scienza e restauro
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ISSN 1974-7950 Arkos SCIENZA E RESTAURO 22 Trimestrale - Nuova Serie - Gennaio/Marzo 2010 - Euro 16,00 FORUM ITALIANO CALCE Il censimento e la catalogazione nazionale delle fornaci da calce La produzione di calce nella campagna romana in età moderna: materiali e aspetti organizzativi Malte a base di calce aerea con aggiunte di pozzolane naturali e cocciopesto Tra archeologia, empiria e scienza: una proposta per la classificazione delle resistenze delle malte Studio comparato fra trattamenti consolidanti e protettivi organici e inorganici su intonaci a calce Le fornaci per la produzione della calce in terra d’Otranto: da “carcare” a patrimonio industriale Per una carta tematica della produzione della calce: un esempio dal territorio aquilano Existen diferencias en las cales apagadas por distintos métodos tradicionales?: la experiencia de Zone (BS) L’idraulicità delle malte: il contributo della diagnostica minero-petrografica La nuova calce storica di Palizzi (RC) e l’intonaco al Bergamotto Confronto tra intonaci tradizionali premiscelati: un’occasione per riflettere L’uso del caolino come additivo idraulicizzante delle malte di calce aerea. Sintesi dei principali risultati ottenuto dal gruppo di ricerca genovese Malte a base di calce con aggiunte minerali: principali proprietà I colori delle Cinque terre. Progetto e ricerche integrate per valorizzare i caratteri del paesaggio antropico e conservare i colori tipici dell’edilizia storica Firenze Stazione Leopolda © Copyright - Foto e grafica: Francesco Luglio 11-12-13 Novembre 2010 www.salonerestaurofirenze.org ARKOS PERIODICO TRIMESTRALE NUOVA SERIE - N. 22 GENNAIO/MARZO 2010 IN COPERTINA: Concorso Fotografico “Scatti in calce 09” Foto di Camilla Porlezza (1° classificata) in alto a sinistra, Ilaria Camapgna (2° classificata) in alto a destra, Francesca Diletta Sala (3° classificata) in basso. DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE Editinera s.r.l. Sede operativa: Largo Antonio Sarti 4-5 00196 - Roma Tel. 06.3220880 [email protected] DIRETTORE RESPONSABILE Adolfo Pasetti DIRETTORE SCIENTIFICO Claudio Montagni CONSIGLIO SCIENTIFICO Giovanna Alessandrini, Lorenzo Appolonia, Giorgio Bonsanti, Roberto Bugini, Giovanni Carbonara, Roberto Cecchi, Maria Antonietta Crippa, Gino M. Crisci, Stefano Della Torre, Maurizio de' Gennaro, Donatella Fiorani, Mauro Matteini, Roberto Parenti, Enrico Pedemonte, Daniela Pinna, Paolo Scarzella CORRISPONDENTI Maurizio Berti, Riccardo Forte, Fabio Fratini, Caterina Giannattasio, Elena Leoncini, Maurizio Martinelli, Anna Maria Mecchi, Elisabetta Rosina, Valentina Russo, Pietro Tiano, Marco Zerbinatti Tutti gli articoli pubblicati - ad eccezione della sezione Flash sono sottoposti a referaggio da parte della Direzione e del Consiglio Scientifico della rivista. Le norme redazionali per gli Autori sono scaricabili dal sito www.arkospress.it Altri testi e materiali proposti per recensione o informazione potranno essere inviati alla sede operativa di Roma COORDINAMENTO REDAZIONALE Alfredo Radiconcini [email protected] DIRETTORE MARKETING Enrico Giovanni Arrighini TRADUZIONE SUMMARY Traduzioni Madrelingua - Kaedra S.r.l. PROGETTO GRAFICO Alessandra Calabrò ABBONAMENTI E VENDITE DIRETTE [email protected] Costo di un numero € 16,00 Abbonamento ordinario (4 numeri) € 50,00 Abbonamento estero € 65,00 Versamenti sul ccp 60343563 intestato a Novamusa s.p.a., indicare: Abbonamento rivista Arkos Editinera. È possibile effettuare il pagamento anche tramite carta di credito seguendo le istruzioni presenti sul sito www.arkospress.it alla voce “Abbonamenti” ISBN 978-88-8393-110-9 Autorizzazione Tribunale di Cosenza n. 848 del 12/11/2008 La pubblicità non supera il 45% STAMPA Stabilimento tipografico De Rose, Montalto Uffugo Scalo, Contrada Pantoni, Cosenza Finito di stampare Ottobre 2010 FORUM ITALIANO CALCE Sommario Editoriale a cura di Rita Vecchiattini FLASH EVENTI FLASH EVENTI 3 Lucca Beni Culturali 2010 6° Edizione 4 Salone dell'Arte e del Restauro di Firenze 6 Il censimento e la catalogazione nazionale delle fornaci da calce Rita Vecchiattini Le fornaci per la produzione della calce in terra d’Otranto: da “carcare” a patrimonio industriale 8 Antonio Monte 16 Giovanna Petrella 22 Manuel Vaquero Piñeiro 30 Joan Ramon Rosell, Laia Haurie, Montse Bosch, Andrea Rattazzi, Inma R. Cantalapiedra 34 Fabio Fratini, Elena Pecchioni, Emma Cantisani 40 Cristina Tedeschi 45 Giovanni Luca A. Pesce 52 Albert Jornet, Giovanni Cavallo, Cristina Mosca 57 Tiziano Mannoni 63 Antonella Postorino, Alessia Bianco 68 Cristina Mosca, Albert Jornet, Giovanni Cavallo 73 Angelita Mairani, Silvia Vicini, Elisabetta Princi, Angela Militi, Domenico Mirello, Piero Cavarocchi 78 Cristina N. Grandin, Giuseppe A. Centauro 84 Per una carta tematica della produzione della calce: un esempio dal territorio aquilano La produzione di calce nella campagna romana in età moderna: materiali e aspetti organizzativi Existen diferencias en las cales apagadas por distintos métodos tradicionales?: la experiencia de Zone (BS) L’idraulicità delle malte: il contributo della diagnostica minero-petrografica Malte a base di calce aerea con aggiunte di pozzolane naturali e cocciopesto L’uso del caolino come additivo idraulicizzante delle malte di calce aerea. Sintesi dei principali risultati ottenuto dal gruppo di ricerca genovese Malte a base di calce con aggiunte minerali: principali proprietà Tra archeologia, empiria e scienza: una proposta per la classificazione delle resistenze delle malte La nuova calce storica di Palizzi (RC) e l’intonaco al Bergamotto Confronto tra intonaci tradizionali premiscelati: un’occasione per riflettere Studio comparato fra trattamenti consolidanti e protettivi organici e inorganici su intonaci a calce I colori delle Cinque terre. Progetto e ricerche integrate per valorizzare i caratteri del paesaggio antropico e conservare i colori tipici dell’edilizia storica 1 Convegnocalce09 – 2° Convegno Nazionale del Forum Italiano Calce in collaborazione con ISCUM e DSA CALCE: MATERIALE ANTICO, IDEE NUOVE Genova, 3-4 dicembre 2009 – Facoltà di Architettura – Aula Benvenuto PROGRAMMA GIOVEDI’ 3 DICEMBRE 2009 9.30 Registrazione dei partecipanti Benvenuto e apertura del Convegno 10.30 Stefano Francesco Musso (Preside della Facoltà di Architettura - Università di Genova) Maria Linda Falcidieno (Direttore del Dipartimento di Scienze per l’Architettura - Università di Genova) Andrea Rattazzi (Presidente del Forum Italiano Calce) Sessione 1 – (chairman Andrea Rattazzi) 11.00 Stafford Holmes (Building Limes Forum) – Building Limes Forum and Forum Italiano Calce: multilingual glossary of building lime words 11.20 Roberto Bugini (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali – CNR Milano) – Presentazione del programma collettivo di indagini petrografiche per identificare la natura dei leganti a base di calce 11.40 Rita Vecchiattini (Dipartimento di Scienze per l’Architettura Università di Genova) – Il censimento nazionale delle fornaci da calce. Stato dell’arte sul progetto di catalogazione ‘MilleFornacidaCalce’ Sessione 2 – (chairman Fabio Fratini) 12.00 Manuel Vaquero Piñeiro (Dipartimento di Scienze Storiche Università di Perugia) – La produzione di calce nella campagna romana in età moderna: materiali e aspetti organizzativi 12.20 Giovanna Petrella (Dipartimento di Storia e Metodologie Comparate - Università dell’Aquila) – Per una carta tematica della produzione della calce: un esempio dal territorio aquilano 12.40 Antonio Monte (Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali – CNR Lecce) – Le fornaci per la produzione della calce in Terra d’Otranto: da ‘carcare’ a patrimonio industriale 13.00 pausa pranzo Sessione 3 – (chairman Paolo Accinelli) 14.40 Prisca Giovannini (Servizio Geologico - Provincia autonoma di Trento) – “Pietra da calcina”: denominazioni, approvvigionamento e scelta della materia prima in Toscana (secoli XVII-XVIII) 15.00 Roberto Ricci (Istituto di Storia della Cultura Materiale) – La datazione delle malte in Liguria 15.20 Fabio Fratini (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali - CNR Firenze) – L’idraulicità nelle malte antiche: il contributo della diagnostica minero-petrografica 15.40 Sessione poster: spazio Tesi 16.00 coffee break 16.40 Cristina Tedeschi (Dipartimento di Ingegneria Strutturale Politecnico di Milano) – Malte a base di calce aerea con aggiunte di pozzolane naturali e cocciopesto 17.00 Giovanni Luca A. Pesce (Istituto di Storia della Cultura Materiale) – L’uso del caolino come additivo idraulicizzante nelle malte di calce aerea 2 17.20 Premiazione del Concorso Fotografico Internazionale Scattiincalce09 17.40 Presentazione del volume “La civiltà della calce. Storia, Scienza e Restauro” 18.00 Assemblea dei Soci del Forum Italiano Calce VENERDI’ 4 DICEMBRE 2009 Sessione 4 – (chairman Oliviero Collarini) 9.40 Joan Ramon Rosell (Universitat Politècnica de Catalunya) – Existen diferencias en las cales apagadas por distintos métodos tradicionales?: la experiencia de Zone (BS) 10.00 Roberto Bugini (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali – CNR Milano) Valutazione del rapporto legante/aggregato in una malta: confronto fra metodi chimici e petrografici 10.20 Albert Jornet (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) – Malte a base di calce con aggiunte minerali: principali proprietà 10.40 Marco Zerbinatti (Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali - Politecnico di Torino) – Comportamento di malte a base di calce con idrorepellenti all'interno della miscela 11.00 coffee break 11.40 Gilberto Quarneti (Scuola d’Arte Muraria “Calchèra San Giorgio”) – Dalle malte romane ai bioleganti, ovvero: l’uovo di Colombo 12.00 Cristina Mosca (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) – Applicazione di malte a base di calce su un muro sperimentale. Presentazione di un progetto di ricerca in corso 12.20 Alessia Bianco (Dipartimento Patrimonio Architettonico e Urbanistico - Università Mediterranea di Reggio Calabria) La nuova calce storica di Palizzi e l’intonaco al bergamotto: applicazioni sperimentali e indagini per l’accertamento delle proprietà antibatteriche e antimicotiche 12.40 Tiziano Mannoni (Istituto di Storia della Cultura Materiale) – Tra archeologia, empiria e scienza: una proposta per la classificazione delle resistenze delle malte 13.00 pausa pranzo Sessione 5 – (chairman Michele Macchiarola) 14.40 Angelita Mairani (Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale – Università di Genova) – Studio comparato fra trattamenti consolidanti e protettivi organici e inorganici su intonaci di calce 15.00 Cristina Nadia Grandin (Dipartimento di Restauro – Università di Firenze) – Il progetto colore del Parco Nazionale delle Cinque Terre: un esempio di studi e ricerche per difendere, valorizzare e caratterizzare i colori tipici dell’edilizia storica 15.20 Claudio Montagni (Progettista di restauro – Direttore di Arkos) – La calce all’interno del cantiere di restauro 15.40 Presentazione del questionario "Malte per edifici storici: raccolta dei saperi empirici" (SUPSI) 16.00 Discussione e chiusura del convegno N ARKOS EDITORIALE el dicembre 2009 si è tenuto a Genova il secondo convegno annuale promosso dal Forum Italiano Calce (www.forumitalianocalce.it) dedicato alla calce, un materiale antico che si sta riscoprendo soprattutto nell’ambito del restauro. In Italia, così come nel resto d’Europa, l’interesse per la calce è, negli ultimi anni, notevolmente cresciuto e gli studi sul tema, di taglio storico-archeologico, archeometrico, tecnologico e scientifico, stanno avendo un notevole impulso. Un numero sempre maggiore di produttori di materiali da costruzione sta puntando su prodotti a base di calce e la progressiva riscoperta, dopo un lungo periodo di oblio, delle straordinarie caratteristiche di questo prezioso materiale sta attirando l’attenzione di un pubblico sempre più vasto. Il tema del convegno “Calce: materiale antico, idee nuove” è stato dibattuto tra quanti studiano, producono, commercializzano, utilizzano la calce o comunque si interessano, per passione o per lavoro, a questo materiale. L’incontro è stato una straordinaria opportunità di scambio e confronto nella convinzione che la calce rappresenti ancora oggi uno dei materiali più adatti sia nel campo delle nuove costruzioni sia in quello della conservazione del patrimonio storico. Il convegno si è svolto, con il patrocinio della Regione Liguria e della Provincia di Genova, presso la Facoltà di Architettura nell’arco di due giornate, 3 e 4 dicembre. Parallelamente al convegno, sono stati organizzati i seguenti eventi: - una Mostra Fotografica (ideata da Costantino Polidoro e allestita da Daniela Misano) dedicata al Il convegno è stato realizzato grazie al sostegno di: concorso Scattiincalce09 che ha visto l’esposizione di alcune tra le numerose foto che hanno partecipato alla competizione; - una sessione poster dedicata all’esposizione di tesi di laurea, di dottorato o di specializzazione che hanno affrontato il tema della calce; - la presentazione del questionario "Malte per edifici storici: raccolta dei saperi empirici" messo a punto dalla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) nell’ambito del progetto di ricerca “Malte per edifici storici: confronto tra malte tradizionali e prodotti premiscelati”; - la presentazione del volume di recente pubblicazione “La civiltà della calce. Storia, scienza e restauro” edito da De Ferrari. Questo numero della rivista, curato dal responsabile scientifico del convegno, raccoglie la maggior parte dei contributi presentati in tale occasione. Dal momento che non tutti i contributi sono giunti alla redazione per la pubblicazione si è ritenuto utile riportare il programma completo del convegno. Comitato tecnico e organizzativo del convegno Francesca Amato Maria Angela Fantoni Daniela Maisano Tiziano Mannoni Giovanni Luca A. Pesce Andrea Rattazzi Rita Vecchiattini Responsabile scientifico Rita Vecchiattini e con la collaborazione di: Scuola di Specializzazione di Genova in Beni Architettonici e del Paesaggio Dipartimento di Scienze per l’Architettura Istituto di Storia della Cultura Materiale Facoltà di Architettura di Genova Mentre il numero della rivista Arkos stava andando in stampa è venuto a mancare, improvvisamente, il prof. Tiziano Mannoni, indimenticabile studioso, maestro e amico. Significativa la chiusura del suo contributo nella quale ancora una volta Mannoni lancia un messaggio di incoraggiamento alla ricerca che credo abbiamo il dovere di raccogliere: “non bisogna mai spaventarsi di fronte a quanto resta da fare, perché solo partendo si può cambiare e migliorare qualcosa, ed ogni piccolo passo avanti sicuro sarà sempre una scoperta piacevole per l’intelletto e utile all’umanità”. Rita Vecchiattini 3 flash Eventi Quando bit e capolavori vanno a braccetto. Da tempo, ormai, le possibilità di impiego delle nuove tecnologie si sono allargate a tutti i campi dello scibile umano, ma uno dei settori in cui non si immaginava di poter realizzare una così fruttuosa unione tra moderno e antico, tra digitale e artigianale è proprio quello dei beni culturali. Una panoramica sulle più innovative soluzioni progettate dalle aziende hi-tech del settore in vista della valorizzazione di quel museo a cielo aperto che è l’Italia, si avrà al Real Collegio di Lucca, il 21 e 22 ottobre prossimi, quando prenderà il via “Lu.Be.C. 2010. Una finestra virtuale sul futuro dei beni culturali”. In questa sesta edizione l’evento-rassegna sarà ampliato a due giorni e vedrà alternarsi alle sessioni plenarie dibattiti, seminari formativi, e presentazioni. Oltre 150 tra relatori ed espositori nazionali ed esteri, provenienti dal mondo pubblico e privato, si confronteranno in workshop, incontri e progetti al fine individuare nuove strategie di intervento e collaborazione. Per due giorni i soggetti della pubblica amministrazione (locale e centrale), imprese della comunicazione, musei, fondazioni, aree archeologiche e naturalistiche saranno al centro del palcoscenico per parlare di accelerazione tecnologica nella valorizzazione dei beni culturali, di politiche formative, di rinnovamento delle professionalità, di bandi e appalti di qualità, di rapporti tra committenza pubblica e impresa privata. In questo quadro si inseriscono le presentazioni del rapporto “TE.BE. - Individuazione di modelli di business sulle tecnologie ICT applicate ai beni culturali” e del secondo rapporto sul “Fabbisogno 4 professionale nel settore beni culturali degli enti locali”. In linea con l’internazionalizzazione dell’iniziativa quest’anno Lu.Be.C. ospiterà la Finlandia, con le sue best practices e i suoi attrattori: Nokia, Kone, Aalto University. Helsinki capitale del design, Tekes. Grande attenzione sarà dedicata al tema dell’archeologia, con due focus: il 21 toccherà ad Arcus approfondire con il workshop “Investire sul passato: parchi archeologici e bacini culturali come occasione di sviluppo”. Parteciperà l’ambasciatore Ludovico Ortona, presidente di Arcus, Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo. Si tratterà di un’occasione per riflettere sulle ricadute degli investimenti economici realizzati da Arcus sul “sistema Paese” attraverso l’erogazione di finanziamenti nel comparto culturale. In questo quadro saranno presentati progetti rivolti alla costruzione di sistemi e reti - quali bacini culturali e parchi archeologici -, per il potenziamento e il miglioramento della gestione dei beni culturali anche in un’ottica di marketing turistico. E nella giornata successiva toccherà alla Regione Toscana puntare i riflettori sul tema nell’incontro “l’archeologia narrante: il museo si racconta”, una riflessione sulle nuove frontiere della museografia archeologica che parte dal confronto con alcune esperienze significative, mettendo al centro dell’attenzione il pubblico. La valorizzazione dei siti archeologici – come afferma la Dr.ssa Francesca Velani, VicePresidente di Promo PA Fondazione e Direttrice di Lu.Be.C. 2010 - può trovare nella tecnologia una grande alleata. I nuovi techno – creativi, infatti, sapientementi guidati dalla voce degli storici, possono condurre il visitatore in esperienze immersive e fortemente emozionanti, che moltiplicano il potere evocativo dei reperti fino a creare quello che Paolo Rossi Monti ha definito un “altro presente”. Ma l’evento destinato a catturare maggiormente l’attenzione degli addetti ai lavori e del pubblico è sicuramente Lu.Be.C. Digital Technology, la rassegna espositiva in cui saranno presentate le soluzioni più originali e innovative nell’ambito delle strategie tecnologico-digitali applicate alla valorizzazione dei beni cultura. Sarà così possibile scoprire le guide virtuali interatti- Eventi tedrale di Teramo) possono essere visualizzate dai turisti attraverso display, touch screen e iPod. A Lu.BE.C. anche l’audio diventa tridimensionale e permette di riscoprire le atmosfere di una civiltà ormai scomparsa, come quella degli antichi etruschi. Al Real Collegio, infatti, sarà presentata una delle ultime applicazioni del X-Spat Box 2, il sistema che consente di spazializzare fino a 56 diverse fonti audio e di immergere “l’uditore” all’interno di un autentico paesaggio sonoro. Stavolta l’innovativo hardware brevettato dalla società A&G è stato usato per far rivivere scene di vita conviviale, battaglie e viaggi in mare, attraverso suoni e rumori che sembrano provenire direttamente dalle case e dai luoghi di lavoro di questi antichi abitatori della Toscana. L’anteprima lucchese farà da apripista alla mostra che sarà allestita all’inizio del 2011, al museo archeologico di Palazzo Bombardieri a Rosignano, in provincia di Livorno. Maggiori informazioni sull’evento lucchese sono disponibili sul sito www.lubec.it. Ci auguriamo di vedervi a Lucca, al Real Collegio il 21 e 22 ottobre prossimi. Gianni Parrini flash ve, pensate per accompagnare il turista nella visita di un museo o di un sito archeologico. Immaginate, dunque, di trovarvi davanti un Giulio Cesare realizzato con la tecnica del motion capture, pronto a fornirvi informazioni utili o a redarguirvi nel caso il vostro livello di attenzione non fosse adeguato alla situazione. Anche in questo caso, grande attenzione è stata posta sulle soluzioni hi-tech adottate in ambito archeologico. Fra queste spiccano i lavori effettuati a Palazzo Valentini, storica sede della Provincia di Roma, dove un allestimento multimediale ha permesso di “restaurare a colpi di luce” un’antica domus romana. Mosaici, pavimenti, peristili e vasche sono tornati al loro originario splendore, valorizzati da una scenografia rispettosa del sito archeologico e in cui la tecnologia è posta al servizio dell’ambiente circostante. In questo modo sono i reperti stessi a raccontare la loro storia al visitatore. Ha attinenza con l’archeologia anche il progetto per l’Identità visuale della Sardegna, a cui partecipa l’azienda Space e che prevede la ricostruzione tridimensionale di alcuni reperti. Anche le Regioni Molise e Friuli Venezia Giulia presenteranno le loro attività in ambito archeologico così come il Comune di Teramo protagonista di Virtualcity, progetto finanziato da ARCUS e dalla Regione Abruzzo. Le più importanti realtà archeologiche teramane (ad esempio, il sito di Sant’Anna, sede di una domus romana e dell’antica cat- 5 flash Eventi Stazione Leopolda, 11 - 13 Novembre 2010 Dal 11 al 13 novembre 2010 presso la Stazione Leopolda di Firenze, si terrà la seconda edizione del Salone dell’Arte e del Restauro, una manifestazione di respiro internazionale che quest’anno si inserisce nel calendario della Settimana Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali (Florens 2010) ideata da Confindustria Firenze e si preannuncia ancora una volta come un evento culturale di rilevante significato per il restauro, la tutela e la salvaguardia del patrimonio del nostro Paese. Gli scenografici spazi di quella che fu la prima stazione ferroviaria fiorentina si trasformano per l’occasione in una grande vetrina dedicata a tutti gli operatori del settore che, condividendo esperienze e know-how, potranno interagire e confrontarsi con l'obiettivo di collaborare al consolidamento di un sistema ancora vivo nel nostro Paese nella produzione di opere, nella formazione specialistica dei giovani e nei servizi per la conservazione, per il restauro e per la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale. La manifestazione, d’altra parte, non potrebbe avere migliore cornice di quella della città di Firenze, custode di un estimabile e ricco patrimonio artistico, e soprattutto in costante 6 dialogo con i molti operatori che muovono questo comparto economico, che abbraccia sia i temi della tutela e della valorizzazione dei Beni Culturali sia quelli del Turismo culturale. La prima edizione del Salone si è chiusa con successo, grazie, solo per citare alcuni dati, agli oltre 18 mila visitatori, ai 140 espositori e ai 120 eventi culturali che lo hanno reso, fin dal suo esordio un evento di assoluto rilievo nel panorama nazionale e internazionale, in grado di attirare l’attenzione di numerosi ed importanti enti che hanno voluto offrire il proprio sostegno alla manifestazione. Anche la seconda edizione del Salone si annuncia ricca di appuntamenti e fortemente caratterizzata da laboratori e dimostrazioni pratiche, organizzati dagli espositori, dalla Segreteria Organizzativa, dalle Soprintendenze fiorentine e da tutti i Partner del Salone. Tra le novità da segnalare, uno spazio didattico interamente dedicato ai bambini, pensato per avvicinare le future generazioni al tema del rispetto e della cura sia delle testimonianze artistiche sia dell’ambiente.I tre giorni del Salone saranno poi ricchi di conferenze, tavole rotonde e workshops altamente specializzati. Partecipare al Salone significherà quindi Eventi le ad un settore che coinvolge numerosi operatori, rappresentanti di una delle eccellenze del nostro Paese. L’importante accordo raggiunto con FIRPA – Fiera de Restauro di Granada, che consentirà agli espositori presenti a Firenze di avere visibilità nel corso dell’edizione 2011 dell’evento spagnolo, all’interno di un padiglione dedicato, rappresenta una delle iniziative prese dal Salone per perseguire questo scopo. Sempre in virtù di tale strategia nel 2010 continua la collaborazione con l’ICE Istituto del Commercio estero e l’Ufficio delle Città Gemellate e Amiche del Comune di Firenze. Il Salone dell’Arte e del Restauro è stato inoltre presentato il prossimo 25 giugno all’Expo di Shangai, all’interno del Padiglione Italiano, in occasione della conferenza “Cities & Cultural Heritage: Innovazione Tecnologica al servizio dei Beni Culturali”. PER AVERE MAGGIORI si può visitare il sito INFORMAZIONI http://www.salonerestaurofirenze.org oppure contattare la Segreteria Organizzativa Via Maggio 13, 50125 Firenze - Tel. 055.217940 [email protected] flash entrare in sinergia con le eccellenze del mercato e offrire a tutte le fasce di utenza, dal teorico del settore al giovane studente di arte la possibilità di entrare in contatto con una piattaforma internazionale e di prestigio, volta ad una più consapevole conoscenza delle testimonianze artistiche del nostro Paese e non solo. Anche quest’anno l’organizzazione dell’evento vede impegnata in prima linea l’Associazione No-Profit ISTUR –CHT, affiancata da un Comitato Tecnico Scientifico che fungerà da indispensabile osservatorio avanzato, guida e coscienza critica delle attività scientifiche e culturali promosse nel corso della manifestazione. La vocazione internazionale del Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze si conferma anche nella seconda edizione in virtù di una serie di accordi ed iniziative che puntano ad offrire una visibilità sempre più internaziona- 7 IL CENSIMENTO E LA CATALOGAZIONE NAZIONALE DELLE FORNACI DA CALCE Rita Vecchiattini Dipartimento di Scienze per l’Architettura – Università degli Studi di Genova [email protected] L SUMMARY a calce, uno dei più antichi leganti utilizzati dall’uomo, fu ampiamente impiegata sia nella composizione di malte da allettamento e da rivestimento sia nella formulazione di coloriture e scialbi, dall’antichità fino alla metà del Novecento, tanto da rappresentare uno dei materiali più diffusi nell’edilizia storica. Ritrovamenti di manufatti in calce in area medio-orientale hanno indotto gli studiosi a ritenere che in questi territori si siano sviluppati, già nell’VIII secolo a.C., la conoscenza e l’impiego dei leganti. Le civiltà medio-orientali conservarono per molto tempo il segreto della calce e solo secoli più tardi l’uso di tale materiale fu introdotto in Occidente, attraverso la mediazione culturale dell’antica Grecia. L’influsso orientale ed ellenistico interessò l’Italia innanzi tutto nelle sue regioni meridionali e centrali (Campania e Lazio) dove la produzione della calce fu inizialmente rivolta alla realizzazione di malte da rivestimento. L’impiego, dapprima sporadico, divenne nel tempo sempre più frequente tanto da influenzare profondamente l’architettura, etrusca prima e romana poi. Furono proprio i Romani a impiegare, estesamente e in modo sistematico, nelle loro costruzioni le malte di calce, a partire dal III secolo a.C., raggiungendo un elevato livello tecnologico nella produzione dei leganti e nella realizzazione degli impasti. In epoca romana la calce divenne il legante per eccellenza impiegato non solo nelle murature e nei rivestimenti, ma anche in fondazioni, sottofondi, pavimentazioni, stucchi decorativi, pietre artificiali, coloriture, ecc. … (VECCHIATTINI 2009). 8 Siti e impianti produttivi L’ampio e prolungato utilizzo della calce nelle costruzioni, unito alla disponibilità della materia prima, costituita da rocce tra le più diffuse sul mantello terrestre, e alla nota difficoltà dei trasporti in antichità, permise una diffusione capillare della produzione su tutto il territorio nazionale. L’affioramento della roccia e la possibilità di trasporto del prodotto, semilavorato o finito, sono da sempre state condizioni necessarie allo sviluppo della produzione, in quanto, essendo la calce tra i materiali più ‘poveri’ impiegati nelle costruzioni, i produttori non sarebbero riusciti ad ammortizzare alti costi di escavazione o di trasporto legati all’approvvigionamento in sottosuolo o in siti distanti dal luogo di impiego. L’incidenza maggiore sul costo finale del prodotto non era, almeno fino al Novecento, quella della manodopera, anche se più uomini dovevano dedicarsi al reperimento della pietra e per giorni seguirne la cottura, ma quella relativa ai trasporti per i quali erano necessari numerosi muli e/o buoi sulle vie terrestri e imbarcazioni da piccolo cabotaggio sulle vie d’acqua. Tali considerazioni sono valide sia nell’analisi della produzione pre-industriale, quando le cave erano coltivate con strumenti manuali e il trasporto del prodotto semilavorato avveniva con animali, sia nello studio di quella industriale, quando ormai l’impiego dell’esplosivo per il diroccamento della roccia divenne generalizzato e gli animali lasciarono il posto agli autocarri pesanti. In questi casi la scelta di una posizione favorevole all’accessibilità veicolare, doveva tenere conto non solo della vicinanza di strutture portuali ma anche di importanti nodi stradali e, da metà Ottocento, ferroviari. The ancient lime kilns are important examples of productive architecture, and are widespread throughout Italy. Until now little or nothing has been done to bring them to public attention and use them to best advantage. The lime kilns census and cataloguing project, organised by the Italian Lime Forum in collaboration with the Italian Association for Industrial Archaeological Heritage, is aimed at identifying and georeferencing the sites and kilns that have historically been used to produce lime in Italy. The first step towards protecting these sites is knowing where they are, and this is the reasoning behind the census proposed, the ideal objective of which is to identify a number of sites of particular importance in Italy that may usefully be exploited through, for example, the creation of eco-museums dedicated to lime, able to illustrate the complex cultural fabric that binds together the elements typical of a particular area: environmental, landscape, architectural, historical and economic features, etc….. Nel corso del tempo si è assistito così a un avvicendamento di siti produttivi determinato dallo sfruttamento e dalle modifiche del territorio, non solo in relazione alle infrastrutture ma talvolta all’urbanizzazione dei siti. Alcune fornaci, costruite in luoghi quasi isolati, si trovarono nel XX secolo a far parte del tessuto urbano con evidenti problemi di compatibilità, che, nella maggior parte dei casi, finirono per vedere gli impianti soccombere in favore della lottizzazione degli storici siti produttivi. Tuttavia accanto a pochi grandi impianti, localizzati in luoghi strategici per la vicinanza delle cave a comode vie di comunicazione, esisteva, e spesso esiste tuttora, un proliferare di piccole produzioni locali al servizio di sparuti gruppi di case o anche di singoli edifici. In ogni regione della nostra penisola è possibile scorgere le tracce, spesso stratificate, del ricco passato produttivo: dai pochi resti delle antiche fornaci, tutti da interpretare, emerse e studiate in occasione di scavi archeologici, ai recenti impianti novecenteschi convertiti alla produzione dei primi cementi. Utilizzata per secoli, la calce fu, infatti, gradualmente abbandonata a partire dalla seconda metà dell’Ottocento a favore di un nuovo materiale, il cemento, che determinò un profondo stravolgimento all’interno del cantiere edile. La diffusione del cemento e, con esso, di una nuova impostazione e organizzazione della progettazione e della concezione del cantiere allontanarono sempre più le maestranze dall’impiego della calce. Alla notevole e improvvisa diminuzione della richiesta dello storico legante seguì l’abbandono della sua produzione: in molti casi le strutture a ciò dedicate furono convertite in favore del nuovo materiale, in altri furono abbandonate, poiché non più sostenute dall’economia locale. Non solo, la calce divenne un prodotto da molti considerato superato ma gli stessi modi della produzione artigianale furono gradualmente, ma inesorabilmente, sostituiti dai modi di organizzazione e di produzione dell’industria. In seguito alla dismissione dell’attività produttiva, gli impianti isolati furono abbandonati mentre quelli vicini a luoghi abitati furono riutilizzati o più spesso distrutti per acquisire nuovi spazi. Il diffuso livello di degrado percepibile nella maggior parte dei manufatti sopravvissuti all’azione del tempo e dell’uomo è diretta conseguenza delle condizioni d’abbandono e dell’assenza di manutenzione, un tempo ciclicamente assicurata dai produttori, attraverso interventi puntuali e limitati volti a riparare i danni e a mantenere gli impianti in efficienza (VECCHIATTINI 1998). Le fornaci da calce che non sono state del tutto abbandonate hanno nel tempo visto un utilizzo a magazzino, deposito, cisterna o discarica, favorito dalla capienza dei manufatti e dalle poche aperture. Le nuove destinazioni d’uso, che solo in rari e recenti casi vedono le fornaci integrate in strutture ricettive (ristoranti, alberghi, …), hanno certamente contribuito a preservare i manufatti fino ai giorni nostri ma ne hanno spesso snaturato impietosamente l’aspetto con modifiche e interventi di “manutenzione” volti a migliorarne le possibilità di utilizzo. Sono dunque per lo più le fornaci abbandonate nel territorio, qualora non in rovina, a conservare intatti i caratteri e gli elementi che le rendono uniche. Spesso il territorio ove si trovano le fornaci è montano o pedemontano, caratterizzato da pendii più o meno accentuati nei quali sono incastonate in modo da beneficiare di un buon isolamento termico e facilitare le operazioni di carico e scarico della camera di fuoco sfruttando accessi posti a quote differenti. Se, da un lato, gli impianti in disuso e le abitazioni di coloro che vi lavoravano conferiscono forte valenza culturale al paesaggio, connessa proprio alla presenza di testimonianze di attività umane abbandonate, dall’altro, l’esistenza di cave non più attive incide spesso negativamente sull’ambiente. Soprattutto nella prima metà del Novecento, la specializzazione e la meccanizzazione degli impianti di estrazione, uniti a un generale sfrut- tamento incontrollato delle risorse naturali, hanno causato la progressiva “erosione” d’intere alture, ridotte ormai a pericolosi dirupi su cui, ancora oggi, fatica a crescere il manto vegetale. Nonostante ciò, il paesaggio pre e industriale è in molti luoghi rimasto pressoché intatto e, nel tempo, l’elemento naturale sta riprendendo il sopravvento. La produzione della calce, ritenuta dagli archeologi “una delle più semplici arti del fuoco” (MANNONI e GIANNICHEDDA 1996) per quanto riguarda la struttura degli impianti produttivi, in realtà si avvale di fornaci dal funzionamento complesso e differenziate a seconda dell’organizzazione, a scopi di impresa mercantile o per singole esigenze, della quantità di prodotto prevista e del periodo storico di costruzione. Le fornaci potevano essere realizzate a “fossa”, “pozzo”, “catasta” o abilmente costruite in muratura di pietra o di mattoni. Queste, a seconda del tipo di struttura, di materia prima e combustibile impiegati, avevano una diversa efficienza, produttività e qualità del prodotto. Sul territorio nazionale i numerosi esempi di impianti rendono varia la casistica tipologica e ricco il patrimonio di testimonianze nella maggior parte dei casi non ancora studiate. In linea generale è bene sottolineare che esiste una sostanziale differenza tra fornaci pre-industriali e impianti industriali, legata alle modalità di produzione e principalmente all’introduzione, avvenuta ai primi dell’Ottocento, del sistema a funzionamento continuo. Fino al XIX secolo, infatti, il funzionamento delle fornaci da calce era di tipo intermittente poiché ripartito in quattro momenti distinti (carico, cottura della materia prima, raffreddamento della fornace, scarico del prodotto semilavorato). Tali impianti produttivi sono solitamente riconoscibili, nel territorio, per la loro caratteristica forma di torre, a pianta circolare o quadrangolare, con copertura a volta o pseudo volta, con sfiato o camino sommitale. Nei manuali di tecnologia o di chimica applicata dell’Ottocento e dei primi del Novecento sono ben distinti i due diversi funzionamenti e, al tipo intermittente, è contrapposto quello continuo in grado di rendere le quattro fasi di lavorazione contemporanee, evitando così di dover spegnere la fornace dopo ogni cotta. In questi forni la materia prima era cotta a diretto contatto con il combustibile in strati alternati di pietra e legna o carbone fossile. In realtà, per tutto l’Ottocento convissero situazioni produttive alquanto disparate: dalle fornaci di campagna alle fornaci a funzionamento intermittente, magari costruite una accanto all’altra per superare la presenza di tempi morti e razionalizzare la produzione, ai più moderni forni a strato a funzionamento continuo. Questi ultimi hanno ancora una struttura a torre, a pianta circolare o quadrangolare, ma con un diverso rapporto tra diametro/lato e altezza che rende i volumi più snelli, non hanno copertura ma, al più, una semplice tettoia a riparo della parte sommitale. Ai primi del Novecento, in molte regioni, iniziò una graduale conversione delle piccole fornaci che, non riuscendo più a rispondere alle esigenze del rinnovato settore delle costruzioni pubbliche, furono sostituite o trasformate secondo le necessità di una produzione a carattere industriale (TAMAGNO 1987). Anche l’attività estrattiva fu modificata attraverso l’adozione di tecniche e attrezzature innovative già in uso nelle miniere, e la lavorazione della materia prima fu meccanizzata, mediante l’impiego di macchinari già in uso in altri settori, opportunamente variati per la lavorazione delle pietre da calce. La cottura stessa della materia prima dovette cambiare, poiché occorreva ottenere, in tempi brevi e con la minore quantità di combustibile possibile, una grande quantità di prodotto. Furono introdotte le fasi di frantumazione e macinazione per dare uniformità al semilavorato 9 ottenuto e si cercò di rendere regolari e tempestive le operazioni di approvvigionamento e di spedizione di grandi quantitativi di prodotto. I piccoli imprenditori furono così costretti ad associarsi, per far fronte ai grandi investimenti richiesti dalle mutate condizioni del mercato e furono fondate le Società in nome collettivo che riorganizzarono la catena produttiva e spesso costruirono nuove grandi fornaci in batteria. Sono allora visibili impianti di notevole impatto sul territorio con imponenti ciminiere e numerosi locali annessi nei quali si svolgevano le diverse operazioni connesse all’attività. Spesso in questi impianti sono rimaste abbandonate le attrezzature produttive, siano queste costituite da apparecchiature, macchinari, strumenti di lavoro, e ciò contribuisce ad arricchire il patrimonio in quanto espressione dell’evoluzione tecnologica e, in molti casi, “autentici capolavori di design industriale” (MAZZOTTA 2007). Il progetto di censimento e catalogazione per la salvaguardia del patrimonio 10 Di fronte ai rischi della cancellazione sistematica di tale patrimonio, costituito non solo da fornaci ma anche da locali annessi, attrezzature, infrastrutture e siti produttivi, l’obiettivo primario è quello di quantificare e individuare i beni a livello nazionale, rendendoli visibili sul territorio ed evidenziandone gli episodi maggiormente significativi, meritevoli di essere tutelati e conservati. Il problema principale è legato all’estensione del patrimonio sul territorio nazionale, al fatto che la maggior parte di questo sia di proprietà privata, non tutelato e spesso non riconosciuto come bene dalla collettività. Si tratta dunque di salvaguardare un patrimonio diffuso composto da “piccole cose”, nessuna delle quali particolarmente significativa sul piano paesaggistico o architettonico e, forse, nessuna veramente unica, ma ciascuna dotata di alto valore testimoniale, in quanto traccia superstite di una storia e di complessi insediativi più vasti. Le fornaci sono manufatti semplici, realizzati con materiali e tecniche locali, il cui valore è profondamente legato all’aspetto formale, materiale e all’immagine che noi percepiamo oggi, per quanto degradata possa essere. Sono proprio le pietre, poste in opera con l’abilità del maestro, e la malta, realizzata con una sapienza ormai perduta, in grado di trasmettere i valori della cultura materiale. La conservazione e la valorizzazione delle testimonianze di attività produttive ormai abbandonate sono in molti casi strettamente legate alla difesa stessa del territorio in cui sorgono. I siti, talvolta, presentano caratteristiche ambientali di grande interesse, in alcuni casi penalizzate ma in altri arricchite proprio dalla presenza degli insediamenti produttivi. Il primo passo per la tutela è la conoscenza, indispensabile per attribuire significato e valore a ogni manufatto, anche quando, a una prima analisi, appare privo d’interesse. In questo senso si configurano il censimento e la catalogazione proposte dal Forum Italiano Calce, in accordo con l’Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale (AIPAI). Occorre chiarire che la catalogazione, cui si fa cenno in questo articolo, non è direttamente legata alle attività di catalogazione e documentazione dei beni affidate dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali all’Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione (ICCD) ma si tratta di un’attività indipendente. Tuttavia, dal momento che lo stesso Ministero sottolinea l’importanza e auspica il concorso delle Università e di altri soggetti pubblici e privati nella realizzazione del sistema informativo del catalogo generale e dei sistemi informativi regionali (D.L. 22/01/04 n. 42 art. 17), i dati raccolti con il presente lavoro di catalogazione potrebbero costituire una importante base di partenza per le attività delI’ICCD. La proposta, lanciata in occasione del I convegno annuale del Forum (Firenze dicembre 2008) ai propri associati e a tutti coloro interessati a collaborare, si può riassumere nei seguenti due punti: - il censimento su base nazionale delle fornaci da calce, che si concretizza nell’operazione di individuazione e georeferenziazione dei beni e ha carattere eminentemente enumerativo e anagrafico; - la catalogazione delle medesime fornaci, che non è dunque una ricognizione speditiva dell’esistente ma mira a dare sistematica organizzazione alle conoscenze sul patrimonio. Perché censimento e catalogazione? Il censimento delle fornaci è fondamentale per la realizzazione di mappe a livello nazionale, regionale e/o locale in grado di fornire un quadro d’insieme del patrimonio cui fin qui abbiamo fatto cenno. Le mappe potranno divenire tematiche con l’incrocio dei dati di catalogazione e offrire diversi livelli di lettura a chi studia e opera sul territorio. La mole di dati che nel tempo va componendo il data base potrà infatti prestarsi ad analisi di tipo economico per la ricostruzione delle fasi di sviluppo industriale in rapporto ai processi produttivi e all’organizzazione del lavoro, di tipo architettonico in relazione ai caratteri costruttivi dei manufatti, ambientale, in considerazione dei siti produttivi, ma anche di tipo urbanistico, storico, tecnologico, … La catalogazione, infatti, permette la possibilità di rapportare al territorio i dati conoscitivi sui beni, consentendo di cogliere le relazioni logiche, storiche, spaziali che intercorrono con gli elementi ambientali e antropici e con le altre entità di interesse culturale che insistono nel medesimo ambito geografico. Offre, dunque, una migliore e più consapevole conoscenza dei beni stessi, permettendone la contestualizzazione nel tempo e nello spazio. Se tali considerazioni sono valide per tutte le tipologie di beni culturali, lo sono in modo particolare per i beni produttivi, testimo- nianze tangibili delle attività del passato, che acquistano valore e significato peculiari proprio nel momento in cui sono inseriti nel contesto storico e territoriale. Nell’intento di definire uno strumento che possa rispondere alle esigenze sia di censimento sia di catalogazione per tutela e ricerca, sono stati previsti nella scheda due livelli di compilazione. Si è mirato, infatti, a formare una struttura di scheda che fosse versatile e potesse essere utilizzata – in relazione alle finalità o alle disponibilità di tempo e di mezzi – sia per un censimento veloce sia per la registrazione accurata del bene. La scheda è dunque predisposta per agevolare il rapido censimento dei beni, attraverso un numero minimo di dati richiesti come obbligatori, in quanto ritenuti indispensabili, e per avere, ove possibile, una catalogazione più completa dei beni. La soglia minima di compilazione prevede la compilazione obbligatoria di soli 11 campi (relativi alla localizzazione, allo schedatore e alla documentazione fotografica) ed è accessibile a chiunque voglia partecipare al progetto di censimento in quanto non presuppone conoscenze e attività di ricerca specifiche nel campo della produzione della calce. La rimanente parte della scheda comprende dati su forma, caratteri e tecniche costruttive, materiali, dimensioni, contesto, condizioni di uso e di conservazione, denominazione, storia, proprietà, … Attualmente le regioni coinvolte nel censimento/catalogazione delle fornaci sono 17 con 28 referenti/schedatori regionali, mancano referenti per le regioni Basilicata, Marche e Piemonte e pertanto la copertura nazionale non è ancora completa. Abruzzo (4), Calabria (12), Campania (5), Emilia Romagna (3), Liguria (8) e Umbria (1) sono le regioni per le quali la ricognizione sul territorio è già stata attivata e i cui referenti hanno prodotto le prime 33 schede di catalogo visibili sul sito del Forum Italiano Calce (www.forumitalianocalce.it). 11 È solo con l’aiuto di tutti che sarà possibile coprire davvero l’intero territorio nazionale e mettere insieme un patrimonio di conoscenze favorendone la diffusione e la fruizione e traguardano idealmente la possibilità di individuare alcuni siti di particolare rilevanza nazionale da valorizzare anche attraverso la realizzazione di eco musei della calce, in grado di far emergere la complessa trama culturale che unisce fra loro gli elementi tipici di un determinato territorio: i caratteri ambientali, paesaggistici, architettonici, storici, economici, … Dalla catalogazione alla tutela alla valorizzazione L’importanza della catalogazione, come strumento di conoscenza finalizzato alla tutela, è sottolineata nello stesso Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42). La tutela è in questo caso intesa non solo come mera conservazione ma come promozione e valorizzazione dei beni culturali, definiti “cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” (D.L. n. 42/04 art. 10). Il concetto di bene, in costante evoluzione, è cambiato nel tempo in seguito ai mutamenti della sensibilità nei confronti del patrimonio culturale e della sua conservazione. La legge 1089/39, prima fondamentale legge in materia di “Tutela delle cose d’interesse artistico e storico”, definiva beni di interesse pubblico le “cose d’antichità e d’arte, mobili immobili che presentano interesse storico, artistico, archeologico, o etnografico” (L. 1089/39 art. 1), secondo una concezione del bene che riconosceva nel particolare pregio, nella rarità e non comune bellezza caratteristiche proprie del bene da tutelare. Nella seconda metà degli anni Sessanta la Commissione B I B L I O G R A F I A MANNONI T. e E. GIANNICHEDDA 1996, Archeologia della produzione, Torino: Einaudi. MAZZOTTA D. (a cura di) 2007, Il patrimonio industriale tra passato e futuro, Padova: Il Poligrafo. TAMAGNO E. 1987, Fornaci: terre e pietre per l’ars aedificandi, Torino: Umberto Allemandi. VECCHIATTINI R. 1998. Unità produttive perfettamente organizzate: le calcinare di Sestri Ponente – Genova in “Archeologia dell’Architettura”, III, 141-152. VECCHIATTINI R. 2004, Un patrimonio da salvare: conoscenza e conservazione delle fornaci per la produzione della calce in “Recuperare l’Edilizia”, 38, 32-38. VECCHIATTINI R. 2005, Patrimonio industriale in Liguria: conservazione e valorizzazione delle fornaci per la produzione della calce in “Recuperare l’Edilizia”, 44, 24-31. VECCHIATTINI R. 2009, La civiltà della calce. Storia, scienza e restauro, Genova: De Ferrari. 