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CIVILTA’ CAMPANA
COLLANA DI STUDI STORICI, ARCHEOLOGICI, FOLKLORICI,
SOCIALI SULLA CAMPANIA
DIRETTA DA FRANCO E. PEZONE
───── 10 ─────
LUIGI MOSCA – PASQUALE SAVIANO
LA STOPPA STRUTTA
LE DONNE, I CANTI E IL LAVORO
NELLA TRADIZIONE POPOLARE FRATTESE
PREFAZIONE DI
SOSIO CAPASSO
PRESENTAZIONE DI
TERESA DEL PRETE
NOTA INTRODUTTIVA DI
PASQUALE DI GENNARO
ISTITUTO DI STUDI ATELLANI
MARZO 1998
Tip. Cav. Mattia Cirillo - Corso Durante, 164 - Tel./Fax 081-835.11.05 - Frattamaggiore
(NA)
Questa pubblicazione è stata curata
dalla
ASSOCIAZIONE “PROGETTO DONNE”
SEDE DI FRATTAMAGGIORE
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NOTA INTRODUTTIVA
La lettura, se pur veloce, di questo volume sollecita alcune riflessioni che oltrepassano i
confini della sfera storico-letteraria, per soffermarsi in un ambito sociale che ci appare
ancora di grande attualità.
Diversi autori, molti illustri, hanno lasciato vivo in noi il ricordo di ciò che ha
significato la parola «Canapa» per la nostra città; alcuni scritti avranno anche il merito
di mantenere imperitura la memoria storica a più generazioni future; questo testo sarà
sicuramente tra quelli che meglio potrà far comprendere, ai figli, come una società
opulenta è sempre il frutto di tanti sacrifici delle mamme.
Alle tante letture del fenomeno Canapa, aventi come caratteristica comune, una
localizzazione orientata soprattutto sull’aspetto maschile, si aggiunge questo testo che
ha l’originale pregio di analizzare una fase importante della nostra storia locale,
concentrando la ricerca sulle protagoniste femminili.
Si ha così la possibilità di apprezzare, forse per la prima volta senza eccessiva difficoltà,
alcuni valori che, credo, un po’ tutti avremmo bisogno di riscoprire: il gusto del
sacrificio, la gioia nel lavoro, l’amore per la famiglia, il pathos dell’innamoramento.
Il canto popolare delle canapine è il linguaggio di tutti questi sentimenti: diventa
inconsapevole veicolo che accomuna esperienze diverse e sodalizza più generazioni, è
attraverso queste fiabe che si mitigano e si superano non solo le enormi difficoltà del
quotidiano lavoro normale, ma anche quelle di natura psicologica rappresentate dalle
gelosie e dalle offese che affliggono coloro che vedono i propri simili raggiungere
condizioni sociali più elevate.
La scelta di far coincidere la presentazione di questo lavoro letterario con la ricorrenza
dell’8 Marzo è un’iniziativa a cui va il nostro massimo apprezzamento: e ciò non solo
perché brillantemente si è voluto modellare una ricorrenza mondiale con lineamenti
autoctoni, ma soprattutto perché ci consente oggi di riflettere sulla necessità del
coinvolgimento attivo delle nostre concittadine nel processo di crescita culturale e
produttivo di Frattamaggiore.
PASQUALE DI GENNARO
Sindaco di Frattamaggiore
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PRESENTAZIONE
Progetto Donna:
perché questa pubblicazione
‘U padrone conta ll’ora ‘e ‘a jurnata
a pettinatrice nci esce rotta e scufanata
‘u marito nu’ mangia e nu’ conta renare
‘a pettinatrice se scianca e piglia mazzate.
Emblematici questi versetti di una delle tante canzoni «a ffronne ‘e limone» qui di
seguito raccolte. Li scegliamo non a caso come prologo alla nostra presentazione e,
forse, ad una rilettura tutta al femminile, avremmo potuto anche usarli come sottotitolo
significativo intitolando poi la pubblicazione «Le donne, i canti e il lavoro nella
tradizione popolare frattese» ma abbiamo voluto rispettare la spontanea stesura degli
autori.
Sinteticamente ma in modo quanto mai immediato emergono la figura, il ruolo e il
destino di sofferenza della pettinatrice, di quella lavoratrice della canapa cioè che per
secoli è stata una delle figure protagoniste della storia locale contraddistinguendosi per
la peculiarità del suo lavoro così duro e sacrificato e per alcune caratteristiche
comportamentali, nate certamente in modo del tutto spontaneo, ma divenute poi note
distintive di tutte coloro che, già dai dieci-dodici anni, come discepole, fino alla piena
maturità, si dedicavano a questa attività come unica possibilità per poter contribuire al
magro bilancio familiare.
