.
In sostanza, fatte salve le disposizioni di cui al paragrafo 1 dell’art. 9, nel paragrafo 6 dell’art. 11 o nel
paragrafo 4 dell’art. 12 del Modello OCSE, in quanto lascia invariate le regole anti-elusive relative all’arm’s
length, vale a dire quelle regole sul valore normale del prezzo che sarebbe stato convenuto tra imprese
indipendenti per transazioni identiche o analoghe su un mercato in regime di libera concorrenza,
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l’applicazione letterale della clausola convenzionale riportata indica che se un’impresa italiana riceve un
pagamento da un’impresa a fiscalità privilegiata, relativi ad interessi, canoni e altre spese, questi sono
deducibili con gli stessi criteri di deducibilità applicabili nel caso in cui fossero stati corrisposti ad altra
impresa residente nel territorio italiano.
Di conseguenza, sembrerebbe venir meno l’applicabilità delle disposizioni di cui all’articolo 110, co. 10 –
12 bis, del Tuir.
Infatti, tale disposizione, che preveda l’indeducibilità dei costi sostenuti in relazione a operazioni
intercorrenti con soggetti paradisiaci, risulta essere incompatibile con l’esistenza di accordi ratificati che
contengono una clausola di non discriminazione del tenore dell’art. 24, paragrafo 4, del Modello Ocse.
In tale eventualità difatti si creerebbe una violazione del principio di non discriminazione, in quanto non
verrebbe riconosciuta la deducibilità di un onere a un’impresa per il fatto di aver corrisposto una somma a
un’impresa non residente, mentre il corrispondente onere sarebbe stato deducibile se corrisposto a un
soggetto residente nello stesso Stato.
Le istruzioni fornite al Commentario del Modello OCSE, all’art. 24, paragrafo 4, chiariscono che “[…] È
tuttavia lasciata agli Stati contraenti la possibilità di modificare questa disposizione nelle convenzioni
bilaterali per evitarne l’uso per finalità elusive”.
In pratica, saranno gli Stati contraenti all’atto della stipula della Convenzione che potranno prevedere
limitazioni del principio di non discriminazione per evitare comportamenti elusivi.
Tale consiglio si è tradotto, il più delle volte, in clausole del tipo “Tuttavia, le disposizioni dei paragrafi
precedenti del presente Articolo non pregiudicano l’applicazione delle disposizioni interne per prevenire
l’evasione e l’elusione fiscale”.
La presenza di una simile clausola renderebbe applicabile le disposizioni di cui all’articolo 110, co. 10 – 12
bis, del Tuir, in quanto la norma è chiaramente rivolta al contrasto dell’evasione fiscale.
Da ultimo ci si interroga se questa norma è applicabile nel caso in cui il soggetto estero con il quale sono
intercorse le operazioni commerciali sia residente in un Paese black list con il quale l’Italia abbia stipulato
una convenzione contro le doppie imposizioni che prevede una clausola di non discriminazione (articolo 24,
paragrafo 4, del Modello Ocse). Tale clausola prevede infatti che i costi sostenuti da un’impresa di uno Stato
per gli acquisti di beni e servizi da un’impresa dell’altro Stato sono deducibili nelle stesse condizioni in cui
sarebbero deducibili, se fossero pagati a residenti del primo Stato. Sul punto, richiamando la Sentenza
commentata poco sopra “le disposizioni contenute in una convenzione internazionale, in quanto destinate a
disciplinare in via esclusiva i rapporti tra i soggetti appartenenti ad uno Stato estero ed i soggetti
appartenenti allo Stato italiano, ovvero i rapporti tra uno stato estero e l’Italia, assumano il carattere di
specialità e, quindi, assumano rilievo rispetto alle normative nazionali quali, nel caso in esame, il Tuir”.
Nello stesso senso, comunque, si era espressa anche la stessa Commissione Tributaria Provinciale della
Lombardia con la Sentenza n. 338 del 20 dicembre 2010 e, poi, anche la Cassazione con la sentenza n. 4272
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del 23 febbraio 2010. Se ne desume che per alcuni Paesi black list quali ad esempio Svizzera, Singapore,
Malesia e Corea del Sud, la presenza della convenzione dovrebbe superare, secondo l’orientamento
giurisprudenziale evidenziato, la disposizione interna del TUIR.
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In conclusione, data la normativa attuale interna assai articolata e complessa, sarebbe auspicabile da una
lato, un intervento del legislatore volto a semplificare le procedure e a ridurre i tempi degli adempimenti,
ovviamente salvaguardando l’esigenza doverosa della lotta all’elusione e all’evasione fiscale e dall’altro, un
più intenso ed incisivo lavoro volto a migliorare i rapporti tra gli Stati attraverso Convezioni contro le
doppie imposizioni che contengano clausole che delineino le linee guida volte a dimostrare l’esistenza un
effettivo radicamento all’estero.
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