12 d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e del paesaggio, conosciuta come ‘Commissione Franceschini’ dal nome del suo presidente, adottò, prima in Italia, la locuzione di Bene Culturale definendo così “i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Quest’ultima parte della definizione risentiva dell’affermarsi, proprio di quegli anni, delle scienze sociologiche e antropologiche e del loro sovrapporsi alla storia dell'arte e alla filosofia esaltate dall’idealismo e dalla concezione estetica come categoria autonoma dello spirito. In conseguenza di ciò sono inseriti oggi tra i Beni Culturali anche le architetture rurali, quali testimonianze dell'economia rurale tradizionale, e i siti minerari d’interesse storico o etnoantropologico (D.L. n. 42/04 art. 13). È dunque sancito anche dal Codice l’interesse culturale per il patrimonio costituito da siti ed elementi legati ad attività produttiva testimone dell’economia tradizionale. L’attività di censimento e catalogazione promossa dal Forum si può allora inserire in un’azione coordinata di schedatura riferita a beni immobili e mobili di valenza archeologica, architettonico/paesaggistica, storica e demoetnoantropologica avendo come tema parte del patrimonio produttivo. Il censimento/catalogazione e il relativo sistema informativo territoriale, man mano che l’implementazione dei dati procede, saranno in grado di illustrare con sempre maggiore precisione il patrimonio di fornaci da calce e i relativi siti produttivi esistenti in Italia. In questo senso l’operazione si propone come strumento indispensabile per unificare due momenti cruciali della tutela: quello conoscitivo e quello progettuale. Il recupero e la valorizzazione dei siti produttivi sono ambiziosi ma certamente auspicabili anche nell’ottica della formazione di parchi e aree verdi che potrebbero permettere ai fruitori non solo di conoscere il ciclo produttivo di uno dei materiali storicamente più diffusi, il funzionamento delle fornaci e le diverse tipologie presenti, ma anche di appropriarsi nuovamente di un’identità culturale direttamente legata alla sinergia tra uomo, lavoro e territorio, riscoprendo luoghi piacevoli con rinnovato interesse. PROFILO AUTORE Rita Vecchiattini, architetto e dottore di ricerca in Ingegneria dei materiali svolge attività di ricerca e didattica presso l’Università degli Studi di Genova – Dipartimento di Scienze per l’Architettura – ove è docente nell’ambito del Laboratorio di restauro dei Monumenti e della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio. Si occupa da anni di temi legati alla conservazione del costruito storico e, in particolare, ha approfondito l’aspetto legato alla conoscenza dei materiali e degli elementi costruttivi come testimoniano le numerose pubblicazioni a stampa e i contributi presentati a convegni nazionali e internazionali. È autrice del volume “La civiltà della calce. Storia, scienza e restauro” edito da De Ferrari (2009). 13 Associazione Forum Italiano Calce – Associazione Italiana Patrimonio Archeologico Industriale Progetto ‘MilleFornacidaCalce’ - Catalogazione Antiche Fornaci da Calce’ GUIDA ALLA COMPILAZIONE DELLA SCHEDA DI CATALOGAZIONE La scheda dovrà essere compilata, in forma elettronica (documento .doc) Solo le voci indicate in colore rosso sono da compilare obbligatoriamente, mentre le voci in colore nero possono essere compilate tutte o in parte o anche completamente omesse se non conosciute e/o rilevate. Per eventuali informazioni e dubbi contattare la responsabile della catalogazione arch. Rita Vecchiattini mediante la seguente mail del forum : [email protected] Una volta compilata la scheda deve essere inviata via posta elettronica all’indirizzo: [email protected] Per la compilazione seguire le indicazioni di seguito riportate: 1. Denominazione fornace indicare, se presente, la denominazione della fornace. In caso di denominazione non nota compilare il campo con la scritta ignota 2. Localizzazione Regione indicare la Regione nel cui territorio è ubicata la fornace Provincia indicare la Provincia nel cui territorio è ubicata la fornace Comune indicare il Comune nel cui territorio è ubicata la fornace Località indicare, se noto, il toponimo della località. In caso di toponimo non noto compilare il campo con la scritta ignoto Indirizzo indicare l’indirizzo composto da via/piazza/viale/... e numero civico Coordinate Geografiche indicare le coordinate geografiche, individuate sul posto tramite sistema GPS o dedotte a posteriori attraverso il software Google Earth inserendo l’indirizzo della fornace nell’apposita casella di ricerca. Le cordinate geografiche dovranno essere espresse in gradi, primi e secondi sia per la Latitudine sia per la Longitudine. Note 3. Descrizione Posizione rispetto al indicare che relazione ha la fornace con il terreno circostante (completamente interrata – terreno parzialmente interrata - non interrata) Forma in pianta indicare la figura piana alla quale è possibile approssimare la forma della pianta interna della fornace (circolare – quadrata – rettangolare) Forma in elevato indicare il solido al quale è possibile approssimare la forma fuori terra della fornace (cilindrica – conica – parallelepipeda) Dimensioni indicare il diametro interno massimo e l’altezza interna massima in metri Accesso indicare se la fornace ha un accesso unico a terra o un altro accesso al piano (unico – duplice – triplice) Tecnica costruttiva indicare se il tipo di muratura che costituisce la fornace è ordinato, costituito da conci o mattoni posti in file regolari, o disordinato, costituito da pietre poste in modo irregolare (ordinata – disordinata). Materiali costruttivi indicare, se visibili poiché non intonacati) i materiali che compongono la struttura muraria (pietre – mattoni - pietre e mattoni – non visibili) Ciminiera indicare se è presente sulla fornace una ciminiera o tracce di essa (sì – no) Dubbi sulla compilazione della scheda? Scrivi a [email protected] Associazione Forum Italiano Calce – Associazione Italiana Patrimonio Archeologico Industriale 4. Condizioni Progetto ‘MilleFornacidaCalce’ - Catalogazione Antiche Fornaci da Calce’ Proprietà indicare se pubblica o privata e tra parentesi, se noto, il proprietario (pubblica – privata) Uso indicare l’utilizzo attuale (nessuno - magazzino – discarica - ...) Fondo accessibile indicare se è possibile accedere all’immediato intorno della fornace (sì – no – solo in parte) Interno accessibile indicare se è possibile accedere all’interno della fornace (sì – no – solo in parte) Stato di conservazione indicare lo stato di conservazione della fornace (integra – in parte degradata – rudere) Modalità di indicare, se noto, le modalità di approvvigionamento del materiale da cuocere approvvigionamento della (cave, ciottoli di fiume, affioramenti rocciosi di limitata consistenza) materia prima Cave in uso indicare, quando presenti, se le cave sono ancora in uso o sono abbandonate (sì – no) Note 5. Dati Storici Periodo di costruzione indicare, se noto, il periodo di costruzione (secolo ... – prima metà del secolo ... – fine secolo ...) Committente indicare, se noto, il nome e cognome del Committente altrimenti scrivere ignoto Notizie storiche riportare le eventuali notizie storiche rintracciate in bibliografia o note da fonti orali riguardanti sia la fornace sia le modalità di uso della stessa Fonti indicare il tipo di fonti dalle quali sono stati tratti i dati storici (fonti bibliografiche con autore, titolo del libro, edizione, anno – fonti orali con nome e cognome della fonte – fonti documentarie con archivio, notaio, filza, anno - ...) Note indicare se la fornace ha un accesso unico a terra o un altro accesso al piano (unico – duplice – triplice) 6. Dati Scheda di Catalogo Numero lasciare il campo vuoto (inserimento del numero a cura del Forum Italiano Calce) Compilatore Nome e Cognome, di chi ha compilato la scheda Email Compilatore Data compilazione GG/MM/AAAA giorno mese anno in cui la scheda è stata compilata Data/e aggiornamento/i lasciare il campo vuoto (inserimento del numero a cura del Forum Italiano Calce) Note 7. Documentazione Fotografica Contesto inserire un’immagine della fornace nel contesto (formato .jpg e risoluzione 300 dpi) Fornace inserire un’immagine della fornace nel suo insieme (formato .jpg e risoluzione 300 dpi) Dettagli inserire immagini di dettaglio che si ritengono utili per documentare al meglio la fornace e il sito in cui insiste (formato .jpg e risoluzione 300 dpi) Note Dubbi sulla compilazione della scheda? Scrivi a [email protected] LE FORNACI PER LA PRODUZIONE DELLA CALCE IN TERRA D’OTRANTO: DA “CARCARE” A PATRIMONIO INDUSTRIALE Antonio Monte Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali di Lecce [email protected] I 1 16 n Terra d’Otranto e nelle province di Bari e Foggia erano presenti numerose fornaci per la produzione della calce che in gergo venivano chiamate “carcare, calcare, calcaroni”; esse rappresentano i primi (e più arcaici) metodi di “fabbricazione” della calce. L’industria estrattiva della pietra da costruzione (i materiali lapidei impiegati per edificare erano il tufo, il carparo, la pietra leccese e la pietra calcarea), utilizzata sia per costruire che per gli apparati decorativi, ha avuto da sempre una notevole importanza sia dal punto di vista commerciale che industriale rendendola così una dei settori principali dell’economia pugliese. Grazie all’attività estrattiva (che si praticava in numerosi centri della Puglia, e in particolare di Terra d’Otranto1), favorita dalla peculiare conformazione geologica ricca di giacimenti calcarei (Fig.1), e alla stringente domanda di prodotti per l’edilizia, aumenta considerevol- Figura 1 Piano Regionale Attività Estrattive: Carta Giacimentologica della Regione Puglia; il verde indica i Calcari e i Calcari dolomitici. mente la produzione della calce; da qui la necessità di “fabbricare” e costruire fornaci che trasformavano la pietra calcarea in calce. Dagli Annali di Statistica Industriale del 1891 risulta che in provincia di Lecce e in tutta la Terra d’Otranto “[…] La fabbricazione della calce ha […] maggiore importanza di quella dei laterizi, essendovi in attività 36 fornaci in 32 opifici, che occupano in complesso 390 operai, […]” 2. Le 36 fornaci erano ubicate su 13 comuni; il maggior numero di fornaci erano a Ostuni con 8 (dove lavoravano 36 operai) e Taurisano con 6 (dove lavoravano 88 operai); poi Carovigno e Ceglie Messapico ne avevano 3; Gallipoli, Neviano e San Vito dei Normanni 2, mentre Alessano, Calimera, Lecce, Martignano, Mottola, Trepuzzi 1. La pietra per la calce si estraeva nelle vicinanze e come combustibile veniva utilizzata la legna. La calce che si produceva veniva venduta nei paesi 2 Figura 2 Foto d’epoca mentre si prepara una “carcara” di campagna (Archivio privato). SUMMARY di produzione o in altri comuni vicini oppure in provincia di Bari. Sempre dagli Annali risulta che in Terra di Bari “[…] Le fornaci, nelle quali si opera esclusivamente la cottura della calce, sono nella provincia 50, ed occupano in complesso 277 operai, […]”. Le fornaci erano presenti su 16 comuni: a Rutigliano ne erano ubicate 12; a Minervino Murge 10; a Bitetto 4; a Bisceglie, Gravina, Molfetta e Ruvo 3; a Bari, Fasano e Spinazzola 2 ed infine a Carbonara, Gioia del Colle, Roseto, Palo del Colle, Terlizzi e Trani 13. In provincia di Foggia o Terra di Capitanata “[…] le fornaci esclusivamente da calce sono 26 in 25 opifici che occupano 132 operai […]”. Poi vi sono le fornaci miste (per laterizi e calce), “[…] nelle quali, insieme alla fabbricazione dei laterizi, si opera anche la cottura della calce, sono 40 in 39 opifici, che occupano complessivamente 216 operai […]”4. Dalla Statistica industriale del 1903 si evince che in Puglia erano attive 248 fornaci di calce, delle quali 81 in provincia di Bari “delle Puglie”; 59 nel territorio della provincia di Foggia e 105 nella Terra d’Otranto o provincia di Lecce5. Mentre, dal Censimento industriale del 1911 si riscontra che c’è stato un notevole calo di fornaci presenti sul territorio pugliese: nella provincia di Bari ne erano ubicate 15; nel territorio della Capitanata 7 e nel Salento 17. Questo dato, abbastanza insolito se confrontato con il precedente del 1903, scaturisce dal fatto che molte “carcare” non furono proprio dichiarate6. La pietra da calce si calcinava a mezzo di una “carcara di campagna” per la cottura in cataste, dove venivano disposti (in forma circolare) mucchi di grosse pietre calcaree sostenute da delle fasce di ferro legate tra loro che avevano, anche, la funzione di proteggere le pietre dalle intemperie (Fig. 2). Essa era una fornace non fissa, realizzata su piano di calpestio pianeggiante scavando un ampio solco profondo dai 2,50 ai 3 metri circa, con una circonferenza di 4 metri. All’interno si realizzava un muro in conci di pietra calcarea (dello spessore medio di metri 1) che, rispetto al piano di calpestio di campagna, si alzava di circa 3 metri; la parte superiore si chiudeva con un mucchio di pietre che davano origine ad un copertura a volta del tipo “a bacino”. Sulla copertura vi era qualche foro per il tiraggio e lo sfiato, tutto il resto era ben sigillato con una malta composta da terra e calce. La muratura esterna, che aveva la funzione di contenimento del materiale lapideo da cuocere, presentava un piccolo varco (largo metri 1 circa e alto metri 1,50 circa) che serviva per inserire le fascine di ulivo, o scarti di legna, oppure sansa esausta, che erano disposte lungo tutta la circonferenza del vano cottura per sottoporre a temperatura costante tutte le pietre. Di queste costruzioni non restava nessuna traccia dato che le pietre impiegate per la costruzione del muro venivano cotte e dunque trasformate in pietre da calce; dopo che le pietre calcinate veniva asportate dal sito dove erano state cotte, di quest’ultimo rimaneva solo il solco della sua circonferenza7. Nel corso degli anni il sistema di cottura si perfezionò lentamente realizzando dei veri e propri forni (“carcare”) intermittenti costituiti da una struttura lapidea parzialmente interrata e completamente fuori terra; essa veniva costruita con materiale più resistente alla cottura, generalmente con conci di pietra di tufo o pietra calcarea non perfettamente squadrati. La fornace, di forma circolare con la parte sommitale tronco-conica, solitamente veniva realizzata nel sito dove era presente un grande bacino estrattivo oppure nelle immediate vicinanze di una cava; in genere era addossata ad un banco roccioso tanto da costituire parte integrante della stessa struttura muraria portante. In the Otranto area and in the provinces of Bari and Foggia, numerous kilns for the production of lime were once present. Known as “carcare”, these were the first (and most primitive) methods of “manufacturing” lime. Thanks to the quarrying activity (carried out in numerous towns and villages in the Puglia region, and in particular in the Otranto area) made possible by the particular geological conformation of the area and the abundance of limestone deposits, and the growing demand for building products, the production of lime increased significantly; hence the need to “manufacture” the material, and thus to construct kilns able to turn the limestone into lime. Limestone was calcined using a “carcara di campagna” (country kiln) for firing the material in piles. Over the years, the firing system was slowly perfected, and actual intermittent kilns (“carcare”) were built, composed of a stone structure partially underground or entirely above ground. Towards 1950, a slow phase of decline began, as a result of the appearance of the first masonry kilns that allowed for continuous firing cycles and the mechanisation of the production system; throughout the area, the “Villanova kilns”, “shaft kilns” or “bottle kilns” became common. 17 3 Figura 3 Ostuni (BR). “Carcara” Francesco e Angelo Ungaro; disegno di rilievo dello stato di fatto: pianta e sezioni (restituzione grafica in scala 1:50, rilievo archh. A. Monte e C. Caputo). 4 18 Come già accennato sul territorio dell’antica Terra d’Otranto vi era una numerosa presenza di fornaci; esse venivano realizzate grazie a una tecnica costruttiva che era propria ed apparteneva al mondo della civiltà contadina: le costruzioni con pietre “a secco” (di forma circolare) note, in gergo, come “pagghiari” o “truddhri” o “furnieddhri”. La tecnica costruttiva di alcuni manufatti della civiltà contadina viene prestata, dopo opportune rielaborazioni, ad altri comparti tra cui quello relativo alla produzione della calce. La fornace veniva costruita da maestri “paritari”; cioè da contadini specializzati nella realizzazione di muri “a secco” che costruivano, dopo aver dissodato la terra, per delimitare le diverse proprietà dei terreni. Essi, i “carcaruli” (così erano chiamati i maestri-costruttori), nel realizzare la “carcara”, utilizzavano la stessa procedura sia nella costruzione dell’impianto che nella disposizione della pietra calcarea all’interno della stessa per la cottura. La costruzione della “carcara” quindi, era demandata alla bravura del maestro al quale veniva commissionata la costruzione solo dopo aver scelto il sito su cui edificarla. Essa era di forma circolare ed aveva un diametro alla base (la quale risulta scavata di circa 80 centimetri rispetto al piano di calpestio del sito) di metri 5 circa mentre, nella parte sommitale misurava circa 6 metri. Un avancorpo, di forma rettangolare rastremato verso l’interno, era Figura 4 Ostuni (BR). “Carcara” Francesco e Angelo Ungaro; vista d’insieme (foto A. Monte 2007). posto in corrispondenza della camera interna in cui veniva immesso il combustibile per la cottura; questo ambiente serviva sia per ammassare tutto ciò che veniva utilizzato per alimentare il fuoco (fascine, sarmenti, sansa, ecc..) della “carcara”, sia per i carretti che dovevano caricare la pietra calcinata. Dopo la cottura (che solitamente durava circa sette-otto giorni) venivano depositate tutte le pietre da calce cotte per essere pesate (a mezzo di una stadera) e vendute sia ai commercianti di calce, che al dettaglio ai muratori, agli imbianchini e a chi ne facesse uso. Varcato l’accesso all’avancorpo si scorge (solitamente sul lato destro) un piccolo vano destinato al fochista o fornaciaio, cioè la persona addetta ad introdurre il combustibile per alimentare il fuoco. La “carcara” una volta accesa era in funzione ventiquattro ore su ventiquattro; per questa attività erano impiegati 5-6 uomini che svolgevano turni di circa 3-4 ore ciascuno8 (Figg. 3-4). Le “carcare” producevano mediamente, secondo la loro dimensione, dai 600-700 quintali sino ai 1000-1200 quintali di pietra cotta. In Terra d’Otranto i centri di produzione della calce, quelli più noti dove maggiormente si svolgeva questa attività e soprattutto dove vi era una elevata concentrazione di “carcare”, erano Ostuni (BR), Taurisano (LE) e Monteiasi (TA). A Ostuni, la nota città bianca per l’uso ormai secolare della calce 5 Figura 5 Taurisano (LE). “Carcare” Malagnino in località Galìa; vista d’insieme (foto A. Monte 2009). 6 per scialbare le facciate delle abitazioni, questa attività ha origini molto antiche e rappresentava una fonte di reddito per molti contadini e artigiani. Infatti, un documento redatto dal notaio Antonio Melleo9, stipulato tra “[...] Donnum Colellam Zaccarium et magnificum Marcum Antonium Palmerium [...]” il 14 marzo 1591, attesta: “[…] che il detto Marcantonio possa et li sia lecito fare quattro calcare dentro il giardino beneficiale di esso Donno Colella in loco de Santo Leonardo vicino il giardino di Luca Biblia, vicino il giardino di donno Antonio Marseglia la via pubblica et altri confini […]”. Un‘altra testimonianza della vivace attività produttiva ci è resa da Cosimo De Giorgi che, nel 1882 scriveva: “[…] Ma la più importante a studiarsi in Ostuni è la vita industriale. Questa si svolge soprattutto nella campagna e nelle pietraje attigue alla città. […] La pietra di Ostuni ha pure dinnanzi a sé un bell’avvenire industriale. In alcune varietà è di grana fine, […]. In altre è più dura e viene adibita alla fabbricazione della calce. Le fornaci del monte S. Antonio e quelle fra il monte Scoponara e il monte Molino a vento ardono quasi perennemente, e forniscono dell’ottima calce grassa a tutta la provincia […]”10. Mentre Giacomo Arditi scriveva:“[…] Il territorio nella sua struttura litologica e stratigrafica presenta il calcare compatto ippuritico, ed un’altra specie di calcare bianco a grana fina. […] Figura 6 Monteiasi (TA). “Carcara” Giuseppe Strusi; vista d’insieme (foto A. Monte 2009). Qua e colà, vicini e lontani, sorgono a veggente parecchi monti, poggi, forni calcinatori prossimi alla città, […]”11. Nel corso di questi ultimi decenni (1975-2000) numerose sono state le “carcare” distrutte e, attualmente, delle numerose presenti su tutto il territorio di Ostuni, ne sono state individuate e schedate solo 4 delle 13 riportate nell’Annuario di Terra d’Otranto, Brindisi e provincia 1950-51. A Taurisano erano attive, nel 1932, otto fornaci; mentre risulta dalle testimonianze orali, che ne erano in funzione molte altre e che non venivano dichiarate sia perché non costituivano una sicura e costante fonte di reddito sia per i gravi rischi a cui si era esposti per la disagevole attività del calcinare che era ingrata e faticosa12 (Fig. 5). L’altro centro importante per la produzione della calce era Monteiasi dove erano ubicate due “carcare” con forni a fuoco continuo, poste nei pressi di due grandi cave di estrazione del calcare. Infatti, nella Guida Generale di Puglia e Lucania del 1933 riporta che le industrie locali sono: “[…] Le fornaci per la produzione della calce e le cave di pietra da taglio. Industrie di una certa importanza per i dintorni e per la Calabria. Queste industrie costituiscono, dopo l’agricoltura, la principale ricchezza per il paese […]”. La prima fornace è stata realizzata nel 1909 da 19 7 Figura 7 Fasano (BR). Fornaci a “tino” CalceViva; vista d’insieme (foto A. Monte 2007). Giovanni Corrente; essa è stata la prima in tutta la provincia di Taranto a produrre calce e i suoi sottoprodotti; il trasporto del prodotto finito avveniva per mezzo dei traini con cavalli, che avevano una capacità di circa venticinque quintali. I vagoni ferroviari della vecchia stazione di Monteiasi e quella di Grottaglie, venivano caricati, per essere spediti in Calabria e Basilicata, anche in piccoli quantitativi, contenuti in sacchi di juta. Per via mare erano caricati velieri di 200 o 300 quintali, per arrivare in Calabria. L’altra fornace venne costruita qualche anno dopo da Giuseppe Strusi (Fig. 6). La calce prodotta da questa carcara veniva esportata in Inghilterra. Intorno alla fabbricazione della calce lavoravano 350-400 persone. Queste peculiari architetture di pietra “a secco” meglio note come “carcare”, anche se erano utilizzate (in modo empirico) già in epoca precedente, si sono diffuse sul territorio in esame a partire dall’ultimo quarto del secolo XIX e sono state attive sino alla fine del 1970. Periodo in cui inizia una lenta fase di calo dovuta alla nascita delle fornaci in muratura che prevedono dei cicli continui di cottura ed una meccanizzazione del sistema produttivo. La prima fornace a “tino” per la produzione della calce fu costruita nel 1953 a Seclì (in provincia di Lecce) dall’azienda di costruzioni di “Villanova Angelo” di Falzé di Piave. Il costruttore si trasferisce in Puglia dove grazie al suo lavoro nasceranno numerose fornaci di calce del sistema brevettato dal Villanova. Viene chiamato in Terra d’Otranto, per la prima volta, dal signor Lorenzo Zambaiti, che conosce questa tipologia di forni perché costruiti, già negli anni quaranta, in Veneto e Lombardia. Le fornaci di calce costruite con il progetto del signor Villanova verranno riconosciute come “forni Villanova” o “forni a tino” o “forni a bottiglione”. Quella che prima era una fornace per la cottura della pietra calcarea adesso diventa un vero e proprio sito di produzione e trasformazione della calce. Si provvede alla cottura allo spegnimento e alla carbonatazione della calce. Il sito si compone di una fossa per il raccoglimento della pietra dalla quale parte un carrello trasportatore, azionato meccanicamente, che riempie dall’alto il forno di pietra. I tini hanno un basamento quadrato in cemento che si trova 3-4 metri sotto il livello di calpestio. Sopra il basamento si scorge una fossa con dei muri in cemento PROFILO AUTORE Antonio Monte, architetto e dottore di ricerca. Dal 2001 è ricercatore del CNR-IBAM di Lecce. Ha insegnato Storia della produzione artigianale e Archeologia industriale alla Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento. Dal 2002 è docente al Master in Conservazione, Gestione e Valorizzazione del Patrimonio Industriale, presso l’Università degli Studi di Padova Dipartimento di Storia. Da anni svolge ricerche sul patrimonio industriale e si occupa di recupero, conservazione, valorizzazione e musealizzazione di opifici dismessi. E’ autore di studi su beni industriali e aziende attive in Puglia durante il periodo pre-industriale e industriale. 20 all’interno della quale troviamo uno scivolo con una apertura in fondo e la griglia meccanica più in basso nella quale viene scaricata la pietra cotta. A metri 1-1,50 circa dal calpestio troviamo quattro bocche di alimentazione (in alcuni casi sono solo due) in cui il combustibile viene introdotto a mano. Nel vano centrale dove inizia la zona cottura il forno ha un diametro di metri 2,80, dove troviamo dal basso verso l’alto la parte di cottura (alta metri 4) e poi la parte di precottura (alta metri 3). Ad un’altezza media di metri 11,00 (che varia ma non di molto, da forno a forno), troviamo lo scivolo che svolge la funzione di far convogliare le pietre nella zona di precottura. Andando più in alto troviamo la riserva, zona che rimane sempre piena di pietra calcarea, in attesa di cottura. La funzione di questa zona è quella di far asciugare la pietra dall’umidità, soprattutto nei periodi invernali. L’altezza complessiva di un forno “a tino” varia dai 21 ai 27 metri dal piano di calpestio all’imbuto. La temperatura del forno dovrebbe essere sempre costante per permettere alla pietra una buona calcinazione, se la temperatura è troppo forte la pietra non si cuoce all’interno, rimane cruda, se la temperatura è bassa la pietra non si cuoce affatto i tempi di cottura si allungano e la calcinazione si blocca. La bravura dell’addetto ai fuochi è proprio quella di mantenere la temperatura costante inserendo nelle rispettive bocche la stessa quantità di combustibile, inoltre è lui che decide quando scaricare la calce cotta nella riserva sottostante al forno. Quando la pietra acquisiva un colore dorato allora è “cotta”, se dalle bocche si intravedono dei buchi neri in corrispondenza della pietra, questo fenomeno evidenzia che parti di pietra erano ancora “crude”. A pieno regime un forno di questa tipologia produce ogni 12 ore 110 quintali di calce, che diventano 140 nei periodi più secchi dell’anno. Tutto il ciclo di produzione e trasformazione della calce dipende strettamente dalle condizioni atmosferiche. Importanti forni, dei quali alcuni sono ancora in funzione mentre altri sono stati dismessi, sono a Seclì, a Surbo, a Taurisano, a Lequile (località Dragoni), a Fasano (Fig. 7), a Carovigno, a Villa Castelli, a Martina Franca. Di questo peculiare corpus di manufatti, che rappresenta un importante patrimonio industriale, è in corso un censimento che permetterà di far conoscere i luoghi di produzione dove si svolgeva questa faticosa ed estenuante attività industriale13. N O T E Il La Terra d’Otranto corrisponde alle attuali province di Lecce, Brindisi e Taranto. Annali di Statistica. Statistica Industriale, Provincia di Lecce, Fascicolo XXXII, Tipografia Nazionale di G. Bertero, Roma 1891, pp.25-26. 3 Annali, cit., Fascicolo XXXI, p.28. 4 Annali, cit., Fascicolo XXX, pp.26-27. 5 Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione Generale della Statistica, Statistica Industriale, Parte I, Tipografia Nazionale di G. Bertero, Roma 1906, pp.32-33, pp.142-143, pp.170-171; Parte III, p. 30. 6 Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione Generale della Statistica, Statistica Industriale, Tipografia Nazionale di G. Bertero, Roma 1913, p.78, p.312, p.372. 7 Voce Calce, cemento. “Cottura della calce”, Enciclopedia delle Arti e Industrie compilata da Raffaele Pareto e Giovanni Sacheri, Vol. II, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1880, pp.61-67. La descrizione della “carcara di campagna” e il suo funzionamento mi è stato spiegato dai maestri “carcaruli” Cosimo e Domenico Melpignano di Ostuni che da sempre hanno praticato questo mestiere che si sono tramandato da padre in figlio per quattro generazioni. Inoltre, G. Angiulli, Antichi mestieri scomparsi ad Alberobello e nella Murgia, in “Umanesimo della pietra”, a cura del Gruppo Umanesimo della pietra, Martina Franca (TA), luglio 2004, pp.162-166. 8 La descrizione delle diverse fasi di costruzione e la loro tecnica costruttiva, l’approviggionamento della materia prima per la realizzazione, gli usi, i costumi e le condizioni socio-economiche mi è stato illustrato dai maestri “carcaruli” Cosimo e Domenico Melpignano di Ostuni. Domenico, ha lavorato presso numerose fornaci di Ostuni dal 1946 al 1970; il fratello Cosimo dal 1949 al 1970 (intervista del 6 aprile 2009). Mentre Salvatore Apruzzi, ex fochista, ha lavorato in diverse fornaci dal 1950 sino alla fine del 1970 (intervista del 10 marzo 2009). Inoltre, per una più approfondita ed esaustiva trattazione si consulti l’interessante studio di Antonio Ciurlia, La “carcara”, in R. Orlando, Economia, società e costume a Taurisano nella prima metà del ‘700, Associazione Culturale “Odigìtria”, Taurisano (LE) 2001, pp.297-341; P. Ubbrìaco, P. De Bellis, Le fornaci da calce della tradizione pugliese: materiali e tecniche, in Atti del 3° Simposio Internazionale “La conservazione dei monumenti nel bacino del Mediterraneo, Venezia 22-25 giugno 1994, pp.393-403. 9 Archivio di Stato di Brindisi, Archivi notarili, Atti del notaio Antonio Melleo, vol. 5, busta 2, c. 57r. 10 C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Ristampa fotomeccanica, vol. I, Galatina (LE), Congedo Editore 1975, pp. 82-83. 10 G. Arditi, La corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto, Lecce, Stabilimento Tipografico “Scipione Ammirato” 1879-1885, p. 428. 12 Relazione statistica sul movimento economico della provincia di Lecce, 1932, dattiloscritto redatto dal Consiglio e Ufficio Provinciale dell’Economia Corporativa di Lecce, pp.111-113, Biblioteca Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato di Lecce. 13 Dopo la campagna di censimento, che si sta svolgendo su tutto il territorio sia pugliese che lucano, i più interessanti siti saranno oggetto di una successiva catalogazione scientifica (in parte già in corso) mirata alla conoscenza e conservazione, almeno documentale, dei siti e della memoria dei luoghi del lavoro attraverso le numerose fonti orali che si stanno raccogliendo. Alla ricerca collaborano Maria Vittoria Natale, Francesca Grassi, Antonio Ciurlia, Maurizio Delli Santi e Chiara Caputo. 1 2 21 PER UNA CARTA TEMATICA DELLA PRODUZIONE DELLA CALCE: UN ESEMPIO DAL TERRITORIO AQUILANO Giovanna Petrella Dottore di Ricerca e Assegnista di Ricerca in Archeologia Medievale (Università degli Studi dell’Aquila) [email protected] I 1. Premessa l presente contributo è parte di una più ampia ricerca di Dottorato dal titolo “De calcariis faciendis. Produzione e uso della calce nell’aquilano. Fonti archeologiche, archivistiche e documentarie”, discussa nell’aprile del 2008. La ricerca ha preso le mosse dallo studio di alcuni impianti di produzione della calce, rinvenuti con le campagne di scavo svolte all’Aquila e nel territorio aquilano sotto la direzione scientifica del Prof. Fabio Redi dell’Università degli Studi dell’Aquila. Sulla base di un bagaglio di conoscenze formato sulla lettura della Trattatistica, sull’analisi dei dati archeologici, della toponomastica e sul confronto con siti produttivi ancora attivi, la ricerca è giunta all’elaborazione di una carta tematica sulla produzione della calce nel territorio aquilano, dal XIV secolo sino ai nostri giorni. 2. La struttura della ricerca: una “polifonia di fonti” SUMMARY L’impronta conferita alla ricerca è caratterizzata da una “polifonia delle fonti”, con la consapevolezza che solo l’eterogeneità delle fonti può essere la chiave di lettura funzionale alla ricostruzione di una quadro diacronico e sincronico sulla produzione della calce nel territorio aquilano. Parafrasando quanto detto da Marco Milanese nel suo prezioso volume La voce delle cose, infatti, bisogna dare “vita alla traccia 22 archeologica” e “voce alle cose”, utilizzando a pieno diritto anche la fonte orale, il cui potenziale informativo si esprime proprio in ambiti disciplinari come quello delle produzioni artigianali. Una delle prime fasi della ricerca è stato il censimento delle strutture produttive indagate in Italia e in Europa con scavi stratigrafici. Il censimento è stato effettuato utilizzando una scheda di informatizzazione dati di un forno da calce, da me elaborata per l’occasione. Si tratta di uno strumento inedito di raccolta e gestione dei dati in fase di scavo, ma anche di un utile supporto per l’analisi dei resti materiali, siano essi strutture murarie, resti combusti, scarti di lavorazione, accumuli di materiale o di semilavorati. I dati raccolti sono confluiti in un data base, in continuo aggiornamento, che, opportunamente interrogato, fornisce tutti i dati necessari alla ricostruzione della produzione della calce su base archeologica. I dati di scavo sono stati interpretati anche alla luce di una ri-lettura, in chiave archeologica, dei Trattati che descrivono la produzione della calce. Attraverso la fonte scritta e quella archeologica sono state ripercorse le tappe della produzione della calce: tutti i dati ottenuti sono stati utilizzati per l’allestimento di un matrix appositamente “modellato” per lo studio della produzione della calce. Il matrix (Fig. 1) offre la possibilità di evidenziare le sequenze stra- During the doctorate research carried out into the production of lime in the L’Aquila area in the Abruzzo region, on the basis of the census of the production structures brought to light in Italy, the archaeological re-interpretation of Treaties and the compilation of a matrix, an analysis has been conducted of a number of systems subjected to stratigraphic study in the L’Aquila area. Essential for this undertaking proved to be historical sources (notarial acts, city statutes, building records, wills), as well as the contribution made by ethnoarchaeologists for the study of kilns still in use in the area. The data collected were used to build the thematic map, on which are indicated the kilns subjected to stratigraphic survey, those registered through recognition and those documented in archives, as well as the quarries indicated in the historical sources and those still visible and the geographical names. The Map highlights the “vocation”, from a diachronic perspective, of the western area of the L’Aquila Basin, where lime has been produced from the 14th century up to the present day. Figura 1 1 La produzione della calce in una fornace “a fossa” e il relativo matrix (elaborazione grafica G. PETRELLA e C. COLOMBO). 23 Figura 2 24 2 Le fornaci da calce individuate con scavi archeologici: 1, 2= Castel del Monte (AQ), Piana S, Marco, calcara (XVIII secolo) e sua ricostruzione ipotetica (foto C. IOVENITTI, elaborazione grafica G. PETRELLA e C. COLOMBO); 3=L’Aquila, Basilica di Collemaggio, fossa di spegnimento (XVIII secolo) (foto C. IOVENITTI); 4= L’Aquila, Basilica di Collemaggio, fossa di spegnimento e impasto della malta (XV secolo) (foto C. IOVENITTI); 5= L’Aquila, Basilica di Collemaggio, calcara e fossa di spegnimento (foto C. IOVENITTI); 6=Ovindoli, San Potito (AQ), calcara medievale (foto C. MALANDRA). tigrafiche desumibili dalla lettura dei trattati e sulla base dall’analisi dei depositi archeologici, di avere a disposizione una prima anamnesi della struttura produttiva in corso di scavo e di riportare, in modo chiaro e schematico, i dati la cui interpretazione si materializza proprio nella successione o contemporaneità delle unità stratigrafiche. Pur consentendo di ricostruire le fasi della produzione della calce, il data base e la redazione del matrix non permettono, come d’altronde per tutte le produzioni artigianali, di costruire un modello unico, uno schema chiuso e non modificabile. Proprio l’incremento delle ricerche e l’analisi dei dati raccolti con il censimento restituiscono un quadro assai ricco in cui le variabili in gioco sembrerebbero essere legate non solo alla cronologia degli impianti ma anche alle capacità tecniche degli operai, alle caratteristiche litologiche e alle tradizioni locali. Le conoscenze formate su scala nazionale sono state utilizzate per studiare le fornaci localizzate in territorio aquilano, sia quelle rinvenute con scavi archeologici sia quelle ancora visibili sul territorio. 3. La produzione della calce nell’Abruzzo Aquilano Con l’intento di ricostruire un quadro variegato della produzione della calce in Abruzzo, sono state censite le seguenti categorie: forni da calce individuati con scavi archeologici; dati archivistici; toponimi attuali e storici; siti produttivi ancora attivi; cave estrattive. 3.1. Forni da calce individuati con scavi archeologici Le indagini archeologiche hanno riportato alla luce alcune strutture connesse alla produzione della calce ascrivibili ad arco cronologico che va dal XV al XVIII secolo (Fig. 2). Si tratta della calcara settecentesca di Piana S. Marco, di quella bassomedievale di Ovindoli, di una calcara, di una fossa di spegnimento e di una per l’impasto della malta, queste ultime tre rinvenute presso la Basilica di Collemaggio all’Aquila. A questi impianti produttivi vanno aggiunti anche quelli recentemente rinvenuti durante gli scavi effettuati in occasione dei lavori sulla Strada Statale 17 che attraversa la Piana di Navelli, per i quali si attende la pubblicazione definitiva dei dati. La calcara rinvenuta a Piana San Marco, nel Comune di Castel del Monte (Fig. 1,1), del “tipo a fossa” e a “fuoco intermittente”, è stata realizzata in parte disturbando un cimitero medievale e in parte riutilizzando il basamento di un tempio romano. La fossa, riferibile ai lavori di restauro che nel XVIII secolo interessarono la vicina chiesa di San Marco, è preceduta a sud da un prefurnio a scivolo sul cui fondo è rimasto ancora in situ uno strato di materiale calcinato residuale di un’ultima infornata. Le pareti della fossa risultano rubefatte a causa calore sprigionato durante la cottura. La copertura, oggi scomparsa, doveva essere costituita da un cumulo di terra, alla cui base si aprivano i fori per il tiraggio. Il materiale veniva accatastato all’interno della fossa creando un vòlto di pietre al centro del quale veniva acceso il fuoco. Il cumulo di pietre veniva ricoperto da strati di terra, combustibile e fango per agevolare una cottura lenta a tenuta isotermica. Anche la calcara installata sul perimetrale Nord Ovest della villa (I e III sec d. C.) di San Potito di Ovindoli (Fig. 1,6), nella Marsica, è del tipo “a fossa” con un prefurnio che si apre alla base della fornace. Gli scavi condotti presso la Basilica di Collemaggio negli anni 2002 e 2005 hanno riportato alla luce tre impianti per la produzione della calce, rispettivamente una calcara, una fossa per lo spegnimento della calce e di una utilizzata per l’impasto della malta. La calcara (Fig. 1,5) ha un diametro di m 3,75, la profondità raggiunta in fase di scavo è di m 4,50. I muri hanno andamento cilin- drico e sono spessi m 0,46; sono costituiti da pietre appena ritoccate e apparecchiate in ampi letti di malta di calce, con andamento irregolare tendente al suborizzontale. Pertinente e coeva alla calcara è la fossa rettangolare delimitata a sud dal muro perimetrale della Basilica (Fig. 1,3); nella parete nord sono ancora visibili le tracce in negativo di una porta utilizzata per lo sbatacchiamento dei riempimenti costituiti da strati di carbone, cenere e scorie di caldaie. Nel settore antistante la facciata della Basilica, gli scavi hanno restituito le tracce del cantiere edile quattrocentesco, costituito da una canaletta, in parte sagomata nella roccia vergine e in parte realizzata in pietre con una copertura in laterizi. La canaletta captava le acque piovane utili ad alimentare una grande vasca circolare (Fig. 1,4) costituita da un fondo concavo ricoperto da uno strato di malta compatto e liscio e da residui di calce. Strati di calce e malta sovrapposti testimoniano un uso ripetuto della stessa. I recenti scavi archeologici nella Piana di Navelli, lungo la SS. 17, in località Cinturelli, hanno riportato alla luce due fornaci da calce: una medievale a pianta circolare scavata nell’argilla, del “tipo a fossa” e con le pareti in nuda terra, e una calcara più grande, della quale però non sono note né la morfologia nè le dimensioni. In località Diamante, nel Comune di S. Pio delle Camere, è stata rinvenuta una calcara relativa a una fase di abbandono del santuario extraurbano di età giulio-claudia. (V secolo). Allo stato attuale delle ricerche, si tratterebbe della struttura più antica fin’ora rinvenuta nel territorio oggetto dello studio. Nel sito archeologico dell’antica Corfiunim, vicino Sulmona, nella fase di cantiere per la basilica medievale, sono stati rinvenuti un impianto di produzione di ceramica e un forno per la calce, datato tra l’XI e il XII secolo, rinvenuto in adiacenza del deposito di materiali da cuocere. L’ampio arco cronologico delle strutture qui descritte (V-XVIII secolo) ha permesso di ricostruire, su base archeologica la morfologia e le modalità di produzione nel territorio. 3.2 I dati archivistici Per quanto riguarda la fonte scritta, sono stati letti e analizzati rogiti notarili, atti di compravendita di materiali, di affitto di terreni, testamenti. Si tratta di documenti inseriti in un arco cronologico che va dal XIV al XVIII secolo. La scelta di un ambito cronologico così vasto si giustifica con la necessità di analizzare il fenomeno dalla fondazione della città dell’Aquila (sec. XIII) sino ai nostri giorni e di cogliere analogie e differenze nelle modalità di produzione, trasporto, consumo e vendita della calce e dei semilavorati. Una delle fonti esaminate è costituita dagli Statuta Civitatis Aquile che contengono la normativa sulla produzione della calce all’Aquila utile alla costruzione di case, chiese e mura urbiche. Utile alla ricostruzione del quadro storico-documentario è stata la lettura dei libri contabili di alcuni cantieri edili, quali quello della Fabbrica di San Bernardino (metà del XV secolo), quello della costruzione del Palazzo di Margherita d’Austria (XVI secolo) e i numerosi documenti relativi all’attività cantieristica relativa al disastroso terremoto del 1703. Lo spoglio delle fonti a disposizione ha permesso di individuare per ciascun periodo l’identità dei “mastri calcaroli”, il luogo in cui erano impiantate le fornaci, le modalità, i costi e i tempi di produzione. 3.3 La toponomastica L’Abruzzo Aquilano, come altre porzioni di territorio nazionale, è particolarmente “segnato” dalla presenza di toponimi che attestano, in maniera inequivocabile, l’esistenza di produzioni varie, 25 talvolta perpetuate in epoca moderna e contemporanea. Per quanto riguarda le produzioni, e qui nello specifico quella della calce, i toponimi in alcuni casi possono essere indicatori della presenza di cave, come nel caso dei toponimi “Cave” (Scoppito), “La Pretara” (Poggio Picenze), “valle Pretara” (L’Aquila) o di una attività produttiva, come ad esempio i numerosi “La Fornacha”, “fornace” localizzati a Pianola, Coppito, Collepietro, Civitatomassa, Pizzoli o di una conoscenza della conformazione del territorio, come nel caso di “Colle calcare” a Castel del Monte e “Carce” a Scurcola Marsicana. Numerosi sono anche i toponimi come “via della fornace” nei pressi della chiesa di S. Pietro a Coppito, del toponimo “Fornace” a Civitatomassa e a Sassa di quello di “S. Maria in Fornachia”. Se questo tipo di toponimi sono i più “eloquenti”, perché informano sull’esistenza di una struttura produttiva, meno evidente è invece il tipo di produzione. Si tratta in realtà di toponimi che, pur attestando l’esistenza di una produzione basata sull’utilizzo delle fornaci, non permettono di indicare con precisione il tipo di produzione esercitato. La documentazione d’archivio e le ricognizioni nel territorio sembrerebbero suggerire produzioni miste, in questo caso calce e mattoni, come documentato anche in altri contesti regionali. Nei documenti è, infatti, riportato talvolta indistintamente il termine fornace per la produzione di mattoni, di “pinci” e di calce. Più specificatamente, nel territorio è stata rintracciata una quantità di toponimi legata alla produzione della calce, come ad esempio, nel caso del Comune di Collepietro dove è localizzato il toponimo “Fornachia”. Pur non rimandando a una produzione specifica, questo toponimo potrebbe essere riferito alla produzione della calce visto, che nel sito si trovano i ruderi di una probabile fornace da calce. 3.4 Le cave estrattive La conca aquilana, come del resto molte zone dell’Abruzzo interno è caratterizzata dalla presenza di affioramenti di calcare, che ha contribuito a definire la natura geo-morfologica dell’Abruzzo interno e l’edilizia della cosiddetta “civiltà della pietra”. Lo spoglio dei documenti d’archivio e della bibliografia ha fornito una serie di notizie utili per avviare il censimento delle cave di estrazione della pietra nel territorio aquilano. I monti che delimitano la conca aquilana, infatti, sono costituiti esclusivamente da calcari rosati, rossi o bianchi provenienti dalle cave di S. Onofrio, Monte Luco, dalla valle dell’Aterno e del Raio (Vigliano, “Palazzi Dirupati” e “San Silvestro di Pietrabattuta”), dalla zona di S. Nicola e di Arischia, da Cavallari di Pizzoli, da Forcella nelle vicinanze di Preturo, da Sassa e Casamaina e di Castel del Monte. Queste cave sono state ampiamente sfruttate nel corso dei secoli sia per l’estrazione della pietra da taglio che per la produzione della calce. 