La pettinatrice che vi viene descritta è una donna sottomessa ad un duro lavoro, ad un
padrone inflessibile e, com’era «naturale» per l’epoca, ad un marito esigente e padrone:
una donna che dal lavoro esce «rotta e scufanata» ed in casa «se scianca e piglia
mazzate».
Facile immaginare allora un quadro complessivo di vita quanto mai angosciante ma, a
sorpresa, ed è questo il dato distintivo e meritevole di essere preso in considerazione,
dal lodevole lavoro di ricerca di Pasquale Saviano, viene fuori anche una donna forte,
intraprendente, volitiva, pronta ad uscire di casa alle due del mattino, a farsi vicendevole
compagnia con le sue amiche-colleghe camminando in gruppo e vincendo la paura del
buio e dei brutti incontri con canti notturni, ad allattare i suoi piccini vicino al pettine da
lavoro, a mangiare appena pane e qualcosa nei brevissimi spacchi concessi, a lavorare
duramente fino al pomeriggio tra la polvere e lo zolfo, a rischiare di ammalarsi di
tubercolosi o di altre mortali malattie per rimediare quattro soldi, a rientrare poi a casa e
a reimmergersi nel ruolo di moglie e di madre e, pronta a fare tutto ciò, con coraggio e
determinazione senza neanche perdere quella certa vena ironica, civettuola e talvolta
perfino sensuale così tipicamente femminile che solo raramente trascende nel volgare
ma come risposta ad atteggiamenti provocatori da parte del maschio.
Delle canapine si sono occupati i nostri illustri storici Sosio Capasso e Pasquale
Costanzo nei loro lavori sulla canapicoltura e su Fratta, ma di un’opera interamente ad
esse dedicata, alle loro storie, ai loro sacrifici e alle loro tradizioni, se ne sentiva
veramente la mancanza.
«A queste lavoratrici sottosviluppate e senza nome, che portavano per tutta la vita il
malanno del catarro bronchiale, vada l’ammirazione del popolo frattese» invita lo stesso
Pasquale Costanzo nel suo «Itinerario frattese» concludendo con queste accorate parole
quella parte del libro ad esse dedicata. Ed è proprio quest’ammirazione che noi di
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«Progetto dorma» abbiamo voluto concretizzare promuovendo la pubblicazione di
questo meritevole lavoro di ricerca e di analisi del lavoro, delle storie di vita e dei canti
delle pettinatrici di Fratta.
Nell’ambito del processo di rinnovamento intrapreso dall’Associazione «Progetto
donna», all’inizio dell’anno sociale è stato deciso di intraprendere un sempre più
qualificante percorso culturale. Premiare ogni anno una donna che si distinguesse per
una scelta o una particolarità della sua vita, tanto più meritevole quanto più ciò si
sarebbe riscontrato in una esistenza semplice, caratterizzata dalla dedizione alla famiglia
e ai valori fondamentali della vita stessa, si rivelò un modo emblematico per rendere
omaggio a quella forza morale e spirituale delle donne tutte che sempre più spesso, nel
quotidiano della propria realtà, svolgono un ruolo fondamentale nella famiglia e nella
società.
Ci sembra infatti che siano queste donne a porsi sempre più come collanti umani e come
forze propulsive in opposizione a tutte le forze disgreganti che il mondo di oggi
frequentemente e prepotentemente fa lievitare in queste istituzioni stesse.
L’idea del premio, da me proposta in qualità di addetta alla cultura, fu subito accolta
dall’Associazione tutta, saggiamente diretta dalla Presidente sig.ra Flavia Conte
D’Errico che condivise con entusiasmo anche la proposta di rendere omaggio, come
doveroso atto iniziale, prima che ad una singola donna del nostro presente, a quella
figura di lavoratrice – donna - moglie e madre che per secoli ha caratterizzato, con la sua
specificità, la storia della nostra città contribuendo per un verso a rinsaldare i vincoli
fondamentali della famiglia con l’apporto dei suoi notevoli sacrifici e del suo pur
scarsissimo guadagno, dall’altro alla crescita certamente economica ma sicuramente
anche culturale, nel senso più ampio del termine, della nostra Frattamaggiore.