26 3.5 I siti produttivi ancora attivi Le ricerche sono state indirizzate anche alle ricognizioni sul territorio con l’intento di studiare complessi produttivi ancora attivi o dimessi da poco (Fig. 3). I dati raccolti hanno permesso di documentare la produzione della calce attiva nel territorio sin dal Medioevo. L’incrocio dei dati raccolti con le ricognizioni e di quelli rinvenuti nelle fonti storiche, infatti, permette di attestare la continuità di produzione della calce nei secoli di alcuni siti e di confermarne la “vocazione produttiva”. Già nel corso del XV secolo, alcuni siti come Vigliano, Forcella, Poggio Picenze, San Silvestro di Pietrabattuta sono citati nei documenti per la produzione della calce e per l’estrazione della pietra da taglio e alcuni di essi sono stati attivi sino a qualche decennio fa. In particolar modo, le indagini sul territorio hanno permesso di osservare e studiare alcuni contesti produttivi di epoca postindustriale, di intervistare alcuni operai e di aggiungere alcun tasselli importanti alla ricerca. L’osservazione di questi impianti e la descrizione delle fasi di lavorazione fatte dai fornaciai offrono la possibilità di analizzare “contesti viventi”, di testare le ipotesi derivate dallo studio delle fonti letterarie e dalle evidenze archeologiche, di focalizzare l’attenzione sulle variabili dei processi produttivi, di ottenere dati utili al confronto con i contesti archeologici, di mettere in evidenza analogie e differenze tra le produzioni attuali e quelle del passato e, soprattutto, di colmare le eventuali lacune. A tal proposito è stato molto utile, poter effettuare delle interviste con alcuni fornaciai che mi hanno spiegato alcuni passaggi fondamentali del processo produttivo, quali ad esempio le modalità di carico delle fornaci, i tempi e il processo di cottura, i costi e la vendita. Sono state così studiate le fornaci di Coppito, Poggio Picenze, quella presso il teatro di Amiternum, di Vetoio, di Vigliano, sia dal punto di vista della loro morfologia, sia dal punto di vista del funzionamento, della quantità e della qualità della materia prima e dei materiali prodotti e dal punto di vista della tecnologia produttiva. Per le fornaci Marchetti e Melaragni (Figg. 3,2 e 3.3) site a Coppito è attestata, sino alla metà del XX secolo, la produzione, in un’unica infornata, di calce e mattoni. Una delle fornaci più attive è quella di Poggio Picenze (Fig. 3,4) sita a ridosso delle cave estrattive. In quest’area, suddivisa tra “cave antiche” e “cave moderne, sin dal XV secolo, i documenti attestano l’estrazione della pietra bianca per le decorazioni scultoree e per la produzione della calce. Ambedue i prodotti venivano esportati in tutto il bacino della valle dell’Aterno. Lungo la via Sabina che dall’Aquila conduce ad Antrodoco, si trova un’altra fornace (Fig. 3,5) per la produzione della calce, oggi in disuso e in completo stato di abbandono. Si tratta di un vero e proprio impianto industriale costituito da un prefurnio di accesso, molto alto e da una camera di combustione sopraelevata accessibile tramite un rampa rialzata. In base ai dati raccolti, è stata dimostrata una continuità produttiva della zona di Vigliano, storicamente caratterizzata da questo tipo di produzione, come attestano alcuni rogiti del 1649 e del 1650. 3.6 La carta tematica della produzione della calce Il variegato palinsesto di dati raccolti (archeologici, archivistici, da ricognizione, toponimi) costituisce la base per una carta monografica, in fieri, della produzione della calce in territorio aquilano dal XIV secolo sino ai nostri giorni (Fig. 4). Dalla lettura della carta si evince la “vocazione”, in prospettiva diacronica, della Conca Aquilana e in special modo della zona a Ovest della città, particolarmente interessata dalla produzione della calce dal XIV secolo fino ai nostri giorni. L’aver tentato di ricostruire un quadro variegato sulla “problematica calce”, per la quale rimando anche agli altri contributi da me editi, non significa aver concluso un percorso di ricerca che ha bisogno necessariamente di approfondimenti, maggiori riflessioni anche alla luce di maturate esperienze di studio. Indubbiamente la ricerca archivistico-documentaria richiede un approfondimento sia dal punto di vista della quantità della documentazione da esaminare, sia per quanto riguarda un perfezionamento degli strumenti di indagine. Per quanto riguarda la ricerca archeologica, le strutture produttive sono ancora un numero tale da non permettere di disegnare una cronotipologia degli impianti. Più in generale si può dire che, Figura 3 Le fornaci da calce note dalle ricognizioni sul territorio (foto G. PETRELLA) 1= Amiternum; 2=Coppito, fornace Marchetti; 3= Coppito, fornace Melaragni; 4= Poggio Picenze; 5=Vigliano . 3 27 4 28 Figura 4 La carta tematica della produzione della calce (elaborazione grafica G. PETRELLA). sia per quanto riguarda la morfologia che il funzionamento, le calcare aquilane sembrano seguire i trends nazionali e non costituire degli unica nel panorama degli studi. Gli approfondimenti di studio, le nuove piste di ricerca necessitano inevitabilmente di un palinsesto di conoscenze, proprie non solo dell’archeologo, ma frutto di una collaborazione sinergica tra le varie Discipline. Si rende indispensabile, a questo punto, la creazione di un gruppo di ricerca interdisciplinare che convogli le esperienze e i Saperi intorno a una problematica così complessa, come quella della produzione e del commercio della calce all’Aquila. B I B L I O G R A F I A GIARDINI L.-REDI F.-PEZZUTI M. 2006, Celestino V e la sua Basilica, Cinisello Balsamo. LUGLI F.-STOPPIELLO A.A.-VIDALE M. 2000, Etnoarcheologia, un processo di messa a fuoco, I Convegno Internazionale di Etnoarcheologia, in “Archeologia Postmedievale”, IV, pp. 17-18. MILANESE M. 2007, La voce delle cose, Firenze. PETRELLA G. 2005, Forni da calce nel territorio aquilano, in “Archeologia Postmedievale”, IX, pp. 206-207. EAD. 2006, La produzione della calce e modalità di impiego nel cantiere medievale. Primi esempi dal territorio aquilano, in FRANCOVICH R.-VALENTI M. (a cura di), “IV SAMI”, (San Galgano 26-30 settembre 2006), Firenze, pp. 409-414. EAD. 2008a, La produzione della calce: stato degli studi e proposta di scheda di informatizzazione dati di un forno da calce, in “Archeologia Postmedievale”, XI, pp. 151-172. EAD. 2008b, Produzione di mattoni e “pinci" da costruzione nel territorio aquilano. Alcuni dati preliminari, in “Archeologia Postmedievale”, XI, pp. 189-202. EAD. 2009, Produzioni e tecniche artigianali all’Aquila tra Medioevo ed Età Moderna. Dati archeologici e archivistici, in VOLPE G.-FAVIA P. (a cura di), “V SAMI”, (Foggia, 30 settembre-3 ottobre 2009), Firenze, pp. 660-664. EAD. c.s., De calcariis faciendis. Una proposta metodologica allo scavo di una fornace da calce e al riconoscimento degli indicatori di produzione, in “Archeologia dell’Architettura”, XIII. EAD. c.s., Produzione e uso della calce nel territorio aquilano attraverso le fonti scritte: fornaciai, prezzi, luoghi e modalità di produzione, in “Bollettino della Deputazione di Storia Patria Abruzzese”. REDI F. 2009, Produzioni, consumi ed economia in territorio aquilano dalle ricerche archeologiche dell’ultimo decennio, in VOLPE G.-FAVIA P. (a cura di), “V SAMI”, (Foggia, 30 settembre-3 ottobre 2009), Firenze, p. 586. REDI F.-IOVENITTI C. 2006, Piana S. Marco. Comune di Castel del Monte (AQ). Gli scavi dell’anno 2004, in “Archeologia Medievale” XXXIII, pp. 307-323. REDI F.-MALANDRA C. 2003, S. Potito di Ovindoli (AQ). Lo scavo medievale nell’area della villa romana. Rapporto preliminare, anni 2001-2002, in “Archeologia Medievale” XXX, pp. 391-401. Ringraziamenti Sono sentitamente grata all'arch. Rita Vecchiattini e al dott. Andrea Rattazzi per l’invito a partecipare al ConvegnoCalce09 e a pubblicare questo contributo. Il mio lavoro di ricerca è stato possibile grazie al tutor, Prof. Fabio Redi, che mi fornito gli “strumenti del mestiere” e al Collegio dei docenti del Dottorato Ringrazio i signori Marchetti e Melaragni, proprietari delle fornaci di Coppito, che mi hanno “raccontato la loro fornaci” che, a seguito del sisma del 6 aprile 2009, sono state abbattute perché rese inagibili. Dedico questo contributo a Vittorio di Carlo di Pizzoli, appassionato studioso e piacevole interlocutore. PROFILO AUTORE Giovanna Petrella, Dottore di ricerca e Assegnista in Archeologia Medievale (Università degli studi dell’Aquila), presenta un profilo scientifico orientato prevalentemente all’Archeologia della produzione. I suoi studi si basano sullo studio dei processi tecnologici relativi alle produzioni artigianali (fusione della campane, produzione della calce e dei mattoni, gestione e sfruttamento dell’acqua per le produzioni artigianali e sulla tecnologia applicata). Le sue ricerche sono basate sull’interpretazione delle stratigrafie, affrontata con metodologie filologico-stratigrafiche e multidisciplinari proprie in particolare dell’Archeologia Medievale, alla luce delle prassi codificate dai testi, siano essi trattati o fondi archivistici. Ha partecipato a Convegni di Archeologia Medievale, a numerose campagne di scavo durante le quali ha preso parte in prima persona alle indagini archeologiche e allo studio dei materiali. E’ autrice di numerosi saggi scientifici pubblicati in molte sedi editoriali; è co-curatrice del volume Dal fuoco all’aria, Tecniche, significati e prassi nell’uso delle campane dal Medioevo all’Età Moderna, edito da Pacini Editore, Pisa (2007), all’interno del quale ha pubblicato alcuni contributi. 29 LA PRODUZIONE DELLA CALCE NELLA CAMPAGNA ROMANA IN ETÀ MODERNA: MATERIALI E ASPETTI ORGANIZZATIVI U Manuel Vaquero Piñeiro Università degli Studi di Perugia 30 na delle più antiche attestazioni documentarie concernenti la produzione di calce nelle città italiane del Medioevo si riferisce a Genova, dove, sul finire del XII secolo, i calcinaroli per poter esercitare la loro attività era tenuti a giurare dinanzi ai magistrati locali, impegnandosi a non alterare la calcina uscita dalle fornaci1. Le numerose testimonianze documentarie dei secoli successivi riguardano, in genere, lo stretto controllo esercitato dalle autorità pubbliche su un settore produttivo-commerciale considerato strategico almeno per due motivi: il ciclo della calce implicava l’intenso sfruttamento delle risorse del territorio e, nel contempo, l’accesso a delle buone malte rappresentava un elemento fondamentale nella realizzazione di opere edilizie di particolare rilevanza militare ed economica2. Nel caso di Roma, la prima testimonianza risalente agli ultimi secoli del medioevo si rinviene nello statuto della gabella del 1398, che imponeva ai locali produttori di calce il pagamento di una tassa per ogni calcara o cotta realizzata. Nel periodo successivo le attestazioni si infittiscono, rendendo il Quattrocento un periodo particolarmente ricco di riscontri sul piano degli obblighi fiscali. In generale, l’asse portante del sistema fiscale romano tardomedievale si basava su dazi imposti sul consumo e sui traffici commerciali, che nel caso specifico del comparto della calce corrispondeva a una piccola ma molto significativa imposta: la cosiddetta gabella dei calcarari 3. Si trattava di un’imposta minore rispetto a quelle che riguardavano altri beni di largo consumo, come il vino o la carne, e tuttavia svolse un ruolo determinante, giacché la sua esistenza creò intorno alla calce un meccanismo impositivo particolare: infatti, l’obbligo di sborsare le somme richieste ricadeva non sui compratori della calcina ma bensì sui produttori. Erano dunque create le condizioni per incoraggiare la trasformazione architettonica della città, trasformando i committenti in soggetti privilegiati e ampiamente tutelati. Mediante queste e altre scelte di politica fiscale, concomitanti al grande rinnovamento edilizio della città, si venne a creare un mercato di materiali da costruzione in cui gli acquirenti, una volta pattuita la merce da ricevere, erano tenuti a soltanto a soddisfare le somme dovute ai fornitori, mentre questi ultimi, molto più vincolati, si vedevano obbligati a coprire con il prezzo di vendita il costo totale di produzione e l’importo della gabella, cercando di salvaguardare, tuttavia, i margini per un profitto anche minimo. Che a Roma, per larga parte dell’età moderna, sia prevalso un orientamento politico intenzionato a evitare cornici normative troppo rigide per il settore della produzione e dell’approvvigionamento di materiali edilizi4, lo dimostra il fatto che bisogna attendere l’anno 1600 per trovare il primo bando pontificio di carattere generale rivolto a disciplinare alcuni degli aspetti più controversi nel settore della calce. In particolare, il testo in questione si prefiggeva l’obiettivo di imporre un’equivalenza certa fra il rubbio di calce prodotto a Roma e quello prodotto a Tivoli: il peso del primo doveva essere pari a 430 libbre (146,78 kg), mentre il secondo doveva equivalere a 400 libbre (133,56 kg). Lasciando a margine le questioni connesse alle equivalenze tra le differenti unità di misura impiegate, è importante notare che alcune questioni essenziali, quali ad esempio il prez- zo e la qualità del materiale venduto, non divennero mai gli oggetti degli interventi normativi. Se a questa debole ingerenza delle istanze politiche centrali aggiungiamo il fatto che intorno alla produzione della calce non si organizzò una specifica organizzazione corporativa, è possibile comprendere che, nel lungo periodo, a Roma attorno a questo comparto si articolò una fitta rete di pratiche mercantili, sostenute da una pluralità di figure che a vario titolo entravano in relazione tra di loro attraverso la moltiplicazione di patti e di accordi societari. Alla fine del XVIII secolo, si svolse una controversia che oppose i mercanti di calce romani ai maestri muratori: i secondi accusavano i primi di voler dar vita a un vero e proprio monopolio, mentre i mercanti ribattevano di non aver mai costituito un’associazione, neppure per ottenere a prezzi vantaggiosi l’appalto per il taglio della legna delle macchie5. Da questo punto di vista, l’ambiente romano si distingueva nettamente da quello milanese in cui, sino alla metà del XVIII secolo, l’intera filiera della calce rimase saldamente nelle mani di una ristretta schiera di grandi mercanti monopolisti6, che operavano in un mercato dominato dalla presenza delle autorità pubbliche, che a loro volta risultavano committenti di buona parte della produzione dei materiali. In sintesi, nel capoluogo lombardo la produzione dei materiali da costruzione per i cantieri tanto pubblici quanto privati si presentava come un’attività improntata al netto dirigismo; per converso, la situazione romana appare contraddistinta da un apparato produttivo polverizzato in molteplici piccole attività. Questa particolare tradizione romana, fondata sulla massima fluidità dei rapporti economici tra gli individui che partecipavano al processo produttivo, cominciò a configurarsi tra la fine del XIV e gli inizi del secolo successivo, l’epoca in cui, sulla scia dell’apertura dei grandi cantieri rinascimentali, la produzione della calce conobbe una svolta decisiva. La crescita edilizia di Roma a partire dagli inizi del XV secolo determinò un incremento nella domanda di materiali da costruzione e da ciò derivarono alcune novità di grande rilievo. Per secoli, nell’area romana era prevalsa la pratica di dislocare i forni da calce nelle prossimità degli edifici antichi, trasformati in vere e proprie cave a cielo aperto; in questa maniera, tanto in città quanto in campagna, i blocchi di marmo o travertino, senza troppa difficoltà, erano prelevati e utilizzati come materia prima da cuocere. Un esempio concreto di questo modo di procedere si rinviene in un contratto del 28 aprile 1387, nel quale Giovanni Branche, calcararo del rione Pigna, e Nicola Valentini raggiunsero un accordo per “cavare, extrahere et rumpere … omnem et illam totam quantitatem lapidum tiburtinorum sive tiburtine existentium intus et extra montem qui vocatur Mons Grani ultra formas Urbis”. Lo spoglio delle pietre di valore dell’edificio, in questa circostanza il sepolcro detto Monte del Grano sito fuori Porta Furba sulla Tuscolana, doveva essere condotto con la massima cura e Giovanni aveva l’obbligo di spezzare e di ridurre in calce il pietrame, consegnando a Nicola 22 rubbi di calce per ogni centinaio prodotto. Un modello simile di attività si ambientò nelle fornaci del mausoleo di Augusto o della Cripta Balbi, queste ultime localizzate in una zona del centro di Roma7 che, a conferma della densità degli impianti da calcina, durante il Medioevo assunse l’emblematico nome di ‘contrada del calcarario’. Stante la dimensione SUMMARY del fenomeno8, appare superfluo qualsiasi ulteriore commento in merito al peso avuto a Roma, fino alle soglie dell’età moderna, dalla produzione di ‘calce archeologica’. Nonostante numerose resistenze9, la situazione prese a mutare a partire dall’inizio del XV secolo. Dopo secoli di sistematica spoliazione degli edifici dell’Urbe e del suo territorio, nel Rinascimento la proliferazione dei cantieri costrinse a superare i sistemi di rifornimento tradizionali, per cui, in parallelo alla contemporanea evoluzione dell’architettura, si svilupparono nuovi meccanismi commerciali, che cercavano di coprire la domanda proveniente da un mercato edilizio urbano in rapida espansione. Dunque, in tempi relativamente brevi, a Roma si passò dal dominio del rimpiego e da un costruito che faceva largo uso di tutto ciò che si trovava a ‘portata di mano’10, a un sistema molto più strutturato che, nel suo progressivo evolversi, creò le condizioni per il coinvolgimento di una variegata schiera di figure e di competenze specializzate. Non sorprende che a dettare il passaggio dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ siano state le ragioni economiche, ma appare altrettanto evidente la configurazione di un diverso modo di intendere il rapporto con l’eredità classica, che si cercava ora di tutelare anche attraverso la produzione normativa11. In una lettera del 28 aprile 1462, papa Pio II manifestò la propria volontà di conservare l’Urbe “nella sua dignità e nel suo splendore”, vietando a qualsivoglia persona, laica o religiosa, di demolire, distruggere, danneggiare, rompere e convertire in calce “quanto rimane di antichi edifici sopra terra nella città e nel suo distretto”12. Tra l’esigenza di sostenere l’andamento dei cantieri e l’intento politico-ideologico di salvaguardare i pochi edifici antichi ancora integri, la soluzione fu trovata nel trasferire la produzione della calce al di fuori delle mura cittadine, in modo particolare nell’area delle cave di travertino site nella pianura sottostante la città di Tivoli13. Così, la campagna romana divenne lo scenario della progressiva diffusione di attività economiche e di processi produttivi di stampo protoindustriale. Abbandonate per secoli, le profonde fosse delle cave di travertino scavate in età antica si erano riempite d’acqua, contribuendo a trasformare l’intero territorio tiburtino in un’immensa landa coperta di paludi e acquitrini, che rendeva quasi impossibile l’insediamento stabile dei lavoratori. Di conseguenza, per garantire un regolare rifornimento dei cantieri cittadini dell’apprezzato lapis tiburtinus, i papi del Quattrocento promossero una decisa opera di bonifica dell’area, nel duplice intento di rendere possibile l’estrazione dei blocchi da travertino e di agevolare il trasporto del materiale per via fluviale. Una schiera di architetti e di ingegneri fu inviata in loco, per dirigere gli urgenti lavori di pulizia e di sistemazione degli argini dei fiumi Tevere e Aniene, corsi d’acqua destinati a divenire l’asse portante del trasporto della calce e del travertino consumati presso le fabbriche romane. I risultati delle trasformazioni divennero evidenti già alla metà del XV secolo: nel 1459, su 61 maestri calcarari attivi nella zona delle ‘fosse’ di Tivoli, quasi la metà provenivano dalle località vicine, mentre un altro cospicuo gruppo era formato da maestranze lombarde. A prescindere dai numeri, va sottolineato il massiccio coinvolgimento della popolazione del circondario romano nella produzione di calce da destinare al mercato della capitale. In funzione della localizzazione dei luoghi di produzione e della provenienza dei produttori, a partire dalla seconda metà del XV secolo si assistette, infatti, alla crescente ruralizzazione del processo produttivo della calce come, del resto, si evince dai conti riguardanti i cantieri principali, quale quello della fabbrica di San Pietro. Data la pluralità degli operatori coinvolti e l’estrema frammentazione dell’intero ciclo produttivo, si trattò di un ambito di lavoro che non è facilmente schematizzabile: anzi l’edilizia romana in età moderna si connotò precisamente per la sua elevata propensione a polverizzarsi in mille rivoli. Con il passare del tempo, come si ricava dalla ricca documentazione notarile, i forni da calce divennero un elemento ricorrente in molte aziende rurali, consentendo ai loro proprietari non soltanto di incrementare il valore del fondo, ma pure di entrare in possesso di un materiale da inviare al vicino mercato cittadino, ove la domanda in continua ascesa garantiva il raggiungimento di buoni risultati monetari. In altre casi, i proprietari delle tenute sottoscrivevano dei patti con i cavatori, per l’estrazione di blocchi di travertino14 da immettere sul mercato interi o ridotti in scaglie: le scaglie di travertino erano infatti molto richieste da quanti si dedicavano alla produzione di calce giacché esse, date le loro dimensioni, consentivano un migliore e meno dispendioso riempimento delle camere di combustione delle fornaci. E’ inoltre importante rilevare che a Firenze i laterizi e la calce venivano di solito prodotti nei medesimi impianti15; a Roma, invece, i primi rimasero di esclusiva competenza dell’università dei fornaciai16, mentre la seconda venne prodotta e commercializzata da un’eterogenea categoria di piccoli e grandi mercanti che, come s’è detto, non si dotarono mai di una struttura corporativa e nemmeno di una pur minima forma associativa di mestiere. Tra Quattro e Cinquecento, la commercializzazione su grande scala della calce divenne, quindi, un fattore chiave nell’articolazione dei rapporti economici fra la città e la campagna e questa tendenza si rafforzò per via dell’inserimento dell’oligarchia mercantile romana nel redditizio affare della produzione della calce suburbana17. Nel corso di un breve ma incisivo periodo di transizione, si passò da un’economia della calce di piccolo formato, di tradizione medioevale, a uno scenario rinascimentale dominato dai grandi mercanti, i The major construction works that characterised the Renaissance marked a turning point for lime production in Rome. From the 15th century onwards, intense activity in the sector took place in the area around the city, in order to meet the needs of the numerous building projects under way, with particular emphasis on those activities linked to the production of lime, so much so that the lime kilns became a widespread, distinctive feature of large areas of the countryside immediately surrounding the city. While during the Middle Ages lime mortar was mostly obtained using blocks of marble taken from ancient buildings, this traditional system of supply was later gradually abandoned, both as a result of the humanistic culture intent on safeguarding the traces of the past and of the rise in demand. During the modern age, the presence of lime kilns within the city walls was forbidden by municipal legislation, and thus lime production became a rural phenomenon, taking on particular importance in a number of specific areas, for example next to the Tivoli quarries, where travertine chips were used as raw materials in a growing number of kilns. The plain near Tivoli attracted a concentration of specialised workers from other regions, while the rivers (the Tiber and the Aniene) proved to be of fundamental importance in organising the transport of the material to the building yards in the city. As is demonstrated by the case of Tivoli (where a dynamic class of merchants and entrepreneurs sprang up thanks to the opportunities offered by the growing urban market), behind the management of the lime kilns was a complex set of circumstances, the analysis of which allows us to reconstruct the economic context that led to the growth of the construction industry. 31 1 32 quali, grazie alla propria elevata capacità finanziaria, potevano farsi carico del rifornimento dei cantieri cittadini. Del modo di agire di questi operatori abbiamo abbondanti testimonianze concernenti il primo quarto del XVI secolo. Uno di questi produttori di calce era Ludovico Pichi, le cui calcare erano localizzate nella tenuta di Lunghezza, che rappresentava uno snodo nevralgico poiché in quella zona della campagna romana erano stati allestiti svariati porti fluviali destinati al carico del materiale da trasportare lungo l’Aniene. Per capire la dimensione di questo tipo di impegno produttivo, basti sapere che Ludovico Pichi possedeva due forni da calce, grandi quantitativi di sassi e di legname, 126 bufali, tre imbarcazioni, un numero imprecisato di carri e delle capanne per l’alloggio degli uomini impiegati. In totale, il capitale fisso di Ludovico Pichi destinato alla produzione di calce ammontava a oltre 4.000 ducati e sebbene questa cifra non comprenda le retribuzioni della manodopera impiegata nel taglio del combustibile, nella cottura delle pietre e nel trasporto del materiale sfornato, da questi dati si coglie l’elevato sforzo finanziario e organizzativo compiuto dai mercati impegnati in questo settore produttivo. Analogamente emblematica è la strategia attuata da un altro rappresentante di spicco del ceto mercantile cittadino, Giuliano Leni, nominato da Leone X responsabile (“curatore”) del cantiere della fabbrica di San Pietro18. Egli, in effetti, si assicurava l’approvvigionamento della calcina sia acquistando i quantitativi di materiale direttamente dai maestri calcararii, sia partecipando in prima persona al processo produttivo attraverso lo sfruttamento degli impianti, sui quali esercitava il controllo finanziario e gestionale. Quando Giuliano Leni acquistava calce già pronta per l’uso, i patti stipulati con i fornitori si limitavano ad indicare il prezzo del materiale e il luogo di consegna; quando, invece, si rendeva necessario garantire un rifornimento permanente e abbondante di materiale, venivano organizzate delle soluzioni societarie decisamente più articolate: nel 1518 fu sottoscritto un accordo per la produzione, nell’arco di quattro anni, di oltre 13.000 kg di calcina. In questi casi il mercante romano agiva in veste di socio finanziatore che anticipava il denaro e nel contempo provvedeva alla consegna della materia prima, del combustibile e persino dei mezzi di trasporto terrestri e fluviali; dal canto suo, il responsabile della calcara si occupava delle operazioni inerenti alla produzione materiale della calce. Si stabilisce, dunque, una precisa distinzione di ruoli e di competenze tra gli operatori, che rimanda alla netta separazione, che in tal maniera si instaura, tra il capitale mercantile e il lavoro negli impianti romani di calce. In questo contesto, la proliferazione delle attività estrattive e di trasformazione legate all’approvvigionamento di materiale per i cantieri edilizi consente, in certo modo, di trasferire in una vasta zona della campagna romana i tratti fondamentali dei modelli di produzione vigenti nelle regioni caratterizzate da un alto tasso di attività di attività mineraria, cioè quei territori che, per l’elevata occupazione, nonché per le trasformazioni del paesaggio e dell’ambiente che le contraddistinguono, possono essere definiti come distretti proto-industriale19. Nei documenti a disposizione per i primi decenni del Cinquecento non si accenna alla costruzione di edifici e per denominare i luoghi di cottura si utilizza il generico termine di “fossa” che fa pensare, Figura 1 Zone di provenienza del travertino e dalla calce (da Rodolico, Le pietre delle città d'Italia, cit.,p. 379). piuttosto, a cavità scavate nel terreno. Per quanto riguarda la capacità produttiva delle strutture preposte alla fabbricazione della calce, fossero queste forni o “fosse”, le testimonianze fanno riferimento a un variegato ventaglio di possibilità, che va dai 400-500 rubbi per ogni cotta (circa 152 kg) fino ai 6.000 rubbi (oltre i 2.000 kg). Sebbene le informazioni di carattere tecnico scarseggino, tuttavia come si evince della carta dell’agro romano di Eufrosino della Volpaia, a metà del XVI secolo esisteva una massiccia concentrazione di impianti in muratura nell’area delle cave di travertino del tiburtino20: come risulta dalla rappresentazione cartografica, si rende evidente che si trattava di forni in superficie che avevano una forma troncoconica, aperti in alto e con una bocca di carico frontale21. Tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII, lungo la via consolare della Tiburtina si annoveravano quasi 31 fornaci, con una produzione complessiva di materiale di circa due milioni di chilogrammi22. Ancora agli inizi del XX secolo erano visibili i resti – talora imponenti – dei forni calcinatori costruiti in età moderna che, nonostante fossero risultato di una tecnica costruttiva abbastanza semplice, garantivano l’ininterrotta produzione di calcina. Nel corso dell’età moderna e sino alla definitiva industrializzazione del comparto dei leganti per l’edilizia, con la diffusione dei moderni complessi cementiferi, a trarre vantaggio da commercio della calce non fu soltanto un nutrito e ceto di mercanti; anche alcune delle località laziali situate nelle prossimità del bacino estrattivo del travertino seppero rendersi protagoniste di questo dinamico settore produttivo. E’ il caso di Montecelio, luogo dal quale proveniva un’alta percentuale dei calcari e dei lavoratori impiegati nelle differenti fasi del ciclo produttivo e che diede, tra l’altro, i natali a vere e proprie figure imprenditoriali protagoniste del settore, come, ad esempio, Giovanni Paolo Filippini, che nel corso della prima metà del XVII secolo divenne il principale fornitore di calce del cantiere della fabbrica di San Pietro, gestendo diverse calcare nelle quali furono impiegati più di cinquanta lavoratori23. Oltre ad attirare gli interessi dei privati, anche le istituzioni pubbliche locali cercarono di non rimanere fuori dal mercato della calce. Il comune di Montecelio era proprietario di alcuni impianti che appaltava ai produttori, imponendo loro non soltanto di acquistare il combustibile dai boschi comunali ma pure di utilizzare i mulattieri del paese per il trasporto del combustibile, nonché di utilizzare le donne del luogo come manodopera nelle operazioni di carico e scarico delle fornaci24. Per il comune, dunque, le calcare rappresentavano un fattore di lavoro che assicurava a una parte degli abitanti un reddito in moneta; al contempo, però, chiedeva agli appaltatori di destinare una frazione delle somme dovute per l’usufrutto degli impianti all’acquisto di titoli del debito pubblico pontificio o alla creazione di una rendita, da adoperare per coprire le spese di un gruppo di giovani di Montecelio che per motivi di studio soggiornavano permanentemente a Roma. Pertanto, nel lungo periodo, la produzione della calce a Roma e nei territori circonvicini costituì un elemento rilevante sul piano dei processi economici che, per di più, ebbe notevoli e significative ricadute sociali e ambientali, che rimodellarono sia il mondo urbano che quello rurale. N O T E A A. Boato, Costruire “alla moderna”. Materiali e tecniche a Genova tra XV e XVI secolo, Firenze, Insegna del Giglio, 2005, p. 52. Sul settore della calce a Genova anche R. Vecchiattini, La civiltà della calce. Storia, scienza e restauro, Scuola Tipografica Sorriso Francescano, Genova, 2009, pp. 50-65. 2 L. Fieni, Calci lombarde. Produzione e mercati dal 1641 al 1805, Firenze, Insegna del Giglio, 2000. Sull’impiego della calce nei cantieri italiani, S. Baragli, L’uso della calce nei cantieri medievali (Italia centro-settentrionale): qualche considerazione sulla tipologia delle fonti, “Archeologia dell’architettura”, 3 (1998), pp. 125-139. 3 M. Vaquero Piñeiro, La gabella dei calcarari. Note sulla produzione di calce e laterizi a Roma nel Quattrocento, in Maestranze e cantieri edili a Roma e nel Lazio. Lavoro, tecniche, materiali nei secoli XIII-XV, a cura di A. Lanconelli e I. Ait, Roma 2002, pp. 137-154. 4 Per la fiscalità applicata nelle città lombarde alle calci cfr. Fieni, Calci lombarde, cit., pp. 23-34. 5 M. Vaquero Piñeiro, Per la storia di un gruppo imprenditoriale romano in età moderna: la produzione della calce, «Roma moderna e contemporanea», VI/3 (1998), pp. 291- 310. 6 Fieni, Calci lombarde, cit., pp. 35-45. 7 Soltanto dopo la prima metà del XVI secolo le autorità pontificie cominciarono a vietare l’esistenza di forni da calce all’interno del recinto urbano, Regesti di bandi, editti, notificazioni e provvedimenti diversi relativi alla città di Roma ed allo Stato Pontificio, I, (1234-1605), Roma, tip. Cuggiani, 1920, p. 26. Ancora nel 1541 la Camera Apostolica autorizzò la sistemazione di forni da calce all’interno dei resti del palazzo dei tribunali di Bramante in via Giulia, F. Cantatore, Il riuso del palazzo dei tribunali di Roma nel XVI secolo, “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 32 (1998), pp. 69-76. 8 R. Lanciani, La distruzione di Roma antica, Milano, Edizioni del Borghese, 1971; F. Bougard, E. Hubert, “Nivibus concolor, spongiis levior”: la fabrication de la chaux en Italie Centrale au Moyen Âge, in Liber amicorum. Études historiques offertes à Pierre Bougard, Arras, 1987, pp. 57-64 ; P. Lenzi, “Sita in loco qui vocatur calcararia”: attività di spoliazione e forni a Ostia, “Archeologia medievale”, XXV (1998), pp. 247-263. 9 A riprova di una pratica saldamente consolidata nel contesto romano, ancora alla fine del XVI secolo si parlava di demolire il mausoleo di Cecilia Metella al fine di reperire blocchi di pietra con cui ottenere della calce, A. Antinori, Il rapporto con l’antico nella Roma di Sisto V: la controversia sulla demolizione della tomba di Cecilia Metella, “L’architettura. Storia e documenti”, 1-2 (1989), pp. 55-63. 10 D. Esposito, Tecniche costruttive murarie medievali: murature “a tufelli” in area romana, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1998. 11 Cfr. M. Franceschi, La magistratura capitolina e la tutela delle antichità di Roma nel XVI secolo, “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, 109 (1986), pp. 141-150. 12 M. De Angelis d’Ossat, Pio II e le antichità di Roma, in Enea Silvio Piccolomini. Arte, storia e cultura nell’Europa di Pio II, a cura di R. Di Paola, A. Antoniutti, M. Gallo, Roma, 2006, pp. 413-422. 13 Sui giacimenti di travertino romano, N. Pellati, I travertini della campagna romana, Roma, tip. Nazionale, 1883; F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze, F. Le Monnier, 1953; G. Bellezza, L’industria del travertino romano nella prospettiva geografica, Roma, [s.n], 1973. 14 Sulla distinzione tra “sasso” e “scaglia” cfr. Fieni, Calci lombarde, cit., pp. 77-79. 15 R. Goldthwaite, La costruzione della Firenze rinascimentale: una storia economica e sociale, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 264-265. 16 M. Vaquero Piñeiro, L’università dei Fornaciai e la produzione di laterizi a Roma tra la fine del ‘500 e la metà del ‘700, “Roma moderna e contemporanea”, IV/2 (1996), pp. 471-494. 17 I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Costruire a Roma tra XV e XVII, in L'edilizia prima della rivoluzione industriale, XXXVI Settimana di Studi, Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 229-284: 279-280; Vaquero Piñeiro, Per la storia di un gruppo imprenditoriale, cit., pp. 296-301. 18 I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2001, pp. 182-190. 19 R. Vergani, Industria rurale, proto industria o industria ante litteram? L’argento alto-vicentino tra Quattro e Cinquecento, in Le vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, a cura di G.L. Fontana, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 467-475. 20 Per un utile confronto con la Lombardia, Fornaci da calce in provincia di Varese. Storia, conservazione e recupero, Daverio (Va), Commissione Europea - Centro Comune di Ricerca – Rotary International, 1995; The limekilns history: le fornaci da calce del Lago Maggiore, a cura di A. Bandiralli – G. Armocida, Varese, (Varese) European Commission – Joint Research Centre, 1997 21 Sulle caratteristiche tecniche degli impianti di cottura cfr. Fieni, Calci lombarde, cit., pp. 79-83. 22 C.P. Scavizzi, Edilizia nei secoli XVII e XVIII a Roma. Ricerca per una storia delle tecniche, Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali, 1983, p. 29. Per la situazione del comparto del travertino tiburtino agli inizi del XX secolo cfr. S. Olezzante, M. Mari, Gli uomini del travertino. L’attività estrattiva nell’area di Guidonia e di Tivoli (1871-1997), Roma, Ediesse, 1998. 23 Vaquero Piñeiro, Per la storia di un gruppo imprenditoriale, cit., pp. 304-310. 24 Archivio di Stato di Roma, Buon Governo, II serie, b. 2817. 1 PROFILO AUTORE Manuel Vaquero Piñeiro, ricercatore di Storia Economica, insegna Storia dei Sistemi Economici nelle facoltà di Scienze Politiche di Perugia e Terni. Le sue ricerche si rivolgono allo studio dell’edilizia da un punto di vista economico; in particolare, si occupa degli aspetti organizzativi del lavoro e della produzione di materiali e di altri aspetti rilevanti, quali il finanziamento delle fabbriche, il rapporto fra cantieri e spazio urbano e i collegamenti esistenti fra la rendita immobiliare e le trasformazioni architettoniche delle città. Tra i suoi lavori più recenti: Borgo tra Medioevo e Rinascimento: spazio urbano e attività edilizie, in “Rome des quartiers”: des vici aux rioni. Cadres institutionnels, pratiques sociales, et requalifications entre Antiquité et époque moderne, édité par M. Royo, E. Hubert et A. Bérenger, Paris, De Boccard, 2008, pp. 351-366; “Ad usanza di cave”: società per l’estrazione di pietre e materiali antichi a Roma in età moderna, in Il reimpiego in architettura. Recupero, trasformazione, uso, a cura di J.F. Bernard, P. Bernardi e D. Esposito, Roma, Ecole Française di Rome, 2009, pp 523-529. 33 EXISTEN DIFERENCIAS EN LAS CALES APAGADAS POR DISTINTOS MÉTODOS TRADICIONALES?: LA EXPERIENCIA DE ZONE (BS) J. R. Rosell 1, L. Haurie 1, M. Bosh 1, A. Rattazzi 2, I. R. Cantalapiedra1 E 1 2 Escola Politècnica Superior d’Edificació, Universitat Politècnica de Catalunya Forum Italiano Calce - La Banca della Calce, Bologna 1. INTRODUCCIÓN l día 31 de julio de 2009 se realizó, en Zone (Italia), una jornada organizada por el Forum Italiano Calce, a la que fuimos invitados un equipo de profesores de la Universitat Politècnica de Catalunya, con el objetivo de conocer diferentes sistemas tradicionales de apagado de la cal, obtener datos respecto a los distintos comportamientos térmicos y, finalmente, tratar de identificar diferencias mesurables entre las cales apagadas con los diversos sistemas. La población de Zone se encuentra en plena Via Valeriana, la vía romana que unía la ciudad de Brescia con la Val Camonica, un valle de origen glaciar, caracterizado por las grandes extensiones de piedra calcárea sedimentaria. Esta circunstancia geológica ya propició en su momento el desarrollo de las actividades extractivas y de calcinación de la abundante piedra caliza, una tradición que ha persistido hasta la actualidad gracias a los trabajos de recuperación de las técnicas de construcción tradicionales y en concreto de las que están relacionadas con la cal de los propios habitantes del valle. Aprovechando la circunstancia de que por primera vez se encendía un antiguo horno de cal (restaurado por los hermanos Cagni Murì en el año 1997), el Forum Italiano Calce organizó un taller en el que se mostraban distintas maneras de proceder al apagado de la cal una vez ésta era extraída del horno: el sistema por aspersión en balsa de madera o ordinario; el sistema “Grande aqua” y, finalmente, el sistema por inmersión breve. El método de apagado por aspersión (Z2) consistió en extender terrones de cal en una balsa de madera de unos 3 x 6 m y 0,4 m de altura, desechando las piedras aparentemente mal cocidas y las impurezas. A continuación se regó abundantemente la cal, se desmenuzaron los fragmentos más grandes con la ayuda de palas de madera para facilitar la mezcla y la disgregación de los terrones, produciéndose así el proceso de apagado. La pasta de cal obtenida se clasificó por tamaños de partícula a partir: del tamizado en continuo, lo que permitió eliminar los “grappiers” y las impurezas; y, posteriormente por decantación, en dos etapas previas al almacenado. Figura 1 Apagado por aspersión en balsa de madera. 1 2 El segundo sistema utilizado, llamado “Grande aqua” (Z3) consistió en realizar un pequeño pozo en el suelo de dimensiones aproximadas 1,2 x 0,6 m y 1 m de profundidad que se llenó, hasta la mitad, con las piedras calcinadas procedentes del horno de cal. Se vertió en el pozo una cantidad aproximada de 200 litros y se esperó a 3 34 4 Finalmente, el tercer sistema estudiado durante la jornada fue el denominado “por inmersión breve” (Z4), consistente en llenar un cesto de mimbre para unos 15/20 litros hasta un cuarto de su capacidad, e introducirlo en un pozo de agua hasta su completa Figura 2 Etapa de decantación de la lechada de cal. que la cal empezase a bullir. Pasados unos minutos se vertieron otros 400 litros (la capacidad de dos bidones) y se removió la pasta de cal. En algunas experiencias previas realizadas con este sistema, la exotermia del proceso ha provocado una explosión de cierta virulencia. Figuras 3 y 4 Proceso de apagado “Grande aqua”. inmersión. Se retiró casi inmediatamente el cesto y se dejó a la intemperie mientras la cal se hidrataba, aumentando de volumen y temperatura durante un proceso que puede llegar a durar varias horas. 5 6 2. MATERIALES Y TÉCNICAS DE ANÁLISIS De la cal obtenida en el horno tradicional de Zone se tomaron diversas muestras: unos fragmentos de piedra calcinada recién salida del horno (Z1); una muestra (Z2) de la cal apagada con el sistema por aspersión, tomada después del segundo tamiz; una muestra de cal (Z3) obtenida por el sistema “Grande aqua”; y una Tabla 1. Identificación de las muestras Muestra Z2 Z3 Z3 Z1 1:2 Z1 1:3 Z1 1:4 Z1 1:5 Figuras 5 y 6 Proceso de apagado por inmersión breve. muestra de cal (Z4) procedente del sistema de apagado por inmersión. La muestra de cal Z1 (piedra calcinada) se ha sometido a diversos procesos de apagado en laboratorio a partir de distintas proporciones agua/cal. La siguiente tabla muestra la nomenclatura de las Proceso de apagado Por aspersión “Grande aqua” Immersion breve Lab, Relación: 2:1 (Agua:cal viva) Lab, Relación: 3:1 (Agua:cal viva) Lab, Relación: 4:1 (Agua:cal viva) Lab, Relación: 5:1 (Agua:cal viva) distintas muestras: Para el registro de temperaturas de los trabajos realizados in situ y en laboratorio se utilizó: • Un equipo de termovisión InfraCAM SD de FLIR Systems, Tipo de cal Cal en pasta Cal en pasta Cal en polvo Cal en pasta Cal en pasta Cal en pasta Cal en pasta que permite medir la radiación infraroja producida por un elemento. El receptor de infrarojos ha sido ajustado para una emisividad de 0,9. El rango de temperaturas del sensor de la cámara es -15ºC< T <350ºC. Nel giugno 2009, a Zone (BS), è stato condotto lo spegnimento di una calce cotta in una fornace tradizionale degli inizi del ‘900, nell’ambito di un corso organizzato dal Forum Italiano Calce. SOMMARIO La calce è stata spenta con diversi metodi: aspersione, immersione e grande acqua. Durante lo spegnimento, sono state condotte misure di temperatura tramite termometri e termocamera. I campioni di calce spenta sono stati caratterizzati attraverso molteplici tecniche di labororatorio: diffrazione di raggi X (XRD), fluorescenza di raggi X (XRF), termogravimetra, superficie specifica (BET), granulometria laser, microscopiaelettronca a scansione (SEM). Contemporaneamente, in laboratorio, la calce viva prodotta a Zone è stata spenta utilizzando diversi quantitativi di acqua, in modo da simulare i distinti sistemi di spegnimento tradizionali e studiare gli effetti della termperatura a cui avviene il prcesso sulla qualità della calce spenta ottenuta. SUMMARY Il confronto tra i dati, permette di evidenziare che i diversi metodi di spegnimento determinano differenze importanti sulla calce spenta, riferibili soprattutto alla dimensione e alla distribuzione granulometrica dei cristalli. In June 2009, an experiment was conducted in Zone (Brescia), consisting of the slaking of lime fired in a traditional early twentieth century kiln, as part of a course organised by the Italian Lime Forum. The lime was slaked using different methods: aspersion, immersion and excess water. During the slaking process, temperature measurements were carried out using thermometers and heat cameras. The samples of slaked lime were characterised using a range of laboratory techniques: X-ray diffraction (XRD), X-ray fluorescence (XRF), thermogravimetry, specific surface (BET), laser granulometry, scanning electron microscope (SEM). At the same time, in a laboratory environment, the quicklime produced in Zone was slaked using different amounts of water, so as to simulate the different traditional slaking systems and to study the effects of the temperature at which the process is carried out on the quality of the lime paste obtained. The comparison of the two sets of data shows that the different slaking methods result in important differences in the lime paste obtained, especially in terms of the size and granulometric distribution of the crystals. 35 • Un equipo de lectores de temperatura mediante termopares tipo K con almacenamiento de datos. Parar caracterizar las muestras de cal se utilizaron las siguientes técnicas: • Fluorescencia de rayos X (FRX) utilizada para determinar la composición química de la muestra Z. El equipo usado es un espectrofotómetro secuencial Philips PW2400. • Difracción de rayos X (DRX). Los espectros de las muestras Z2, Z3 y Z4 se obtuvieron mediante radiación con Cu Ka 1 con un difractómetro Panalytical alfa powder. Las muestras de cal fueron secadas en atmósfera de nitrógeno para prevenir la carbonatación. • La distribución del tamaño de partículas se ha determinado con un equipo Beckman Coulter LS 13 320. El disolvente utilizado es agua y se utilizaron ultrasonidos para homogeneizar la muestra y deshacer las agregaciones. • La superficie específica ha sido medida con el método BET con un equipo Micromeritics Tristar 3000. • Para el análisis termogravimetrico (TGA) y el análisis termodiferencial (DTA) se ha utilizado una termobalanza Mettler Toledo TGA- SDTA 851e/SF/1100, en aire, con una rampa de incremento de temperatura de 20 ºC/min para un rango de 25 a 1000ªC. • La morfología superficial de las muestras ha sido observada mediante un microscopio electrónico de barrido (SEM) Hitachi H-4100FE. • La viscosidad de las muestras de pasta de cal Z2 y Z3 se ha obtenido con un viscosímetro rotacional Thermo Haake Viscotester 7L Plus. Las muestras se han dispersado en agua hasta un 30 % de contenido sólido. La lechada resultante ha sido homogeneizada durante 2 minutos y analizada usando los vástagos L3 y L4. Durante 4 minutos se somete la muestra a una rotación de 10 r.p.m. y se toman datos de tiempo (s.), par(Pa) y viscosidad (Pa.s). El valor de la viscosidad se determina a partir del promedio de los últimos 20 seg. 3. RESULTADOS Y DISCUSIÓN 3.1 Temperaturas registradas in situ y en laboratorio. Se realizaron lecturas de temperaturas en el momento de la descarga del horno. A pesar de que el horno llevaba una semana apagado las temperaturas de la cal viva aún se conservaban cercanas a los 90ºC (figuras 7 y 8). 7y8 Figuras 7 y 8 Termografía correspondiente a la zona de descarga del horno. Figura 9 Diversas termografías tomadas durante el apagado de la cal por aspersión y toma de temperaturas con termopares correspondiente al mismo proceso. Como se puede observar en las imágenes (Figura 9), el proceso de apagado por aspersión comporta una heterogeneidad en cuanto a las temperaturas registradas, relacionadas con la cantidad de agua. En aquellas zonas en las que la cal está completamente ane- 9 gada, el calor se disipa rápidamente por lo que las temperaturas registradas son más bajas, mientras que en aquellas zonas no anegadas, las temperaturas son superiores, alcanzando en algunos puntos los 100ºC o más. 10 Figura 10 Termografía tomada durante el proceso de decantación de la lechada de cal, previa al tamizado. 36 En cambio, durante el proceso de decantación y antes del tamizado de la lechada de cal, las lecturas con la cámara termográfica 11 muestran unas temperaturas muy homogéneas y que oscilan entre los 40/50 ºC (figuras 10 y 11). 13 12 Figura 12 Termografía tomada durante el proceso de apagado con el sistema “grande aqua”. En cuanto al sistema de apagado “grande aqua”, en el que la cal se encuentra completamente anegada, la temperatura no supera los 100ºC. También se ha observado que, durante los primeros minutos del proceso, la temperatura baja de manera continuada a medida que la pasta de cal se remueve, pero al cabo de una hora se ha podido comprobar que la temperatura vuelve a subir aproximadamente unos 10 ºC (de 40ºC a 50ºC) (figuras 12 y 13). 14 Figura 14 Termografía tomada durante el proceso de apagado con el sistema “grande aqua”. A partir del sistema de apagado por inmersión breve se consigue generar cal en polvo. La escasez de agua utilizada en este proceso explica las altas temperaturas que se generan en el interior de 15 la masa (hasta 350ºC) y que se mantienen por encima de los 100ºC a lo largo de las 3,5 horas siguientes desde el inicio del proceso (figuras 14 y 15). En los procesos de apagado realizados en laboratorio a partir de las muestras Z1, la temperatura máxima alcanzada disminuye con el aumento del agua añadida, pero en ningún caso se superan los 75 ºC para las distintas relaciones cal/agua estudiadas (figura 16). 3.2 Caracterización de las cales. El análisis por FRX de la muestra Z1, obtenida por calcinación de roca dolomítica en horno tradicional, revela la presencia mayoritaria de calcio y magnesio. La composición expresada en forma de porcentajes de óxidos es de 57 % de CaO y de 38 % de MgO. 16 17 Los espectros de DRX de las muestras apagadas in situ se presentan en las figuras 17 y 18. En todos los casos la fase cristalina principal se corresponde con el hidróxido de calcio (portlandita). Asimismo, en los espectros de las muestras Z2 y Z3 también apa- 18 recen los característicos picos de hidróxido de magnesio (brucita), mientras que para la Z4 se distinguen los óxidos de magnesio originales (periclasa) y no se detectan hidróxidos de magnesio. Este hecho puede explicarse en relación con la diferente cinética 37 de hidratación del CaO y del MgO. La hidratación de la cal viva para formar Ca(OH)2 es más rápida que la hidratación de la “periclasa” como ocurre a través de un mecanismo que implica cuatro fases [Yukitaka Kato y otros. Applied Thermal Engineering, 16, (11), 853-862, 1996]. Si se produce una falta de agua durante el apagado, como sucede en el caso del proceso por inmersión breve (Z4), el Ca(OH)2 se puede formar antes que el Mg(OH)2. Por otro lado, la hidratación suave de la periclasa puede explicar el incremento diferido de temperatura representado en la figura 13 de la muestra Z3, obtenida mediante el proceso de apagado “grande aqua”. En este caso, la adición súbita de gran cantidad de agua y la ausencia de agitación puede provocar que las partículas de CaO, más reactivas, se hidraten antes y, en consecuencia, los núcleos de MgO lo hagan de forma diferida y de manera menos exotérmica. 20 19 La figura 19 ilustra la distribución volumétrica del tamaño de partículas para las muestras Z2 y Z3 y para las dos fracciones de tamizado secas de las muestras Z4: Z4.1 (> 80µm) y Z4.2 (< 80µm). Como puede observarse en la figura 20 el proceso de apagado por inmersión breve permite mayores tamaños de partícula, mientras que el sistema de apagado por aspersión, con gran- 21 La “descomposición térmica” del hidróxido de magnesio y del hidróxido de calcio se ha producido alrededor de los 340ºC y 450ºC respectivamente. Este hecho puede observarse en el análisis termogravimétrico de las muestras Z2 y Z3 ya que se distinguen en la figura 21 ambos escalones. Asimismo se pude evaluar el agua contenida en la pasta de cal. La cuantificación de los porcentajes de Ca(OH)2, Mg(OH)2 y agua de cada muestra presenta mayor cantidad de Ca(OH)2 y agua en la muestra Z2. Este hecho bien podría relacionarse con una intercalación mayor de agua en la estructura del hidróxido des aportaciones de agua, agitación y decantación, proporciona valores de tamaño de partícula inferiores. Aunque se han podido observar partículas pequeñas en todas las muestras, la amplia distribución del tamaño de partículas, con colas de distribución superiores a 40 µm, probablemente indica la existencia de aglomerados. cuando el apagado se produce bajo condiciones menos agresivas. Siguiendo esta tendencia, los registros de viscosidad que se muestran en la figura 22, revelan que, pasados los tres meses de edad, la muestra Z2 tenía una viscosidad significativamente superior a la de la muestra Z3, comparable con las de otras cales más antiguas. Las diferencias en las características morfológicas obtenidas de las muestras observadas con SEM (figura 23), con formas de partícula más geométricas y definidas para la muestra Z2, reafirman los resultados de viscosidades y de presencia de agua obtenida con el TGA. Figura 22 38 22 Resultados de las medidas de viscosidad. La muestra EQ corresponde a una cal caliza en pasta de 25 años de envejecimiento, la mustra AK corresponde a una cal caliza en pasta de 3 años de envejecimiento y la muestra P90 corresponde a una cal en polvo CL90. Figura 23 23 Imágenes obtenidas por SEM de las tres muestras. 4. CONCLUSIONES Los tres productos de cal hidratada estudiados, producidos a partir de una misma cal viva en terrones, y apagada de diferentes maneras, han mostrado algunas diferencias significativas: • De composición. El apagado por inmersión breve no ha producido la hidratación de la periclasa por falta de agua inicial. La elevada temperatura generada por la hidratación del CaO evapora el agua. No hay diferencias de composición entre los productos obtenidos por los otros sistemas de apagado (Ca(OH)2 y Mg(OH)2) • De comportamiento reológico. El sistema de apagado en balsa produce cales de mayor viscosidad a 3 meses de envejecimiento. 5. AGRADECIMIENTOS Los autores quieren dejar constancia de su agradecimiento al Foro Italiano Calce, por permitirles participar en el workshop organizado en Zone. Asimismo agradecer a la Generalitat de Catalunya por el financiamiento obtenido en el proyecto GICITED 2009 SGR 878, y al Ministerio de Educación y Ciencia (Spain), por el proyecto FIS2008-06335-C02-01. • De tamaño de partícula. El sistema de apagado en balsa produce cales más finas, de menores tamaños de partícula. PROFILO AUTORI Joan Ramon Rosell, Architetto Tecnico, Ingegnere in processi industriali e Direttore del Laboratori dei Materiale della EPSEB; Laia Haurie, Dottoressa in Chimica; Montse Bosch, Architetto Tecnico e Laureata in Scienze Umane; Inma R. Cantalapiedra, Dottore in Fisica e Architetto Tecnico. Sono membri del Gruppo Interdisciplinare di Scienza e Tecnologia per la Costruzione (GICITED) e lavorano e insegnano presso la Scuola di Ingegneria delle Costruzioni a Barcellona e all'Università Politecnica della Catalogna (UPC). Il gruppo di ricerca sta sviluppando progetti relativi ai materiali da costruzione, dai prodotti di base all'applicazione della scienza e dei metodi diagnostici di costruzione, manutenzione e intervento nel patrimonio architettonico. Andrea Rattazzi, laureato in Scienze Geologiche, vive a Bologna dove esercita attività di ricerca e consulenza scientifica per la conservazione e il restauro del patrimonio culturale. Dal 1996 al 2006 lavora presso i laboratori scientifici della Fondazione Cesare Gnudi, dove assume il ruolo di direttore nell´ultimo triennio. E´ professore a contratto alla Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio - DiAP Politecnico di Milano, titolare dell´insegnamento di "Chimica dei materiali". Partecipa ai lavori ed è referente del GS Malte dell´UNI-Beni Culturali. E' presidente del Forum Italiano Calce e socio fondatore de “la Banca della Calce”. 39 L’IDRAULICITÀ DELLE MALTE: IL CONTRIBUTO DELLA DIAGNOSTICA MINERO-PETROGRAFICA *Fabio Fratini, **Elena Pecchioni, *Emma Cantisani *ICVBC CNR (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali), via Madonna del Piano 10, Sesto Fiorentino-Firenze **Dipartimento di Scienze della Terra-Università di Firenze, via La Pira, 4 -50121 Firenze L Introduzione 40 e malte sono definite come una "miscela di leganti inorganici od organici, aggregati prevalentemente fini, acqua ed eventuali aggiunte di additivi organici e/o inorganici (o miscela di solo legante e acqua) in proporzioni tali da conferire all’impasto, allo stato fresco un’opportuna lavorabilità e, allo stato indurito, adeguate caratteristiche fisiche (porosità, permeabilità all’acqua ecc.) meccaniche (resistenza, deformabilità, aderenza ecc.), di aspetto, durabilità ecc. (Documento UNI - Norma 10924). I leganti vengono anche definiti materiali “litoidi”, in quanto derivano dai materiali litici, ad essi assomigliano e come tali si comportano. Si ottengono per cottura di rocce carbonatiche e solfatiche. La classificazione tradizionale dei leganti si basa sulla loro capacità di far indurire l’impasto all’aria o anche a contatto con l’acqua: da ciò nasce la suddivisone in leganti aerei e leganti idraulici. In particolare una malta idraulica è una miscela di legante e aggregato con caratteristiche tali da essere “idraulica” cioè di far presa anche in assenza di aria e di essere resistente all’umidità e all’acqua. L'idraulicità di una malta consente una maggiore velocità di presa ed è associata a particolari doti di compattezza, durabilità e resistenza meccanica. Nell'antichità e fino al XV sec. le malte idrauliche erano realizzate con calce aerea a cui venivano aggiunti composti idraulicizzanti. Solo a partire dal XVI sec. si inizia a parlare di calci con caratteristiche idrauliche prodotte dalla cottura di calcari impuri mentre dalla seconda metà del XIX sec. vengono sviluppati i moderni leganti idraulici (es. cemento Portland). In questa nota si vogliono ricordare le molteplici varietà di malte idrauliche utilizzate nel corso dei secoli e le metodologie analitiche utilizzate per studiarne l’idraulicità con particolare riferimento allo studio petrografico al microscopio ottico in luce trasmessa, metodo efficace per una caratterizzazione approfondita del materiale e che allo stesso tempo si avvale di una tecnologia non sofisticata e costosa. Questa tecnica, pur non permettendo di quantificare l'idraulicità di una malta, rende possibile riconoscere se una malta è idraulica individuando l’origine di tale idraulicità (presenza di fasi cristalline o amorfe di silicati di calcio idrati, relitti di clinker non idratato, additivi idraulicizzanti con bordi di reazione). Le malte e i leganti idraulici nel tempo I leganti aerei, costituiti da idrossido di calcio (calce calcica) o idrossidi di calcio e di magnesio (calce magnesiaca), in ambiente saturo di acqua, rimangono in forma di idrossidi e quindi non riescono a far presa. I leganti idraulici invece possono far presa e indurire in ambienti molto umidi o sott’acqua in quanto costituiti da idrossido di calcio e silice/silicati amorfi o microcristallini reattivi, in grado di reagire in assenza di CO2 formando silicoalluminati di calcio idrati (CSH). In passato, come precedentemente ricordato, gli impasti idraulici erano ottenuti aggiungendo alla normale calce aerea i composti idraulicizzanti a base di silice ed allumina attive (cioè allo stato amorfo). Tali sostanze reagiscono con la calce durante la carbonatazione dando luogo alla formazione di prodotti resistenti in condizioni di umidità. Queste calci secondo la normativa attuale (UNI10924, 2001), vengono classificate come “calci aeree e materiali a comportamento pozzolanico” e rientrano nelle calci con proprietà idrauliche. I Greci utilizzavano la pietra pomice e altro materiale piroclastico dell’Isola di Thera (oggi Santorini) o frammenti di laterizi. I Romani impiegarono abbondantemente materiale vulcanico dei Colli Albani (harena fossicia) e dell’area napoletana, in particolare dalla zona di Pozzuoli, dove veniva estratta la pozzolana (pulvis puteolana), un tufo trachitico a struttura pomicea, grigio- bruno, poco coerente. Quando non erano disponibili materiali naturali, i Romani utilizzavano anche prodotti idraulicizzanti artificiali come laterizi o altri prodotti ceramici macinati (che prendono il nome di cocciopesto). Questi erano molto in uso soprattutto per la realizzazione di pavimenti, intonaci, rivestimento di cisterne e acquedotti. Il cocciopesto conferisce, come la pozzolana naturale, proprietà idraulicizzanti in quanto ricco di silice e allumina attive che combinandosi con il calcio permettono la formazione di CSH. Altro composto con proprietà idraulicizzanti citato da Vitruvio è il carbunculus; probabilmente un tufo bruno dell' Etruria ricco in zeoliti, calcinato, utilizzato per le malte delle costruzioni in terraferma. Per usi particolari (impermeabilizzazione di vasche, cisterne, acquedotti) i Romani utilizzavano anche additivi più reattivi come farina fossile e caolino. La farina fossile è costituita da radiolari e diatomee, organismi unicellulari a guscio siliceo. Il caolino (Al2O3.2SiO2) è un minerale argilloso biancastro, ma a differenza della pozzolana, del cocciopesto e della farina fossile, che pos- SUMMARY sono essere aggiunti direttamente alla malta, prima di essere utilizzato deve essere cotto a circa 700 °C e macinato. A Genova venne utilizzato insieme all’allume fin dal XIII-XV sec.. I genovesi infatti dal 1275 al 1455 a Focea, in Asia minore possedevano grandi giacimenti di allume. Nel XV sec. vennero ad aggiungersi i giacimenti di allume dei Monti della Tolfa (prima monopolio papale) che garantivano caolino in gran quantità e che vennero sfruttati fino al XVI sec. L’aggiunta alla calce di caolino cotto (metacaolino) e di allume ha reso le malte dei moli medievali del porto di Genova (XIV-XV sec.) particolarmente resistenti all’azione fortemente degradante del mare e dei molluschi litofagi (Cucchiara et al., 1993). Si tratta delle così dette malte alla porcellana, rinvenute anche in altre opere idrauliche fra cui l’acquedotto pubblico di Genova. L’impiego di metacaolino come idraulicizzante aggiunto al grassello di calce è tornato in auge in questi ultimi anni (Pecchioni et al., 2008). Solo dalla seconda metà del XVI sec. si inizia a parlare di calci idrauliche ottenute dalla cottura di calcari impuri, solitamente calcari marnosi, cioè calcari contenenti una percentuale di argilla variabile tra il 5 e il 20%. Tale composizione (calcare + argilla) permette la formazione, a temperature di cottura di 900-1000°C, di silicati ed alluminati di calcio reattivi con l’acqua e in grado di fornire caratteristiche idrauliche. Vincenzo Scamozzi e Andrea Palladio (XVI-XVII sec.) parlano di calce padoana nigra (padoana perché ottenuta dalla cottura di pietre marnose dei Colli Euganei). Queste calci dovevano essere lavorate in modo diverso dalla calce bianca ottenuta dalla cottura dei ciottoli calcarei del Piave; questa infatti si doveva spegnere lentamente e mescolare di continuo per poi lasciarla riposare in un luogo umido, all’ombra e coperta di sabbia leggera, in quanto risultava tanto migliore quanto più veniva stagionata. La calce padoana invece essendo idraulica, appena spenta doveva essere subito utilizzata altrimenti, in presenza di l'umidità faceva presa prima dell'uso. Anche Philibert Delorme alla metà del XVI sec., nella sua opera sull’architettura citerà le proprietà idrauliche ottenute dalla cottura dei calcari impuri. Calci idrauliche naturali del XVIII-XIX sec. sono anche le calci "selvatiche" della Liguria e le calci “morette” del nord Italia (Mannoni, 2002; Vecchiattini, 2009). La preparazione di una diversa malta idraulica ottenuta senza l’aggiunta di materiali idraulicizzanti, viene descritta, nella metà del XVIII sec., dall’ingegnere francese Loriot, appassionato studioso di calci romane che propose una miscela costituita da grassello, sabbia di fiume e un terzo di calce viva in polvere; la reazione esotermica della calce favoriva un attacco basico della superficie dei granuli dell’aggregato silicatico, con formazione di composti di tipo idraulico. Si può quindi definire come una idraulicizzazione in opera. A partire dalla seconda metà del '700 in Inghilterra, in piena rivoluzione industriale, la ricerca si concentra principalmente sul set- tore dei leganti allo scopo di mettere a punto materiali che avessero le doti di durabilità ed idraulicità delle antiche malte romane. Nel 1756 John Smeaton fu il primo ad evidenziare la relazione tra idraulicità e materiale silico alluminoso delle pietre da calce. Parker nel 1796 brevetta un legante a presa rapida denominato “cemento Romano” ottenuto dalla cottura a temp < 1000°C di calcari marnosi con il 25 % di argilla. Vicat nel 1818 sperimenta la cottura a temperatura di ~ 1000 °C di miscele di calcare e argilla osservando che maggiore è la quantità di argilla, maggiore è la capacità di far presa in acqua. John e William Aspdin nel 1824 brevettano il “proto cemento Portland” (così chiamato per la somiglianza dopo l’indurimento con la pietra della cittadina di Portland in Inghilterra) cuocendo a temperatura di 850-900 °C una miscela di calcare e argilla. Infine I.C. Johnson nel 1845 utilizzando il residuo vetrificato cotto al di sopra di 1000 °C (clinker, dapprima scartato) ottiene provini di maggiore resistenza meccanica e individua la temperatura di cottura e il dosaggio di calcare e argilla ottimale del “meso cemento Portland”. Idraulicità e Diagnostica Fino all' inizio degli anni '80 del XX sec., la caratterizzazione delle malte storiche era principalmente basata su tradizionali analisi chimiche per via umida. Tale tipo di indagine poneva però problemi di interpretazione dei dati analitici per la particolare natura delle malte, costituite da un legante ed un aggregato spesso difficili da separare e a volte della stessa natura chimica (es legante calcitico e aggregato carbonatico). E' sembrato quindi più appropriato uno studio di carattere minero-petrografico e chimico con metodologie fisiche assimilando le malte ai materiali lapidei naturali (Pecchioni et al, 2008). Per quanto riguarda lo studio dell’'idraulicità delle malte, è generalmente accettato che la stima migliore si ottenga attraverso l’analisi chimica per via umida e strumentale. Tuttavia l' analisi petrografica al microscopio ottico in luce trasmessa (OM) risulta di notevole ausilio in quanto, anche se non permette di quantificare l'idraulicità, permette di riconoscere se una malta è idraulica e di individuare l’origine della sua idraulicità. E' possibile infatti riconoscere la presenza di CSH cristallino e amorfo, cristalli di portlandite, relitti di clinker non idratato, bordi di reazione con composti idraulicizzanti, evidenziando la natura idraulica dell' impasto. Evidenza petrografica di idraulicità in malte realizzate con leganti non idraulici Numerosi sono i materiali a comportamento pozzolanico riconoscibili al microscopio ottico in luce trasmessa, alcuni volutamente aggiunti, come tufi, pomici, ceneri vulcaniche, cocciopesto, farina fossile (diatomiti), scorie di forgiatura, scorie di fonderia, caolino cotto, argilla cotta ecc., altri casualmente presenti nell'ag- In ancient times, hydraulic mortars were always made using aerial lime with the addition of hydraulicising compounds. It was not until the 16th century that impure limestone began to be fired to obtain mortars that were humidity and water resistant. Both for the ancient hydraulic mortars (with additives) and for the more recent varieties, a reaction takes place between the lime and the amorphous or micro-crystalline compounds rich in silica/silicates, with the formation of silico-aluminates and calcium hydrates. This reaction occurs in the absence of air (CO2) and thus allows the mortars to set under water or in very damp environments. For studying hydraulic malts, petrographic analysis using a transmitted-light optical microscope is particularly useful, as it makes it easy not only to recognise the hydraulicising components added to the binder, such as pozzolan, cocciopesto, waste from forging/welding processes and fossil flour, but also to identify naturally hydraulic binders, thanks to the observation of the remains of non-hydrated clinker in the cements and the firing remains of the limestone that might indicate the use of marly limestone (natural hydraulic limes). 41 gregato. Fra questi ultimi il più reattivo è la silice microcristallina (selce) (Fig. 1), ma bordi di reazione sono stati osservati anche con argilliti e frammenti arenacei contenenti argilliti (Pavia, 2008). Ciò può essere spiegato con il fatto che i minerali argillosi possono contenere SiO2 e Al2O3 amorfi (come conseguenza di un'attivazione termica durante la diagenesi ed il metamorfismo). Secondo St. John et al. (1998), i costituenti reattivi presenti nelle aggiunte idraulicizzanti sono sostanzialmente di tre tipi: silice amorfa, silico-alluminati amorfi, silicati di alluminio alterati a struttura zeolitica. Quindi differenti tipi di materiali a comportamento pozzolanico sviluppano lo stesso tipo di CSH. Charola & Henriques (1999) citano prehnite, gehlenite, diopside, analcime, leucite, melilite come minerali di neoformazione prodotti nella reazione calce-pozzolana. Va detto che i composti idraulicizzanti più comuni come pozzolana e cocciopesto, normalmente sviluppano bordi di reazione dalla parte del legante carbonatico (Fig. 2). Nel caso in cui questi bordi non si siano sviluppati, si possono comunque osservare fasi idrauliche disperse nel legante sia come vene che come riempimento di pori. Ciò può essere spiegato con il fatto che la reazione pozzolanica comporta una dissoluzione di silice e allumina che si disperdono nel legante e poi reagiscono con l'idrossido di Ca. Normalmente gli idraulicizzanti sono facilmente riconoscibili al microscopio ottico (Fig 3) e se aggiunti finemente macinati, pos- 1 Figura 1 Bordo di reazione fra legante di calce aerea e frammento di selce in malta di allettamento medievale proveniente da Foligno (Perugia) (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 6X nicol incrociati). 3 Figura 3 42 Pozzolana in intonaco di calce aerea da edificio dell' Insula IX a Pompei (I sec.d.C.) (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 2,5X, nicol incrociati). sono dar luogo a strutture particolari del legante, come nel caso della farina fossile, in cui si osservano caratteristiche ottiche simili a quelle della silice microcristallina (Fig 4). A volte può comunque risultare difficile o impossibile riconoscere la presenza di aggiunte. In questo caso l’analisi chimica del legante per microscopia elettronica (SEM, EPMA) può dare specifiche indicazioni sulla natura del composto idraulicizzante (Cantisani et al., 2002): nello specifico la presenza di Si può indicare l’aggiunta di farina fossile mentre la presenza di Si e Al può essere indizio di aggiunta di caolino cotto. Va comunque precisato che questi due elementi sono anche caratteristici delle calci idrauliche prodotte dalla cottura di calcari marnosi. Quindi per accertare l'aggiunta di caolino cotto potrebbe essere di ausilio l'analisi in diffrattometria X (XRD) in grado di evidenziare la presenza di caolinite rimasta incotta. Evidenza petrografica di idraulicità in malte realizzate con leganti idraulici La verifica di idraulicità di un legante idraulico è data dalla presenza di relitti di clinker non idratato. Questi relitti possono essere facilmente riconosciuti osservando in microscopia in luce trasmessa i leganti a base di cemento Portland, cemento Romano e calci idrauliche. Normalmente i relitti non idratati sono costituiti preferibilmente di belite (C2S), composto che si idrata più lenta- 2 Figura 2 Bordo di reazione fra legante di calce aerea e frammento di laterizio in malta di allettamento del Duomo di Pietrasanta (Lucca) (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 25X, nicol incrociati). 4 Figura 4 Malta romana di allettamento(I sec. d.C.) da Spello (Perugia): legante con caratteristiche ottiche simili a quelle della silice microcristallina (birifrangenza del grigio di primo ordine) dovute all'aggiunta di farina fossile (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 2,5X, nicol incrociati). mente dell'alite (C3S). La belite in sezione sottile si presenta in cristalli bruno rossastri, rilievo medio alto, contorni sfumati e habitus subidiomorfo (Fig 5), l'alite invece è costituita da cristalli idiomorfi di colore scuro ed alto rilievo. Il riconoscimento dei relitti di clinker può aiutare a identificare anche il tipo di legante idraulico: ad es. leganti ricchi in ferro come il Cemento Romano contengono abbondante ferrite, allumino ferrite e i corrispondenti relitti non idratati sono ben riconoscibili al microscopio (Fig 6). Lo studio petrografico inoltre permette di stimare la granulometria e la quantità dei relitti di clinker che è in relazione con la reattività del legante, con la tecnologia produttiva (macinazione del clinker) e con il rapporto acqua/legante. Una macinazione fine aumenta la reattività del clinker, ma in passato il processo di macinazione non era molto efficiente così che il cemento Portland ed il cemento Romano dell' '800-inizio '900 presentano numerosi relitti non idratati. Allo stesso modo la presenza di relitti non idratati è favorita da bassi rapporti acqua/cemento che causano un difetto di idratazione. Prendendo in considerazione la sola frazione idratata, secondo numerosi autori tra cui Odler (2007) e Gartner et al. (2002) i silicati di calcio idrati (CSH) prodotti nelle reazioni di idratazione dell'alite, della belite e degli alluminati di calcio, sono prevalentemente amorfi e informi. Pavia (2008) segnala la presenza di abbondanti fasi cristalline idratate coesistenti con CSH amorfi in malte di calce idraulica, di cemento Romano e di calce e pozzolana confermando quanto riportato da altri autori (Massazza, 2003). Queste fasi cristalline si presentano come fibre e laminette ad alto rilievo da incolori a giallo-verdi, sia come pseudomorfi su belite parzialmente idratata, sulle particelle silicee degli incotti e su selce, sia nei bordi di reazione con la pozzolana. Ciò può suggerire che i CSH che si formano nelle calci idrauliche e nelle malte di calce e pozzolana possono sviluppare una maggiore cristallinità di quel- 5 le formate nelle paste cementizie. Ciò può trovare spiegazione con la maggiore quantità di calce libera nelle prime e quindi una maggior quantità di calcio disponibile per la reazione. Le indagini ottiche possono inoltre evidenziare la differenza tra la struttura del legante idraulico in prossimità e lontano dall' aggregato. Secondo Odler (2007), molti studiosi riportano a volte la presenza di una pellicola continua di idrossido di Ca a contatto con l'aggregato, cui si sovrappone uno strato di gel CSH. Da sottolineare inoltre lo studio dei resti di cottura (stracotti ed incotti) della pietra da calce, presenti particolarmente nelle calci prodotte secondo tecnologie tradizionali. Infatti come riportato da numerosi autori (Fratini et al., 2008, Hughes & Leslie, 2001, Pavia & Caro, 2006), i relitti di cottura permettono di riconoscere il tipo di roccia carbonatica cotta in fornace e quindi l'idraulicità della calce prodotta: un esempio sono gli incotti di calcare marnoso (Pietra alberese) presenti nelle malte antiche fiorentine che indicano come il legante sia una calce idraulica (Fig 7) o gli incotti di calcari silicei. Scopo di questo scritto è stato quello di sottolineare quanto siano importanti le osservazioni petrografiche al microscopio ottico in luce trasmessa nello studio dell'idraulicità delle malte; tale metodologia consente di ottenere una grande quantità di informazioni unitamente ad una notevole economicità di indagine. Tuttavia si vuole ricordare anche quali siano le tecniche analitiche complementari all’ analisi ottica (OM) che possono e devono in alcuni casi essere utilizzate per lo studio dell'idraulicità delle malte: - microscopia elettronica con analisi chimica (SEM, EPMA) permette di caratterizzare chimicamente il legante e di individuare quegli elementi caratteristici dei composti idraulici come Si e Al. La presenza di solo Si o di entrambi gli elementi associata anche a particolari strutture relitte, permette di identificare il tipo di idraulicizzante; 6 Figura 5 Relitti di clinker tipo belite in malta di cemento Portland (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 40X, nicol paralleli). Figura 6 Relitti di clinker ricco in ferro in malta di Cemento Romano (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 40X, nicol incrociati). Figura 7 7 Relitto di incotto costituito da calcare marnoso (Pietra alberese) in malta di allettamento da edificio civile del contado fiorentino del XIV sec: sono visibili le fasi di neoformazione a silicati di calcio formatisi in cottura, inglobati nella matrice micritica calcitica (sezione sottile al microscopio ottico in luce trasmessa polarizzata, 2,5X, nicol incrociati). 43 - spettrometria di fluorescenza di raggi X (XRF): fornisce un’analisi chimica dei costituenti. L’analisi sulla sola frazione legante, separata dall’aggregato, o sui relitti di pietra da calce permette di calcolare l’indice di idraulicità; - analisi in diffrazione di raggi X (XRD) della sola frazione legante: permette di evidenziare la presenza di fasi cristalline di CSH e ad esempio di relitti di caolino incotto; - spettroscopia micro Raman: può essere di ausilio nello studio dei composti presenti nei bordi di reazione e delle fasi idratate e non idratate del legante; - analisi termica differenziale (DTA) e termogravimetrica (TGA): permette di quantificare i composti idraulici presenti nel legante. Conclusioni L'analisi petrografica al microscopio ottico in luce trasmessa (OM) risulta particolarmente importante nello studio delle caratteristiche idrauliche delle malte anche se non permette di quantificare tale proprietà. Rappresenta infatti l’unica metodologia in grado di individuare l'origine dell'idraulicità. Ad esempio è possi- bile rilevare se questa è dovuta all'aggiunta di componenti idraulicizzanti che sono in grado di reagire con il legante, formando composti idraulici che si evidenziano sia come bordi di reazione che attraverso particolari caratteristiche ottiche presenti nella matrice legante. Oppure l’idraulicità è evidenziata dalla presenza di relitti di clinker non idratato particolarmente abbondanti nei leganti idraulici prodotti nel XIX inizio XX sec. Altra possibilità per riconoscere l’idraulicità è la presenza di relitti di cottura della pietra da calce costituiti da calcari marnosi o calcari silicei. Bisogna comunque ricordare che spesso una sola metodologia non può fornire una risposta precisa relativa alla composizione di una malta, ma è l’insieme di più metodologie analitiche che è in grado di fornire un quadro più completo. Purtroppo a volte possono rimanere incertezze dovute a una quantità di campione non sufficiente per l'analisi o alla difficoltà di separare selettivamente la frazione legante dall’aggregato (per esempio al fine di ottenere una esatta valutazione dell’indice di idraulicità). B I B L I O G R A F I A Cantisani E., Cecchi A., Chiaverini J., Fratini F., Manganelli Del Fà C., Pecchioni E., Rescic S. (2002) “The binder of the “Roman Concrete” of the Ponte di Augusto in Narni (Italy)", Periodico di Mineralogia, 71, (2002), Special Issue: Archaeometry and Cultural Heritage, 113-123 Charola E., Henriques F. (1999) "Hydraulicity in lime mortars revisited", in: Proc. of the RILEM TC-167COM Int. Workshop: Historic mortars: characteristics and tests. Bartos, P., Groot, C. and Hughes J.J. Eds., Paisley, May 1999, 97-106. Cucchiara A., Mannoni T., Negretti L., Montagni C., Predieri G., Sfrecola S., Ricci R. (1993) "I calcestruzzi "alla porcellana" in Liguria", in Atti del Convegno Scienza e Beni Culturali: Calcestruzzi antichi e moderni: storia, cultura e tecnologia, Bressanone , 1993, Libreria Progetto Ed Padova, 21-30 Documento UNI-NORMAL 10 924 - Malte per elementi costruttivi e decorativi: classificazione e terminologia Fratini F., Pecchioni E., Cantisani C (2008) "The petrographic study in the ancient mortar characterisation", in Atti del Convegno HMC 08 - 1st Historical Mortar Conference, Lisbon 24-28 september 2008. Gartner E.M., Young J.F., Damidot D.A., Jawed I. (2002) "Hydration of Portland cement", in: Bensted J. and Barnes P. Eds. Structure and Performance of Cements, Spon, UK, 2002, 57-114. Hughes J. J., Leslie A. B (2001) "The petrography of lime inclusions of historic lime based mortars", Proc of the 8th Euroseminar on Microscopy applied to building materials, Annales Geologiques des pays Helleniques, Athenes Dept of Geology, 359-364, Mannoni T. (2002) "Le malte viste dall'archeologo del costruito", Scienza e Beni Culturali, rivista quadrimestrale del Convegno di Studi di Bressanone, annata IV, n° 2/3, anno 2000, (2002), 9-16, Editore Arcadia Ricerche srl. Massazza F. (2003) "Properties and applications of natural pozzolans", in: Bensted J. and Barnes P. Eds. Structure and Performance of Cements, Spon, UK, 2002, 326-353. Odler I.(2007) "Hydration, setting and hardening of Portland cement", in: Hewlett P.C. Ed. Lea’s chemistry of cement and concrete, Elsevier, UK, 2007, 241-289. Pavia S. (2008) " A petrographic study of mortar hydraulicity", in Atti del Convegno HMC 08 - 1st Historical Mortar Conference, Lisbon 24-28 september 2008 Pavía S., Caro S. (2006) "Lime mortars for masonry repair: Analytical science and laboratory testing versus practical experience", in: ‘Proc. of Int. Seminar Theory and Practice in Conservation- a tribute to Cesare Brandi’. May 2006. Eds. J. Delgado Rodrigues ans J. M. Mimoso. Laboratorio Nacional de Engenharia Civil, Lisboa, 493-500 Pecchioni E., Fratini F., Cantisani E. (2008) “Le malte antiche e moderne tra tradizione e innovazione”, Patron Editore Bologna. St John D. A., Poole A. W., Sims I. (1998) "Concrete petrography", Arnold, London,1998 Vecchiattini R. (2009) “La civiltà della calce: storia, scienza e restauro”, De Ferrari Editore, Genova. PROFILO AUTORI Fabio Fratini, geologo, dal 1984 è ricercatore presso il CNR-ICVBC dove si occupa di studi archeometrici dei materiali lapidei dell’ architettura finalizzati alla comprensione dei fenomeni di degrado e alla messa a punto di interventi conservativi. Elena Pecchioni, geologa dal 1985, specializzata in Petrografia Applicata lavora presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze ove svolge attività di ricerca nell’ambito della Conservazione dei Beni Culturali ed è responsabile tecnico del Laboratorio a Raggi X e Petrografico. E’ membro dell’AiAr, e dell’AISA. E’ docente presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. In questi anni ha prodotto numerose pubblicazioni scientifiche e partecipazioni a congressi nazionali e internazionali nel settore specifico; è coautrice del libro “Le malte antiche e moderne tra tradizione e innovazione” pubblicato nel dicembre 2008. 44 Emma Cantisani, ricercatrice presso il CNR ICVBV (Istituto per la Conservazione e Valorizzazione dei Beni Culturali- sede di Firenze), si occupa di caratterizzazione chimica, mineralogica, petrografica e fisico-meccanica di materiali lapidei naturali ed artificiali con finalità archeometriche e conservative. MALTE A BASE DI CALCE AEREA CON AGGIUNTE DI POZZOLANE NATURALI E COCCIOPESTO Cristina Tedeschi U Introduzione no dei problemi che deve affrontare chi si occupa di interventi sul costruito storico, é quello relativo alla compatibilità tra i materiali. Un intervento, può avere efficacia solo se rispettoso dell'esistente e se i materiali utilizzati sono compatibili con quelli originali. Per quanto riguarda la compatibilità chimico-fisica, affinché l'intervento abbia la massima efficacia e il sistema finale (vecchio più nuovo) risulti come un unico materiale con proprietà omogenee, è necessario che le tecniche e i materiali utilizzati, siano il più possibile vicini a quelli originali. La compatibilità non è solo un problema risolvibile utilizzando materiali uguali o simili a quelli impiegati originariamente, ma deve risultare dalla somma di valutazioni ricavate caso per caso, evitando che le implicazioni di carattere storico si contrappongano a quelle tecnico-scientifiche. L'uso di tecniche e materiali “moderni” (premiscelati) [1], dovrebbe avvenire solo dopo opportune ricerche sperimentali relative alla loro compatibilità, durabilità e alla loro influenza sull'assetto statico della struttura, in quanto, i materiali sono soggetti a processi di alterazione dipendenti dal tempo e dall’ambiente circostante. Purtroppo, non sempre oggi esiste in chi lavora nel campo del restauro, un’ appropriata informazione sul dibattito tecnico e teorico, e soprattutto, la sensibilità di operare nel rispetto delle esistenze. In Fig 1, si può osservare come l’intervento di ristilatura effettuato sulla muratura della Basilica di S. Vitale a Ravenna non sia rispettoso e compatibile, è stata, infatti, utilizzata una malta a base di legante cementizio, su una muratura realizzata con “malta” a base di calce con aggiunta di cocciopesto. Si parla spesso di materiali tradizionali e compatibili, ma ultimamente è ricorrente l’utilizzo di malte idrauliche naturali commerciali premiscelate denominate in molti casi come “malte pozzolaniche”, pubblicizzate e vendute come materiale adatto all’intervento di restauro, in quanto riescono a completare la loro presaindurimento anche in ambiente umido. Vista la criticità dell’argomento e la necessità di avere delle risposte riguardo la definizione di alcuni materiali commerciali, è necessario soffermarsi su alcune domande: 1. Quando denominiamo una “malta pozzolanica” è perché ha all’interno nell’impasto della pozzolana…o perché è resa idraulica dalla pozzolana! 2. Basta l’aggiunta di una qualsiasi pozzolana per far di una malta 1 Figura 1 Particolare della muratura della Basilica di S. Vitale a Ravenna: prima e dopo l’intervento di ristilatura. 45 di calce una “malta pozzolanica” …o è necessario che la pozzolana sia reattiva! 3. Le pozzolane sono tutte “pozzolaniche”? 4. E le malte “pozzolaniche”? 5. DOBBIAMO quindi partire dalla definizione di “malte pozzolaniche”, e capire cosa s’intende. 6. Pozzolanico significa materiale reattivo?...o la pozzolana può essere considerata solo come aggiunta, additivo o aggregato? 7. …e i materiali a comportamento pozzolanico? Per rispondere a queste ed ad altre domande, è nata l’esigenza di approfondire lo studio sulle pozzolane, sulla reazione pozzolanica, e sulle malte confezionate con “aggiunte pozzolaniche”. Le malte confezionate e studiate in questa ricerca, sono a base di materiali tradizionali: calce idrata in polvere e/o differenti pozzolane naturali e materiale a comportamento pozzolanico. Definizione e classificazione delle pozzolane nella storia SUMMARY Le pozzolane sono usualmente definite come quei materiali che, sebbene non abbiano capacità leganti proprie, combinati con idrossido di calcio a temperatura ambiente e in presenza di acqua, formano composti stabili insolubili in acqua. I materiali dotati di tali caratteristiche possono essere estremamente diversi, sia per la composizione chimica, che per la natura mineralogica e per l’origine geologica; per questa ragione una loro classificazione risulta piuttosto difficile [2]. Vitruvio definisce la pozzolana come «un tipo di polvere che ha meravigliose qualità…in unione con calce e pietre non solo consolida ogni edificio, ma rende saldi anche i moli che si costruiscono sull’acqua». (libro Il, cap. VI “La pozzolana”) [3]. La pozzolana è una roccia piroclastica, di origine vulcanica, di composizione e caratteristiche variabili, costituita da minerali cristallini non attivi e da una componente vetrosa, ricca di vuoti lasciati dai gas eruttivi. Ne esistono varietà incoerenti e altre con un certo grado di coesione. In Italia, le pozzolane più utilizzate sono quelle incoerenti, provenienti soprattutto dai terreni vulcanici di Campania e Lazio; Vitruvio parla soltanto delle pozzolane campane, pur essendoci numerosi giacimenti vicino a Roma (Vitruvio, libro Il, cap. VI). Vitruvio parla poi di un altro genere di pozzolana, detto carbunculus, che si trova in Etruria: «dove ci sono dei monti che non sono fatti di terra, ma di materia lignea, la forza del fuoco, uscendo fuori attraverso le sue vene, 46 la brucia: le sostanze tenere e meno resistenti si consumano, quelle più salde resistono. Così nella Campania la terra arsa diventa cenere e così nell’Etruria la materia lignea diventa carboniosa. Entrambi questi materiali sono ottimi per costruire, ma sono diversamente utili a seconda che siano usati per la fabbricazione di edifici di terra o di moli marittimi». Attualmente le pozzolane vengono classificate in base alla loro capacità di legarsi con l’idrossido di calcio. Vengono così raggruppate in due principali categorie: le pozzolane «naturali» e quelle «artificiali», comprendendo nel primo gruppo tutti i materiali che presentano le caratteristiche sopra indicate così come si trovano allo stato naturale, che svolgono cioè la loro capacità legante senza richiedere alcun trattamento che modifichi il loro stato chimico e mineralogico; nel secondo gruppo sono invece compresi i materiali che per sviluppare le proprietà pozzolaniche necessitano di un opportuno trattamento preliminare. Un tentativo di classificazione delle pozzolane naturali e artificiali è stato compiuto da F. Massazza [4]. Le pozzolane naturali sono state suddivise in base all’origine geologica, in tre categorie: 1. Materiali di origine vulcanica o piroclastica; 2. Materiali di origine clastica; 3. Materiali di origine mista, piroclastica e clastica. Alcune indagini di laboratorio condotte da Sersale [5] hanno rivelato che i materiali vulcanici incoerenti (pozzolane) si trasformano in materiali litoidi compatti (tufi) per la loro tendenza alla «zeolitizzazione», cioè a diventare minerali zeolitici; ma in presenza di azioni idrotermali o pneumatolitiche è favorito un processo di «argillificazione», che porta alla formazione di caolino e illite se l’ambiente è acido, o di montmorillonite, se l’ambiente è basico. Le pozzolane artificiali, sono ottenute per trasformazione chimico-strutturale di materiali originariamente non pozzolanici, e sono state classificate in tre categorie: 1. Argille e scisti cotti; 2. Ceneri volanti; 3. Scorie d’alto forno. Fra le pozzolane artificiali più utilizzate nella storia, troviamo il cocciopesto, ottenuto dalla frantumazione di laterizi cotti. Sicuramente, a quanto affermano il Cozzo [6] e il Lugli [7], una parte del cocciopesto utilizzato per confezionare la malta proveniva dallo “scarto” dei mattoni tagliati in cantiere per la costruzione delle murature in laterizio. I trattatisti dell’epoca, Vitruvio e Plinio, parlano del cocciopesto come «…elemento da aggiungere alla comune malta di calce e sabbia per ottenere un impasto ancora migliore». In effetti la pre- By and large, ancient mortars have a simple composition: aerial lime, aggregates and water. Other varieties are to be found, however: while these also have an aerial binder, the fundamental difference is that a material has been introduced for hydraulicity: pozzolan. The pozzolanic reaction is an “improvement reaction”, in that it increases the quality and durability of the mortar. The research derives from the need to study mortars based on traditional materials that are able to set even where dampness is present, as this is a problem frequently encountered in buildings requiring renovation. The most important result yielded by the study undoubtedly regards the heterogeneous nature of the values obtained: by using the same type of binder (hydrated lime powder) and simply changing the type of pozzolan – or material that behaves in the same way as pozzolan – mortars with different physical and mechanical characteristics were obtained. senza del cocciopesto conferisce caratteristiche idrauliche alla malta di calce, e per questo motivo veniva usato soprattutto per gli ambienti umidi, come vasche termali, pavimentazioni e intonaci di rivestimento esterni. Il cocciopesto veniva quindi aggiunto alla malta come una pozzolana, in quei luoghi dove non esistevano giacimenti pozzolanici. Malte confezionate con aggiunte di cocciopesto Le osservazioni storiche e archeologiche hanno messo in evidenza che il cocciopesto si trova spesso negli elementi costruttivi più importanti per la stabilità statica globale degli edifici, come pilastri e ghiere di archi, quando il resto della fabbrica è costruito con una più semplice malta “biancastra”. Studi sperimentali sulle malte con aggiunte di cocciopesto hanno, infatti, rivelato che tali malte presentano, rispetto alle malte di sola calce e sabbia, una resistenza meccanica maggiore. La “malta di cocciopesto”, all’interno di una muratura, si riconosce per il suo colore rosaceo, più o meno marcato, conferitole dal laterizio in polvere. Si trovano spesso però anche malte di colore biancastro, dovuto al fatto che il laterizio non è polverizzato, ma è presente in grossi granuli, si parla quindi di calcestruzzo, da intendersi ovviamente non in senso moderno, ma in base all’etimologia del termine “calcestructio”, ossia conglomerato a base di calce con aggiunta di cocciopesto (Fig. 2). Presso il reparto Diagnostica, Monitoraggio e Indagini sui Materiali per il Costruito e i Beni Culturali, del Laboratorio Prove Mateirali del DIS, Politecnico di Milano sono state analizzate alcune malte provenienti da edifici storici: San Vitale e S. Michele in Africisco (Ravenna), Bath (UK); SS. Sergius and Bacchus (Turkey) [8], confezionate con calce aerea, cocciopesto, aggregato calcareo e siliceo, ed è stata evidenziata attraverso un’osservazione in sezione sottile, la presenza di “bordini di reazione” tra il legante e alcuni granuli di cocciopesto (Fig. 3). La composizione chimica dei bordini di reazione, è stata più volte analizzata con microscopi elettronici a scansione, e nella maggioranza dei casi si è trovato che gli elementi prevalenti sono il calcio, la silice e, in quantità minore, l’allumina. I prodotti di neoformazione che si formano nel contatto dell’idrossido di calcio con la silice amorfa proveniente dagli aggregati vanno a disporsi nelle eventuali cavità presenti della malta aumentandone la compattezza. Principalmente infatti, il materiale di neoformazione va a riempire le porosità presenti all’interfaccia tra la calce e il mattone. In tal modo la malta diventa meno permeabile all’acqua e agli altri agenti atmosferici esterni responsabili delle alterazioni e del degrado, a vantaggio della sua durabilità. La reazione pozzolanica: origine e spiegazione del fenomeno Gli studi sui meccanismi che generano la reazione pozzolanica cominciarono già agli inizi del secolo, limitatamente all’attività delle pozzolane naturali; dopo la metà del secolo, cominciarono ad essere studiate anche le pozzolane artificiali, ma gli studi riguardarono soprattutto le ceneri volanti piuttosto che le argille calcinate. La “reazione pozzolanica” avviene a temperatura ambiente e in presenza di acqua tra il materiale pozzolanico e l’idrossido di calcio proveniente dall’idratazione della calce. I prodotti di tale reazione sono composti a base di silice, calcio e allumina, dotati di caratteristiche idrauliche e di elevata resistenza meccanica. I risultati delle ricerche mettono comunque in evidenza che l’attività pozzolanica di un materiale presenta aspetti chimici, fisici e meccanici interdipendenti, anche se difficilmente correlabili. Nel 1937 Parravano e Cagliati analizzando alcune pozzolane naturali italiane, giunsero alla conclusione che l’attività pozzolanica di tali materiali era legata alla loro superficie specifica: le pozzolane cioè erano tanto più attive quanto più erano macinate finemente [9]. Il Symposium ASTM tenutosi nel 1946, mise in evidenza che le pozzolane naturali, o i materiali naturali che possono sviluppare caratteristiche pozzolaniche mediante calcinazione (ceneri vulcaniche, tufi, argille, shales e terre di diatomee), devono la loro attività pozzolanica a una o a più di cinque tipi di sostanze “attivatrici”, e in base ad esse le pozzolane furono classificate in cinque gruppi [10]. Si chiarì, inoltre, che oltre alla presenza delle sostanze attivatrici, la pozzolanicità di un materiale può essere influenzata da un opportuno trattamento termico. La calcinazione, infatti, può migliorare la pozzolanicità di alcuni materiali, e ridurla in altri, o indurla in materiali inizialmente non pozzolanici, in quanto i materiali pozzolanici, di qualsiasi tipo, rispondono alla calcinazione in relazione alla loro composizione chimica e alla struttura atomica dei loro ingredienti attivi. In particolare, per i materiali che hanno come costituente attivo un minerale argilloso, è essenziale la calcinazione per poter sviluppare una soddisfacente attività pozzolanica. Una ricerca svoltasi presso il LPM del DIS del Politecnico di Milano, sulla pozzolanicità di alcune argille, ha mostrato che la pozzolanicità dei laterizi dipende dal tipo di argilla di partenza, dalla temperatura di cottu- 2 Figura 2 Particolare di un campione di malta prelevato da un edifici romano-bizantino (Augsburg – Germania) e SS. Sergio e Bacco. 