Tutto ciò è ampiamente documentato nel presente lavoro che con orgoglio diamo alle
stampe. In esso è possibile riscontrare, tra l’altro, come queste lavoratrici avevano
autonomamente ed in modo del tutto naturale, sviluppato la capacità di accompagnare il
lavoro con dei canti che assecondavano addirittura, in virtù delle loro modulazioni, i
vari movimenti della lavorazione loro affidata arrivando perfino ad una riformulazione
locale del tradizionale canto di Zeza amorevolmente ricostruito in partitura musicale da
Luigi Mosca.
A Pasquale Saviano, che con puro spirito di ricerca storica e sociologica, e a Luigi
Mosca, che con genuina passione per l’arte e per tutte le sue più semplici e minime
manifestazioni, hanno in modo del tutto spontaneo e in tempo lontano da questo nostro
proposito, prodotto il lavoro che ci onoriamo di promuovere, va tutta la nostra
riconoscenza ed il nostro ringraziamento per averci fornito prontamente ed
entusiasticamente la loro produzione ed aver collaborato con noi lungo tutto il percorso
che ci ha portato alla realizzazione di questa pubblicazione.
Un ringraziamento particolare va anche al preside Sosio Capasso, Presidente
dell’«Istituto di Studi Atellani», che con la sua immensa cultura e con la lodevole
esperienza accumulata, ci è stato tanto vicino, corroborando le nostre intenzioni ed
illuminandoci con la sua saggezza.
Un altrettanto particolare grazie va infine al Sindaco, Architetto Pasquale Di Gennaro,
che, fin dall’inizio, ci ha manifestato la sua benevolenza ed assicurato il sostegno suo e
di tutta l’Amministrazione Comunale per la messa in stampa della nostra pubblicazione
e della manifestazione di presentazione.
TERESA DEL PRETE
Addetta alla Cultura
dell’Associazione «Progetto Donna»
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PREFAZIONE
Frattamaggiore è compresa in quell’ampio territorio che, a nord di Napoli, nella
cosiddetta Terra di Lavoro, appartenne all’antica Atella, celebre città delle «fabulae».
Come tutti gli altri Comuni di tale zona, il suo sviluppo è stato intimamente legato alla
coltura, alla lavorazione, al commercio della canapa.
La campagna atellana era particolarmente idonea a tale produzione, la quale, peraltro,
richiedeva cure minuziose e notevoli capacità nei contadini. Dire che un territorio era da
canapa equivaleva ad attribuirgli tutte le possibili virtù agricole, in quanto non vi è
pianta più esigente rispetto alla costituzione del suolo, il quale deve essere fresco,
permeabile, di impasto mezzano, profondo, cioè, di tipo alluvionale.
E’ ovvio che, intorno ad un’attività di tanto rilievo, la quale costituiva l’asse portante
dell’economia non solo frattese, ma di una numerosa serie di località circonvicine, si è
formata, nel corso dei secoli, una «cultura», contraddistinta da usi, costumi, tradizioni
tipiche, una «cultura» ispirata al particolare tipo di lavoro, alle esigenze che esso
comportava, alle speranze che ad esso erano legate.
Era un’attività che conferiva all’ambiente nel quale era praticata, caratteristiche proprie,
facendolo emergere in maniera singolare e confermandogli importanza e dignità
particolari.
Una «cultura», intesa in senso antropologico, è caratterizzata innanzitutto dal
linguaggio, il quale pur conservando accenti ed inflessioni legate alle sue origini remote
(nel nostro caso l’osco), viene condizionato sempre più, nel corso del tempo, dalle
necessità pratiche man mano emergenti, in modo da rendere immediata la comprensione
di chi ascolta 1.
Accanto alla lingua, le particolarità di una determinata cultura sono individuabili
attraverso il tipo di lavoro realizzato, soprattutto se questo si sviluppa in un settore
specifico tale da influenzare in maniera originale il comportamento della gente.
Naturalmente la più viva ed immediata testimonianza sia delle peculiarità linguistiche,
sia della quotidiana operosità della gente si trova nei canti popolari, canti nati
nell’anonimato, in epoca non precisabile, ma che conservano inalterata la loro
freschezza, la plasticità delle immagini evocate, la validità dei sentimenti espressi.
Accanto ai canti, le tradizioni intimamente legate al costante succedersi delle varie fasi
di un’attività lavorativa rimasta inalterata nei secoli.
La civiltà canapiera - perché tale è stata quella fiorita, nel corso del tempo, nei nostri
paesi - ha dato luogo a tutto ciò ed ampiamente lo dimostrano i canti amorevolmente
raccolti dal Saviano in questo libro, una tipica «canzone di Zeza», sapientemente
riesumata dal Mosca: sono voci che ci giungono da tempi non trascorsi da molto, ma
che sembrano già epoche lontane, voci che sono espressione della più schietta anima
popolare.
Torna alla mente, e l’animo vibra di commozione, tutto un mondo scomparso, dagli
addetti ai tipici lavori agricoli richiesti dalla canapa, dalla estirpatura, alla «spenta»2, alla
«sceriatura»3, alla macerazione nelle acque dell’antico Clanio, alla maciullazione, alla
pettinatura ...
La pettinatura! Un lavoro durissimo affidato alle donne, un lavoro che si svolgeva in
ambienti malsani, ove la polvere e l’odore dello zolfo condizionavano tragicamente la
vita, avviando alla tubercolosi e, molto spesso, a morte precoce. Un lavoro, che proprio
per ridurre i danni, si svolgeva prevalentemente nelle ore notturne e che richiamava
1
EUGENIO COSERIU, Lezioni di linguistica generale, Ed. Boringhieri, Torino, 1973.
Gli steli di canapa venivano battuti per eliminare le foglie.
3
Le cime degli steli venivano strofinate per eliminare eventuali foglie residue.
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anche ragazze dai paesi circonvicini, in quanto Frattamaggiore, ove prevaleva la fase
artigianale ed industriale della trasformazione della pianta, offriva sempre un cospicuo
numero di posti di lavoro.
E poi, accanto ad attività tanto logoranti e tanto mal retribuite, quanti altri mestieri
veramente di fame: funai, battitori di stoppa per materassi, venditori di sorbetti,
venditori di «scagnozzi», acquaiuolo e così via ...: gente, ahimè, destinata a vivere di
stenti e di miseria.
Eppure; malgrado tante angustie, quanti canti nella notte, specialmente in quelle
memorabili perché legate a certe festività, ed in quei canti quanto sentimento, quanta
arguzia e, non di rado, quanto sano buonumore.
Dopo il crollo della coltivazione della canapa, tra gli anni cinquanta e sessanta,
gravissima fu la crisi che colpì la nostra zona e solamente in virtù della laboriosità della
nostra gente essa non portò alle temute disastrose conseguenze. Però da essa è derivata
la perdita per Frattamaggiore della sua singolarità nel campo socio-economico ed il suo
conseguente appiattimento nel settore delle attività terziarie, alle quali si rivolge oggi la
gran massa dei cittadini, come in un precedente lavoro i Saviano avevano già rilevato 4, e
la progressiva scomparsa di usi, costumi, motti, canti che a quella singolare attività
erano legati.
Man mano che le generazioni che furono protagoniste del duro, ma tipico, lavoro che
ferveva intorno alla cultura della canapa, vanno scomparendo (e le fila si fanno sempre
più rade) le memorie di un passato che non fu immeritevole, e che costituisce un valido
patrimonio culturale, diventano sempre più pallide.
Eppure quelle generazioni, dalle più remote alle più recenti, furono protagoniste della
nostra storia e vanno perciò ricordate ed onorate.
Altrove ho scritto: «noi pensiamo che sia tempo di approfondire il discorso sulla
importanza delle masse popolari nel succedersi degli avvenimenti nel tempo, di quelle
masse, cioè, che sempre, degli interessi, delle rivalità, dei capricci dei potenti hanno
subito le conseguenze, ma che, sono state protagoniste degli avvenimenti stessi, perché,
senza di esse, nulla i potenti avrebbero potuto realizzare. (...) Non neghiamo
l’importanza della storia politico-militare e, naturalmente, neppure l’influenza che
avvenimenti di vasto respiro (...) hanno avuto ed hanno certamente nella vita dei popoli,
ma pensiamo che oggi debba prevalere un concetto pluridimensionale della storia,
quello, cioè, che considera in tale settore di studi, armonicamente conglobate, varie
dimensioni, quali politica, economia, organizzazione sociale, cultura, religione, scienza,
tecnica, lavoro»5. Questo libro risponde anche a tale inderogabile esigenza: grazie ad
esso una moltitudine di umili protagonisti di vicende quotidiane, apparentemente
secondarie, ma tali, invece, non solo da improntare tutto un ampio arco di secoli, ma da
incidere notevolmente nel profondo della nostra coscienza, emerge dall’oblìo e, col suo
sudore, col suo dolore, con il suo riso e con il suo pianto, fa rivivere il linguaggio tipico,
che, perfezionandosi, migliorando, adeguandosi alle esigenze nuove della esistenza, va
scomparendo. Esso fa rivivere il sentimento da cui nacquero nenie e canti che, nel ritmo
obbligato dai tempi della fatica, scandirono le ansie, gli affanni, i palpiti, le gioie di ogni
giorno.