47 ra e dalla finezza di macinazione [11]. Le analisi sperimentali condotte hanno mostrato che esiste una temperatura di cottura caratteristica per ogni tipo di argilla, e che la finezza di macinazione del laterizio, accresce la reattività con la calce, in quanto, aumentando la superficie specifica aumenta l’estensione del contatto tra i due materiali. Si è inoltre evidenziato che, pur essendo sottoposte a trattamento termico, non tutte le argille diventano pozzolaniche, in quanto possono avere una composizione chimica non adatta alla formazione di prodotti reattivi. Sperimentalmente si è rilevato, infatti, che l’attività pozzolanica di un’argilla è strettamente legata al suo contenuto di silice e allumina amorfe, e che sono maggiormente reattivi i caolini e le argille “pure”, formate prevalentemente da silicati e alluminati. Gli studi di U. Costa e F. Massazza [12] su alcune pozzolane naturali italiane, compiuti nel 1974, misero in evidenza che a breve scadenza (entro 7 giorni) la pozzolanicità dipende dalla superficie specifica del materiale pozzolanico, mentre a lunga scadenza (oltre 28 giorni) è dovuta alla presenza di componenti aventi una struttura microscopica amorfa, cioè al contenuto di silice e allumina delle fasi attive. Il panorama internazionale offre una vasta letteratura riguardante le pozzolane, ed in essa si riscontrano molti contribuiti di ricercatori italiani, che hanno approfondito l’argomento in maniera determinante. Quella qui riportata si riferisce solo ad alcuni dei lavori più significativi, riguardanti le pozzolane e le loro reazioni, che sono forse le più importanti come base di questa ricerca [13]. 3 Figura 3 Bordini di reazione in sezione sottile fra legante e aggregato di cocciopesto: San Vitale (Ravenna). 5 48 Figura 5 Fasi del confezionamento(20°C e 65% U.R.). Oggi grazie alla possibilità di fruire dei dati disponibili via rete, risulta molto facile rintracciare una dettagliata bibliografia sull’argomento ed in particolare sulla composizione chimica e mineralogica delle pozzolane. La ricerca attuale è rivolta principalmente allo studio di nuovi materiali a comportamento pozzolanico. Sono interessanti, inoltre, gli approfondimenti volti a sviluppare nuovi metodi per la determinazione del grado di attività pozzolanica delle pozzolane. Malte con aggiunte pozzolaniche realizzate in laboratorio Scelta dei materiali pozzolanici e preparazione dei provini Al fine di studiare malte adatte all’interventi di restauro, presso il laboratorio del DIS [14], sono state confezionati provini di malta realizzati con un legante di calce idrata in polvere e differenti tipi di pozzolane e cocciopesto, preventivamente macinati e analizzati. Le malte sono state confezionate utilizzando un aggregato siliceo normalizzato, impastando tre parti in peso di materiale pozzolanico e una parte in peso di calce idrata in polvere (3:1), con un rapporto legante/aggregato di 1:2. I provini di malta (40x40x80mm circa), sono stati confezionati in camera climatizzata con temperatura costante di 20°C e un Umidità Relativa di 65% e stagionati in camera climatizzata (T 20°C - U.R.>90%) (Fig. 5); per ogni tipo di malta, è stata verificata l’acqua d’impasto e la lavorabilità (Fig. 6). Appena scasserati i provini sono stati avvolti con una pellicola di polietilene, per evitare la carbonatazione, e favorire la reazione 4 Figura 4 Diagramma per la valutazione della pozzolanicità. 6 Figura 6 Prova di lavorabilità. pozzolanica fra l’idrato di calcio e la componente reattiva della pozzolana, in quanto nel momento in cui l’idrato di calcio si trasforma in carbonato di calcio, non può più verificarsi la reazione pozzolanica (Fig. 11) Sulle singole pozzolane utilizzate per gli impasti, sono stati, realizzati preventivamente dei saggi di pozzolanicità, secondo la normativa UNI 196/5, che hanno evidenziato differente reattività delle varie pozzolane analizzate, in alcuni casi assente anche a 30 giorni (Fig. 4). A differenti tempi di stagionatura, sulla malta indurita, sono state effettuate analisi chimiche, fisiche e meccaniche. Le prove fisiche sono stata eseguite analizzando i parametri che possono influenzare la resistenza meccanica e la durabilità della malta. In particolare sono state realizzate prove di porosità 7 Figura 7 Provino di malta da sottoporre a prova di ritiro. (NORMAL 4/80) e di ritiro, parametri molto importanti per valutare la compatibilità (Fig. 9, 10). Le prove meccaniche sono state effettuate allo scopo di valutare il comportamento della malta sottoposta a carichi di compressione e trazione. Prima di procedere alla prova di resistenza a compressione, sui semiprismi risultanti dalla prova a flessione, è stata verificata la profondità di carbonatazione, seguendo la normativa UNI 9944, e come previsto, la carbonatazione non è avvenuta (Fig 12). Le prove fisico-meccaniche sono state effettuate a varie scadenze: 7, 28, 60, 90, 180, 270, 360 giorni, seguendo le indicazioni dettate dalla normativa per le malte idrauliche; nel caso delle pozzolane zeolitiche, la prima scadenza è stata 14gg, in quanto i provini hanno avuto un ritardo nella presa e nell’indurimento 8 Figura 8 Cassero per la realizzazione di prove di ritiro. 9 Figura 9 Rappresentazione grafica delle resistenze a compressione nel tempo, delle malte confezionate in laboratorio. Figura 10 Porosimetro al mercurio. 10 49 Resistenza a compressione N/mm2 Tipo di pozzolana 60 90 180 270 360 Giorni Giorni 60 90 360 28 60 90 360 7 Zeolitica 5.29 Minerali 14.26 19.47 22.30 24.16 Laziale 2.25 5.88 8.13 Metacaolino 3.53 4.70 6.00 6.12 6.23 6.24 4.45 7.97 9.19 11.62 9.33 9.88 10.68 Cocciopesto - 2.43 3.96 4.66 4.91 - - Cocciopesto 22.15 20.99 19.55 19.16 - - - - Calce aerea - 1.06 2.01 2.48 3.20 - - Calce aerea - - - - Minerali 13,30 Zeolitica 19.76 16.13 17.81 14.48 1.52 1.56 1.21 0.68 9.19 11.11 11.46 12.95 Laziale 20.65 20.95 16.97 15.27 6.40 Silicea 16.72 14.26 14.60 12.24 2.01 1.47 0.94 0.46 9.11 11.08 13.15 14.81 15.70 16.65 - 27.06 - Tabella 1 Tabella riassuntiva delle prove meccaniche realizzate sui prismi di malta (4x4x16) 11 Metacaolino 12.28 10.01 11.33 1.33 1.29 1.22 0.79 - - - - 44.44 33.86 35.36 22.01 1.38 1.18 0.98 0.83 33.59 33.12 30.35 30.25 Tabella 2 Tabella riassuntiva delle prove porosimetrice e di ritiro realizzate sui prismi di malta (4x4x16) 12 Figura 11 Figura 12 (UNI196-1). I risultati delle prove fisiche e meccaniche, sono sintetizzati in tabella 1 e 2. niche. Come si può osservare dai risultati delle prove, le malte si comportano in modo molto differente, ma con risultati coerenti fra loro. Si evidenzia, infatti, una correlazione fra i valori di porosità, ritiro e resistenza meccanica; all’aumentare del valore di porosità e di ritiro si riscontra una diminuzione della resistenza meccanica e viceversa. Questi risultati fanno ben sperare sulla possibilità di utilizzare materiali naturali e non commerciali negli interventi di restauro, dando la possibilità al restauratore di scegliere “l’impasto ideale” per il proprio intervento. I risultati ottenuti, hanno stimolato una successiva ricerca ancora Provini di malta avvolti in pellicola. Conclusioni 50 28 Ritiri [mm] Giorni Silicea 28 Tipo di pozzolana Porosità% La ricerca sperimentale svolta per valutare la possibilità di ottenere malte idrauliche naturali, realizzate con materiali naturali e tradizionali ha avuto un buon esito. Un dato particolarmente importante della ricerca riguarda, infatti, l’eterogeneità dei valori ottenuti, in quanto utilizzando lo stesso tipo di legante e aggiungendo materiale pozzolanico o a comportamento pozzolanico con proporzioni di impasto costanti, si sono ottenute malte con differenti caratteristiche fisiche e mecca- Prova di Carbonatazione: campione non carbonatato. in fase di svolgimento, che ha previsto come prima fase l’identificazione delle principali pozzolane naturali italiane, e la valutazione del loro possibile approvvigionamento. Durante la seconda fase, sono state approvvigionate 16 pozzolane naturali, dalle cave in cui era ancora possibile estrarre ingenti quantitativi di materiale, e nella terza fase sono stati confezionati provini di malta utilizzando le stesse proporzioni d’impasto. In questo nuovo studio, si è deciso di approfondire alcuni dei fattori che influenzano la reazione pozzolanica tratti dalla letteratu- ra scientifica; si è quindi proceduto ad un analisi della superficie specifica sulle pozzolane selezionate, tramite strumentazione BET a differenti finezze di macinazione, valutandone successivamente la reattività. Come ultimo parametro si è voluto, inoltre, approfondire l’aspetto cromatico, in quanto l’eterogeneità delle pozzolane utilizzate ha permesso di realizzare malte con varietà cromatiche molto interessanti. B I B L I O G R A F I A [1] C. Tedeschi, L. Binda, D. Gulotta and L. Toniolo, Durability to salt decay of commercial ready-mixed mortars for the conservation of cultural heritage, in 2nd Historic Mortars Conference, Praga, 22-24 Settembre 2010, pp. 1015-1022. [2] F.M. Lea, The chemistrv of cement and concrete, Edward Arnold Publishers (Ltd), terza edizione,1988, par. 14: Pozzolanas and Pozzolanic Cements, pp. 414. [3] M. Vitruvio Pollione, De Architettura, a cura di C. Amati, edizioni Pirola, Milano, 1829; [4] F. Massazza, Chimica delle aggiunte pozzolaniche e dei cementi di miscela, in “Il cemento, n. 1, pp 4-38, 1976. [5] R. Sersale, Problemi di mineralogia applicata, Rendiconti della Società Mineralogica Italiana, n. 18, 1962, pp. 215- 258. [6] G. Cozzo, Ingegneria romana, op. cit. pag. 142-143. [7] G. Lugli, La tecnica edilizia dei Romani con particolare riguardo a Roma e in Lazio, ed. Bardi, Roma, 1957. [8] Baronio G., Binda L., Tedeschi C., Microscopi study of bizantine mortars: observation of reaction layers between lime and brick dust, 7 th Euroseminar on microscopy applied to building materials, pp. 407-416, 1999. [9] N. Parravano, V. Caglioti, Ricerche sulle pozzolane, in: “La Ricerca Scientifica”, n. 8, 1937, pp. 27 1-289. [10] RC. Mielenz, L.P. Witte, O.J. Glantz, Effect of calcination on natural pozzolans, in Symposium use of pozzolanic materials in mortars and concretes, ASTM, San Francisco, 10-14/10/1946, pp. 43-91. [11] Baronio, G., L. Binda, Study of the pozzolanicity of some bricks and clays, 10 th Int. Brick/Block Masonry Conf., Calgary, 1994 Vol. 3, pp. 1189-1197. [12] U. Costa, F. Massazza, I fattori che governano la reazione con la calce di pozzolane italiane, in “Il Cemento”, n. 3, 1974, pagg. 13 1-140. [13] M. Murat, Hydration reaction and hardening of calcined clay and related minerals. I.: Preliminary investigation on metakaolinite; Influence of mineralogical properties of the raw-kaolinite on the reactivitv of metakaolinite; Influence of calcination process of kaolinite on mechanical strengths of hardened metakaolinite, in “Cement and Concrete Research”, vol.13, Pergamon Press, Ltd, USA, 1983, pp. 259-266; 511-518; 631-637. [13] C. Tedeschi, Studio di malte storiche finalizzato al progetto di conservazione. Malte da riparazione. Tesi di Dottorato di Ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici, Politecnico di Milano, 2003. PROFILO AUTORE Cristina Tedeschi, laureata in Architettura e dottore di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici presso il Politecnico di Milano, è ricercatore confermato del Settore Scientifico Disciplinare ICAR/19 - Restauro presso la Facoltà di Architettura Civile Milano-Bovisa. Dal 2005 è responsabile organizzativo e tecnico del Laboratorio chimico del reparto Diagnostica, monitoraggio e indagini sui materiali per il costruito e i Beni Culturali, del Laboratorio Prove Materiali del DIS del Politecnico di Milano. L’attività di ricerca riguarda principalmente argomenti relativi alla conservazione del costruito, con particolare attenzione alla caratterizzazione dei materiali e alla diagnostica. 51 L’USO DEL CAOLINO COME ADDITIVO IDRAULICIZZANTE DELLE MALTE DI CALCE AEREA. SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI OTTENUTI DAL GRUPPO DI RICERCA GENOVESE Giovanni Luca A. Pesce Istituto di Storia della Cultura Materiale - piazza Sarzano, 35 16128 Genova; email: [email protected] L Introduzione SUMMARY e “malte al caolino” sono un particolare tipo di malta di calce utilizzato per l’allettamento o il rivestimento di murature, che in passato erano ottenute aggiungendo all’aggregato e al legante - costituito generalmente da calce aerea - del caolino cotto con la funzione di idraulicizzante. Tali miscele possono essere paragonate, per composizione e modalità di preparazione, ad altre ben più note miscele quali quelle basate sull’uso della pozzolana o del cocciopesto. A differenza di queste, però, le malte al caolino hanno nel colore bianco una delle proprietà che le rende maggiormente interessanti ai fini dell’impiego in strutture a vista. Contrariamente a quanto capita nella pozzolana e nel cocciopesto, infatti, nel caolino vi è la completa assenza di quegli “agenti cromofori” che possono alterare o modificare il colore di base degli impasti, costituendo così un elemento di disturbo dell’opera edile (intonachino, marmorino, ecc.). Le malte al caolino, però, non erano impiegate solo per la loro neutralità cromatica, ma anche per le elevate proprietà meccaniche (a tale proposito si veda quanto riportato in: RODRIGUES P. F. et al., 2002) e di resistenza agli agenti di degrado chimici e biologici (a tale proposito si veda quanto riportato in: MANNONI T., 1988). Malgrado ciò, il loro l’uso - che a Genova sembra essersi sviluppato a partire dal tardo medioevo - si è interrotto nei primi decenni del XX secolo, con l’affermazione dei nuovi leganti idraulici (i 52 primi cementi) nel mercato dei materiali da costruzione. Con l’abbandono dell’uso, sono così andati persi tutti i saperi legati alla produzione e all’impiego di questi impasti, di cui si era quasi del tutto persa la memoria, riscoperta solo grazie ai risultati delle ricerche archeologiche condotte negli scorsi decenni presso il porto di Genova. È, infatti, a partire delle indagini svolte negli anni Ottanta del Novecento presso i cantieri dell’area del porto antico che si è tornati a scoprire l’esistenza e le caratteristiche di queste miscele e che si è iniziato a pensare di reintrodurre nel mercato dei materiali da costruzione delle malte basate sul sistema legante: calcecaolino. Purtroppo, però, la perdita di conoscenze che si è verificata tra l’inizio e la fine del secolo è stata tale da impedire la ricostruzione della ricetta originaria: gli scarsi risultati ottenuti dalle sperimentazioni di laboratorio (a tale proposito si veda quanto riportato più avanti in questo stesso articolo) e la qualità di alcuni prodotti messi in commercio dall’industria negli ultimi anni (che, generalmente, hanno dato risultati inferiori alle aspettative) dimostrano le difficoltà incontrate. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le differenze nelle tecniche utilizzate per la produzione dei nuovi leganti. Questi, infatti, possono essere ottenuti sia dalla cottura congiunta di calce e caolino sia dalla miscelazione “a freddo” dei due materiali, precedentemente preparati. Come è noto, però, per quanto i prodotti derivati da entrambi i processi possano essere considerati “calci al caolino”, le loro caratteristi- Lime mixtures containing burned kaolin are a particular type of hydraulic mixture similar to the well known mixtures containing “cocciopesto” or “pozzolana”, but with a surplus value that make it very interesting: the white colour. Studies about the kaolin mortars and plasters carried out by the research group of ISCUM (Genoa, Italy) since 80’s years, appears the most advanced studies developed on these materials. In this paper we are going to summarise the best results obtained by the Genoa’s group by means mineralogical and chemical analysis of samples gathered in all territory of Liguria region. che chimiche e fisiche sono alquanto differenti, così come sono differenti le caratteristiche delle malte che è possibile preparare, che non sempre corrispondono a quelle degli impasti “tradizionali”. Ma lo studio delle malte al caolino non è solo un problema dell’industria: da alcuni anni, infatti, anche diversi centri di ricerca nazionali e internazionali sono impegnati su questo tema. Esempio ne sono gli studi pubblicati dai ricercatori dell’Università di Cagliari (a tale proposito si veda l’attività descritta in: CARA S. et al., 2006) e dell’Università portoghese di Coimbra (RODRIGUES P. F. et al., 2002). In linea con questi indirizzi di studi, sono le ricerche svolte a Genova dall’Istituto di Storia della Cultura Materiale (ISCUM) che, in collaborazione con vari dipartimenti universitari, hanno cercato di fornire un contributo alla conoscenza e alla reintroduzione di questo materiale nel settore del restauro. A differenza di quanto capita negli altri laboratori, però, a Genova la conoscenza di queste miscele si basa su un’esperienza più che ventennale e su un approccio multidisciplinare che arricchisce notevolmente il quadro dei dati a disposizione. Come detto, infatti, le prime indagini su questi impasti risalgono proprio alla metà degli anni Ottanta, quando alcuni archeologi dell’Istituto hanno avuto modo di studiare le strutture perfettamente conservate del porto quattrocentesco della città (MANNONI T., 1988). È in tale occasione, infatti, che - per la prima volta a Genova - fu identificata l’aggiunta intenzionale di caolino alle malte di calce, cosicché dai laboratori archeologici i campioni passarono rapidamente ai laboratori di mineralogia e petrografia dell’Università di Genova e, successivamente, ai laboratori di ingegneria dei materiali. Parallelamente alla ricerca di laboratorio sui materiali, sempre a partire dagli anni Ottanta, fu avviata anche una ricerca sulle testimonianze d’uso di questi impasti tramite lo studio delle fonti scritte e di altre fonti materiali riferibili a un più vasto contesto, cosicché - ad oggi - è possibile documentare un’ampia varietà d’impieghi e un altrettanto ampio periodo d’uso (PESCE G. et al., 2008). Una sintesi completa dei risultati ottenuti su questo tema in più di venti anni di ricerche non è ancora stata fatta; questo contributo, pertanto, vuole cercare di colmare almeno in parte tale lacuna, fornendo una semplice sintesi dei principali risultati ottenuti dagli studi sulla caratterizzazione chimica e microstrutturale delle malte al caolino. Attraverso tale quadro sarà però possibile evidenziare anche lo stato delle conoscenze raggiunte sulla tecnica e sulla tecnologia produttiva utilizzata in passato nella realizzazione di questi impasti. Le principali fonti bibliografiche Tra i lavori sviluppati dal gruppo di Genova sulla caratterizzazione chimica e microstrutturale delle malte al caolino, costituiscono certamente un importante punto di riferimento quattro ricerche che, con i loro risultati, hanno permesso un sostanziale avanzamento nello stato delle conoscenze di questi sistemi. Si tratta, più in particolare, del lavoro descritto nell’articolo a firma di Tiziano Mannoni che documenta i primi studi realizzati alla fine degli anni Ottanta del Novecento (MANNONI T., 1988); del lavoro descritto nell’articolo firmato a quattro mani da Giordani e Mannoni che illustra i risultati di un’ampia serie di analisi condotte su diversi tipi di malta idraulica (GIORDANI M. et al., 1999); del lavoro riportato nell’articolo a firma di un ampio gruppo di ricercatori che documenta i risultati delle sperimentazioni condotte presso l’Università di Genova per cercare di ricostruire la ricetta delle malte al caolino (CUCCHIARA A. et al., 1993); del lavoro sviluppato nell’ambito di un dottorato di ricerca in ingegneria dei materiali che ha avuto ad oggetto il processo di attivazione termica della caolinite in condizioni simili a quelle che si potevano avere nei forni di epoca preindustriale (PESCE G., 2006). Entrando nel dettaglio dei risultati ottenuti nel corso delle suddette attività, è possibile affermare come il primo lavoro, oltre a fornire alcuni dati sulle caratteristiche dei campioni analizzati, costituisce anche una sorta di introduzione al tema, in quanto presenta una breve ma chiara rappresentazione del processo di identificazione del caolino nei primi campioni (Fig. 1). Nell’articolo è riportato, inoltre, un quadro delle metodologie di studio adottate, delle problematiche analitiche affrontate e un riassunto dei risultati raggiunti con gli strumenti e i dati a disposizione. Tra i risultati ottenuti vi sono, infine, anche una breve casistica degli impieghi che allora è stato possibile documentati per questo tipo di malte, le prime indicazioni sul periodo d’uso (già limitato ai secoli XV-XX) e la formulazione delle prime ipotesi sulla provenienza del caolino impiegato a Genova (ipotesi per le quali, proprio durante il convegno di Genova del 2009 è stata suggerita una rivisitazione). Per cercare di comprendere meglio questi risultati, può essere utile riportare i passaggi più significativi del testo pubblicato. Tra le osservazioni più interessanti vi sono certamente quelle contenute nelle seguenti affermazioni: “In sezione sottile è risultato che i leganti più resistenti presentano una grana sempre più fine, fino a criptocristallina. In diffrazione ai raggi X, a parità di rapporto modale in sezione tra legante ed inerti, si nota con l’aumento della resistenza una diminuzione 1 Figura 1 Diffrattogramma interpretato del campione di malta identificato come “477 - Porto-Ge 10” proveniente dal porto tardomedievale di Genova (fonte: archivio I.S.Cu.M.). 53 54 del carbonato di calcio in fase cristallina (passaggi dal 50% al 30% circa della calcite rispetto al quarzo), mentre il magnesio comincia a manifestarsi sotto forma di brucite” (MANNONI T., 1988, p. 138). E, inoltre: “Al microscopio elettronico (SEM 515 PHILIPS) il legante della malta del Molo Vecchio mostra abbondanti granuli tondeggianti con dimensioni non superiori a 1 µm, e meno frequenti forme lamellari delle stesse dimensioni. Microanalisi semiquantitative (Edax U 9100) sono state condotte su singoli granuli del legante e su una finestra di 10 µm dello stesso; su una lamella; su un’aureola di reazione di un clasto calcareo e, per confronto, nel suo interno. Per quest’ultimo non sono risultate differenze apprezzabili [...]. La finestra sul legante ed i singoli granuli hanno fornito composizioni molto simili: 40% di CaO e 20% di MgO per quanto riguarda la calce, 36% di SiO2 , 3% di Al2 O3 , e 0,5% di K2 O, che si possono calcolare in circa un 20% di caolino laziale (feldspato + caolinite + quarzo) ed un 20% di quarzo finissimo. Le lamelle sono più ricche di caolino, 25% di CaO e 5% di MgO; 45% di SiO2 , 14% di Al2 O3 e 4% di K2 O, pari al 65% di caolino laziale. Se si confrontano questi dati con quelli in diffrazione ai raggi X e in sezione sottile è evidente che: il magnesio entra nella fase cristallina della brucite Mg(OH)2 ; soltanto un settimo circa del calcio è in fase cristallina sotto forma di calcite, mentre il rimanente forma composti colloidali con l’allumina e una parte della silice; [...]. È noto che gli alluminati e i silicati di calcio allo stato colloidale sono i composti che conferiscono idraulicità e tenacità alle malte con pozzolana e al cemento Portland […]. Tali reazioni allo stato colloidale sono probabilmente favorite se l’idratazione della calce avviene in presenza del caolino, e ciò renderebbe accettabili anche le informazioni del gruppo 3 [si tratta di un gruppo di informazioni raccolte dagli autori attraverso alcune testimonianze orali, che riguardavano le modalità di realizzazione delle malte al caolino e in particolare le materie prime utilizzate; n.d.a.], che sono in contrasto con le buone regole di spegnimento della calce aerea quando venga usata senza additivi idraulicizzanti” (MANNONI T., 1988, pp. 140141). L’utilizzo del SEM-EDS è stato uno dei punti di forza anche dello studio firmato a quattro mani da Marino Giordani e Tiziano Mannoni. Questa ricerca aveva ad oggetto l’analisi chimica e microstrutturale di diversi campioni di malta idraulica ottenuti grazie all’uso di vari additivi (tra i quali anche il caolino cotto), prelevati in diverse strutture genovesi riconducibili ad un periodo compreso tra il XII e il XIX secolo (GIORDANI M. et al., 1999). Tra le indicazioni più interessanti emerse da quello studio vi sono certamente quelle contenute nelle seguenti affermazioni: “… del caolino cotto, solo in qualche caso, si trovano grumi di lamelle non disgregate. Nelle malte al caolino sono talora presenti piccoli grumi fibrosi, contenenti S, Al, e alcali che sono stati interpretati come allume. Tale minerale è infatti spesso associato ai depositi di caolino, ed è possibile perciò che la sua presenza nella malta sia puramente casuale. La matrice legante presenta al SEM-EDS aree che possono raggiungere il 20% della superficie totale della sezione, costituito da calcite, di cui non è visibile però la forma cristallina in sezione lucida. Altrettanto abbondanti sono le aree amorfe contenenti soltanto magnesio. Queste due aree sono intersecate, nelle malte al caolino, e in minore quantità in quelle alla pozzolana, con aree variegate, distribuite a macchie di leopardo, e caratterizzate in rapporti quantitativi variabili, da Si, Ca, Mg; Si, Ca, Al; Si Mg, Al. L’alluminio è sempre presente in piccole quantità, e non sono state trovate aree attribuibili soltanto a alluminati. Nei casi delle malte al cocciopesto, le aree di reazione sono meno estese, e contornano i granuli di laterizio macinato” (GIORDANI M. et al., 1999, pp. 95-96). A conclusione del lavoro, gli autori arrivano quindi a riassumere alcuni degli aspetti che ancora oggi possono essere considerati tra le più importanti conoscenze acquisite su questo tema: “Dai risultati delle analisi effettuate si può dedurre che la parte legante dei manufatti rappresenta circa 1/3 del volume totale dell’impasto, tale quantità è sufficiente per stabilire condizioni di percolazione […] e quindi costituire una matrice continua. Dall’analisi EDS (…) si notano due zone nelle quali sono presenti silicati amorfi (di calcio e/o magnesio): una molto piccola prodotta dalla clorite e una abbastanza estesa prodotta dal caolino per reazione con idrossido di calcio (ora calcite). L’estensione di dette zone evidentemente è legata alla reattività della clorite (molto piccola) e a quella del caolino (molto elevata) con l’idrossido di calcio. Tale diversa reattività è un segno evidente che il caolino prima dell’impiego come materiale legante in associazione con la calce, deve essere stato attivato termicamente, anche se non sono noti né il sistema di cottura, né la temperatura (…). La formazione di silicato amorfo in zone piuttosto estese fa supporre che il caolino sia stato miscelato con la calce prima della preparazione dell’impasto con il materiale lapideo. Pertanto nel tempo si è potuto sviluppare uno scheletro di silicati amorfi percolativi da cui derivano le elevate proprietà meccaniche (soprattutto la tenacità) riscontrate nei manufatti dopo secoli dalla loro preparazione. Anche la notevole resistenza agli agenti atmosferici e all’acqua marina è una dimostrazione che detto silicato amorfo è percolativo e in qualche maniera riesce a racchiudere come in un guscio la calcite presente in quantità piuttosto notevole e perfettamente integra” (GIORDANI M. et al., 1999, p. 98). Gli importanti risultati raggiunti con le microanalisi dei campioni di malta, però, se da un lato gettavano luce sul sistema calce-caolino e sulla tecnica produttiva degli impasti, dall’altro non permettevano ancora di riprodurre le qualità dei prodotti analizzati. Come dimostrano i risultati alquanto contrastanti delle esperienze di laboratorio condotte per tentare di ricostruire la ricetta delle tradizionali malte al caolino, le conoscenze allora a disposizione (ma la limitazione è valida ancora oggi) non permettevano di riprodurre le notevoli resistenze dei campioni analizzati (CUCCHIARA A. et al., 1993). I ricercatori che hanno sviluppato tali esperienze sono, infatti, giunti alla conclusione (sempre valida) che “non è sufficiente usare le stesse materie prime, e gli stessi rapporti quantitativi, per realizzare in laboratorio delle malte con le stesse caratteristiche tecniche” di quelle campionate (CUCCHIARA A. et al., 1993; a tale proposito si veda anche GIORDANI M. et al., 1999, p. 98). Per cercare di chiarire meglio questo aspetto è utile ancora una volta fornire una breve sintesi delle sperimentazioni fatte, così come descritte dagli stessi ricercatori. Innanzitutto è bene precisare che, per stessa ammissione dei ricercatori, la preparazione dei provini avvenne “in tempi diversi, sperimentando ogni volta le notizie acquisite da documenti d’archivio, fonti librarie o trattatistiche, di fine secolo o primi anni del Novecento, o ancora, secondo intuizioni personali dovute a mediazioni tra realtà scientifica e ipotesi storiche” (CUCCHIARA A. et al., 1993, p. 27). In sostanza, negli esperimenti il caolino (proveniente dai giacimenti dei Monti della Tolfa) fu unito in varie percentuali ad inerti, grassello di calce (contenente meno del 5% di magnesio) e, in alcuni casi, anche a calce viva e allume. Gli impasti così realizzati furono, quindi, messi a stagionare sia in acqua (campioni n°: 9 e 11) che in aria (campioni n°: 1-8, 10, 12 e 13), per circa quaranta giorni; successivamente, i provini furono esaminati attraverso analisi autoptiche e per via strumentale tramite la tecnica della diffrazione dei raggi X. La descrizione degli esperimenti, purtroppo, non è molto dettagliata; nel testo mancano, ad esempio, le indicazioni utili a conoscere le caratteristiche dei materiali impiegati, le loro modalità d’uso e le condizioni in cui si sono svolte le diverse fasi del lavoro. Sono, però, note le temperature di attivazione del caolino, che è stato cotto sia a 873 che a 1173 K. Il minerale attivato a 1173 K è stato impiegato per realizzare malte contenenti percentuali variabili di sabbia, Ca(OH)2 , H2 O, CaO, ecc., mentre il caolino attivato a 873 K è stato utilizzato per confezionare malte contenenti - oltre a varie percentuali dei materiali sopra citati - anche percentuali variabili di allume. Prendendo in considerazione i risultati raggiunti è utile evidenziare come i dati più significativi ottenuti dall’analisi autoptica siano Risultati visivi: il composto è privo di cavillature e molto resistente allo sforzo manuale” (CUCCHIARA A. et al., 1993, p. 28). Dagli esperimenti è, inoltre, emerso come la stagionatura in acqua non abbia dato risultati utili, mentre la presa in aria ha dato risultati variabili (i tempi sono compresi tra i 3 e i 15 minuti: cfr. Tabella 1). Interessante è osservare come, in presenza di elevate quantità di allume e di elevate temperature di cottura, i tempi di presa abbiano subito una notevole contrazione. quelli degli impasti realizzati con il caolino cotto a 1173 K e, in particolare, quelli dei provini n° 3, 4 e 5, che sono stati così brevemente descritti: “Provino n. 3 - 66% grassello; 34% caolino. […] Risultati visivi: impasto compatto con leggera cavillatura. Provino n. 4 50% grassello; 50% caolino. Risultati visivi: impasto compatto con cavillatura più estesa del precedente; buona resistenza alla compressione manuale. Provino n. 5 - 53% sabbia; 27% grassello; 7% calce viva; 13% H2 O. Tabella 1. Composizione e tempi di presa dei provini realizzati per ricostruire la ricetta delle malte al caolino (da CUCCHIARA A. et al., 1999). Componente sabbia [% W] CaO [% W] n°101 n°8 - 6 37 Ca(OH)2 [% W] 18 Allume [% W] 122 Caolino [% W] H2 O [% W] Presa [min] 27 Provino n°13 n°7 n°12 - 10,5 - 15 7 31 6 15 8 8 29 31 10,5 15 2 8 18 13 15 303 40 31 41 31 3 4 10 12 15 = Reazione esotermica (60°) = Aggiunto in due tranche in tempi diversi 3 = Aggiunta in due tranche in tempi diversi (assieme all'allume) 1 2 Dalle analisi XRD che sono state realizzate sono, invece, emersi i seguenti risultati: un’elevata formazione di calcite nel provino n°3, mentre nel provino n°10 contenente caolino e allume, la calcite era solo in tracce. Per il resto, la calcite era presente in tutti i provini mentre la portlandite era presente in quantità variabili, da abbondante ad accessoria, tranne che nei campioni n°10 e 13, dove era assente. La caolinite era presente in tracce in tutti i provini realizzati con caolino cotto a 873 K, mentre mancava completamente nei provini confezionati con caolino cotto a 1173 K. L’ettringite – in quantità più o meno abbondante si era formata solo nei provini della seconda serie (caratterizzata dall’uso dell’allume); nel provino n°3 erano presenti tracce di gesso. Nelle loro conclusioni, i ricercatori sottolineano come il caolino cotto, l’allume e in parte anche i silicati di calcio di neoformazione non sono rilevabili né in stereomicroscopia, né in sezione sottile né, tanto meno, nell’analisi XRD. Uno strumento di analisi utile alla verifica della presenza di tali composti nella malte è il SEM dove, però, i composti di neo-formazione dell’alluminio e del calcio sono risultati sempre assenti (CUCCHIARA A. et al., 1993, pp. 29-30). Un ultimo (in ordine di tempo) passo verso la conoscenza di questo tipo di malte è stato, come detto, un lavoro sviluppato nell’ambito del XVII ciclo del corso di dottorato in ingegneria dei materiali, presso il Laboratorio di Ingegneria dei Materiali del Dipartimento di Edilizia Urbanistica e Ingegneria dei Materiali dell’Università degli Studi di Genova. In tale occasione si è, infatti, cercato di dare spiegazione dei cambiamenti che avvengono nella struttura della caolinite quando questa è sottoposta a trattamento termico, provando così a individuare le migliori condizioni di cottura del minerale, utili a ottenere un prodotto altamente reattivo con la calce. Le trasformazioni sono state valutate, prima, considerando la sola influenza della temperatura sulla struttura della caolinite pura e, poi, considerando l’influenza delle variazioni di temperatura in associazione alle variazioni di pressione parziale d’acqua che si possono avere nell’atmosfera della camera di cottura. Una variabile questa che, date le trasformazioni che avvengono nella caolinite (in particolare l’allontanamento di gruppi ossidrile) e le esperienze già svolte nello stesso laboratorio sulla decomposizione della dolomite (BERUTO D. et al., 2003), è stata valutata essere una delle più importanti nel lavoro in oggetto. Data l’ampia letteratura disponibile, lo studio delle modificazioni indotte nel minerale dall’incremento di temperatura è stato sviluppato sulla sola base bibliografica, mentre lo studio dell’influenza della pressione parziale d’acqua al variare della temperatura è stato sviluppato sulla base di un’ampia serie di dati sperimentali appositamente realizzati. Dai risultati ottenuti è emerso come le principali trasformazioni che avvengono nella struttura del minerale siano dovute sostanzialmente all’aumento della temperatura, che induce sia uno spezzettamento dei fogli di silice che costituiscono l’ossatura portante delle lamelle di argilla (che diventano in questo modo “trasparenti” ai raggi X), sia un allontanamento dei gruppi ossidrile che compongono lo strato di idrossido di alluminio soprastante lo 55 strato di silice. Dai risultati è emerso, inoltre, come condizioni di bassa temperatura ed elevata pressione parziale d’acqua, comportino una distruzione più profonda dell’edificio cristallino, favorendo in tal modo la formazione di quei “siti attivi” che saranno successivamente utili alla reazione con la calce (PESCE G., 2006). Conclusioni Sintetizzando quanto sopra riportato è possibile affermare come dai risultati ottenuti in più di venti anni di ricerche, appare chiaro che la tecnica produttiva delle antiche malte al caolino fosse basata su un trattamento termico del caolino (di cui non è ancora certa la provenienza) separato da quello delle rocce carbonatiche utilizzate per la produzione della calce. Tale trattamento doveva avvenire a una temperatura compresa tra gli 823 e i 1123 K; una range di temperature che si sovrappone molto bene a quello in cui doveva avvenire la decomposizione della dolomite (il principale minerale usato a Genova per la produzione della calce) e che, pertanto, induce a ipotizzare che per la cottura del caolino fossero utilizzati gli stessi forni impiegati per la cottura della calce. La pre- senza di una struttura percolativa di silicati di calcio e magnesio nelle malte, l’assenza – nei campioni analizzati – di quei composti che si formano in cottura per reazione diretta tra ossido di calcio e caolinite (quale, ad esempio, la ghelenite), e il fatto che nei documenti d’epoca moderna la fornitura di calce e caolino fossero sempre differenziate, portano però a escludere l’ipotesi di una cottura congiunta di calce e caolino. La presenza di zone molto estese di silicati amorfi nelle malte analizzate ha, inoltre, indotto a ipotizzare che il caolino cotto fosse aggiunto alla calce durante la fase di idratazione, nella fossa di spegnimento (o comunque prima dell’impasto con l’aggregato), così da favorire le reazioni allo stato colloidale. E proprio tali composti colloidali potrebbero essere la spiegazione delle notevoli proprietà meccaniche e di resistenza agli agenti di degrado di questo tipo di impasti, poiché tenderebbero a formare una matrice continua (“percolativa”, appunto) fortemente resistente che attraversa tutto l’impasto e che potrebbe anche svolgere una funzione di protezione nei confronti dei carbonati di neoformazione. B I B L I O G R A F I A BERUTO D. et al, 2003 = BERUTO D. T., VECCHIATTINI R., GIORDANI M., Effect of mixtures of H2 O (g) and CO2 (g) on the thermal half decomposition of dolomite natural stone in high CO2 pressure regime, in: <<Thermochimica Acta>>, 404, 1-2, 2003, pp. 25-33. CARA S. et al., 2006 = CARA S., CARCANGIU G., MASSIDDA L., MELONI P., SANNA U., TAMPINI M., Assessment of pozzolanic potential in lime-water system of raw and calcined kaolinic clays from the Donnigazza Mine (Sardinia-Italy), in: <<Applied Clay Science>>, 2006, in corso di stampa. CUCCHIARA A. et al. 1993 = CUCCHIARA A., MANNONI T., MONTAGNI C., NEGRETTI L., PREDIERI G., RICCI R., SFRECOLA S., I calcestruzzi “alla porcellana” in Liguria, in: <<Scienza e Beni Culturali>>, IX, Bressanone, Padovan Editore,1993, pp. 21-30. GIORDANI M. et al., 1999 = GIORDANI M., MANNONI T., La tecnica degli antichi maestri muratori: identificazione di uno stadio del processo lavorativo attraverso l’analisi chimica e mineralogica di malte idrauliche storiche, in: <<Atti del II Convegno: Materiali e Tecniche per il restauro>>, Cassino, 1-2 Ottobre 1999, INSTM, pp. 91-99. MANNONI T., 1988, Ricerche sulle malte genovesi alla “porcellana”, in: <<Scienza e Beni Culturali. Le Scienze, le istituzioni, gli operatori alla soglia degli anni ’90>>, Bressanone, Padovan Editore, pp. 137a-142a PESCE G. 2006: Ottimizzazione del processo di attivazione termica del caolino impiegato come agente idraulicizzante nelle malte di calce aerea. L’influenza della pressione parziale d’acqua sulla reattività della metacaolinite, tesi di dottorato in Ingegneria dei Materiali per le Scienze del Costruire, XVII ciclo, Dipartimento di Edilizia, Urbanistica e Ingegneria dei Mateiriali, tutor prof. D. T. Beruto PESCE G. et al. 2008 = PESCE G. RICCI R., 2008: Use of metakaolinite as hydraulic agent of aerial lime mortars and plasters. The case study of Genoa (Italy), in: Act of the conference <<HMC08 - Historic mortar conference>>, Laboratório Nacional de Engenharia Civil, Lisbon (Portugal), 24 al 26 September 2008. RODRIGUES P. F. et al., 2002 = RODRIGUES P. F., HENRIQUES F. M. A., The effect of hydraulic components on lime mortars, in: <<Act of the World Congress on Husing. Housing Construction – An interdisciplinary Task>>, 9-13 September 2002, Coimbra, Portugal, Eds. Oktay Ural, Vitor Abrantes, Antonio Tadeu. PROFILO AUTORE 56 Giovanni Luca A. Pesce, architetto, dottore di ricerca in Ingegneria dei Materiali per le Scienze del Costruire, membro dell’Istituto di Storia della Cultura Materiale, del Forum Italiano Calce e di altre associazioni italiane ed estere. Si occupa di leganti idraulici dal 2003. Attualmente svolge attività di consulenza per conto della società Ipsilon s.c.r.l. di cui è vice presidente, collabora con il Laboratorio di Archeologia dell’Architettura dell’Università degli Studi di Genova e con il Laboratorio di Dendrologia e Dendrocronologia dell’ISCUM.. MALTE A BASE DI CALCE CON AGGIUNTE MINERALI: PRINCIPALI PROPRIETÀ Albert Jornet, Giovanni Cavallo, Cristina Mosca Istituto Materiali Costruzioni, C.P. 12, DACD-SUPSI, CH-6952 Canobbio, Svizzera e-mail : [email protected]; [email protected]; [email protected] L’ Introduzione SUMMARY aggiunta alle malte a base di calce di materiali con proprietà pozzolaniche permette alle stesse di sviluppare la presa e l’indurimento in ambienti umidi e addirittura in presenza di acqua. Vitruvio [1] consiglia l’uso d’impasti particolari con aggiunta di frammenti di cotto setacciati, in presenza di umidità e, con aggiunta di pozzolana per le costruzioni sott’acqua. I risultati ottenuti da Peroni et al. 1982 [2] mostrano che questi prodotti contribuiscono ad uno sviluppo di resistenze e che possono costituire una fonte potenziale di ioni solubili. L’utilizzazione di caolino, probabilmente cotto, quale aggiunta alle malte a base di calce conferisce alle stesse un’elevata resistenza fisica e chimica e le rende utilizzabili in costruzioni sott’acqua, Mannoni, 1988 [3]. Teutonico et al., 1994 [4], indicano che i tipi di argilla e la temperatura di cottura sono i fattori che più influenzano le proprietà delle malte. D’altra parte, alcuni autori sostengono che l’aggiunta di marmo o di calcare finemente macinato promuove il processo di carbonatazione. In questo lavoro si presentano i risultati ottenuti in un’indagine di laboratorio eseguita allo scopo di stabilire come l’aggiunta di coccio pesto, pozzolana o polvere di marmo, in proporzioni diverse, influenza le principali proprietà delle malte a base di calce. Nell’articolo viene presentata una rielaborazione e successiva discussione dei risultati pubblicati in inglese sul cd dei rendi conti del 12th Euroseminar on Microscopy Applied to Building Materials [5]. PARTE SPERIMENTALE Materiali Per la confezione delle miscele è stata utilizza una calce idrata in polvere disponibile sul mercato in Svizzera corrispondente alla classe CL 90, secondo la norma EN 459-1. Quale aggregato è stata utilizzata una sabbia con un diametro massimo pari a 4 mm, con una buona distribuzione granulometrica, e composta prevalentemente da quarzo metamorfico, micascisti, feldspati, miche e anfiboli. Quali aggiunte minerali sono stati utilizzati due materiali con proprietà pozzolaniche, coccio pesto e pozzolana, e uno senza, polvere di marmo. Nei tre casi e stata utilizzata la frazione inferiore a 0.125 mm. Il coccio pesto, è stato ottenuto dalla cottura a circa 800 °C di un materiale argilloso illitico, mentre la pozzolana grigia era disponibile sul mercato italiano. La polvere di marmo è stata ottenuta attraverso la macinazione di marmo di Carrara. Miscele Gli impasti sono stati preparati partendo dalla miscela di riferimento (R), nella quale è stata utilizzata una proporzione legante/aggregato di 1:2. Agli impasti è stata aggiunta la quantità di acqua necessaria per raggiungere una lavorabilità adatta, corrispondente ad una consistenza plastica. Oltre alla miscela di riferimento sono state preparate quindi tre serie di miscele aggiungendo alla prima rispettivamente coccio pesto, pozzolana o polvere di marmo in quantitativi diversi. In this work we are reporting on the results obtained in a laboratory investigation undertaken with the objective of assessing how the addition of low fired brick dust, pozzolan, or marble powder to a lime based mortar, influence some of the most relevant mortar properties. With this purpose, a reference mix and three sets of mixes were prepared using three different amounts of the above mentioned mineral additions. Bulk density, consistency and porosity were measured on fresh mortar. For every mix measures of compressive strength, porosity parameters, and the water absorption coefficient were performed. The measurement of water vapour diffusion is in progress. The structural features of the mixes were examined using optical and fluorescence microscopy. The results obtained show an increase of the mechanical properties for the mixes with addition of brick dust or pozzolan, while the mixes with addition of marble powder show a decrease of the mechanical properties. 