In tale contesto ben si colloca il canto-rappresentazione, la «Zeza», che, pur variamente
elaborato ed ispirato alle condizioni tipiche di varie località del Napoletano, acquista
schietto sapore atellano nell’adattamento spigliato e malizioso delle nostre pettinatrici:
4
GIUSEPPE E PASQUALE SAVIANO, Frattamaggiore tra sviluppo e trasformazione, Tip.
Cirillo, Frattamaggiore 1979.
5
Dalla Presentazione alla nuova serie della «Rassegna Storica dei Comuni», A. VII, n. 1-2,
1981.
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come non ricordare i personaggi e le battute sagaci e brillanti delle «fabulae», delle
quali, pur nei pochissimi versi giunti sino a noi, ritroviamo il medesimo spirito arguto e
mordace?
Il testo musicale, dal Mosca opportunamente ricostruito, costituisce un documento
particolarmente valido perché anche della nenia, nella sua manifestazione più viva, resti
memoria.
E’ un libro che, pur nella logica rigorosa di una ricerca condotta con metodo scientifico,
un frattese non può leggere senza che qualcosa si muova nei recessi più intimi della sua
coscienza e, forse, senza che una lagrima inumidisca le sue ciglia.
Questa raccolta riveste, pertanto, una duplice importanza: da un lato quella propria di un
testo redatto con finalità sociologiche e antropologiche di ampio respiro, dall’altra
quella specifica che compete ad una ricerca condotta con tanta pazienza, tanto amore,
tanta cura; un lavoro prezioso che, alla estrema vigilia della definitiva scomparsa dei
pochi protagonisti ancora viventi, ma forse anche in coincidenza della ripresa
dell’attività canapicola nella nostra zona, consentirà alle future generazioni frattesi di
conservare una validissima testimonianza delle loro più remote e più profonde radici
culturali.
SOSIO CAPASSO
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PREMESSA
Inedito da 15 anni, tanto il tempo trascorso dalla sua stesura conclusiva e dalla stampa
delle bozze, questo lavoro è la parziale realizzazione di un progetto di recupero della
tradizione popolare frattese che doveva essere completato con un’altra parte a mano di
Pasquale Costanzo, la quale ha avuto invece un esito editoriale monografico
nell’ITINERARIO FRATTESE.
La primitiva prefazione del Prof. Sosio Capasso è stata aggiornata alla situazione
odierna.
L’attuale adattamento tipografico di questo lavoro si giustifica con la volontà di offrire
al pubblico un prezioso documento della storia locale e delle vicende umane di
Frattamaggiore.
Per le fonti dei testi si ringraziano le signore: Capasso Antonia, Giangrande Vincenza,
Della Corte Concetta, Maisto Immacolata, Fiocco Giovanna, Mariniello Campiglia, ed
altre pettinatrici di canapa che ci hanno consentito di registrare le canzoni che
accompagnavano il loro lavoro al pettine.
Per le testimonianze si ringraziano i signori Vitale Domenico, Anatriello Raffaele, ed
altre persone anziane che ci hanno raccontato di Fratta e della sua gente.
Per il supporto tecnico tipografico si ringrazia la Tipografia Cirillo, e per la
registrazione dei canti il signor Tommaso Barra.
GLI AUTORI
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Sta campagna nun è ‘a nosta,
comm’è nosta sta fatica!
Campagnuo ’tu si’a furmica,
ma a pruvvista che t’ ‘a dà?
E cantanno sulamente
nuie putimmo aizà sta croce!
Ma chi sente chesta voce
ca p’ ‘o campo se ne va?
(Da «Campagna napolitana»,
di Raffaele Viviani)
PARTE PRIMA
Canti Canapini Frattesi
di PASQUALE SAVIANO
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CAP. I
La cultura dei canti canapini
1. UN PATRIMONIO CULTURALE
Frattamaggiore è una cittadina dell’entroterra napoletano la quale, al pari e forse più di
altre città meridionali di provincia, vive le contraddizioni di una trasformazione
profonda del costume e dell’economia.
In essa, come in tante altre realtà in trasformazione, il configurarsi di nuovi modi di vita
può comportare l’abbandono e la dissoluzione di notevoli patrimoni di esperienza e di
cultura.
Il recupero di questi patrimoni, nel senso della loro conoscenza storica e antropologica,
può contribuire a rendere meno difficoltosi i processi di formazione di una nuova
coscienza sociale, nelle fasi del passaggio da una società tradizionale ad una società
moderna.
Per quanto riguarda la realtà frattese, un primo recupero in questo senso è stato
effettuato attraverso un recente lavoro 1, nel tentativo di comprendere le dimensioni
generali della storia locale.
Aspetti particolari di questa storia sono meritevoli di ulteriore approfondimento, dal
momento che è possibile rinvenire contenuti dotati di valenza culturale molto più ampia
di quella inerente un mero localismo, e dal momento che questi contenuti rischiano di
andare perduti, a causa di una sempre più probabile estinzione delle fonti e delle
informazioni.
Uno di questi contenuti riguarda sicuramente la tradizione dei canti di lavoro delle
vecchie canapine, o pettinatrici di canapa: tradizione che va, appunto, consumandosi
silenziosamente insieme con il patrimonio di vita e di cultura popolare che essa
rappresenta.
Se questa tradizione non fosse recuperata, potrebbe essere perduto un elemento
importante della storia antropologica della campagna meridionale e napoletana;
certamente andrebbe perduto un elemento fondamentale per la ricostruzione della storia
antropologica dell’area atellana; dal momento che è possibile riscontrare, in molti canti
canapini, forme linguistiche e caratterizzazioni tali da giustificare l’analisi delle
connessioni esistenti tra la cultura che li ha prodotti e la storica cultura dell’antica città
scomparsa di Atella.
I canti delle pettinatrici hanno rappresentato uno dei tratti distintivi più caratteristici ed
originali di una Fratta canapiera, produttrice autonoma, fino a qualche tempo fa, di
economia e di cultura anche presso le componenti popolari della sua società: una Fratta
che è rimasta nella memoria delle generazioni anziane.
Per questo motivo, il rischio di una totale scomparsa del patrimonio culturale costituito
dai canti canapini è reale; perché dopo secoli di lavoro svolto incessantemente, ed
umilmente, le memorie e la vita frattese evocata nei canti, gli stessi canti, vanno
scomparendo dal ricordo delle ultime pettinatrici.
Il rischio di questa scomparsa è anche grave, perché senza la testimonianza dei canti
verrebbe a mancare uno dei riflessi più veri, più quotidiani e meno mistificati della
1
G. e P. SAVIANO, Frattamaggiore tra sviluppo e trasformazione, Tip. Cirillo,
Frattamaggiore, 1979.
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storia popolare: storia che saremmo costretti ad interpretare attraverso i rari cenni e
attraverso le versioni più oleografiche.
Senza questa testimonianza verrebbe a mancare il risultato di una riflessione, sulla
dinamica della esistenza propria e degli altri, effettuata lungo le vie di una tradizione
secolare ininterrotta, ed elaborata da generazioni di donne legate al duro tiro dei pettini
per le fibre di canapa. Verrebbe, in altre parole, a mancare, il lavorio culturale che
veniva fatto nel chiuso dei tanti laboratori frattesi, i cosiddetti casoni o pennatori,
umidi, polverosi e malsani.
Esempio architettonico di un «pennatoio» in legno e tufo dove avveniva la pettinatura
della canapa. Per lo sviluppo di un polverio dannoso ed irresponsabile le donne addette a
tale fase di produzione potevano ripararsi solo in luoghi semiaperti o coperti da semplici
tettoie. (Disegni di Kelly Grassia)
Quei laboratori, infatti, erano simili a luoghi di ritiro spirituale forzato; simili a centri di
meditazione e di osservazione, di comunicazione immediata tra le lavoratrici (vecchie,
madri, giovani) con i loro problemi diversi, con i loro bisogni, con le loro esperienze,
con le loro tensioni, con i loro caratteri. In essi tutte le esperienze esistenziali delle
donne frattesi si concentravano forzatamente in una unica ideologia ed in una unica
vecchia forma di vita: una sottomissione secolare che, sempre rinnovata ed alimentata
dalla socializzazione del lavoro al pettine, si apprestava ad essere trasmessa alle giovani
a questo lavoro avviate. In questi luoghi soprattutto il lavoro veniva fatto cantando, ma
anche la religiosità, l’amore, il dolore, la gioia, la rabbia ed il pettegolezzo venivano
cantati.