57 Tabella 1. Composizione delle miscele (% in massa eccetto per le proporzioni che sono state indicate in volume). Miscele R C25 C50 C100 P25 P50 P100 M10 M20 M30 Sabbia 0-4 [mm] 70.7 65.9 66.1 61.1 66.5 63.4 56.9 65.8 63.9 62.1 Legante/Sabbia/ Aggiunta (volume) 1/2 1/2/1 1/2/0.1 1/2/0.2 1/2/0.3 16.5 3.0 5.8 8.5 Composizione [%] Calce idrata 10.8 Acqua 18.5 Acqua/Legante+ Aggiunta 1.7 Aggiunta 0 10.1 10.1 1/2/0.25 1/2/0.5 21.1 17.9 1.6 1.1 2.9 5.9 9.4 1/2/1 18.6 10.1 0.9 Nella prima serie, alla miscela di riferimento sono state aggiunti volumi di coccio pesto rispettivamente pari al 25, 50 e 100 % del volume di calce aerea in polvere (C25, C50, C100). Le stesse percentuali sono state utilizzate nella seconda serie dove è stata aggiunta la pozzolana (P25, P50, P100). Infine, nella terza serie sono stati aggiunti volumi di polvere di marmo pari al 10, 20 e 30 % rispettivamente (M10, M20, M30). Le miscele sono state preparate sulla base delle procedure contenute nella norma UNI EN 1015-2 [6]. La Tabella 1 contiene le percentuali in massa dei diver- 10.2 9.7 1/2/0.25 1/2/0.5 18.6 17.8 1.2 0.9 4.8 9.1 8.1 18.5 0.7 10.1 21.1 1.6 9.8 20.5 1.3 9.5 19.9 1.1 si componenti utilizzati e le proporzioni dei rapporti legante/aggregati/aggiunta in volume. Malta allo stato fresco Sulla malta allo stato fresco sono stati determinati la consistenza, UNI EN 1015-3 [7], la porosità, UNI EN 1015-7 [8], e la massa volumica UNI EN 1015-6 [9]. e lo spandimento. I valori ottenuti sono stati riportati nella Tabella 2. Tabella 2. Parametri misurati sulla malta allo stato fresco. Miscele Spandimento ∅ [mm] R C25 C50 C100 P25 P50 P100 M10 M20 M30 170 173 173 176 173 170 180 175 173 173 Massa Volumica [kg/m3]) 1960 2011 2021 2010 1978 2018 1988 1916 1942 1961 Proprietà Porosità [vol.%] 2.8 1.7 1.7 1.8 I valori dello spandimento sono compresi tra 170 e 180 [mm]. Malgrado che le miscele abbiano dei valori di consistenza molto simili, quelle con le aggiunte minerali non mostrano un marcato aumento del fabbisogno d’acqua. I valori della porosità sono compresi tra 1.5 e 2.8 % in volume, mentre quelli della massa volumica sono compresi tra 1916 e 2021 kg/m3. In generale ai valori più elevati di porosità corrispondono i valori più bassi di massa volumica. Provini e stagionatura Per ogni impasto sono stati preparati i seguenti provini: 9 prismi di 40x40x160 [mm], 3 dischi con ∅ pari a 100 [mm] e altri 3 con ∅ pari a 50 [mm], questi 6 con spessore pari a 20 [mm]. La compattazione dei provini è stata eseguita mediante l’utilizzazione di un tavolo vibrante. I provini sono rimasti durante 90 giorni in laboratorio a 20±2 °C e 65±5 % di u.r. Programma di prove 58 Le resistenze a compressione sono state determinate a 28, 56 e 90 giorni su dei cubi di 40x40x40 [mm] ricavati dai prismi standard, UNI EN1015-11 [10]. La parte rimanente dei prismi è stata utilizzata per la determinazione della profondità di carbonatazione mediante la spruzzatura con fenolftaleina di una superficie di rottura a spacco fresca. Da uno dei prismi stagionati per 90 giorni di ogni miscela è stata tagliata una fetta di circa 10 mm di spessore, dalla quale è stata preparata una sezione sottile. Questa è stata esa- 1.9 1.9 1.5 2.5 2.5 2.6 minata mediante microscopia ottica e a fluorescenza. Inoltre, a 90 giorni, i dischi di 50 mm di sono stati utilizzati per la determinazione del coefficiente d’assorbimento d’acqua, DIN 52617 [11], mentre per la misura dei parametri della porosità SIA 262/1 [12] sono stati utilizzati dei prismi di 40x40x50 [mm]. La determinazione del fattore di resistenza alla diffusione del vapore acqueo sui dischi di 100 mm di ∅ è ancora in corso. RISULTATI Proprietà meccaniche e fisiche I valori relativi alle resistenze a compressione misurati sono stati riassunti nella Tabella 3 e rappresentati nella Figura 1. L’esame di questi risultati mostra che le miscele con aggiunta di un 25 % di coccio pesto (C25) o di pozzolana (P25) presentano dei valori simili a quelli della miscela di riferimento (R). Un incremento significativo dei valori si osserva invece quando l’aggiunta corrisponde al 50 o al 100 % del volume del legante. Se confrontiamo i valori ottenuti nelle miscele con 100 % di aggiunta (C100 e P100), i valori più elevati corrispondono alla miscela con aggiunta di coccio pesto. Contrariamente a quanto ci si aspettava le miscele con aggiunta di polvere di marmo mostrano una diminuzione dei valori piuttosto che un incremento. Questo è vero per tutti i dosaggi e a tutte le età. Tabella 3. Resistenza a compressione (provini di 40x40x40 mm) a 28, 56 e 90 giorni (fcp) Miscele Proprietà fcp28 [N/mm2] 0.53 0.50 1.09 fcp90 [N/mm ] 0.91 0.90 1.47 fcp56 [N/mm ] 2 2 R 0.69 C25 0.71 C50 C100 1.39 2.88 P25 P50 P100 M10 M20 M30 1.25 2.15 0.53 0.53 0.79 2.78 0.51 0.79 2.93 0.92 1.50 0.73 1.46 2.21 0.29 0.66 0.34 0.63 0.44 0.81 1 Figura 1 Resistenza a compressione a 28, 56 e 90 giorni per tutte le miscele. Nella Tabella 4 sono stati riportati i valori misurati relativi ai parametri della porosità e al coefficiente di assorbimento per capillarità. Se consideriamo i pori d’aria (LP) e li confrontiamo con la porosità misurata sulle miscele allo stato fresco, si può osservare che la miscela di riferimento (R) mostra un valore chiaramente maggiore. Questo è anche vero per le altre miscele benché in altra misura. Inoltre, le miscele con aggiunta di coccio pesto o di pozzolana mostrano che ad un aumento della percentuale aggiunta corrisponde una diminuzione dei pori d’aria. Le miscele con aggiunta di polvere di marmo, con dei valori leggermente superiori a quello della miscela di riferimento, non mostrano grandi differenze tra di loro. Se prendiamo in considerazione i valori della porosità capillare (UE), si può osservare che le miscele con aggiunte di materiali con proprietà pozzolaniche (quindi in realtà con maggiori quantitativi di legante) mostrano dei valori di porosità capillare più elevati pur se i quantitativi di acqua utilizzati non sono molto diversi da quelli utilizzati nella miscela di riferimento. L’aumento della porosità capillare corrisponde con l’aumento della percentuale di aggiunta. Nelle miscele con aggiunta di polvere di marmo i valori sono molto simili a quello della miscela di riferimento. I valori della porosità totale (n) variano poco giacché le miscele in cui la porosità capillare aumenta sono quelle in cui il volume dei pori d’aria diminuisce. In relazione con il coefficiente di assorbimento d’acqua, piuttosto che il valore misurato a 24 ore (che dipende in buona parte dallo spessore dei provini) quello misurato a 10 minuti dà informazioni più precise per quanto riguarda la velocità alla quale l’acqua viene assorbita per capillarità. Considerando quindi i valori a 10 minuti (A10) si può dire che le miscele con aggiunta di coccio pesto e di pozzolana presentano dei valori leggermente superiori a quelli della miscela di riferimento, mentre le miscele con aggiunta di polvere di marmo mostrano dei valori molto simili a quello della miscela di riferimento e tra di loro. Tabella 4. Parametri della porosità e coefficiente di assorbimento d’acqua per capillarità. (U50 = umidità iniziale, UE = pori capillari, n = porosità totale, LP = pori d’aria, ρ105 = massa volumica a 105 °C, ρ105 = massa volumica assoluta, W24 = coefficiente di assorbimento d’acqua, A10 = coefficiente di assorbimento a 10 minuti) Properties ρ105 [kg/m3] Mixes ρR105 [kg/m3] UB [vol.%] UE [vol.%] n [vol.%] LP [vol.%] R W24 [kg/m ] W10 [kg/m2√h] C50 C100 1824 1801 2682 2726 2720 0.6 0.4 0.6 1797 1826 P25 P50 P100 1818 1803 2721 2710 2705 0.8 0.5 0.6 1826 M10 M20 M30 2693 2688 2690 2712 1.0 0.5 0.5 0.3 1759 1774 1786 26.0 28.5 30.5 31.9 27.4 29.0 30.1 26.9 26.0 26.1 7.0 4.5 2.4 1.9 5.2 3.8 3.0 7.7 8.0 8.1 33.0 2 C25 1.1 12.9 33.0 1.3 15.1 32.9 1.3 15.0 33.8 1.3 14.2 32.6 1.1 13.4 32.8 1.2 14.7 33.1 1.2 14.3 34.6 1.1 12.8 34.1 1.1 13.2 34.1 1.0 12.1 59 Profondità di carbonatazione Come menzionato sopra, la profondità di carbonatazione è stata misurata qualitativamente utilizzando la fenolftaleina come indicatore di pH. P. Ney 1966 [13], Lawrence, 2006 [14], hanno messo in evidenza che il passaggio dalla zona carbonatata esterna alla parte interna non carbonatata non avviene di colpo ma che è piuttosto un processo che avanza lentamente per fasi di cristallizzazione e dissoluzione alternate. La presenza degli anelli di “Liesegang”, è stata osservata nella miscela di riferimento e nelle miscele con aggiunta di polvere di marmo. Curiosamente, in alcuni casi gli anelli di Liesegang, inizialmente visibili, hanno perso colore fino a sparire completamente dopo 30 minuti. Questo fenomeno è stato osservato pure nella parte esterna, in alcuni casi apparentemente non carbonatata. In generale, il fronte de carbonatazione è stato determinato ad una profondità di circa 12 mm a 90 giorni, nelle miscele con aggiunta di materiali con proprietà pozzolaniche. Microstruttura Miscela di riferimento (Figura 2a) La macroporosità, stimata fra 5 e 8 % in volume, è dovuta principalmente alla presenza di fessure di ritiro plastico e di pori rotondi di ∅ compreso tra 0.2 e1.0 mm. L’elevata fluorescenza osservata con luce UV indica una bassa densità ottica della matrice. 2a Miscele con aggiunta di coccio pesto La macroporosità osservata nelle miscele C25 e C50, compresa tra 2 e 5 % in volume è in grande parte dovuta alla presenza di fessure di ritiro plastico. Il campione C25 mostra inoltre la presenza di pori rotondi con ∅ compresi tra 0.1 e 0.6 mm. Il contenuto in pori d’aria della miscela C100 è inferiore, con valori compresi tra 0.5 e 2 % in volume. La bassa fluorescenza osservata con luce UV indica un’elevata densità ottica della matrice. L’aggiunta di quantitativi elevati di coccio pesto (miscela C100, Figura 2b), migliora le proprietà microstrutturali della miscela. Miscele con aggiunta di pozzolana La pozzolana utilizzata è opaca in luce trasmessa. La macroporosità osservata, con valori compresi tra 5 e 8 % in volume, è dovuta alla presenza di fessure di ritiro plastico e di pori d’aria con ∅ massimo pari a 1 mm. Le caratteristiche delle miscele P50 e P100 sono molto simili. Miscele con aggiunta di polvere di marmo La macroporosità osservata, compresa tra 5 e 10 % in volume, è dovuta principalmente alla presenza di fessure di ritiro plastico, e in parte alla presenza pori d’aria rotondi di ∅ compreso tra 0.2 e 1.4 mm. Apparentemente l’aggiunta di polvere di marmo non sembra migliorare le caratteristiche microstrturali. Contrariamente a quanto ci si aspettava, almeno per campioni fino a 90 giorni di età, l’esame al microscopio ottico non permette di fare la distinzione tra zone carbonatate e zone non carbonatate. 2b Figure 2a e 2b Microscopia ottica. Fotomicrografia della miscela di riferimento (R) in luce trasmessa, e della miscela C100 Nicol X. Considerazioni finali e discussione 60 L’analisi dei risultati ottenuti permette di fare alcune considerazioni interessanti: - L’aggiunta di materiali con proprietà pozzolaniche in quantitativi elevati non ha come conseguenza un aumento marcato del fabbisogno d’acqua. - L’aggiunta di coccio pesto o di pozzolana rappresenta senza dubbio un contributo allo sviluppo di resistenze. Nel nostro caso, il contributo diventa significativo quando l’aggiunta corrisponde ad un 50 % o più con relazione al volume del legante. I valori ottenuti debbono essere presi con cautela giacché essi dipendono fortemente dalla composizione chimica e mineralogica, dalla temperatura di cottura, per quanto riguarda il coccio pesto, e dalla finezza dei materiali aggiunti. L’aggiunta di polvere di marmo nei tre quantitativi utilizzati si traduce in valori inferiori di resistenza a compressione. - Ad una diminuzione del rapporto acqua/legante corrisponde un aumento della porosità capillare, ciò che sembra essere contraddittorio. Allo stesso tempo però, i valori di resistenza a compressione aumentano come previsto dalla legge di Abrams (Figura 3). 3 Figura 3 Relazione tra resistenza a compressione e rapporto acqua/legante+aggiunte. - Mentre la profondità raggiunta dal fronte di carbonatazione può essere stabilito qualitativamente utilizzando la fenolftaleina, l’osservazione di sezioni sottili al microscopio non permette di distinguere tra zone carbonatate e zone non carbonatate. - L’osservazione di sezioni sottili al microscopio con luce UV porta a delle conclusioni contraddittorie, giacché miscele caratterizzate da una maggiore porosità capillare mostrano delle intensità basse, mentre miscele con una porosità capillare bassa mostrano un’intensità elevata. Questo fenomeno è particolarmente chiaro se il campione con aggiunta di 100% di coccio pesto (C100) viene confrontato con il campione di riferimento (R). Sulla base dei risultati ottenuti in questo lavoro possiamo dire che l’utilizzazione di materiali con proprietà pozzolaniche lascia alcune questioni aperte. In particolare, sorprende che l’aggiunta di 1 volume di materiali con potenziali idraulico alla miscela di riferimento non provochi un aumento marcato del fabbisogno d’acqua mentre lo spandimento viene mantenuto compreso tra 170 e 180 mm. Un altro aspetto apparentemente contraddittorio ma constatato già in altri lavori, Jornet e Romer 2008 [15], riguarda la relazione tra porosità capillare e resistenza a compressione. Infatti, l’aumento della porosità capillare corrisponde con un aumento delle resistenze a compressione (Figura 4). In questo caso, da una parte c’è l’effetto di compensazione legato alla diminuzione dei pori d’aria, ma soprattutto bisogna tener conto del contributo della reazione pozzolanica allo sviluppo di resistenze per spiegare il 4 Figura 4 Relazione tra resistenza a compressione e porosità capillare. 61 fenomeno. Contrariamente a quanto si osserva per i materiali cementizi, nei quali esiste una chiara relazione tra la porosità capillare e l’intensità della fluorescenza, nei sistemi esaminati, dovuto alla presenza dei materiali pozzolanici, una minore porosità capillare è correlata con una maggiore intensità della fluorescenza. Inoltre, mentre nei sistemi cementizi è facile distinguere tra zone carbonatate e zone non carbonatate, nei sistemi qui studiati non si osservano delle differenze chiare tra le due zone, almeno fino ad un’età di 90 giorni. Infine, nell’ottica di proporre una malta a base di calce compatibile con le malte tradizionali e di elevata durabilità, una possibilità sarebbe quella di aggiungere materiali con potenziale idraulico alle malte a base di calce, allo scopo di aumentarne le proprietà meccaniche, e allo stesso tempo di utilizzare un additivo aerante, allo scopo di rendere la malta resistente all’azione dei cicli di gelodisgelo. Il possibile cambiamento di colore dell’impasto potrebbe essere mascherato applicando sulla superficie dell’intonaco una o più mani di scialbatura, le quali allo stesso tempo svolgerebbero una funzione protettrice. Ringraziamenti Questo lavoro è stato possibile grazie al finanziamento ottenuto dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica nell’ambito dei progetti DORE (progetto 13DPD3-116016/1). Il nostro ringraziamento va indirizzato allo staff tecnico dell’Istituto Materiali e Costruzioni, in particolare a R. Bucellari che ha dato un contributo indispensabile nelle diverse fasi del progetto. B I B L I O G R A F I A [ 1] Vitruvius, “The ten books on architecture”, tradotto da M.H. Morgan, Dover Publications, New York, 1960. [ 2] Peroni, S., Tersigni, C., Torraca, G., Cerea, S., Forti, M., Guidobaldi, F., Rossi-Doria, P., De Rege, A., Picchi, D., Pietrafitta, F.J. and Benedetti, G. “Lime based mortars for the repair of ancient masonry and possible substitutes”, Proceedings of Mortars, Cements and Grouts used in the Conservation of Historic Buildings, ICCROM, Rome, pp. 6399, 1982. [ 3] Mannoni, T. “Ricerche sulle malte genovesi “alla porcellana”, in “Atti del convegno di Studi: Le scienze, le istituzioni, gli operatori alla soglia degli anni ’90”, Bressanone, pp. 137a-142°, 1988. [ 4] Teutonico, J.M., McCaing, I., Burns, C. and Ashurst, J. “The Smeaton Project: Factors Affecting the Properties of Lime-Based Mortars”, Association for Preservation Technology Bulletin, 3/4, pp. 32-49, 1994. [ 5] Jornet, A., Cavallo, G. Mosca, C. “Lime mortars with mineral additions: Properties”, Proceedings CD of the 12th Euroseminar on Microscopy Applied to Building Materials, September 15-19, Dortmund, 2009. [ 6] UNI EN 1015-2 “Metodi di prova per malte per opere murarie - Campionamento globale e preparazione delle malte di prova”, Milano, 2000. [ 7] UNI EN 1015-3 “Metodi di prova per malte per opere murarie - Determinazione della consistenza della malta fresca”. Milano, 2000. [ 8] UNI EN 1015-7 “Metodi di prova per malte per opere murarie - Determinazione del contenuto d’aria della malta fresca”. Milano, 2000. [ 9] UNI EN 1015-6 “Metodi di prova per malte per opere murarie - Determinazione della massa volumica apparente della malta fresca”. Milano, 2000. [10] UNI EN1015-11 “Metodi di prova per malte per opere murarie - Determinazione della resistenza a flessione e a compressione della malta indurita”. Milano, 2000. [11] DIN 52 617, “Bestimmung des Wasseraufnahmekoeffizienten von Baustoffen”, Deutsches Institut für Normung, Beuth Verlag GmbH, Berlin, 1982. [12] SIA 162/1, “Costruzioni in calcestruzzo – Prove dei materiali”, Prova No. 7, Società svizzera degli ingegneri e degli architetti, Zurigo, 1989. [13] Ney, P. “Die Erhärtung von Luftkalkmörteln als Kristallisationsvorgang”, Zement-Kalk-Gips, Heft 10, pp. 429-434, 1966. [14] Lawrence, R. M. H. “A study of carbonation in non-hydraulic lime mortars”, PhD thesis, University of Bath, 2006. [15] Jornet, A. e Romer, A. “Lime Mortars: Relationship between Composition and Properties”, Proceedings CD of the Historical Mortar Conference HMC08, Lisbon 24-28, September, 2008. PROFILO AUTORI Albert Jornet, diplomato in Geologia e dottorato in Scienze della Terra nell’Università di Friburgo (CH). “Fellow” alla Smithsonian Institution, Washington, D.C. Attività professionale nell’industria. Professore di Chimica dei materiali nel Dipartimento Ambiente Costruzioni e Design. Autore di numerose indagini e articoli scientifici. Giovanni Cavallo, geologo, docente ricercatore presso l’Istituto Materiali e Costruzioni della SUPSI di Lugano, si occupa di caratterizzazione e degrado di superfici architettoniche collaborando a progetti di ricerca in ambito nazionale e internazionale. 62 Cristina Mosca, architetto, dottore di ricerca in Programmazione, Manutenzione, Riqualificazione dei sistemi edilizi e urbani, Politecnico di Milano. Collaboratrice scientifica dell’Istituto Materiali e Costruzioni, SUPSI (CH). 2005-2009 docente a contratto di Tecnologia dell’Architettura, Facoltà di Architettura e Società, Politecnico di Milano. TRA ARCHEOLOGIA, EMPIRIA E SCIENZA: UNA PROPOSTA PER LA CLASSIFICAZIONE DELLE RESISTENZE DELLE MALTE Tiziano Mannoni Istituto di Storia della Cultura Materiale Nell’ambito dell’ Istituto di Storia della Cultura Materiale fondato a Genova nel 1976, dopo venti anni di esperienze archeologiche nell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, e con gli apporti di altre discipline, come quelli della Sezione di Mineralogia Applicata all’Archeologia, operativa nell’Università dal 1965, e ricercatori chimici, botanici, architetti, storici dell’arte e geografi, lo studio dei leganti storici non ha costituito un filone continuo di ricerca, ma i loro problemi erano sempre presenti e in ogni intervento archeologico si osservavano e si campionavano i vari tipi di malte, per potere affrontare quando erano maturi i singoli problemi. Dal 1982 la collaborazione si è allargata alla Facoltà di Architettura, dove è sorto l’attuale Laboratorio di Archeologia dell’Architettura, al Normal, alla Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti del Politecnico di Milano e alla fondazione dei Convegni di Scienze e Beni Culturali di Bressanone. Negli ultimi anni del secolo scorso si è infine istaurata una collaborazione anche con la Sezione di Ingegneria dei Materiali dell’Università di Genova L Premessa a proposta non è di genere teorico, ma si basa sulle ricerche che l’autore ha avuto l’occasione di organizzare o di seguire a partire dagli anni Settanta. Non si tratta ovviamente di tutte quelle effettuate, ma per ogni tipo di legante storico viene riportata una sintesi del caso che abbia meglio evidenziato un problema irrisolto e fornito dati che interessano la proposta stessa. 1). Calce aerea a base di dolomite. SUMMARY Si parte da questa perché più si fanno nuove analisi, più sembra che fosse la più usata, non solo per le malte di allettamento, ma anche per gli intonaci, tranne cornici e stucchi, in quanto meno plastica di quella a base di calcite. Rivedendo il significato delle parole usate da Vitruvio nel distinguere le pietre adatte a produrre la calce plastica e quelle necessarie per quella magra è evidente che le prime fossero dei calcari organogeni, mentre il termine silex usato per le seconde, e tradotto erroneamente con “silice”, in latino significava “pietra dura e tenace”, caratteristiche che tra le rocce carbonatiche sono proprie della dolomia, ma anche di qualche calcare selcifero, raramente trasformabile in calce. A Genova la calce magnesiaca è stata presa in considerazione a partire dagli anni Settanta perché è presente con una buona resistenza in tutte le facciate, dipinte o no (la più antica finora nota è del 1496), e in tutte le opere portuali anteriori al Novecento fino al Molo Vecchio della metà del XII secolo, delle quali si riparlerà nelle calci idraulicizzate. Una fortuna è che l’unico affioramento dolomitico vicino a Genova sia a Sestri Ponente, a soli 6 chilometri via mare, e la principale cava in esso aperta, abbandonata con la rivoluzione industriale nel 1900, è ancora perfettamente conservata assieme a 13 fornaci preindustriali che hanno una grande forma ogivale e sono poste nel terreno accanto a ciascuna casa delle famiglie proprietarie, diverse delle quali hanno difeso per cento anni il loro patrimonio storico. L’atra fortuna è che Rita Vecchiattini si sia appassionata a questo patrimonio già dalla tesi di laurea in Architettura e riuscì This is a brief description of the data that emerged from ten or so research projects regarding different historical binders in which the author had the occasion to take part, either directly or indirectly. The article highlights the difficulties encountered in interpreting data that contrast with rules or standards currently taken as valid, particularly with regard to the various degrees of resistance these materials have demonstrated over the long term. A number of necessary changes are proposed, regarding standards and regulations and above all regarding how to continue the far-from-easy research aimed at explaining the causes of the inconsistencies found, and, ultimately, at improving the characteristics of certain binders that are still necessary for maintaining historical buildings, in order to make them more compatible with economic, environmental and health and hygiene requirements. 63 a ricostruire pazientemente con le memorie orali, e qualche volta scritte, dei fornaciai il funzionamento tradizionale: lunga cottura a bassa temperatura, che per i fornaciai consisteva nel debole sibilo del tiraggio regolabile, legna a basso potere calorifico, e con l’aggiunta di vasche d’acqua all’imboccatura, se necessario, erano le “regole dell’arte”. La terza fortuna fu quella di scoprire casualmente che i colleghi di Ingegneria dei Materiali avevano dei metodi di ricerca che permettevano di misurare contemporaneamente le variazioni di temperatura, di anidride carbonica e di gas d’acqua in un piccolo modello di forno; poi si valutava al S.E.M., ed altri strumenti come il porosimetro, cosa era cambiato negli ossidi di calcio e di magnesio. Rita Vecchiattini si è ben preparata sulla chimica e fisica dei materiali, ha passato da sola il concorso nazionale del dottorato sui leganti, ha chiesto la sede di Genova dove, con indicazioni strategiche e aiuti di tutta la Sezione di Ingegneria dei Materiali, ha dimostrato fatti poco o nulla conosciuti su certi comportamenti del magnesio, ma per quanto riguarda la mia proposta in questa sede, è ora molto chiaro che con le antiche regole dell’arte si ottenevano sistematicamente, con la stessa dolomia, dei grani di ossido di calcio in una gamma di dimensioni maggiori. Sembra quindi che questa differenza sia attualmente l’unica che possa spiegare perché, quando gli uomini della Rivoluzione Industriale, che non è stata per la maggior parte dei suoi aspetti una rivoluzione scientifica, hanno considerato il saper empirico qualcosa di legato alla miseria e all’ignoranza, e sono passati ai forni veloci a carbone inglese: la calce non è stata più la stessa, come qualcuno ha subito osservato, ma nessuno si è chiesto il perché, e tale è rimasta, come se quella di prima non fosse mai esistita. 2). Calci aeree a base di calcite. 1. 64 Al contrario del caso precedente, non ho avuto esperienze di carattere generale, che altri sicuramente avranno, ma porterò due problemi che ho toccato con mano, utili al presente ragionamento. Il primo riguarda “come far fare presa nell’acqua ad una calce aerea senza additivi”, espressione che è già di per se stessa in contraddizione con le conoscenze attuali. In realtà, nel 1950-52, quando ero assistente nel cantiere di restauro dai danni di guerra del palazzo di via San Lorenzo a Genova, quello di fronte alla piazza del Duomo, c’erano ancora diversi muratori che avevano imparato dai “maestri empirici”, e una volta uno di loro mi disse che per entrare nella fogna con un nuovo scarico preferiva usare la calce viva, e vidi poi come essa aveva ben aderito nel bagnato. Se trovassi oggi uno di quegli uomini quante cose vorrei chiedergli, ma non ci sono più da un po’ di tempo. Negli anni Settanta scoprii il noto documento altomedievale di Lucca sui modo di costruire nell’acqua con la calce normale: capii che c’era una storia a monte della mia esperienza, ma essa non mi aprì delle strade sufficienti per organizzare una ricerca (la manualità del procedimento in casi come questi può essere determinante); ricerca che forse molti altri avranno fatto, ma non le conoscevo e non le conosco tuttora. Nello stesso filone, infine, mi convinsero di più gli esperimenti di Loriot condotti nel 1770 e dettagliatamente descritti, anche se egli pensa che le parole non siano sufficienti per imparare. Se si confronta questa scheda con quella precedente è facile chiedere che senso ha metterle assieme: quella è ricca di inequivocabili e nuovi dati scientifici, questa allo stato attuale non ne ha nessuno. Risposta: è vero, ma, seguendo lo scopo del presente lavoro, non c’è dubbio che tutti i pareri attuali su questo fenomeno concordano su un comportamento anomalo, o per alcuni impossibile, sia per la avvenuta presa, sia per la resistenza in acqua del composto; se tuttavia esistono dei fatti, non potendo essere la formula chimica a cambiare, allora cosa è cambiato? 3). “Calci aeree” a base di calcite. 2 . Alla metà degli anni Ottanta Santo Tiné mi ha portato nella piana di Sassari dove era stato scoperto l’unico ziqqurat presente in Occidente, databile alla metà del IV millennio. I resti del muro di cinta della sommità della collina artificiale, chiamata Monte D’Accoddi, dentro il quale c’erano i resti del tempio, avevano presentato dei resti di intonaco rosso. Prelevati dei campioni ancora aderenti al muro, e fatte le sezioni sottili, risultò evidente che si trattava di un intonaco realizzato con un unico strato, con sopra due straterelli di ocra rossa applicata “a fresco”, e con una malta costituita da: un fine aggregato fatto di granuli di calcare microcristallino, argillosi, di quarzo e feldespati, lapilli e microfossili marini; un legante calcitico molto puro e molto fine (cristalli di pochi micron), ma in eccesso nel suo rapporto quantitativo con l’aggregato, sia secondo le regole attuali, sia secondo quelle storiche. Tornati sul monumento per studiare altri particolari e prelevare altri campioni, un muratore del luogo, che seguiva i nostri discorsi, a un certo punto ci ha detto che l’intonaco era fatto di “albino”, da loro ancora usato e la cui cava si trova a poche centinaia di metri: sembra un esteso deposito lagunare pleistocenico, dove gli apporti terrigeni erano molto scarsi e sempre gli stessi, mentre il tranquillo arrivo di acqua satura di carbonato continuava a deporre microcristalli di calcite. Ma la scoperta era ancora da venire: quando gli chiesi come facevano la cottura mi rispose che l’albino non si cuoce, si usa a freddo. Dopo in po’ di tempo trovai Angelo Traverso, fratello di Antonella, archeologa che scavava a Monte d’Accoddi, che voleva laurearsi in Architettura e gli proposi come tesi di studiare e di imparare manualmente tutto quello che sapevano in quel territorio sugli usi dell’albino. Importante era di conoscere l’intero processo lavorativo, stando attenti ad eseguire attentamente le sue regole nei minimi particolari, per poterne poi interpretare i risultati. Per quanto riguardava la manualità si è avuto un prodotto che è durato all’aperto una decina d’anni, ma per portarlo al livello di quelli tradizionali ci sarebbe voluto qualche anno di ulteriore apprendimento. E’ servito però per ipotizzare cosa può avvenire dal punto di vista scientifico: la giusta acqua a livello molecolare tra ogni granulo di polvere impedisce che si formino tra di loro legami di superficie stabili e determina quindi la loro mobilità plastica; la giusta battitura utilizza la mobilità per far sì che ogni granulo trovi la sua collocazione in concordanza con le facce di altri granuli, espellendo il velo di acqua e attivando quindi i legami stabili di superficie tra cristalli di calcite e, quanto meno ci saranno vuoti, tanto più ci saranno legami; la debole battitura ritmica e prolungata avrebbe quindi la funzione in questo caso di quella debole battitura ritmica che si trasmette sul fianco di un recipiente per ottenere la massima eliminazione di vuoti quando si sta riempiendo con un materiale secco, come semi, bulloni, ecc.. Quando le quantità di legami stabili intercristallini per volume dovesse raggiungere quelle di una vera malta, allo stato attuale non si vedono motivi per i quali l’albino non possa avere la stessa resistenza, visto che oltre tutto si tratta di particelle molto fini e che presentano, perciò, una elevata energia superficiale. Mentre la calce magnesiaca di Sestri Ponente, quella buona, avrebbe una grande utilità anche oggi, nessuno pensa per ovvi motivi di riutilizzare l’albino, ma una conoscenza scientifica più precisa dei suoi comportamenti potrebbe aiutare a capire meglio anche i problemi delle calci vere e proprie. 4). Calci aeree idraulicizzate. I tre additivi storicamente più usati vengono qui trattati assieme, non in quanto vengono considerati uguali, ma perché i problemi irrisolti di cui si vuole parlare sono gli stessi. L’esperienza genovese non è comunque uguale per i tre idraulicizzanti: il coccio-pesto è stato usato, oltre che dai Romani, che in Liguria sembra che non si siano mai riforniti di pozzolana, nel medioevo e fino alla fine del Settecento, ma quasi sempre per opere minori o riparazioni; la pozzolana di Bacoli è stata impiegata nel porto solo dalla prima metà del XVII secolo alla fine del XIX per grandi opere, che sono ancora in funzione, e quindi prese in maggiore considerazione per il loro buon comportamento al degrado; il caolino, infine, chiamato nei documenti “porcellana” e derivato dalla scuola costruttiva bizantina, è stato il più usato nel porto dal XIV al XVI secolo (esiste ancora qualche dubbio se sia stato impiegato anche nella parte più antica del Molo Vecchio del XII oggi inaccessibile), ma anche nell’acquedotto, nelle cisterne, nelle fondazioni e altre parti dell’architettura. Per questo motivo è l’additivo che i genovesi hanno più studiato, e su questo non mi dilungo perché lo ha già trattato nel migliore dei modi in questo stesso incontro Giovanni Pesce, che ha condotto su questo argomento anche il suo dottorato di ricerca in Ingegneria dei Materiali. Non va, tuttavia, dimenticato che, per tutti i leganti resi idraulici in questi tre modi, a Genova è stata impiegata la calce dolomitica, della quale Vicat ricorda dei dati empirici su una certa sua proprietà idraulica in mare (si veda il possibile caso ora citato del Molo Vecchio), ma può darsi anche che essa abbia nei riguardi dei tre additivi differenti comportamenti, a livello reattivo o microstrutturale, rispetto alla calce senza magnesio. L’altro aspetto importante di questi leganti, che le ricerche degli ultimi decenni hanno molto chiarito sono le quantità di silice e di allumina reattive presenti negli additivi. A questo proposito vorrei ricordare che nel Taccuino di Villard de Hannecourt, probabile maestro della corporazione dei muratori e dei carpentieri del nord-est della Francia, compilato nella prima metà del Duecento, si legge che, per produrre un recipiente per conservare acqua, basta mescolare alla calce della “tegola pagana”, ovvero romana, pestata: evidentemente sapevano dalla pratica che non tutti i laterizi erano in grado di produrre un buon coccio-pesto; in questo caso le differenze non dipendevano molto probabilmente da minerali particolari presenti nelle terre, anche perché si tratta di territori abbastanza omogenei da questo punto di vista, ma piuttosto dai diversi trattamenti termici realizzati con le fornaci romane rispetto a quelli ottenuti con i forni medievali, come l’archeologia e la storia della cultura materiale hanno più volte dimostrato. Si veda anche il contributo di Cristina Tedeschi in questo stesso convegno. Un conto è però parlare di quantità di minerali reattivi presenti in un additivo, o di quantità delle parti di essi che possono veramente reagire con l’idrossido di calcio: non mi pare che si sia mai vista in microscopia una malta di pozzolana o di cocciopesto in cui interi granuli abbiano reagito quasi completamente e vi sia un residuo basso di calcite. Al contrario: a un basso ingradimento, subito sembra di vedere una normale malta con aggregato; ingrandendo i contatti tra i minerali si notano dei bordi di reazione più o meno sottili che si possono analizzare; dal momento però che ogni granulo di additivo ha ancora al suo interno molto materiale che può reagire e fuori c’era ancora molto idrossido di calcio, è evidente che non conosciamo ancora l’intera dinamica di questa reazione. Le stime fatte più volte del volume dei bordi di reazione, pur tenendo conto della loro approssimazione non elevata, oscillano nei migliori dei casi tra il 10% e il 20% del volume totale. In realtà in un primo tempo si sperava che, avendo il caolino delle dimensioni cristalline più vicine a quelle dell’idrossido di calcio, se polverizzato prima della cottura, si sarebbe potuto comportare molto meglio; ma per quel poco che ho potuto seguire questo problema sembra, a livello microscopico ovviamente, che si mantengano delle aree dove la calcite è dominante, altre in cui c’è solo caolino e fasce di reazione con valori non molto differenti da quelli già detti. Se questo fosse confermato potrebbe significare che la dinamica della reazione è regolata da qualche equilibrio che non conosciamo. 5). Calci idrauliche naturali. Mi atterrò a quelle di cui conosciamo in Liguria una storia, senza quindi addentrarmi nel ginepraio dell’attuale mercato. Tra Genova e Chiavari, e all’interno fino in Emilia, la geologia è in prevalenza rappresentata dai calcari marnosi detti dell’Antola, con assenza di calcari e di dolomie. Quando alla fine del medioevo i contadini hanno cominciato a costruire case a due piani in muratura, non potendo permettersi i trasporti di calce a dorso di mulo da Sestri Ponente, hanno finito per scoprire che alcuni banchi di calcare marnoso, tra quelli meno ricchi di argilla, si prestavano in posti differenti a diventare una buona calce di colore giallo che chiamarono “selvatica”, perché era un prodotto del bosco. Quando, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, si doveva costruire nel porto la grande Diga Foranea, si decise di fare dei campioni con i leganti idraulici allora disponibili, comprese le famose calci francesi e tra le locali ne figurava una selvatica della vicina val Bisagno: i risultati erano buoni per tutte, per cui si decise di usare la più vicina. Partiti i lavori la calce della val Bisagno, però, non aveva più le caratteristiche del provino. I verbali dei sopralluoghi dicono che la fornace era piccola e su vie mulattiere, ma nel frattempo degli industriali avevano aperto velocemente nel fondo valle una cava nel calcare marnoso, che non era però lo stesso, e delle grandi fornaci a carbone. La Diga fu alla fine costruita molto bene con la calce dolomitica di Sestri Ponente idraulicizzata con la pozzolana napoletana; le nuove fornaci del Bisagno sopravvissero fino alla seconda guerra e poi gli fu imposto di chiudere per la scarsa qualità del prodotto. Della calce selvatica buona, quella dei contadini, abbiamo ritrovato sul monte il forno con la sua cava, ma purtroppo non c’era più nessuno che l’avesse usato. Un po’ di anni dopo, nello studiare le carbonaie storiche, venne trovato ad Alpe della valle Vobbia un altro impianto per la calce selvatica di cui esisteva però ancora chi lo aveva condotto per ultimo. Ne uscirono le seguenti regole: il banco da coltivare era sì, come si vedeva nella cava, quello più calcareo, ma esso stesso non forniva la stessa qualità di calce in tutta la sua estensione; la cottura andava fatta in tempi lunghi, con legna che poteva andare dalle ramaglie ai piccoli tronchi. Sono regole che vanno d’accordo con quanto si sa oggi sulla non alta quantità di silice reattiva e la bassa temperatura perché si formi la beta-Belite necessaria alla presa delle vere calci idrauliche naturali. La calce di Vobbia presenta un ritiro alla presa molto basso e si poteva quindi usare con pochissimo aggregato; i prodotti campionati hanno presentato alte resistenze meccaniche, alla compressione, all’abrasione e alla disgregazione, ma le analisi più importanti sono ancora tutte da fare. Anche questo è un legante che, quando se ne conoscessero le vere cause delle sue qualità, potrebbe avere un mercato, ma nessun investitore ci crede e rimarrà solo una memoria storica; ai fini del presente lavoro, tuttavia, qualche spiegazione di queste cause potrebbe aggiungere un tassello utile al mosaico generale. 65 6). Calce con gesso. Le analisi condotte in una rottura accidentale di una protome in stucco della facciata realizzata alla metà del Cinquecento nel Palazzo di Nicolosio Palavicino in via Garibaldi a Genova hanno indicato una composizione costituita da: non più del 15% di aggregato finissimo e il legante per metà da calce magnesiaca e metà da gesso. Nei coevi marmorini degli elementi architettonici in rilievo che, essendo finiture di superfici lisce, avevano spessori tra uno e due millimetri, si poteva usare anche la sola calce con un volume pari di aggregato costituito da calcite e aragonite provenienti dalle grotte del monte Gazzo, che sovrasta le cave di Sestri Ponente, e macinate molto fini da permettere all’impasto una sufficiente plasticità, e con ritiri attorno ai centesimi di millimetro, che in facciata non danno adito a penetrazioni capillari, se non sono presenti dove l’acqua può ristagnare. Per facciate a rilievo ornato con decorazioni naturali e figure umane, invece, è impossibile modellare senza spessori variabili, e anche di qualche centimetro, e con un impasto che non sia molto plastico. Il gesso è plastico, anche più della calce dolomitica, ma in cambio non ha ritiro, anzi spesso un piccolo aumento di volume, e tutto questo può spiegare le ragioni tecnico-artistiche di questa scelta, ma almeno dall’Ottocento si sostiene che il gesso ha una breve durata negli esterni: nel caso del palazzo in oggetto, che ha avuto in seguito una pulitura della facciata, è risultato evidente che gli stucchi originali, in 450 anni di esposizione alle piogge a vento tipiche di Genova, non hanno mai avuto bisogno di trattamenti protettivi, né hanno segni di qualche degrado dovuto al gesso; anzi anche la calce ha subito meno abrasioni da parte della pioggia battente e scorrente rispetto alle coeve facciate della stessa strada normalmente intonacate. Sembra cioè che i due leganti si siano protetti l’un l’altro, ma a prima vista non si capisce quale potrebbe essere stato il comportamento di natura chimica a ottenere l’effetto, e non si conoscono quelli di natura fisica, o mista. Nel frattempo, come Dottorato di ricerca in Restauro dei Monumenti del Politecnico di Milano ho avuto occasione di seguire anche le ricerche su opere architettoniche piemontesi contenenti gesso negli esterni condotte da Lisa Accurti, con la collaborazione dei laboratori di Mineralogia di Torino e di Ingegneria dei Materiali di Genova. La Accurti ha dimostrato che lo stesso gesso preindustriale aveva qualche differenza rispetto a quello tutt’ora in commercio, per cui anche opere in solo gesso resistevano meglio. Non si è tuttavia raggiunta una spiegazione causale della maggiore resistenza della miscela fra i due leganti, senza contare che su questa linea andrebbe preso in considerazione il fatto che sono esistite anche miscele plastiche a base di calce, gesso e caolino. 7). Calce con terra. 66 Nell’ambito dello stesso Dottorato ho seguito alcune ricerche condotte da Laura Fieni sulle malte del centro storico di Cremona, con la collaborazione dei laboratori di Mineralogia di Parma e di Geopedologia di Milano. Ricordo che siamo scesi nelle cantine di una casa del Cinquecento, dove i giunti fra i mattoni erano di terra con poca calce: non presentavano disgregazioni o sbriciolamenti e sembravano fatti il giorno prima; a toccarli non si modificavano, se non venivano forzati: una bassa resistenza meccanica, ma un sistema in equilibrio; bastava fare i muri in po’ più spessi. Nel primo cantiere del 1950 avevo imparato che quando arrivava la sabbia si teneva sotto controllo, e se spuntava qualche filo di verde, andava scartata perché sporca di terra, con la conseguenza che avrebbe reso meno resistente la malta o l’intonaco. Gli studi della “terra” di Cremona, usata assieme a poca calce dolomitica, hanno dimostrato che non si tratta della frazione sedimentaria più fine, quella argillosa, ma di quella subito sopra, il limo; non solo, ma che si tratta di limi che sono stati per lungo tempo dei suoli, e quindi con delle micromorfologie stabili. Discussione e proposte. A) Una prima osservazione che può venire spontaneamente fatta riguarda le calci idraulicizzate: potrebbe sembrare a prima vista che le reazioni limitate che esse presentano giustifichino perché i cementi siano considerati i migliori in questo settore, in quanto soggetti a reazioni pressoché totali, anche se avvengono con processi produttivi completamente diversi. Il fatto potrebbe comunque avere un significato se la formula della idraulicità servisse solo per una classificazione chimica, aggiungendo ad essa qualche possibilità di valutare anche le quantità delle reazioni avvenute. La formula non esprime però più nulla di utile, se deve servire per scegliere i materiali più resistenti in acqua nei tempi lunghi: ci sono prove, specialmente di età romana e bizantina, in tutto il Mediterraneo che dimostrano le lunghissime durate di quei materiali; nel caso del porto di Genova, per esempio, la scala del degrado va in senso opposto a quella dei tempi trascorsi: dal cemento degli anni Sessanta a quello degli anni Venti, alla calce con pozzolana dell’Ottocento e a quella del Seicento fino alla calce con il caolino medievale. Qualcuno ha visto in questa sequenza una prova che questi materiali invecchiando diventino sempre più resistenti: non si può escludere in linea generale, e disponendo di opere costruite con lo stesso materiale in epoche differenti, si potrebbe anche verificarlo; quello che non è possibile, invece, è che le opere che abbiano subito dei danni nel periodo in cui erano ancora poco resistenti, abbiano poi recuperato quello che allora avevano perduto (l’archeologia dell’architettura ci permette di distinguere con sicurezza le riparazioni dagli originali). Prima proposta. Bisogna incominciare a pensare seriamente ad un nuovo modo di classificare le resistenze dei leganti idraulici; modo che abbia prima di tutto dei più stretti rapporti con gli effetti pratici verificati. Per evitare tuttavia di ricadere in una elaborazione empirica come quella attuale, che si basa cioè sul presupposto che il cemento sia il prodotto di una formula chimica ideale, come se si fosse sicuri che le cause di tale acme raggiunto siano contenute nella formula stessa, bisogna cercare altre famiglie di cause possibili. Se si torna un attimo ai dati pratici del porto di Genova, per esempio, non bisogna dimenticare che, anche a parità di elementi della formula, le reazioni nelle calci idrauilicizzate e nei cementi avvengono in modi molto diversi tra loro e con composti differenti; lo sesso va detto per quanto riguarda quello che viene chiamato “fare presa”, usato per entrambi, anche se si tratta ancora una volta di processi molto differenti. Come avviene sempre quando una ricerca, condotta da tempo sulla base di una o più teorie, non riesce a spiegare dei dati nuovi, ritenuti perciò contradditori anche se reali, si deve ricominciare da capo, mettere da parte le teorie e ragionare su più dati possibili per vedere se possono dare luogo a nuove ipotesi. B) La seconda osservazione è di carattere più generale e coinvolge un po’ tutti i casi presi in esame. Non sembrano esistere indizi, né ipotesi, appartenenti allo stesso punto di osservazione (per esempio: formula chimica, microstruttura morfologica, o sue caratteristiche chimico-fisiche) che potrebbero cercare di spiegare i non pochi comportamenti che con i modi di conoscere attuali risultano anomali. Seconda proposta. Dal punto di vista metodologico abbiamo raccolto abbastanza casi, e sicuramente ce ne saranno molti altri, anche più interessanti, che l’autore non conosce, per sostenere che per le resistenze e le durate devono esistere dei rapporti molto precisi e importanti tra formula chimica e suo stato solido o amorfo, tessitura e dimensioni granulari, nonché qualità e quantità dei legami di superficie inter-granulari, ed altri che certamente sfuggono; rapporti che non siamo soprattutto abituati a concepire unitariamente, come aspetti differenti di uno stesso fenomeno naturale, e di vederne quindi le loro interazioni. Nel campo delle leghe metalliche, per fare un esempio solo analogico, perché i comportamenti dei legami metallici sono assai differenti da quelli di tutti gli altri legami, è normale che due metalli malleabili possano formare leghe molto più dure; che la durezza o la tenacità all’urto si possano variare molto con la forma dei grani di uno stesso metallo e la loro tessitura, senza quindi variare la composizione chimica. Un caso assai più recente e curioso che fa pensare è costituito da un nuovo materiale pellicolare che ha una forte capacità adesiva basata esclusivamente su legami di superficie: pochi centimetri quadrati fatti aderire a un vetro verticale possono reggere un peso attorno al chilogrammo; è stato ottenuto studiando e imitando la pelle delle zampe dei gechi, che camminano anche sui soffitti lisci: si tratta di una superficie costituita da una enorme quantità di micropeli che quando vengono orientati in una certa direzione presentano una quantità molto elevate di cariche polari. Fa pensare, non perché abbia a che fare con la calce, ma ogni fenomeno studiato che riguardi le microstrutture e i legami di superficie può indicare delle ipotesi sulle quali condurre delle ricerche. Oltre la mentalità di approccio, ci mancano sicuramente anche degli strumenti di laboratorio adeguati, che non sarà però possibile ideare e realizzare finché non si parta con una ricerca sulla nuova linea, mediante tentativi ed eliminazione degli errori, con gli strumenti disponibili. Contemporaneamente è necessario avviare anche la raccolta di altri casi ritenuti “anomali”, perché non si può mai sapere quale sarà il caso in grado di fornire i primi risultati utili ai fini dell’avanzamento in un nuovo genere di conoscenza. Concludo dicendo che non bisogna mai spaventarsi di fronte a quanto resta da fare, perché solo partendo si può cambiare e migliorare qualcosa, ed ogni piccolo passo avanti sicuro sarà sempre una scoperta piacevole per l’intelletto e utile all’umanità. LA FORMULA DELL’ALBINO DI SASSARI. A). Si utilizza la polvere derivante dalla disgregazione superficiale della roccia, favorita soprattutto degli sbalzi termici, data la notevole anisotropia della calcite in questo settore. B). Si settaccia la polvere per eliminare le impurità estranee al sedimento ed eventuali granuli di roccia non disgregata visibili ad occhio. C). La polvere viene impastata con acqua per gradi successivi, facendo in modo che in nessun parte dell’impasto vi siano mai quantità di acqua in più di quelle che manipolando, con pause di attesa, l’impasto può assorbire, ne vi sia polvere asciutta. D). Raggiunta così la plasticità omogenea (ogni microcristallo, se sollecitato, si può muovere rispetto agli altri favorito dalla polarità delle molecole di acqua che hanno aderito alla superficie, ma mantiene la posizione raggiunta per lo stesso motivo), viene attentamente spazzolato il muro e umidificato con gli stessi criteri usati per l’impasto. E). Raggiunti i livelli giusti di plasticità e di umidificazione del supporto, si stende uno strato di impasto spesso tra uno e due centimetri, lo si fa aderire per lenta pressione, e non per battitura, alle irregolarità del supporto e si spiana la superficie. F). Questo lavoro non va eseguito in periodi di forte evaporazione che può cambiare gli equilibri, ma comunque dopo la stesura bisogna passare subito alla battitura con un frattazzo: deve avvenire con la superficie dello strumento parallela a quella dell’impasto, con poca forza, ma con continuità, anche se sembra che non serva a nulla, e dopo un po’ cominceranno a formarsi delle goccioline d’acqua sull’impasto battuto. Un modo di regolare meglio frequenza e forza dei battiti si può proprio basare sulla quantità d’acqua espulsa e fino a che di questa ne esce, anche molto poca, si deve continuare. B I B L I O G R A F I A R. Vecchiattini, La civiltà della calce. Storia, scienza e restauro, Genova 2009. T. Mannoni, Dalle analisi dello stato attuale alla conoscenza dei modi di produzione degli intonaci, in Superfici dell’architettura: le finiture, Padova 1990, pp. 699-707. T. Mannoni, Le malte viste dall’archeologo del costruito, in “Scienza e Beni Colturali”, 2-3, 2000, pp. 9-16. G.L. Pesce, L’uso del caolino come additivo idraulicizzante nelle malte di calce aerea, in questo stesso convegno. F. Bandini, C. Montanari, A. Spinetti, Quarta campagna di archeheogia ambientale di Vobbia (GE): i forni da calce. Relazione preliminare, in “Archeologia Postmedievale”, 3, 1999, pp. 11-21. L. Accurti e altri, Arte del costruire e tecniche decorative tradizionali: approfondimenti su tecnologie di produzione, lavorazione e impiego del gesso per componenti edilizie e manufatti ornamentali, in area piemontese, in “Scienza e Beni Culturali”, XVII, 2001, pp. 167-178. L. Fieni, Approfondimenti metodologici e tecnologici per lo studio delle malte di terra: l’esempio dei manufatti cremonesi, in “Archeologia dell’Architettura”, IV, 1999, pp. 9-28. PROFILO AUTORE Tiziano Mannoni, uno dei fondatori e dei ricercatori dell’ Istituto di Storia della Cultura materiale (ISCUM), ha conseguito una Laurea in Scienze Naturali e ne ha ricevuto una honoris causa in Architettura. Ha insegnato per 13 anni ai geologi (Università di Genova), 24 anni agli architetti (Università di Genova e Politecnico di Milano) e 13 anni agli archeologi (Università di Pisa e di Genova); insegnamenti il cui tema era costituito dalla scienza, dalla tecnica e dalla storia dei materiali, intrecciate tra loro (raggruppamento di Metodologie Archeologiche). Ha avviato due laboratori di ricerca: uno di Archeometria presso la Facoltà di Scienze (1965), e uno di Archeologia presso la Facoltà di Architettura (1989). 67 LA NUOVA CALCE STORICA DI PALIZZI (RC) E L’INTONACO AL BERGAMOTTO Alessia Bianco* Antonella Postorino** Dipartimento PAU, Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria I Premessa** SUMMARY l presente contributo sintetizza i risultati di una ricerca sperimentale, condotta dal LaboReg 1 (Dipartimento PAU dell’Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria), il cui obiettivo si incentra sulla formulazione di prototipi sperimentali di materiali costruttivi, da impiegare negli interventi di restauro e di recupero di edifici storici e nei nuovi interventi di bioedilizia, nell’ottica della sostenibilità ambientale. All’interno del programma delle attività di ricerca, interessanti risultanze, in termini scientifici e di riscontri operativi sul territorio, sono emerse dalle sperimentazioni denominate “Nuova calce storica di Palazzi” e “Intonaco al bergamotto”. Lo studio, avviato nel 2002, dopo due anni ha fornito un primo significativo risultato, consistente nel censimento delle cave e delle fornaci di calce e laterizi in Calabria. Il monitoraggio delle attività estrattive, supportato da una piattaforma GIS, ha fornito i dati necessari per individuare nel territorio comunale di Palizzi (RC) un interessante distretto produttivo della calce funzionante fino al Dopoguerra. Tale riscoperta ha dato avvio, nel 2006, alla riattivazione della produzione di calce a Palizzi, utilizzando la risorsa estratta presso una cava attiva e la sua trasformazione in grassello di calce, al fine di verificare la conformità del “nuovo” prodotto alle normative di settore e quindi poter valutare una sua potenziale reintroduzione nel mercato del restauro conservativo e della bioedilizia. Questo primo passaggio ha fornito risultanze tanto incoraggian- 68 ti da indurre nel 2007 a realizzare delle applicazioni sperimentali in cantieri pilota, allestiti per il recupero di edifici rurali storici ubicati nel Comune di Bova Marina (RC), nei quali il grassello è stato utilizzato per il confezionamento sia di malte di allettamento sia di malte per usi speciali (ossia per la sarcitura di lesioni o per riparazioni murarie in breccia, interventi per i quali necessitava un prodotto con proprietà a ritiro controllato) e infine per realizzare intonaci con proprietà deumidificanti e traspiranti. Il monitoraggio delle applicazioni sperimentali, eseguito nel corso del 2007 e del 2008, ha fornito risultati interessanti relativi al controllo della durabilità prestazionale richiesta dalle diverse applicazioni tecniche oggetto di studio. Una volta realizzato e testato il prototipo della “Nuova calce storica di Palazzi”, si è avviata una nuova sperimentazione, ancora in corso, concernente lo studio degli intonaci storici, da cui è emerso, sebbene solo da fonti orali, che nell’Area Grecanica, gli intonaci venivano talvolta additivati con prodotti di scarto della lavorazione del bergamotto. 2002-2006 La ricerca sul campo e la produzione del prototipo** Gli obiettivi operativi attesi dalla programmazione scientifica del LaboReg e il contenuto del tutto inedito per il territorio calabrese di una ricerca orientata a definire prototipi di materiali tradizionali, non più presenti nel mercato dell'edilizia, ha reso necessario che la ricerca prendesse le mosse dalla formazione di un quadro conoscitivo minimo, seppure esteso a tutto il territorio calabrese, The contribution contains the results of a study aimed to test prototypes of traditional materials and products, no more present in the local productive sector, in order to check if they can be reintroduced in the market for green building and restoration. The research began in 2004 with a census of quarries and lime kilns in Calabria, which has led to identify in Palizzi (RC) a significant site extraction of limestone and for lime production. Hence the experiment, realized in 2006, to restore a quarry in Palizzi to product a slaked lime, observing the industry regulations. In 2007 the first applications were made in test construction site, to apply managed retreat mortars and dehumidifying and breathable plasters, even added with bergamot. In 2009 was realized the experiment on the detection of antibacterial and antifungal capacity. 1 in merito alla consistenza, quantificazione e valutazione dello stato delle attività estrattive della Regione e alla trasformazione delle materie prime in materiali per l’edilizia. Per tale motivo è stato necessario realizzare un censimento delle cave, dei siti di estrazione, delle fornaci e dei luoghi di trasformazione dei materiali lapidei, dalla pietra ornamentale agli inerti, dalle argille ai laterizi, dal calcestruzzo alla calce, effettuato sia tramite ricerca bibliografica, archivistica e presso gli enti che a vario titolo potessero fornire indicazioni, sia, soprattutto, tramite il contatto diretto con il mondo imprenditoriale e sopralluoghi esplorativi o di verifica. Questa lunga fase dello studio ha portato alla messa a punto di un Sistema Informativo Territoriale, che tramite una piattaforma GIS, consente di avere indicazione sulla localizzazione del sito attraverso una scheda identificativa nella quale è possibile leggere tutte le informazioni relative alla risorsa censita, sia a livello qualitativo sia a livello quantitativo. Da questo studio sono emerse, da un lato la profonda crisi che vive questo settore nel territorio calabrese e dall’altro la straordinarietà di testimonianze di attività passate, più o meno recenti. Un caso esemplificativo è quello di Palizzi, un piccolo centro sulla costa est della Calabria a 50 km da Reggi Calabria, rilevante per la presenza di una densissima rete estrattiva, produttiva e trasformativa della pietra calcarea e conosciuto per la produzione di un grassello di particolari capacità prestazionali. Quest'insieme di interessanti risultanze, sebbene piene di ombre, ha spinto la ricerca verso la possibilità di riattivare la produzione della calce di Palizzi. Scelta così la cava dell’impresa Mesiano a Palizzi, si è deciso di sperimentare la formulazione di un prototipo di grassello di Palizzi. Le cattive condizioni conservative delle fornaci Mesiano e soprattutto la mancanza di maestranze specializzate in possesso del know-how tecnico, ha spinto a chiedere il supporto di un'impresa che da oltre un secolo produce con continuità grassello di calce, l’impresa Fratelli Spadaro calce di Rosolini (RG), che, una volta cavata la pietra di Palizzi, l'ha trasportata presso i propri stabilimenti siciliani e lì l'ha trasformata in grassello di calce (fig. 1), con metodi e sistemi di trasformazioni tradizionali, anche se non del tutto omologhi a quelli impiegati storicamente a Palizzi. La ricerca è proseguita su due filoni paralleli, uno di tipo analitico e l'altro pragmatico. In primo luogo sono state svolte le indagini chimiche, fisiche, compositive, volte non solo a comprendere e caratterizzare il grassello, ma anche a carpirne le qualità tecniche e a verificarne la rispondenza ai requisiti normativi. Figura 1 La produzione del prototipo: il grassello di calce di Palizzi. 2007-2008 Le sperimentazioni applicative di intonaci additivati* Il progetto di ricerca si incentrava sulla necessità di disporre di risultanze operative di applicazioni sperimentali del grassello di calce, prodotto con la pietra di Palizzi. I tests sono stati eseguiti presso un cantiere di restauro strutturale e conservativo sito in Località Apambero di Bova Marina (RC). L'edificio si costituisce di una unità abitativa isolata, ad un solo piano, a forma di L, composta da tre celle aggregate, originariamente coperta con tetto piano in struttura mista calcestruzzo armato-laterizi. L'edificio, facente parte di un aggregato di cinque unità abitative simili, sorge su una collina di detriti alluvionali particolarmente instabile. Ciò rendeva necessaria la realizzazione di opere di carattere strutturale, conservativo e di completamento. Il restauro conservativo L'intervento in fondazione Il primo intervento di restauro strutturale, che ha visto l'utilizzo del grassello di calce della pietra di Palizzi, è relativo all'intervento in fondazione. Difatti le specifiche condizioni geotecniche dei terreni, particolarmente instabili, e gli evidenti e gravi quadri fessurativi presenti sull'edificio rendevano necessario un intervento radicale alle fondazioni, realizzato cingendo l'intero perimetro fondale dell'edifico con un cordolo in calcestruzzo cementizio armato. In tal caso l'incompatibilità comportamentale tra la muratura e il calcestruzzo ha visto una interessante applicazione di questo grassello nella realizzazione di una malta, utilizzata per rivestire il filo del muro al piede della fondazione ove andava ad apporsi il cordolo; in questo modo si evitava il diretto contatto tra la muratura e il cordolo, eludendo problemi relativi alla creazione di ponti termici, effetti di risalita capillare, incompatibilità termoigrometrica; in tal caso infatti l'applicazione di questa interfaccia ha consentito di rendere il piede della fondazione più traspirante e deumidificante. La sarcitura delle lesioni Un secondo intervento di tipo strutturale conservativo ha riguardato la realizzazione di sarciture, riconnessioni angolari e integrazioni murarie, eseguite, per le lesioni meno gravi con la tecnica della rinzeppature, e per quelle maggiormente divaricate o passanti con la tecnica dello scuci-cuci a cantieri alterni. In questo caso, l'utilizzo di una malta a basso ritiro era necessaria, perché solo garantendo una reale connessione e un effettivo attrito tra le parti preesistenti e gli elementi di integrazione, si poteva garanti- 69 confezionamento e l'applicazione un intonaco deumidificante e traspirante da utilizzare all'esterno al piede dell'edificio ; difatti le caratteristiche orografiche del terreno al contorno e soprattutto la presenza di un terreno argilloso rendeva il piede del fabbricato particolarmente fondazione. Tali fenomeni avevano prodotto nell'edificio l'innesco di una grave patologia da degrado materico e distacco, che aveva portato ad una perdita dell'intero pacchetto componente l'intonaco per una porzione che generalmente coinvolgeva circa 1 m dal piano di campagna. L'applicazione di un intonaco deumidificante perseguiva anche lo scopo di migliorare la salubrità degli ambienti interni. Per tale motivo è stato confezionato un intonaco composto da grassello di calce di Palizzi, sabbia della fiumara dell'Amendolea, acqua e cocciopesto naturale (che attribuisce al prodotto la colorazione rossastra), adeguatamente trattato in modo specifico. La traspirabilità garantita dal grassello di calce di Palizzi, unita mente al potere deumidificante del cocciopesto, ha prodotto un materiale che velocemente e facilmente consente la traspirazione dell'umidità di risalita e la sua veloce asciugatura; in tal modo, a seconda del regime delle piogge, il piede del muro inevitabilmente incrementa il tenore di umidità proprio, ma l'asciugatura è immediata, scongiurando efflorescenze, decoesione e disgregazione. 2 Figura 2 Il cantiere test di Bova Marina (RC): intervento strutturale, sarcitura di lesione. re quella continuità che consente la riabilitazione del pannello murario in termini di continuità e quindi di capacità nella trasmissione delle azioni. L'intervento è stato eseguito solo coi materiali sperimentali e ha evidenziato la mancanza di fessurazioni da ritiro, distacchi, polverizzazione degli strati fini, evidenziando l'adeguatezza del grassello di calce in oggetto all'applicazione per interventi di tipo strutturale, anche di un certo rilievo in termini di prestazioni tecnologiche (fig. 2). Un limite applicativo di questa malta potrebbe risiedere nella resa cromatica delle integrazioni, che appaino generalmente troppo chiare rispetto alle malte originarie. I provvedimenti di riduzione della vulnerabilità sismica L'intervento in sommità Un ultimo intervento strutturale ha visto la realizzazione di un cordolo sommitale in muratura laterizia armata, resosi necessario per garantire all'edificio il comportamento scatolare in caso di azione sismica e per rendere solidale, attraverso dei tirafondi, la copertura in capriate lignea prevista dal progetto. Anche in questo caso si doveva garantire la compatibilità e la conformità comportamentale tra la muratura e esistente e il nuovo cordolo; anche per questa lavorazione si è quindi scelto di non utilizzare malta cementizia, ma solo malta con il grassello sperimentato; utilizzato non solo per tessere il cordolo, quindi come malta di allettamento, ma, anche in questo caso, prima di realizzare il cordolo stesso, così da costituire sul muro originario una sorta di cresta muraria con mantellina a bauletto raso, che ha consentito un rispetto integrale delle geometrie delle sommità murarie, senza prevedere rettificazioni, altrimenti necessarie per permettere la corretta posa in piano del cordolo in muratura. 70 Le lavorazioni di finitura Tests sperimentali di additivazione: l'intonaco al cocciopesto La sperimentazione dei prodotti da finitura ha avuto inizio con il Tests sperimentali di additivazione: l'intonaco al bergamotto La ricerca ha proseguito quindi confezionando un intonaco del tutto innovativo, perché contenente gli scarti della lavorazione del bergamotto; materiale questo che la tradizione orale del luogo riporta nel confezionamento delle malte, ma di cui non vi è testimonianza materiale o documentaria a cui fare riferimento. L'intonaco che si voleva confezionare era destinato esclusivamente ad uso interno, si è scelto però di compiere la sua sperimentazione applicandolo sia su una parete interna, sia su une parete esterna; ciò al fine di valutare il comportamento di questo intonaco oltre che in condizioni standard per un interne appunto applicandolo su una parete interna esposta a nord. Le malte così confezionate sono state messe in opera per la prima volta in data 16/11/2007, e sottoposte ad una prima valutazione che teneva conto della lavorabilità, della stendibilità, della densità, della coesione, dei tempi di presa e di prima asciugatura, ponendo attenzione anche alla scelta degli strumenti che meglio si adattassero alla stesura dei diversi campioni (frattazzo americano, artigianale in legno, in ferro). Si è quindi compiuto un primo monitoraggio fotografico, che ha portato alla scelta del campione ottimale, in quanto non manifestava nel tempo l'insorgenza di microfessurazioni, la variazione di colore e la traspirabilità, nelle parti poste al piede e quindi soggette a fenomeni di umidità di risalita. In conclusione la lunga e complessa sperimentazione in cantiere ha evidenziato la ricchezza e la bontà delle caratteristiche tecnologiche e comporta mentali del grassello di calce di Palizzi, anche unitamente ai derivati del bergamotto, soprattutto se si tiene conto della varietà delle applicazioni che la ricerca ha portato a sperimentare. 2009 Sperimentazione delle capacità antibatteriche e antimicotiche dell’intonaco al bergamotto* Il protocollo indagativo Le positive risultanze dell’applicazione del pastazzo di bergamotto, un agrume autoctono di questa regione, negli intonaci del primo cantiere sperimentale di Bova Marina ha indotto a proseguire le ricerche relative a questo filone. Uno degli aspetti che si è voluto indagare concerne la valutazione di possibili capacità antisettiche, antibatteriche e antimicotiche dell’intonaco al berga- 3 motto, allo scopo di prospettarne un eventuale utilizzo specialistico in ambienti particolarmente esposti alla proliferazione di agenti batterici e colonie fungine, come quelli richiesti per ambienti umidi (vani affetti da umidità di risalita o interrati) o ove è necessario un controllo della salubrità (camere sterili, sale operatorie, cucine). L'idea nasce dalla conoscenza, desunta dalla scarsa bibliografia di settore soprattutto dalla tradizione orale locale, che attribuisce al bergamotto proprietà lenitive e disinfettanti. D'altro canto, tutt'oggi i composti del bergamotto sono fortemente impiegati non solo per l’estrazione delle essenze da cosmesi, ma anche sottoforma di detergenti della persona, e di detersivi per la pulizia delle superfici dure. Il protocollo indagativo formulato prevedeva: - la realizzazione di n. 4 prototipi di malta, composti da grassello di calce di Palizzi, aggregato proveniente dalla fiumara dell’Amendolea ed acqua, in due strati, di cui il sottofondo dello spessore di 1,5 mm e la finitura di 0,5 cm. I quattro quadranti di dovevano differenziare per percentuali crescenti di additivo di bergamotto (il primo è privo additivo, il secondo 0,2%, il terzo 0,5%, il quarto 0,7%); - l'esposizione dei campioni in ambienti dalla forte aggressione batterica, ma significativamente diversi tra loro; - il trasferimento in laboratorio, coltura su piatti di Petri in camera climatica e confronto macroscopico. Esecuzione della sperimentazione e risultanze Lo scopo della preparazione era quello di studiare un'eventuale crescita microbica, (quali le muffe appartenenti al Phylum degli Ascomiceti, altre classi di funghi e particolari specie di batteri sulla loro superficie, che si presuppone possa diminuire al crescere della concentrazione di bergamotto. I suddetti campioni sono, dunque, stati collocati in tre ambienti chiusi: la sala operatoria di uno studio dentistico, la cucina di una mensa universitaria, un bagno pubblico, e in un ambiente aperto, un cortile frequentato da animali domestici (fig. 3). Nonostante i diversi livelli di asetticità presunta, in tutti gli ambienti scelti, abbondano microrganismi dei generi più svariati, da batteri Gram+ a batteri Gram-, da funghi della divisione degli Ascomiceti a virus lipofili. Dopo un'esposizione di 16 giorni, i campioni sono stati trasferiti in laboratorio ed, usando un tampone per ogni quadrante, si è effettuato il prelievo di eventuale materiale microbico che è stato col- Figura 3 Test sugli intonaci al bergamotto: il campione collocato nel cortile. tivato su piastre di Petri contenenti agar. Le piastre sono, quindi, state incubate in una camera climatica a 37°C e 60% di umidità per 20 ore. Una prima osservazione macroscopica delle piastre, effettuata 24 ore dopo la coltura, ha dato come risultato la presenza di colonie batteriche, il cui numero decresce al crescere della concentrazione del bergamotto per annullarsi completamente sulle piastre provenienti dai campioni con la concentrazione più elevata di additivo, eccezion fatta per la piastra corrispondente al campione collocato in cucina. Inoltre è stato possibile osservare colonie batteriche e fungine diverse per ogni piastra sia per quanto riguarda il numero che il tipo. Le piastre sono state rimesse in camera climatica, con le suddette condizioni, ed una seconda osservazione macroscopica è stata effettuata dopo ulteriori 48 ore: in questo caso, non è possibile apprezzare una diminuzione della carica microbica al crescere della quantità di additivo in quanto tutte le piastre presentano colonie (sia di tipo batterico che fungino) che non rispettano una sequenza numerica inversamente proporzionale alle concentrazioni di additivo. Conclusioni della sperimentazione La ricerca sperimentale effettuata, sebbene abbia solo carattere preliminare, visto il contenuto inedito di quanto investigato, fornisce indicazioni certamente non univoche rispetto alle presunte capacità antibatteriche e fungicida della carica al bergamotto negli intonaci, soprattutto se si pongono a raffronto le risultanze incoraggianti della prima sperimentazione con quelle meno lineari della seconda. Conclusioni e prospettive di ricerca* Le attività di tipo strettamente scientifico e sperimentale proseguiranno su due fronti, da un lato verranno approfondite le conoscenze relative alle formulazioni e alle caratteristiche compositive e comportamentali dell’intonaco al bergamotto, dall’altro verrà approfondito lo studio delle capacità tecnologiche di perdita del tenore di umidità proprio e di ritiro controllato in fase di asciugatura e presa, tramite monitoraggio termografico e termoigrometrico. Queste attività non possono però prescindere dallo studio del mercato e dalla messa a punto di un programma strategico di dif- 71 fusione sul territorio dei risultati. L’attività di divulgazione del prodotto presso il mondo professionale e imprenditoriale locale, ancora troppo poco sensibile alle istanze del restauro conservativo e dell’edilizia biocompatibile e sostenibile, è una delle attività che rientrano tra le finalità del LaboReg, che pone tra i suoi obiettivi l’assistenza alle imprese, l’introduzione di elementi di innovazione di processo e di prodotto sia nei settori di produzione sia in quelli di posa in opera dei prodotti. A tal proposito bisogna menzionare le consulenze specialistiche che il LaboReg sta attuando per i restauri del Castello di Palizzi (RC), di Palazzo Misiano a Bagaladi (RC) e del Dongione di Ardore (RC). N O T E 1 Laboratorio Regionale di Ricerca Scientifica applicata ai Centri Storici per il trasferimento tecnologico e la sperimentazione di materiali costruttivi locali, istituito nel 2002, in convenzione con il Dipartimento Attività Produttive della Regione Calabria (art. 36, commi 3 e 4, Legge Regionale 02.05.2001, n. 7), è diretto sotto la responsabilità scientifica del prof. Edoardo Mollica e con il coordinamento dell’arch. Antonella Postorino. B I B L I O G R A F I A AMBROGIO MICHELE, ALESSIA BIANCO, NADIA PORPIGLIA, L’intonaco con calce di Palizzi additivato al bergamotto: analisi batteriologiche, in: LaborEst, n. 4 (2009), pp. 86-89. BIANCO ALESSIA, Prima sperimentazione di malte di calce di Palizzi additivate: il cantiere test di Bova Marina (RC), in: LaborEst, n. 3 (2009), pp. 101-108. BIANCO ALESSIA, POSTORINO ANTONELLA, La Nuova calce storica di Palizzi, in: Newsletter n. 5/2009, pp.5-6 forumitalianocalce.it MOLLICA EDOARDO, POSTORINO ANTONELLA, Innovazione e qualità: i materiali per il recupero dei centri storici, in AA.VV. (a cura di Franchino R.) Materiali e prodotti per il controllo della qualità in edilizia, Alinea Editrice, Firenze aprile 2005. POSTORINO ANTONELLA et alia, La Nuova calce storica di Palizzi, in: LaborEst, n. 1 (2008), pp. 21-29. POSTORINO ANTONELLA et alia, La Nuova calce storica di Palizzi, in: “Ristrutturare la casa di campagna”, n. 3 (2008), pp. 55-58. POSTORINO ANTONELLA, I materiali per il recupero dei centri storici nella Provincia di Reggio Calabria: problematiche di compatibilità e reperibilità, in: AAVV, Dalla reversibilita' alla compatibilità, Nardini, Firenze 2003. PROFILO AUTORI Alessia Bianco, architetto-conservatore, dottore di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici è assegnista di ricerca presso il Dipartimento PAU dell’Università degli Studi di Reggio Calabria. Si occupa di diagnostica dei materiali e strutturale per il restauro strutturale conservativo, con particolare riguardo alla valutazione della vulnerabilità sismica delle edilizia storica in zona sismica. Antonella Postorino, architetto, dottore di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici, è coordinatore della Sezione Labo.Reg. del Lab. LABOREST del Dipartimento PAU dell’Università degli Studi di Reggio Calabria. Si occupa di tecnologia dei materiali con specifiche competenze circa la formulazione e prototipazione di materiali e soluzioni tecnologiche tradizionali e innovative per il restauro conservativo. 72 CONFRONTO TRA INTONACI TRADIZIONALI E PREMISCELATI: UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE Cristina Mosca, Albert Jornet, Giovanni Cavallo Istituto Materiali Costruzioni, C.P. 12, DACD-SUPSI, CH-6952 Canobbio, Svizzera e-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected] “S Premessa SUMMARY perimentiamo i materiali” è stato l’invito di Gilberto Quarneti durante l’intervento al Convegnocalce09 (Genova, 3-4 dicembre 2009). L’esperienza sviluppata nel progetto: “Malte per edifici storici: confronto tra malte tradizionali e premiscelate” 1, in corso presso l’Istituto materiali e costruzioni della SUPSI 2 di Lugano (CH), va proprio in questa direzione. Il lavoro descritto prende spunto da ricerche già eseguite dagli autori nell’ambito delle malte tradizionali e delle malte a base di calce3. Il progetto di ricerca accoglie alcune problematiche sollevate dall’Ufficio Beni Culturali del Canton Ticino (Svizzera) per quanto concerne la scelta della malta da utilizzare per l’integrazione o sostituzione di intonaci negli edifici storici. E’ bene precisare che la ricerca non entra nel merito del complesso processo decisionale della conservazione, pertanto non discute la decisione di rimozione o integrazione dell’intonaco. Si presuppone che la scelta tra opzioni trasformative e/o conservative derivi da un’attenta lettura e dal riconoscimento dei valori culturali, sociali ed economici in gioco. A questo proposito la ricerca sviluppata può aggiungere dati e conoscenze relative a: componenti, composizione e preparazione impasti, modalità di applica- zione, accorgimenti pre e post applicativi, indispensabili per l’esecuzione con successo di un intonaco. Negli ultimi anni si è assistito a un significativo incremento della diffusione sul mercato di malte specifiche da utilizzare negli interventi di recupero e/o restauro. Questo mette in serio imbarazzo gli addetti ai lavori, dibattuti tra il desiderio e la necessità di ovviare a inconvenienti non superabili con i metodi tradizionali e il timore di utilizzare nuovi prodotti di cui non si conosce né la composizione né il comportamento nel tempo. Nondimeno l’informazione tecnica su questi prodotti privilegia un’impostazione di tipo commerciale, creando margini di interpretazione relativamente ampi e una conseguente difficoltà nella selezione tra i differenti prodotti. L’attenzione agli intonaci nel campo della ricerca suscita sempre grande interesse, lo stesso purtroppo non è così evidente nella pratica di cantiere, dove la tradizione, tanto auspicata nella teoria, è in gran parte dimenticata o addirittura non conosciuta dalle maestranze dell’ultima generazione. Infatti, aspetto tutt’altro che secondario, è la scarsa disponibilità di maestranze formate per eseguire intonaci di tipo “tradizionale” (applicati in più strati, con tempi di attesa definiti dalle caratteristiche proprie dei materiali di base, dalle condizioni ambientali, dall’oggetto su cui si interviene, ecc.) che rendono di “nicchia” questo tipo di interventi. The research project: “Mortars for historical buildings: comparison between traditional and premixed mortars” tackles the problem of how to choose the most suitable type of mortar to use for adding to or replacing plasterwork in historical buildings, raised by the Cultural Heritage Office of the Ticino Canton in Switzerland. The aim of the experimental work presented is to compare different types of plaster, in conditions as similar as possible to those in a building yard, in order to assess how they behave over time. To this end, a brick block wall was built outside and used for sampling the traditional plasters and premixed plasters. The ultimate aim is to obtain useful indications regarding how to apply the plaster to guarantee durability, and to learn more about the timescales, costs and performance of the of products available on the market today, as compared with those of traditional mortars prepared on-site. 73 1 Figura 1 Figura 2 Il “saper fare” che era alla base della produzione degli intonaci preindustriali riuniva una quantità di procedure, strumenti e tipi di lavorazione che non trovano oggi riscontro né negli interventi di manutenzione degli intonaci esistenti né tanto meno guidano la loro sostituzione. L’accortezza nella scelta dei materiali (acqua, sabbia, calce, aggiunte), il loro corretto impiego, la lavorazione e stesura degli impasti, i tempi di maturazione erano procedimenti controllati al fine di ottenere una solida presa e un adeguato indurimento sulle murature 4. Oggi l’espressione: “esecuzione a regola d’arte”, benché ancora presente in schede tecniche di “nuoviantichi prodotti” e voci di capitolato, purtroppo ha perso il suo significato di “particolare cura necessaria nell’esecuzione delle lavorazioni”. materiali), il tipo di supporto su cui le malte vengono applicate e l’assenza di fenomeni di degrado in atto. Siamo consapevoli che un supporto in blocchi di laterizio, peraltro realizzato ex-novo, non abbia le caratteristiche di un muro storico in materiale lapideo o di una muratura mista e che nella nostra sperimentazione operiamo senza condizioni di degrado attive da sanare. Infine, pur conviti che le specificità di alcuni problemi che si evidenziano nel vastissimo campo dell’ambiente costruito pongono una stretta interazione tra ragioni conservative/trasformative delle materie e strumentazioni tecnologiche del progetto e dell’intervento 5, riteniamo che l’esperienza condotta possa essere comunque utile per dare avvio a ricerche sperimentali sul campo con casi studio reali. Muro realizzato nel campus della SUPSI (Lugano, CH) per l’esecuzione di campionature di intonaci di tipo tradizionale e premiscelati. Limiti vs. semplificazioni 74 2 La maggior parte delle verifiche di durabilità si basano su parametri desunti da processi di invecchiamento artificiale più che sull’acquisizione di dati provenienti da interventi realizzati. Il lavoro sperimentale presentato costituisce l’ultima fase di un progetto di ricerca molto più ampio, che ha come obiettivo quello di confrontare, in condizioni il più possibile analoghe a quelle di cantiere, il comportamento di diversi tipi di intonaco. Il confronto è articolato fra le numerose variabili che interessano l’esecuzione di un intonaco: dalla scelta dei materiali, alla confezione delle miscele, alla determinazione delle proprietà allo stato fresco, alle modalità e tempi di lavorazione e stesura degli impasti, alle proprietà allo stato indurito fino al comportamento nel tempo. Per conseguire l’obiettivo, nel Campus della SUPSI, è stato realizzato un muro da utilizzare come supporto per la realizzazione di campionature di intonaci. Sono doverose alcune precisazioni in merito a questa decisione, che può suscitare qualche condivisibile perplessità. Abbiamo dovuto necessariamente semplificare alcune variabili che sono sicuramente fondamentali nella scelta del tipo di malta da utilizzare in un intervento di recupero e/o restauro, ma che purtroppo sono difficilmente simulabili, se non sperimentando su casi studio reali. Mi riferisco a quelli che potrebbero essere considerati dei limiti a questo tipo di sperimentazione: l’influenza delle condizioni locali (specificità dei luoghi, delle tecniche e dei Il muro realizzato per la sperimentazione completo delle protezioni: copertura con telo di plastica e posa di un telo di juta intorno a tutto il perimetro. Il muro realizzato per la sperimentazione All’inizio di agosto 2009 è stato realizzato nel campus della SUPSI un muro in blocchi di laterizio (30x12.5x19 cm) allettati con malta premiscelata. Il muro si sviluppa per una lunghezza di 12 m, è alto 2 m e ha uno spessore di ca. 0.43 m ed è stato realizzato in modo da avere un prospetto esposto a Nord e uno a Sud (due esposizioni considerate critiche). Alla base è stato realizzato un cordolo in calcestruzzo (altezza ca. 25 cm), al di sotto del quale è stata posata una guaina impermeabile. E’ stata inoltre realizzata una copertura con uno sporto di gronda di ca. 15 cm (Figura 1). A fine settembre, prima dell’esecuzione degli intonaci, si è proceduto con l’allestimento di una serie di protezioni: è stata realizzata una copertura con telo di plastica e lungo tutto il perimetro è stato posato un telo di juta bagnato quotidianamente (altezza 2 m, distanza dal muro ca. 1 m) (Figura 2). Questa protezione, prevista per tutto il periodo di esecuzione e maturazione degli intonaci (ca. 90 gg.), contribuisce sia a riparare gli intonaci dall’azione diretta del sole e, almeno per le prime due settimane dopo l’applicazione, al mantenimento dell’umidità in modo che il processo di asciugatura e carbonatazione avvenga lentamente e uniformemente. Inoltre sono stati collocati dei sensori per rilevare T e U.R. in prossimità delle superfici intonacate. 3 Figura 3 Esecuzione a cazzuola della prima stesura di arriccio (campione: malta a base di calce idrata in polvere, posa “fresco su fresco”). L’applicazione degli intonaci da sperimentare Sono stati applicati intonaci di tipo “tradizionale”, ovvero prodotti in opera miscelando sabbia, legante, acqua e intonaci premiscelati pronti all’uso solo con l’aggiunta di acqua. La selezione delle miscele di tipo tradizionale è avvenuta sulla base dei risultati delle analisi condotte nelle precedenti fasi della ricerca, mentre i prodotti premiscelati in commercio sono stati indicati dall’Ufficio Beni Culturali in relazione alla diffusione che hanno negli interventi di restauro in Canton Ticino. I prodotti in commercio sperimentati sono comunque molto diffusi anche in Italia; solo uno non è utilizzato in Canton Ticino, ma probabilmente perché meno pubblicizzato degli altri. Ciascun campione di intonaco ha una superficie di due m2 e doppia esposizione (Nord e Sud). Ogni specchio è stato delimitato con delle guide verticali e orizzontali, posate con regoli e squadre, che hanno permesso di ottenere regolarità nella posa. Intonaci tradizionali: composizione ed esecuzione Gli intonaci tradizionali applicati sono differenti sostanzialmente per composizione, tempi di stagionatura della miscela prima dell’applicazione e tempi di attesa per l’applicazione dei vari strati. Sono state applicate tre malte “tradizionali” confezionate in laboratorio rispettivamente con calce idrata in polvere 6, con calce idrata in polvere e aggiunta di cocciopesto7 e infine con grassello 8. Per tutti è stata usata una sabbia di cava prevalentemente silicatica di 0-4 mm ben assortita, molto diffusa in Canton Ticino. Per la preparazione degli impasti è stato mantenuto costante il rapporto legante/aggregato, 1:2 in volume. E’ stata invece confezionata e applicata da un restauratore che opera da anni nel settore9 una malta a base di grassello, sabbia di cava 0-4 mm e rapporto legante/aggregato 1:3 in volume. Prima dell’applicazione dell’intonaco il supporto è stato bagnato abbondantemente per poi procedere con l’applicazione di diversi strati di malta secondo la sequenza diffusamente conosciuta: rinzaffo (aggrappo), arriccio (corpo), finitura. L’operazione di posa è iniziata proiettando energicamente con la cazzuola la malta per il rinzaffo (spessore di ca. 5 mm). Quest’ultima è stata confezionata con una consistenza piuttosto liquida in modo da favorirne la distribuzione su una superficie 4 Figura 4 Lisciatura con il dorso del cazzuolino della seconda stesura di arriccio (campione: malta a base di grassello confezionata e applicata dal restauratore Marco Somani). relativamente ampia e ottenendo un fondo il più possibile irregolare. Prima di procedere alla posa dell’arriccio (che ha la stessa composizione del rinzaffo) si è atteso una settimana per una serie di campioni, mentre per un’altra serie si è proceduto con un’applicazione “fresco su fresco”, ovvero si sono attesi i tempi “giusti” indicati dall’operatore10. Questi “tempi giusti” variano in funzione: delle condizioni ambientali (T e U.R.), dell’esposizione della parete da intonacare, della rapidità con cui il supporto sottrae acqua alla malta applicata, ecc. e possono andare da qualche ora a ca. un giorno. Chi ha esperienza nell’esecuzione di intonaci tradizionali riconosce il “primo stadio della presa”11 e sa quando è il momento di procedere con le fasi successive. Gli indicatori sono semplici, ad esempio la superficie che con il passare del tempo diventa sempre meno lucida; oppure quando, premendo con un dito la superficie, non si lascia più l’impronta. L’arriccio è stato applicato in due stesure, ciascuna con spessore di ca. 7-8 mm, rispettando una regola fondamentale per cui lo spessore massimo applicabile per ciascuno strato di intonaco non dovrebbe superare il doppio della dimensione massima dell’aggregato. Sia la prima che la seconda stesura sono state eseguite a cazzuola (Figura 3); la prima è stata solo regolarizzata con una staggia di legno, lasciando sempre irregolare la superficie, mentre la seconda è stata ripassata con il frattazzo di legno lasciando evidenti le tracce curve dovute al trascinamento dei grani di sabbia. I tempi di attesa tra le diverse stesure sono dipesi, come per il rinzaffo, dalla volontà di attendere due settimane o di proseguire con l’applicazione di tipo “fresco su fresco”. Infine, metà di ogni specchio di intonaco è stata conclusa con la posa di uno strato di finitura di grassello e polvere di marmo (rapporto 1:1) dello spessore di ca. 1-2 mm, applicato con frattazzo di acciaio e lisciato con frattazzo di spugna. Inoltre, solo nel caso delle malte tradizionali a base di calce idrata in polvere, è stata prevista una terza variante in cui l’arriccio è stato scialbato con tre mani di latte di calce. La malta confezionata e applicata da un restauratore, che opera in particolare nel Canton Grigioni, presenta alcune differenze: la stesura del secondo strato di arriccio, applicato a cazzuola, “al momento giusto” è stato lisciato con il dorso del cazzuolino (Figura 4) o finito con sacco di juta. 75 Figura 5 5 Intonaci premiscelati: nuovi prodotti “antichi”? Per taluni prodotti commercializzati l’ambizione di “assomigliare” all’antico è, a mio avviso, azzardata; questi prodotti possono vantare pregi non di certo ascrivibili alla somiglianza che potrebbero avere (e non hanno) con gli intonaci tradizionali, ma piuttosto relativi alla semplificazione della posa in opera, alla riduzione dei tempi di esecuzione, ecc.. Non vi è dubbio che gli intonaci antichi siano più durevoli di quelli contemporanei, così come non sembra ancora noto che cosa conferisca loro caratteristiche particolari 12 che raramente gli intonaci prodotti oggi riescono a emulare. Malgrado le ricerche attivate, l’impiego di materie prime di altissima qualità, l’adozione di formulazioni e dosaggi tradizionali, gli esiti non sono quasi mai comparabili con i “successi” del passato. Con il passare del tempo il proliferare di “nuovi prodotti” che proclamano “ricette originali ” 13 potrebbe anche essere controproducente, infatti sarebbe auspicabile evitare la diffusione dei prodotti senza che la necessaria sperimentazione offra garanzie per il loro impiego. Bisognerebbe dunque passare dall’attenzione per il prodotto a un’attenta sperimentazione che dia importanza alla verifica degli esiti. La nostra ricerca sperimenta quattro prodotti premiscelati disponibili in commercio e usualmente utilizzati negli interventi di restauro in Canton Ticino. Un quinto prodotto è invece diffusamente utilizzato nel Centro-Nord Italia. I prodotti sperimentati, che vengono usualmente proposti dalle ditte produttrici per i lavori di restauro, sono “a base di calce idraulica naturale (NHL)” o “leganti idraulici speciali, esenti da cemento”, così come riportato nelle schede tecniche. Per le modalità e i tempi di applicazione ci siamo attenuti alle indicazioni delle schede tecniche e per alcuni prodotti alle indicazioni dei rappresentati/tecnici delle ditte produttrici che hanno personalmente assistito all’esecuzione. Programma delle prove 76 Il programma di prove in corso prevede il monitoraggio, a scadenze programmate, dei campioni di intonaco applicati sul muro e l’esecuzione di prove non distruttive. Per ogni malta utilizzata sono stati inoltre confezionati provini (prismi standard 40x40x16 mm e dischi con spessore 2 cm e Ø 50 mm e Ø 100 mm) per condurre prove di laboratorio al fine di caratterizzare dal punto vista meccanico e fisico i diversi prodotti 14. Sono state inoltre intonacate tavelle in cotto (40x25x4 cm) da sottoporre a cicli di invecchiamento accelerato in camera climatica. Applicazione di un prodotto premiscelato in commercio per il rinzaffo. Durante l’applicazione, al getto della cazzuola, si nota una tendenza a formare dei filamenti piuttosto che spandersi. Per i componenti delle malte tradizionali sono state eseguite prove di caratterizzazione (analisi granulometrica aggregato e aggiunte, massa volumica assoluta e apparente di ogni componente). Per i prodotti premiscelati sarà eseguita l’analisi granulometrica e la difrattometria a raggi X per la frazione con Ø < 0.125 mm. E’ inoltre in corso una stima dei costi per gli intonaci tradizionali e per quelli premiscelati che tenga in considerazione i prezzi di: materiali, mano d’opera e mezzi d’opera. Particolare attenzione è data alla corretta indicazione degli accorgimenti pre e post esecuzione degli intonaci e ai tempi necessari per compiere le diverse operazioni. Prime considerazioni Già la fase iniziale di scelta e confronto tra i diversi intonaci applicati permette delle riflessioni su alcune questioni aperte. Per gli intonaci tradizionali si usa un’unica miscela con la medesima composizione sia per il rinzaffo che per l’arriccio, sola variabile è la lavorabilità che decide l’operatore in relazione all’applicazione (ad esempio malta più fluida per il rinzaffo gettato con la cazzuola). Nei prodotti in commercio, usati nella sperimentazione, solo uno ha la stessa peculiarità, gli altri prevendono prodotti distinti per il rinzaffo, l’arriccio e la finitura. Questo dovrebbe far presupporre una differenza composizionale che però nelle schede tecniche non è sempre così evidente. Non intendiamo dibattere lungamente su questo aspetto, ci limitiamo solo a indicarlo come spunto di riflessione. Le osservazioni condotte durante la confezione e l’esecuzione dei diversi intonaci al fine di confrontarne lavorabilità, facilità o meno di applicazione manuale, colore e aspetto permettono prime considerazioni di tipo qualitativo. Ad esempio: la lavorabilità delle malte premiscelate è relativamente difficoltosa in alcuni prodotti che risultato essere piuttosto “collosi”. Lo si nota bene durante l’applicazione perché al getto della cazzuola tendono a formare dei filamenti piuttosto che a spandersi (Figura 5); questa caratterista, ovviamente, non agevola l’applicazione manuale. Altro aspetto osservato è che sulla superficie di alcuni rinzaffi “premiscelati”, già dopo qualche ora, si forma una pellicola lucida e liscia che, invece, dovrebbe essere preferibilmente ruvida per fungere da aggrappo per lo strato successivo. Per discutere i risultati delle prove svolte bisognerà attendere ancora qualche mese 15 : alcune delle prove programmate sono terminate (determinazione delle proprietà allo stato fresco delle miscele) e altre sono in corso (determinazione delle proprietà allo stato indurito, invecchiamento accelerato, monitoraggio e prove non distruttive). La permanenza delle diverse campionature è prevista inizialmente fino al 2012. Una prima valutazione complessiva del comportamento nel tempo degli intonaci potrà essere condotta tra settembre e ottobre 2010, a circa un anno dall’applicazione. Conclusioni La sperimentazione presentata, seppur ancora priva di risultati definitivi, permette di sottolineare l’importanza data ad alcuni temi che hanno accompagnato lo svolgersi della ricerca. Il dibattito su tradizione e innovazione negli interventi sul costruito è uno dei temi che suscita l’interesse degli operatori del recupero e/o restauro: da un lato i sostenitori della “tradizione”, dall’altro coloro che propongono “nuove antiche ricette” risolutive. Il problema aperto è: da che parte stare? Probabilmente la proposta di rifare oggi ciò che si faceva in passato è alquanto anacronistica, sono improponibili in un cantiere odierno: i tempi di lavorazione lunghissimi, i materiali difficilmente reperibili o esageratamente costosi. Inoltre sono quasi del tutto scomparse le maestranze che, con il loro sapere, contribuivano alla realizzazio- ne degli intonaci. Nel contempo l’innovazione proposta dalla produzione consiste, nella maggior parte dei casi, nell’uso di componenti da aggiungere agli impasti in modo che si ottenga “una specie di cocciopesto”, “una specie di marmorino”, ecc.. Proprio all’interno di questo dibattito si inseriscono le conclusioni della sperimentazione presentata. Dal punto di vista metodologico queste sono orientate a informare chi opera nel settore degli interventi sul costruito su potenzialità e limiti degli intonaci tradizionali e di quelli premiscelati. La campionatura realizzata è a disposizione di tutti gli operatori interessati a un confronto aperto. Al termine del progetto di ricerca saranno comparabili: tempi e modalità di confezionamento, aspetti applicativi (posa e stagionatura), costi e prestazioni dei prodotti disponibili sul mercato rispetto alle malte tradizionali. Questo risultato dovrebbe dare una prima risposta, sicuramente non esaustiva, all’interrogativo posto dall’UBC, ovvero: assunta la decisione di integrare o sostituire un intonaco esistente, cosa può orientare verso l’uso di un intonaco tradizionale o uno premiscelato? N O T E Progetto in collaborazione con l’Ufficio dei Beni Culturali del Cantone, finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica nell’ambito dei progetti DORE. Durata: 1 giugno 2007 – 31 maggio 2010. 