Recuperare la tradizione dei canti canapini significa far rivivere una capacità di
improvvisazione, una spontaneità, una intelligenza, una capacità di ragionare con ironia
e sottintesi; significa gustare una musicalità originale, una certa «sguaiatezza»; significa
riscoprire le canzoni a ffronne ‘e limone, la dolcezza di nenie religiose e sentimentali;
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significa soprattutto riconoscere e conferire dignità storica e culturale alla memoria di
una gente che viene quasi completamente dimenticata.
Il recupero del patrimonio di questi canti significherebbe un contributo notevole a non
approfondire quella frattura, che purtroppo oggi notiamo, esistente tra vecchio e nuovo,
tra un passato completamente abbandonato, psicologicamente rigettato dalla nuova
configurazione culturale, ed un presente cui non si riesce ancora a dare una identità
coerente; significherebbe, infine, un contributo per impedire una già verificantesi
distruzione irrispettosa delle radici di una cultura, di una economia e di una società che,
nella fattispecie, sono quelle frattesi, ma che potrebbero benissimo essere più generali,
laddove alla scomparsa di un patrimonio locale corrispondessero tante altre scomparse,
in un ambito più vasto di quello locale e in un clima generale di distruzione del vecchio.
In queste pagine viene tentato, quindi, il recupero di una parte di ciò che probabilmente
è ancora rimasto di una intera cultura popolare.
Presentare, infatti, all’attenzione del lettore una raccolta, pur se frammentaria, di canti,
di giudizi e di testimonianze, ascoltati dalla viva voce di vecchie canapine, significa
presentare la testimonianza del modo in cui veniva percepita, e in cui ancora oggi molto
spesso viene percepita a livello popolare, la vita sociale di una città della provincia
napoletana. Significa, cioè, presentare la testimonianza di una categoria di persone che
ha avuto il privilegio di cogliere le costanti storiche e generazionali della vita cittadina:
vita e costanti che le pettinatrici frattesi hanno avuto la capacità di fissare in una
parallela tradizione, artisticamente creativa, di canti di lavoro; come in una vera e
propria cronaca, alla quale si può attribuire un alto e attendibile valore culturale e
storico.
2. L’AMBIENTE STORICO
Fino a qualche tempo fa, la storia e la cultura di Frattamaggiore si sono identificate con
la storia e la cultura della canapa.
Infatti, tutti i riferimenti storici elaborati su Fratta evidenziano il legame che il suo
sviluppo ha avuto con questa fibra vegetale, dalle sue origini alle sue recenti
conclusioni.
Nella lavorazione della canapa, e nella esclusività della sua trasformazione in funi e
filati, si è anche intravista per Fratta, paese dell’entroterra sviluppatosi nell’area
atellana, una sua continuità storica con la Miseno, sede di antico porto romano, distrutta
dai saraceni nel IX secolo.
Sulla canapa si sono basate, proficuamente e con grande capacità di influenza su ampie
aree geografiche esterne, la parte più consistente dell’economia cittadina ed una
originale produzione culturale caratteristicamente frattese nel linguaggio e nella
mentalità.
Per la canapa, Fratta, paese per molti aspetti simile a tanti della campagna meridionale,
ha vissuto una evoluzione tutta sua. In essa si è verificata una compenetrazione di antico
e di moderno, di ruralità e di industrialismo, di fame e di ricchezza, di profonda
religiosità popolare e di venale pragmatismo economico 2, di rapporti comunitari e di
rapporti autoritari: una sintesi piramidale della vita morale, in cui il vertice paternopadronale ha sempre influenzato il sostrato materno-servile.
Di questa sintesi ci pervengono maggiormente i prodotti più direttamente legati alla
influenza dominante.
2
Proverbiale: ‘u piezzo (insistente richiesta quando si doveva ricevere, evasiva considerazione
... quando si doveva dare).
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I canti, i detti e le testimonianze 3 delle canapine si offrono, però, come uno strumento di
rilettura originalissimo di questa vita morale.
Essi ci riportano ai momenti centrali del ciclo della trasformazione canapiera 4; ci
parlano dei bisogni della famiglia, delle esperienze degli anziani, della giovialità delle
fresche spose, delle delusioni, delle speranze e dell’amore delle donne da marito, del
pudore e della ritrosia delle giovanette in fiore; ci rimandano una generale religiosità; ci
raccontano una vita interiore ed una vita sociale; ci parlano di rabbia e sapienza
frammista all’assuefazione.