2 Acronimo di Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana. Jornet, A., Romer, A. e Romer M. “Confronto calce idrata in polvere-grassello”, Atti del 1° Convegno Nazionale dell’IIGC, Gruppo Italiano dell’International Institute for Conservation, Lo Stato dell’Arte, 5-7 giugno, Torino, pp. 54-63, 2003. Jornet, A. e Romer, A. “Lime Mortars: Relationship between Composition and Properties”, Proceedings CD of the Historical Mortar Conference HMC08, Lisbon 24-28, September, 2008. 4 R. Codello, “Gli intonaci. Conoscenza e conservazione”, Alinea, Firenze, 1996, pp. 226-229. 5 Molteplici sono gli studi sulle tecniche costruttive che hanno ricadute operative finalizzate alla maggiore e migliore conservazione della materia degli edifici storici. Per una sintesi di queste ricerche e alcune interessanti riflessioni si veda V. Pracchi (a cura di), “Lo studio delle tecniche costruttive storiche. Stato dell’arte e prospettive di ricerca”, Nodolibri, Como, 2008. 6 Calce idrata in polvere disponibile sul mercato in Svizzera e corrispondente alla classe CL 90-S, secondo la norma EN 459-1, “Calci da costruzione - Definizioni, specifiche e criteri di conformità”, 2002. 7 Cocciopesto ottenuto dalla cottura di materiale argilloso illitico a T di 800 °C, con granulometria < 0.125 mm. 8 Grassello preparato in laboratorio spegnendo (ca. 2 anni fa) l’ossido di calcio ottenuto dalla calcinazione dello stesso calcare da cui è stata ottenuta la calce idrata in polvere. 9 Marco Somaini, opera da molti anni come restauratore ed è docente nel corso di Conservazione e Restauro alla SUPSI. 10 Roberto Bucellari, tecnico dell’IMC, SUPSI, la cui esperienza pratica è stata fondamentale per l’attuazione della sperimentazione. 11 Si intende l’inizio del processo di indurimento delle malte. 12 “L’esistenza di intonaci e stucchi antichi, con caratteri che non sappiamo più riprodurre con gli stessi materiali, e la stessa ricchezza della nomenclatura tecnica del passato rispetto alla nostra, dimostrano di fatto che certe conoscenze empiriche sono andate perdute, e non sono ancora state riscoperte scientificamente”, T. Mannoni, Dalle analisi dello stato attuale alla conoscenza dei modi di produzione degli intonaci, in G. Biscontin (a cura di), “Superfici dell’architettura: le finiture”, Atti del convegno di studi, Bressanone, Libreria Progetto, Padova, 1990, pag. 699. 13 Se con “originali” si intendono delle formulazioni che attingendo a svariate componenti di materiali e lavorazioni promettono i medesimi risultati dell’antico. Cfr. R. Codello, “Gli intonaci. Conoscenza e conservazione”, Alinea, Firenze, 1996, pag. 231. 14 Sono previste prove per la determinazione: della resistenza alla flessione e compressione (cubi 40x40x40 mm) a 28, 56 e 90 giorni; della porosità su prismi di ca. 40x40x50 cm a 90 giorni; della resistenza alla diffusione al vapore su cilindri di Ø 100 mm; del coefficiente di assorbimento su cilindri di Ø 50 mm; della profondità di carbonatazione con fenolftaleina a 28, 56 e 90 giorni. Infine sarà eseguito l’esame della microstruttura a 90 giorni. 15 I risultati della ricerca aggiornati verranno presentati in occasione del 2nd Historic Mortars Conference & Rilem TC 203-rhm Repair mortars for historic masonry final workshop, Praga, 22-24 Settembre 2010. 1 PROFILO AUTORI Vedi “Profilo Autori” pag. 62 77 STUDIO COMPARATO FRA TRATTAMENTI CONSOLIDANTI E PROTETTIVI ORGANICI ED INORGANICI SU INTONACI A CALCE Angelita Mairani 1, Silvia Vicini 1, Elisabetta Princi 1, Angela Militi 2, Domenico Miriello 2, Piero Cavarocchi 3 Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale (Università degli studi di Genova), [email protected] 2 Dipartimento di Scienze della Terra (Università degli studi della Calabria) 3 Geologo, Bologna 1 I Introduzione SUMMARY l problema del consolidamento e della protezione di intonaci affrescati è stato più volte affrontato, ma spesso le scelte di intervento sono ancora basate su considerazioni teoriche, purtroppo talvolta affette da preconcetti dipendenti dalla formazione del singolo operatore, piuttosto che su valutazioni relative alle reali esigenze dei manufatti, in termini di materiali costitutivi e di stato del degrado. In particolare, l’approccio agli interventi di consolidamento e protezione rimane tutt’oggi legato alle due metodologie che fanno uso di prodotti di tipo inorganico minerale o di tipo organico polimerico (1, 2), sebbene i dati relativi a ricerche che mettano realmente a confronto queste due ampie classi di materiali parallelamente e contemporaneamente sullo stesso tipo di supporto siano ancora piuttosto scarsi. In generale si può affermare che i prodotti inorganici presentano ottime caratteristiche di compatibilità e ritrattabilità, poiché strutturalmente e chimicamente molto simili ai materiali a cui vengo- 78 no applicati; tuttavia non esercitano alcuna azione riadesivizzante nei confronti di porzioni decoese o staccate e si limitano ad esercitare un consolidamento dei primi millimetri superficiali, perché difficilmente riescono a penetrare in profondità (3, 7). Viceversa, i consolidanti di tipo organico polimerico riescono a coinvolgere profondità maggiori di materiale decoeso, esplicano proprietà non solo consolidanti ma anche riadesivizzanti e idrorepellenti, ma non sono affini al supporto murario o lapideo, di cui possono alterare la traspirabilità, ed invecchiano più rapidamente dei prodotti inorganici, con variazioni cromatiche e tendenza al biodeterioramento (8, 9). Per garantire a tali prodotti una penetrazione più omogenea è stato messo a punto presso il Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Genova un sistema basato sull’introduzione del monomero, che grazie al basso peso molecolare riesce ad arrivare a profondità maggiori e a raggiungere porosità più ridotte; la reazione di polimerizzazione viene poi indotta in situ attraverso iniziatori termici (10). During the last years the Department of Chemistry of Genova has been studying and comparing different materials and approaches to problems of consolidation and protection of lime based plasters; the research took into consideration several kinds of products, both inorganic and organic, applied on fresco painted plasters in order to compare their efficacy. The behavior of the treated plasters was then compared with not treated plasters. The inorganic products were calcium hydroxide, barium hydroxide, ethyl silicate and ammonium oxalate, while the organic ones were silane/siloxane, fluorinated and acrylic materials; in addition some samples were in situ polymerized using as monomer the 1,6-hexanediole diacrylate. Several tests were carried out on samples before and after treatments: colorimetric measurements, water absorption by capillarity, water evaporation, abrasion resistance and contact angle evaluation, besides characterization by optical and electronic microscopy and XRD diffraction. The preliminary results of such a project are here quoted, with significant comparisons of some properties which have changed according to the treatment. 1 Figura 1 Misure dell’angolo di contatto attraverso il metodo della goccia d’acqua. Obiettivo del progetto avviato presso il Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Genova e già presentato nella sua fase preliminare su questa stessa rivista (11), è proprio quello di cercare di approfondire lo studio sistematico dei prodotti di tipo inorganico ed organico più comunemente applicati come consolidati e protettivi nel restauro di intonaci affrescati, sfruttando il vantaggio di poter contare sulla presenza, all’interno dello stesso gruppo di ricerca, di entrambe le competenze e le esperienze di studio e di applicazione. Come unico supporto per la valutazione di tali trattamenti è stato scelto un intonaco abbastanza significativo per l’ambito genovese (Fig. 1), ma lo stesso progetto si propone comunque di identificare un protocollo di lavoro che possa essere in futuro esportabile a qualunque altra tipologia di manufatto lapideo e architettonico. Il fatto di lavorare su campioni standards, a composizione nota e proprietà iniziali relativamente costanti e riproducibili, permette di evidenziare meglio le differenze che possono insorgere nel corso della sperimentazione, imputando evidentemente le variazioni esclusivamente al tipo di trattamento applicato e non alle specifiche del supporto piuttosto che a particolari condizioni ambientali. Il progetto di ricerca Lo studio è stato condotto su una tipologia di intonaci affrescati piuttosto comuni in ambito genovese. Sono stati riprodotti in laboratorio dei campioni di intonaco standard di dimensioni 5 x 5 x 2,6 cm a base di grassello di calce e sabbia di fiume a bassa componente carbonatica. Per il confezionamento dell’arriccio è stata utilizzata una sabbia con modulo di finezza di 2,82 e per l’intonachino una sabbia con modulo di finezza pari a 2,05. Gli impasti di malta sono stati ottenuti mescolando l’inerte e il legante in proporzioni pari a 2,5:1 (rapporto inerte/legante) per l’arriccio e 1,5:1 per l’intonachino. L’intonaco preparato è stato steso su una mattonella inerte a base di laterizio, con la funzione di supporto per la stesura e la maneggevolezza degli standards, ma soprattutto con la funzione di riserva d’acqua per la facilitare la carbonatazione della calce. I provini confezionati sono stati dipinti poi a fresco con una sospensione di terra rossa (ematite) in acqua. Dall’analisi petrografica in sezione sottile e dall’analisi diffrattometrica a raggi x è stata ricavata la composizione della malta, costituita da minerali prevalentemente presenti in rocce di provenienza metamorfica e da un legante di composizione calcitica. L’aggregato è composto prevalentemente da micascisti, argilloscisti e scisti verdi. Si riconoscono diverse fasi mineralogiche: la maggior parte dei clasti sono costituiti da policristalli di quarzo e monocristalli di plagioclaso alterato in sericite e in saussurrite. Sono inoltre presenti muscovite, clorite, feldspati alterati (ortoclasio), anfiboli (orneblenda). Tra i minerali accessori sono presenti alcuni granati ed epidoti. I provini sono stati successivamente carbonatati artificialmente in una camera di invecchiamento costituita da una scatola di plexiglas con diverse griglie per il posizionamento dei provini stessi; sopra ad ogni griglia, a contatto con i campioni, sono stati disposti dei fogli di carta giapponese ad elevata grammatura, che pescavano acqua dal fondo del contenitore, così da mantenere il laterizio di supporto dell’intonaco a calce costantemente bagnato per favorire la carbonatazione stessa, realizzata sotto flusso costante di CO2. La carbonatazione dell’intonaco è stata controllata attraverso controlli spettrofotometrici via FTIR, su prelievi multi graduali a profondità progressiva, andando a valutare il decremento del picco relativo al gruppo ossidrilico OH. Una volta che il livello di carbonatazione è stato ritenuto soddisfacente, i provini di intonaco sono stati lasciati a stagionare in ambiente controllato (in condizioni termo igrometriche standards) per ulteriori quattro mesi. 79 Successivamente, si è proceduto all’applicazione dei trattamenti consolidanti e protettivi, scelti tra quelli più comunemente impiegati nel corso degli interventi conservativi. I prodotti di tipo inorganico applicati sugli standards sono stati acqua di calce (soluzione satura di idrossido di calcio ottenuta da sedimentazione di grassello in acqua e successiva filtrazione), idrossido di bario e silicato d’etile come consolidanti, e ossalato d’ammonio come protettivo; per quanto riguarda invece i prodotti di tipo organico, sono stati scelti il Primal B60A come consolidante acrilico, ed il fluorurato Akeogard CO e l’alchilalcossisilano Wacker 290 come protettivi. Inoltre una serie di provini è stata trattata attraverso polimerizzazione in situ usando come monomero 1,6 esandiolo- diacrilato. In tabella 1 (TAB. 1) sono riportate le condizioni applicative specifiche di ciascun trattamento, che in ogni caso è stato applicato alle mattonelle standard di intonaco già carbonatate e disposte orizzontalmente. I test di controllo sull’efficacia dei trattamenti sono stati realizzati circa quattro mesi dopo l’applicazione del trattamento stesso. In particolare, sono state effettuati controlli sulla variazione di alcune proprietà ottiche, fisiche e meccaniche: misure colorimetriche, assorbimento d’acqua per capillarità, permeabilità al vapore attraverso evaporazione, resistenza all’abrasione e misure dell’angolo di contatto. Tabella 1. Condizioni di applicazione dei trattamenti consolidanti e protettivi. TRATTAMENTI CONSOLIDANTI CONDIZIONI APPLICATIVE Acqua di calce Soluzione acquosa satura ad impacco per 24 ore Silicato d’etile 80% in white spirit a pennello fino a rifiuto Idrossido di bario Primal B60A 1,6 esandiolo-diacrilato TRATTAMENTI PROTETTIVI Soluzione acquosa al 6% ad impacco per 24 ore 47% di resina acrilica in emulsione acquosa a pennello in due passaggi Polimerizzazione in situ a 50° per 24 ore con 3% di AIBN come iniziatore CONDIZIONI APPLICATIVE Ossalato d’ammonio Soluzione acquosa al 5% ad impacco per 24 ore Wacker 290 100% silano/silossano a pennello, un solo passaggio Akeogard CO 3% polimero fluorurato in acetone a pennello, un solo passaggio Discussione dei risultati Dalle prove colorimetriche effettuate e valutate rispetto al provino non trattato, è emerso che i trattamenti non hanno influito in modo sostanziale sul colore finale dell’intonaco, tranne per alcuni provini dove si è registrato un imbianchimento, che però non sembra dovuto al trattamento in sé (in quanto non sistematico) ma al realizzarsi di particolari condizioni ambientali/sperimentali. Per quanto riguarda l’idrorepellenza dei prodotti utilizzati, dalle analisi effettuate sui provini è emerso che quelli trattati con Wacker 290 e Akeograd CO sono risultati, alle prove di bagnabilità, abbastanza idrorepellenti in accordo con la misura degli angoli di contatto piuttosto alta (TAB 2), nettamente in contrasto con i provini trattati con Acqua di Calce, Silicato di Etile e lo stesso provino non trattato, i quali risultano completamente bagnabili data la misura dell’angolo di contatto non determinabile poiché la goccia d’acqua viene istantaneamente assorbita (Fig. 1); i restanti prodotti possono essere considerati poco idrorepellenti dati gli angoli di contatto piuttosto bassi. Tabella 2. Valori dell’angolo di contatto ottenute attraverso il metodo della goccia d’acqua. TRATTAMENTO Non trattato ND Silicato d’etile ND Acqua di calce Ossalato d’ammonio Idrossido di bario Primal B60A 1,6 esandiolo-diacrilato Akeogard CO 80 Wacker 290 ND 20° 29° 62° 65° 97° 103° ANGOLO DI CONTATTO Le curve di assorbimento d’acqua per capillarità (Fig. 2) mostrano un diverso comportamento in base al trattamento subito dai provini di malta. Si possono individuare tre gruppi, all’interno dei quali si può notare un simile comportamento: un primo gruppo, formato dai provini trattati con silicato di etile, ossalato di ammonio, idrossido di bario, acqua di calce e il provino non trattato, mostra un assorbimento elevato già nelle prime ore di prova rispetto agli altri; un secondo gruppo formato dai campioni trattati con Primal B60A e Akeogard CO, che presenta un minore assorbimento d’ac- qua rispetto al primo gruppo; un terzo gruppo formato dallo standard trattato con Wacker 290 mostra una curva di assorbimento capillare molto prossima all’asse delle ascisse indicando una bassissima tendenza all’assorbimento. E’ da notare, inoltre, che tale curva di assorbimento non arriva a saturazione, caratterizzando quindi il trattamento come fortemente idrorepellente. Le curve di evaporazione (Fig. 3) mostrano come tutti i campioni tendano a rilasciare l’acqua in maniera piuttosto simile, ed in 2 Figura 2 Curve di assorbimento d’acqua per capillarità. 3 Figura 3 Valutazione della permeabilità al vapore attraverso curve di evaporazione. particolare per nessun trattamento si osserva ritenzione o resistenza alla permeabilità al vapore, tranne che nel caso dei provini polimerizzati in situ, per i quali dopo 72 ore si ha una ritenzione del 10%. I test di resistenza all’abrasione sono stati realizzati attraverso un sistema messo a punto presso il Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Genova, che consta di una guida metallica con carta abrasiva, su cui i provini standards ven- 81 4 Figura 4 Valutazione dell’efficacia consolidante attraverso prove di resistenza all’abrasione. gono fatti scivolare grazie all’applicazione di un peso. La carta abrasiva viene cambiata dopo ogni serie di misure, e la resistenza all’abrasione viene valutata sulla base della perdita di peso del provino dopo diverse serie di cinque passaggi. Dai risultati della prova di abrasione emergono quattro gruppi formati da provini con simile resistenza all’abrasione (FIG. 4): i provini sottoposti a trattamento con Primal B60A e ossalato di ammonio formano il primo gruppo caratterizzato da un’alta resistenza all’abrasione e quindi un’efficacia consolidante (EC) dei prodotti consolidanti molto alta rispettivamente pari a 85,98% e 77,82%; il secondo gruppo, formato dai provini trattati con silicato di etile e acqua di calce, presenta una resistenza all’abrasione medio alta e un’efficacia protettiva variabile dal 60 al 66%; il terzo gruppo formato dai provini sottoposti a trattamento con Akeogard CO e Wacker 290 mostra una percentuale di EC piuttosto bassa, variabile dal 38 al 42 %. Il quarto gruppo è formato dal solo provino trattato con idrossido di bario con percentuale di EC pari al 24,73%. Conclusioni 82 Dalle diverse misure realizzate sui provini trattati con i vari prodotti consolidanti e protettivi, di tipo organico ed inorganico, e soprattutto dal confronto delle proprietà rispetto agli standards non trattati, è stato possibile mettere in luce alcuni aspetti interessanti. Innanzi tutto, sia dalle misure di angolo di contatto che da quelle di assorbimento capillare si ricavano buone caratteristiche di idrorepellenza per i prodotti di natura polimerica, mentre scarse sono le proprietà idrorepellenti dei trattamenti inorganici. Per quanto riguarda le curve di evaporazione, tutti i trattamenti hanno mostrato una completa perdita di acqua e quindi in nessun caso si sono verificati fenomeni di ritenzione dovuti ad alterazione della permeabilità al vapore, tranne che nel caso della polimerizzazione in situ, a cui corrisponde una ritenzione del 10%; in questo caso bisogna tuttavia specificare che le misure non sono state eseguite facendo uso di celle, e quindi l’evaporazione era possibile su tutte le facce del provino, per cui la reale permeabilità sulla sola superficie trattata non è stata valutata. Sarà oggetto di approfondimento del progetto realizzare in questo senso misure più attendibili. E’ comunque significativo il fatto che anche con tale limite della misura, i provini polimerizzati in situ abbiano ritenuto un 10% di acqua, perché evidentemente il consolidante acrilico ha raggiunto profondità di azione maggiori, in grado di alterare la permeabilità al vapore su tutte le facce dei campioni trattati. La resistenza all’abrasione, e quindi il potere aggregante, è risultata particolarmente elevata nel caso dei prodotti acrilici, sia applicati come polimeri preformati sia polimerizzati in situ, e sorprendentemente nel caso dell’ossalato di ammonio, medio alta per acqua di calce e silicato d’etile e piuttosto bassa per i sistemi a base di alchilalcossisilani, fluorurati e idrossido di bario, anche se tali risultati andrebbero interpretati meglio e più dettagliatamente anche sulla base della profondità di azione del trattamento. Analizzando i risultati nel loro complesso, risulta evidente come ci siano prodotti che abbiano proprietà divergenti: Wacker 290 e Akeogard CO ad esempio hanno dimostrato di essere ottimi idrorepellenti, ma di avere scarsissime proprietà aggreganti, e viceversa ossalato d’ammonio e silicato d’etile non hanno proprietà idrorepellenti ma buone proprietà consolidanti. Ulteriori e forse più interessanti considerazioni potranno essere tratte in futuro dallo studio in microscopia ottica ed elettronica su frammenti in sezione di provini trattati, così da riuscire ad identificare la profondità di penetrazione del trattamento ed interpretare di conseguenza i risultati dei test effettuati. Inoltre per i sistemi protettivi l’efficacia andrebbe valutata non solo sulla base dell’idrorepellenza, ma anche dell’inerzia chimica che il trattamento è in grado di conferire al supporto: l’invecchiamento artificiale in ambiente inquinato (SOx, NOx, ambiente acido o basico ecc.) potrà sicuramente chiarire l’effetto che il prodotto protettivo esercita sull’acqua non in quanto tale, ma come veicolo di agenti di degrado salino. Ringraziamenti Gli autori desiderano ringraziare il Prof. Enrico Pedemonte e il Prof. Gino M. Crisci per l’allestimento del progetto, l’Arch. Giuliano Peirano della Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio della Liguria e l’Arch. Claudio Montagni per il supporto tecnico, il Dr. Mauro Matteini per i preziosi consigli relativi all’allestimento degli standards, al loro invecchiamento e all’applicazione dei trattamenti, il restauratore Antonio Berardi per la preparazione degli standards di intonaco.. B I B L I O G R A F I A [ 1] L. Lazzarini, M. Laurenzi Tabasso, “Il restauro della pietra”, Cedam, Padova, 1996. [ 2] G. G. Amoroso, M. Camaiti, “Scienza dei materiali e restauro”, Alinea, 1997. [ 3] M. Ambrosi, P. Baglioni, P. R. David, L. Dei, R. Giorgi, C. Lalli, G. Lanterna, A. Mairani, M. Matteini, M. Rizzi, G. Schonhaut, “Inorganic consolidants and protectives for architectonic surfaces: experimental tests on Santa Prisca Church’s apse in Rome”, Proceeding of 2ème Congrès International sur: “Science et Technologie pour la Sauvegarde du Patrimoine Culturel dans les Pays du Bassin Méditerranéen”. Parigi, 1999. [ 4] G. Lanterna, A. Mairani, M. Matteini, M. Rizzi, S. Scuto, F. Vincenzi, P. Zannini, “Mineral Inorganic Treatments for the Conservation of Calcareous Artefacts”, Proceeding of 9th International Congress on the Deterioration and Conservation of Stone. Venezia, 2000. [ 5] M. Matteini, “The Conservation of Wall Paintings”, Ed. Cather, The Getty Conservation Institute Publ. CA, USA, 1987, p.137-148. [ 6] M. Matteini, A. Moles, “Aspetti critici del trattamento fondato sull’impiego di idrato di bario” In Le pitture murali. Tecniche, Problemi, Conservazione, Centro Di, 1990, p.297-302. [ 7] M. Matteini, A. Moles, G. Lanterna, M. R. Nepoti, “Preliminary monitoring on painted plasters and marble surfaces of a mineral protective treatment based on artificially formed calcium oxalate”, in Proceeding of II International Symposium “The oxalate films in the conservation of works of art“. Milano, 1996, p. 423-440. [ 8] V. Castelvetro, M. Aglietto, L. Montanini di Mirabello, L. Toniolo, R. Peruzzi, O. Chiantore, Surface Coating International, 11 (1998), p. 551-556. [ 9] M. Lazzari, O. Chiantore, Polymer, 41 (2000), p. 6447-6455. [ 10] Vicini S, Margutti S, Princi E et al.: “In situ copolymerisation for the consolidation of stone artefacts”. Macromol. Chem. and Phys. 203 (2002); p. 1413-1419. [ 11] A. Berardi, P. Cavarocchi, A. Mairani, C. Montagni, E. Pedemonte, G. Peirano, E. Princi, S. Vicini, “Trattamenti consolidanti e protettivi organici e inorganici applicati a intonaci. Confronti e considerazioni”. Arkos, 11 (2005); p. 63-68. PROFILO AUTORI Silvia Vicini ed Elisabetta Princi fanno parte del gruppo di ricerca per la Conservazione dei Beni Culturali del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Genova, che si occupa da alcuni anni di studiare materiali e metodi di natura polimerica per il consolidamento e la protezione di manufatti di interesse storico artistico. Angelita Mairani, chimico con esperienza nell’ambito della diagnostica e delle metodologie di intervento su supporti murali, collabora con il gruppo per le competenze relative ai trattamenti inorganici. Il progetto di ricerca sugli intonaci si avvale inoltre della collaborazione di Piero Cavarocchi, geologo, che da anni esercita attività di libero professionista nel campo della diagnostica e di progetti di conservazione di Beni Culturali. Angela Militi e Domenico Miriello, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università della Calabria, hanno messo a disposizione alcune delle metodologie diagnostiche adottate per il progetto di ricerca. 83 I COLORI DELLE CINQUE TERRE. PROGETTO E RICERCHE INTEGRATE PER VALORIZZARE I CARATTERI DEL PAESAGGIO ANTROPICO E CONSERVARE I COLORI TIPICI DELL’EDILIZIA STORICA Cristina. N. Grandin- Giuseppe A. Centauro L 1- Il Progetto Colore del Parco Nazionale delle Cinque Terre 84 stenti, con particolare riferimento ai materiali tradizionalmente impiegati per realizzare i manufatti, nonchè alle malte di allettaa ricerca ha preso le mosse dalla ferma volontà mento e agli intonaci. Sono state elaborate schede diagnostiche dell’Ente Parco Nazionale delle Cinque Terre con il per le superfici decorate degli edifici storici e, con il supporto supporto dei tre comuni capoluogo, Riomaggiore, delle analisi di laboratorio, condotti studi ed applicazioni speriVernazza e Monterosso al Mare, di costituire intor- mentali atte a testare la riproducibilità delle diverse matrici attrano alle problematiche legate alle qualità materiche e verso prototipi modello, implementando altresì le ricerche sulle cromatiche del costruito storico, già riconosciute come tematiche tecnologie storicamente impiegate. Dagli studi complessivamente assolti, sono state bene evidenziacentrali per la riqualificazione tele le criticità edilizia ed ambientale degli esistenti e quinantichi borghi e, più in genedi progettati dei rale, del paesaggio antropico correttivi da della Riviera, un gruppo di introdurre sul lavoro coordinato a carattere piano tecnolomultidisciplinare. Dalla collagico, materico e borazione tra il Dipartimento cromatico, elaD. S. A. della Facoltà di borando unitaArchitettura dell’Università mente alle tavodi Genova, con il lozze di tinte, Dipartimento di Restauro e anche un piano Conservazione dei Beni differenziato di Architettonici dell’Università t r a t t a m e n t o di Firenze e la partecipazione delle superfici di un consulente esterno per ai fini del il trattamento dei manufatti restauro archinon residenziali, sotto il tettonico e del coordinamento tecnico del- 1 rinnovamento l’ente promotore sono state Figura 1 sviluppate capillari analisi del Riomaggiore, una delle splendide località delle Cinque Terre, con le caratteristiche abitazioni edilizio su parti ammalorate o contesto, rilievi architettoni- colorate che si affacciano sul mare. difformi, ci, ricerche storiche e partirispetto ai caratteri storicamente consolidati nei vari luoghi di colareggiate schedature degli edifici, consentendo in tal modo di appartenenza (fig. 1). disporre di quadri conoscitivi esaustivi ed elaborare studi avanzati a carattere pre-progettuale, sotto l’aspetto geo-ambientale, A tale scopo sono state opportunamente integrate alle normative urbanistico ed architettonico, finalizzati alla stesura di una norma- tecniche ed alle linee guida d’intervento appositamente redatte, le tiva tecnica attuativa e di linee guida d’intervento, comprendenti molteplici collezioni cromatiche prodotte per i distinti comuni, la redazione di Progetti Norma e altrettanti Piani Particolareggiati oltre ad una cartella a valenza universale per tutto il territorio del Parco. riferiti alle Marine dei tre borghi principali1. Per le nostre competenze, oltre agli approfondimenti geomatici di D’altronde la Regione Liguria, con l’approvazione in data 27 0ttorilievo per il restauro dell’esistente, sono state preliminarmente bre 2003 della Legge Regionale n. 26, titolata “Città a colori”, prodotte misure cromatiche di dettaglio degli apparati pittorici aveva inteso dare nuovo impulso ai processi di riqualificazione delle facciate e delle invarianti materiche offerte dai litotipi esi- urbana assegnando, con D.G.R. n. 235 del 15 Febbraio 2005, all’Ente Parco Nazionale delle Cinque Terre un contributo per la 2a Figure 2a, 2b 2b La facciata di un edificio a Monterosso al Mare con decorazioni murali storiche e rifacimenti recenti (2a). Il rilievo della tavolozza colore locale, è stato fatto utilizzando codici di comparazione visiva ACC4041 ed ha toccato manufatti lapidei e minerali tipici del territorio, intonaci decorati o dipinti a calce (2b) redazione del Progetto Colore. Sotto il profilo amministrativo il “Progetto colore delle Cinque Terre” rientra quindi tra i piani colore che hanno preso avvio da tale legge regionale. Il progetto, avviato nell’ottobre del 2007, ha trovato conclusione nell’autunno 2008 con la consegna degli elaborati definitivi alla Regione Liguria ed alle Amministrazioni Comunali coinvolte, con l’espletamento delle procedure legali d’autorizzazione e con l’acquisizione dei nulla-osta della Regione e della Soprintendenza per i Beni Paesaggistici ed Ambientali della Liguria. 2-Alle origini del colore SUMMARY Chiunque abbia visitato i borghi delle Cinque Terre può sostenere che tra le bellezze caratteristiche del territorio, il senso del colore pervada l’orizzonte percettivo di questi luoghi e ne tracci diffusamente la loro identità storica. Sul colore, come fattore tipico in un contesto paesaggistico ed architettonico così straordinario, si sono concentrate molte indagini pre-progettuali, effettuando sopralluoghi, campionamenti e numerosi rilievi colore. Questi ultimi hanno toccato principalmente gli edifici storici delle tre marine, ma hanno interessato anche i manufatti lapidei, le matrici minerali, le tinteggiature locali, le decorazioni pittoriche e gli intonaci antichi. Le misurazioni sono state effettuate per lettura comparativa mediante codici cromatici ACC 4041 previsti dal bando regionale e sono state importanti per lo sviluppo successivo delle ricerche. I dati ottenuti, confrontati con quelli delle indagini scientifiche, storiche e tecniche, hanno permesso di delineare delle nuove categorie cromatiche che considerano la distribuzione topografica e stratigrafica dei rilievi fatti, i parametri colorimetrici dei pigmenti, le tecnologie d’applicazione dei materiali costitutivi. Si è venuta a delineare una serie di matrici (cromatiche e minerali) e di tinte madri locali, tipiche per ogni borgo, con degli intonaci colorati (monocromi neutri) e una tavolozza di tinte universali, che ben descrivono le dinamiche di affinità e indipendenza intrecciate dalle diverse località del Parco nel corso della loro sto- ria. Per evidenziare le contaminazioni di gusto e di mercato dei colori attuali, i risultati sono stati letti in percentuale statistica, per visualizzare meglio, la diffusione delle cromie ricorrenti, compatibili, atipiche o deviate2. Il quadro analitico emerso, ha sottolineato come la gamma ridotta dei colori antichi locali, sia stata sostituita negli ultimi decenni durante le opere di civile manutenzione, da una palette omologata di tinte commerciali tanto accattivanti quanto improbabili all’origine (fig. 2). 3- La ricerca sperimentale Esiste una stretta relazione tra il colore del paesaggio naturale, inteso come bacino geologico minerario e il colore dell’edilizia locale: il legame deriva dall’uso frequente e spesso costrittivo, delle materie prime reperibili sul territorio. Cave, miniere, alvei fluviali e persino spiagge marine, sono state a lungo fonti di approvvigionamento dei principali materiali costruttivi, laddove i pregi e i difetti dei minerali impuri prelevati, venivano compensati dall’abilità delle maestranze con la messa in opera di malte, intonaci e tinteggiature diversamente lavorate al bisogno. L’industria del ‘900 ha sostituito di colpo la variegata natura delle materie locali (calce compresa), con prodotti unici a norma di legge, confezionati, trasportabili e fruiti ovunque, senza controindicazioni di sorta: altra cosa rispetto al grado di attenzione, selezione e cura richieste dalle vecchie tecnologie costruttive. Gli effetti derivati sono abbastanza noti: la perizia artigianale ridotta ai minimi termini; la fiducia totale nei prodotti industriali; l’uniformità cromatica che omologa borghi e città su tutto il territorio nazionale. In quest’ottica la salvaguardia dei materiali pittorici e strutturali antichi, diventa un’emergenza conservativa e una doverosa priorità di restauro, perciò nell’ambito del Progetto Colore del Parco Nazionale delle Cinque Terre, è stato fondamentale associare agli studi di tipo tradizionale, una ricerca tecnica e sperimentale basata su prototipi modello creati in laboratorio, in grado di dimostrare o smentire, la fattibilità degli interven- Keeping the historical identity of a peculiar and complex environment as the one of Cinque Terre means also being able to focus clearly on distinctive characters of an anthropic landscape and its original chromatic elements, defending the rich variety of places against the nowadays tendency to homologation, regarding the local historical buildings. Through a systematic data collection (surveys on countryside, photogrammetric surveys and carrying out cataloguing and census data sheet), studies and measurement colours on historical plasters, surveys on state of conservation of painted architectures, samples collection in loco, scientific laboratories analysis, the Cinque Terre “colour project”, aims a chromatic and technical solutions, trought simulation by experimental models, formulating a color palette compatible with the historical heritage and, at the same time, suitable for further developments, by defining colours similarities and suspicious deviances through synthesis charts. 85 3a Figure 3a, 3b 3b Campionamento delle matrici minerali e cromatiche raccolte sul territorio ed utilizzate nella sperimentazione tecnica di laboratorio su prototipi modello (3a). Stratigrafia di colori originari visibile sotto le recenti tinteggiature a tempera (3b). 4a Figure 4a, 4b 4b Modelli materici realizzati in laboratorio per lo studio cromatico degli intonaci originali. Le matrici minerali reperite sul territorio, sono state lavorate ed applicate con tecniche diverse, dando origine ad una serie di monocromi neutri (4a) ed intonaci colorati naturali (4b) con diversa grana e texture superficiale. ti di recupero presupposti, la riproducibilità di intonaci e tinte storiche, l’estraneità di certi colori nel tessuto cromatico dell’edilizia esistente (fig. 3). I prototipi di laboratorio sono stati progettati con diversi criteri e finalità di ricerca. Le informazioni ottenute dalle analisi stratigrafiche e in sezione sottile, effettuate su alcuni campionamenti prelevati dagli edifici delle marine di Riomaggiore, Vernazza e Monterosso al Mare, sono servite ad individuare la tipologia degli inerti e la confezione delle malte, mentre le indagini in spettroscopia micro-Raman, hanno definito la natura dei pigmenti relativi alle pitture murali antiche ed alle tinte a calce originarie. Le ricognizioni nei territori limitrofi, sono servite a raccogliere i materiali (inerti locali, sabbie, minerali, ocre e terre dalle colorazioni tipiche) utilizzati nella messa a punto dei modelli materici di laboratorio. I saggi stratigrafici condotti sulle tinteggiature e sui decori pittorici delle facciate esterne, sono serviti invece a formulare la tipologia di studio dei modelli pittorici di laboratorio più conformi agli originali. 3a-I modelli materici 86 I modelli materici sono finalizzati allo studio dei materiali per la messa in opera dei manufatti e rendono evidenti le variabili che dipendono dalle diverse tecnologie di lavorazione. Sono costituiti da piccoli supporti in cotto, predisposti a ricevere gli strati di malta deputati (arriccio, intonaco, intonachino di finitura) utilizzando una miscela di calce, sabbia e inerti locali in relazione agli intonaci dipinti osservati. Lavorando su tali prototipi, si è reso evidente come molte colorazioni naturali visibili sugli intonaci grezzi degli edifici, fossero sì dovute all’uso selettivo degli inerti locali, ma dipendessero soprattutto dall’assortimento granulometrico delle matrici minerali introdotte nelle malte. Una cernita dei materiali all’origine, per quanto grossolana e casuale possa essere, mantiene sempre distinti nell’edilizia storica, i piani strutturali da quelli funzionali, ricorrendo a tecniche diverse che alla fine si dichiarano in chiave cromatica. Per esemplificare, alcuni modelli materici realizzati con gli stessi materiali ma lavorazioni diverse, hanno confermato come il colore ottenuto e percepito sulle superfici, cambi fortemente in relazione alla texture ed alla grana degli intonaci di finitura. La serie dei monocromi neutri, derivata dalle considerazioni su modelli di questo tipo, si configura come una soluzione efficace e versatile nel restauro dell’edilizia storica. La sostituzione di queste cromie strutturali spontanee, con premiscelati industriali uniformi, viene di fatto ad annullare tutte quelle caratteristiche materiche e cromatiche specificatamente locali, che nessuna tinta applicata potrà mai restituire (fig. 4). 3b-I modelli pittorici Una successiva tipologia di modelli, è stata approntata per lo studio della tavolozza pittorica antica e parte delle tinte esistenti. Piccoli supporti modulari in cotto, arricciati o intonacati al bisogno, hanno accolto le sperimentazioni su intonaco fresco e secco, le stesure pittoriche a calce o a tempera, l’uso delle matrici cromatiche locali e quello dei pigmenti propri alla tavolozza murale tradizionale. Tra gli edifici storici oggetto di ricerca, solo alcuni situati a Monterosso al Mare, presentavano delle decorazioni murali di una certa importanza artistica: nelle altre località del Parco Nazionale delle Cinque Terre, gli edifici storici manifestano la propria identità in tono cromatico minore ma assai tipico, 5a Figura 5a Modelli pittorici realizzati in laboratorio in conformità alle tipologie artistiche individuate sugli originali. 5c Figura 5c La tavolozza cromatica con le 16 tinte madri universali, che caratterizzano molti degli edifici storici delle Cinque Terre. Ogni singolo borgo ha inoltre una palette tipica di 13 tinte madri specifiche. nella forma di valorizzazione caratteristica del paesaggio antropico data in seno a questo progetto. Sui modelli pittorici preparati in laboratorio, sono state formulate le dimostrazioni oggettive di pertinenza storica, tecnica, artistica, delle cromie esistenti. Le terre e le ocre di provenienza locale, sono risultate fruibili solo a fresco, mezzo fresco e mai a tempera; esse hanno granulometria variabile e grossolana, potere coprente medio, chiarezza elevata. La loro presenza e colorazione, restano vincolate alla tecnica artistica di utilizzo che prevede sempre comunque la calce, vuoi come componente della malta fresca nell’intonaco, come sospensione lattiginosa nelle tinte comuni o come scialbo di sottofondo preliminare alla pittura3. Su questi parametri sono state individuate 8 matrici cromatiche tipiche delle Cinque Terre, presenti ovunque negli edifici storici del territorio per quanto sepolte dai pesanti rimaneggiamenti a tempera recenti. L’esigua serie di tinte originarie, risulta arricchita in un secondo momento (fine ’800primi ‘900) dalla comparsa di nuovi pigmenti artificiali: le decorazioni murali che rivestono intere facciate o le cornici più semplici che abbelliscono i sottotetti, prevedono un’ulteriore evoluzione di tecniche, stili, gusti e cromie. Le ricerche di dettaglio sulle pitture murali antiche, rinviano tuttavia ad un altro contesto di studio, in cui è doveroso svolgere approfondimenti diagnostici puntuali prima di qualunque intervento conservativo4. I modelli pittorici realizzati per questo progetto, hanno preso in considerazione le storiche tinte a calce, sperimentando una serie di applicazioni e combinazioni cromatiche simili a quelle osservate sugli originali. Mescolando i pigmenti tradizionali al latte di calce, è venuta fuori per ciascuna località delle Cinque Terre, una tavolozza singolare di tinte madri, così definite perché la gamma di sfuma- 5b Figura 5b La tavolozza con le 8 matrici cromatiche originarie appartenenti all’edilizia storica del Parco nazionale delle Cinque terre. Queste tinte locali sono state utilizzate ad affresco o solo unite alla calce. 5d Figura 5d Tipologie di modelli pittorici realizzati in laboratorio per lo studio delle tinte decorative relative alle facciate dipinte di alcuni edifici caratteristici delle marine. ture scalari, rimane subordinata alla quantità di calce nella tecnica di pertinenza. Una collezione supplementare di tinte universali, è stata creata per ricongiungere sotto il profilo cromatico, i reciproci influssi comuni che hanno condizionato più o meno sensatamente, la storia architettonica delle cinque località della Riviera (figura 5). Conclusioni La complessa ricerca articolata su tutti i fronti d’indagine esposti, ha permesso di individuare una collezione tipica di tinte madri (n.13 per ciascuna località), quasi completamente scomparse nel tessuto cromatico dell’edilizia esistente. L’unione che lega reciprocamente i diversi borghi, non ha solo origini storiche (quelle riconducibili al toponimo delle Cinque Terre) ma si nutre di radici più profonde: l’appartenenza ad un contesto paesaggistico unico, in cui il colore dell’ambiente naturale si avvicina a quello dell’ambiente costruito, ha prodotto una tavolozza supplementare di tinte universali (n.16), in cui si riflettono i caratteri comuni delle pitture murali di pregio, con le tinte a calce dell’edilizia minore. La texture degli intonaci antichi, può correlarsi alle tecniche artistiche di adozione (affresco/tempera/pittura a calce) e questo ha senso nella riscoperta delle matrici locali (n.8), così come la percezione “colorata” degli intonaci faccia a vista, deriva in realtà dalla maestria artigianale antica che selezionava la qualità e la granulometria degli inerti locali, come è stato reso evidente con i monocromi neutri (n.4). Sul piano progettuale e normativo, tutti i modelli esemplificativi realizzati durante la ricerca, sono stati successivamente convertiti in collezioni cromatiche compatibili ai vari contesti di recupero o riqualificazioni edilizie più consapevoli. 87 CREDITS Titolo del progetto PROGETTO COLORE DEL PARCO NAZIONALE DELLE CINQUE TERRE “RESTAURO DEL PAESAGGIO ANTROPICO DELL’EDILIZIA STORICA: IL RECUPERO DELLE MARINE E DEI MANUFATTI DI IMPATTO AMBIENTALE NELL’AMBITO VISIVO DEI CENTRI STORICI DI MONTEROSSO AL MARE, VERNAZZA, RIOMAGGIORE” BANDO A REGIA REGIONALE PER IL FINANZIAMENTO DELLA REDAZIONE DEI PROGETTI COLORE L.R. 27 OTTOBRE 2003 N°26 “CITTA’ A COLORI” Committente ENTE PARCO NAZIONALE DELLE CINQUE TERRE Ente finanziatore Regione Liguria Gruppo di studio Coordinamento esecutivo: arch. Simona Bassi UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA Responsabile scientifico: prof. arch. Luisa Cogorno UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE Responsabile scientifico: prof. arch. Giuseppe A. Centauro Consulente manufatti infrastrutturali: Jorrit Torniquist PROGETTO COLORE prof. arch. Giuseppe A. Centauro Analisi materiche e cromatiche, elaborazione dei modelli pittorici e studi sulla riproducibilità dott. sa Cristina N. Grandin Rilievi e colorimetria per il restauro arch. Roberto Tazioli Diagnostica scientifica prof. Carlo Alberto Garzonio (direttore responsabile) L.A.M. (Laboratorio Analisi Mineralogiche e petrografiche) dott.sa Marilena Ricci, dott.sa Emma Cantisani, Daniele De Luca N O T E Per conoscere l’intero progetto, si rinvia alla pubblicazione specifica segnalata in bibliografia. AA.VV. op. cit. Terminologia dei colori rilevati e di progetto, pp116-117. 3 Per l’uso della calce e dei colori in pittura, si rinvia agli scritti di C. N. Grandin citati in bibliografia. 4 Sull’utilità dei modelli di laboratorio per conoscere materiali, tecniche e problematiche dei dipinti murali, si rinvia alla lettura degli scritti di L.Tintori citati in bibliografia, pioniere e promotore di questo tipo di ricerca sperimentale. 1 2 B I B L I O G R A F I A [ 1] AA.VV., Progetto Colore del parco nazionale delle Cinque Terre, a cura di G.A. Centauro, L. Cogorno, S. Bassi, in “Opus studiorum/3”, Lalli Editore, Poggibonsi (SI) 2008, ISBN 97-88-95798-23-3. [ 2] C. N. Grandin “Colore e restauro: studi, ricerche, sperimentazioni” in Tecnologie e conservazione degli apparati pittorici e del colore nell’edilizia storica”, Lalli Editore, Siena, 2008, pp.15-24. [ 3] C. N. Grandin “Colore e calce nell’edilizia storica”, newsletter n.9, dicembre 2008 dal sito www.forumcalce.it. [ 4] L. Tintori “Pittura murale. Ricerche sulle tecniche pittoriche”, Quaderni dell’Arte, Lalli Editore, Siena, 1997 . PROFILO AUTORI Cristina Nadia Grandin, storica dell’arte e restauratrice, docente di restauro delle superfici decorate dei monumenti e titolare di assegno di ricerca bandito dall’Ateneo fiorentino nel 2009. 88 Giuseppe Alberto Centauro, architetto, professore associato di Restauro Architettonico ed Urbano presso il "DiCR, Dipartimento di Costruzioni e Restauro, Sezione Restauro, dell'Università di Firenze" . La nuova serie di Arkos, rivista scientifica specializzata nel restauro architettonico pubblicata da oltre vent'anni, continua ad assicurare ad abbonati e lettori un aggiornamento costante sulla conservazione dei Beni culturali. Arkos è destinata principalmente ad architetti, ingegneri, tecnici, imprese edili specializzate nel recupero e nel restauro, Soprintendenze ai beni artistici e architettonici, responsabili di uffici tecnici e lavori pubblici, di enti pubblici, enti di ricerca e sperimentazione, laboratori di diagnostica, studenti universitari e di corsi professionali. COSTO DI UN NUMERO € 16,00 ABBONAMENTO ORDINARIO, DELLA DURATA DI 4 NUMERI, € 50,00 (ANZICHÉ € 64,00) PER L'ITALIA ABBONAMENTO ESTERO € 65,00 ABBONAMENTO PER PARTNER E SOSTENITORI € 100,00 Sono compresi due abbonamenti (uno personale e uno ceduto ad un nominativo indicato ad hoc); i soggetti che sottoscriveranno questa forma di abbonamento usufruiranno delle offerte che saranno di volta in volta preparate e di altri servizi e promozioni che sono in programma. L’importo dell’abbonamento può essere versato sul Conto Corrente Postale 60343563 intestato a Novamusa S.p.a. Nella causale del bollettino è necessario indicare: ABBONAMENTO RIVISTA ARKOS EDITINERA. Oppure può essere effettuato un bonifico intestato a: Editinera Srl IBAN: IT 66 F 03226 03201 000500022300 - Unicredit corporate Banking É possibile effettuare il pagamento dell’importo dell’abbonamento tramite carta di credito seguendo le istruzioni presenti sul sito www.arkospress.it alla voce “Abbonamenti”. La rivista è reperibile, inoltre, nei bookshop Novamusa e nelle principali librerie universitarie