I canti sono soprattutto un notevole prodotto culturale delle canapine frattesi: un
prodotto di donne al lavoro, con legami di parentela, di amicizia e di conoscenza con le
altre categorie di lavoratori 5, le quali di tutti cantavano le vicende e la vita.
Tra le varie fasi della lavorazione della canapa 6, la pettinatura era una fase intermedia
operata, fino alla fine del ‘700, a livello casalingo da manodopera femminile.
La costituzione del pettine 7 per la canapa e la semplicità della tecnica di lavoro 8 ben si
adattavano all’artigianato domestico.
Successivamente in concomitanza di una generale crescita demografica verificatasi nella
seconda metà dell’800, che comportò per Frattamaggiore un incremento del 30% della
popolazione, si allargarono le riserve di manodopera.
Contemporaneamente si sviluppò una ristretta imprenditoria che progressivamente
sottopose al suo controllo tutto l’artigianato canapiero domestico.
In questo modo, in quasi tutti i palazzi rurali della borghesia locale, si ebbe la
formazione di tanti laboratori, nei quali veniva concentrato un numero notevole di
pettini, e nei quali veniva impiegata tutta la manodopera femminile disponibile, spinta
così a passare alle dipendenze di vari padroni e a lavorare in un regime di concorrenza.
Il risultato fu il significativo concorso di questo nuovo tipo di pettinatura alla
costituzione di quella fabbrica disseminata per tutto il territorio frattese altamente
produttiva e funzionante fino alla recente conclusione della vicenda canapiera.
In questo modo la concentrazione di molti pettini nei vari laboratori permise a migliaia
di donne, lavoranti a giornata, di incontrarsi e di sviluppare una comune cultura verbale;
specificamente una cultura del canto: unico spazio di compromesso tra una esigente,
umana, comunicazione e un esigente ritmo di lavoro: unico modo di cullare la mente nei
sogni senza sonno delle veglie forzate del lavoro notturno 9; unico modo di crearsi un
3
E’ auspicabile un più completo recupero di queste testimonianze, anche attraverso eventuali
ricerche di gruppi di studenti; i quali avrebbero, così, la possibilità di un contatto proficuo con
le vecchie generazioni.
4
Il lavoro al pettine, che impegnava circa duemila donne in un centinaio di laboratori
artigianali, era un momento importante inserito tra la produzione agricola e la trasformazione
industriale della canapa.
5
I carrettieri, i braccianti, i cestai, i maciullatori di canapa, gli operai degli stabilimenti, i
facchini, ecc.
6
Le fasi della lavorazione canapiera: raccolta, macerazione, sfibratura o maciullazione,
pettinatura, corderia, filatura.
7
Il pettine era un cavalletto di legno quadrangolare, sul quale erano fissate delle tavolette
munite di chiodi di acciaio sporgenti ed organizzati in tre o quattro serie progressivamente più
strette.
8
La tecnica di lavoro al pettine: tiro e graffiatura di piccole manate di canapa, attraverso la
serie di chiodi, fino al libero scorrimento delle fibre.
9
Il lavoro notturno era una necessità «tecnica», in quanto l’aria umida delle prime ore del
giorno appesantiva le polveri sprigionate dalla pettinatura, le quali si tenevano, così, sospese in
basso e venivano respirate dalle pettinatrici in quantità minori di quelle che venivano respirate a
giorno inoltrato.
14
fittizio mondo di libertà, in un ambiente che le teneva impegnate dalle dodici alle sedici
ore al giorno.
3. TESTIMONIANZE
Nonostante una notevole produzione storico-letteraria relativa alle vicende locali, non
esiste alcuna vecchia testimonianza scritta né un organico lavoro svolto sulla vita, sul
lavoro al pettine e sul canto delle canapine.
Le uniche testimonianze sono tratte sia dal ricordo diretto delle protagoniste che dal
ricordo indiretto di osservatori e conoscitori esterni che a vario titolo ne hanno parlato e
scritto.
Un riconoscimento ufficiale scritto, che risulta essere abbastanza generico, lo si può
individuare nel testo di una canzone presentata nel 1955 al «2° Festival Frattese»,
intitolata «Femmene Frattese» (versi: D. Santoro, musica: F. Martinelli).
In questo testo si cerca di esaltare le lavoratrici di Fratta e la loro fatica; ma lo
scanzonato corteggiamento riesce a vagheggiare nei confronti di queste donne solo un
coinvolgimento di tipo sensuale:
Vì come addora ll’aria ‘e stu paese
mme pare overo ’nu ciardino’nfiore ...
Ruselle ‘e Fratta! Femmene maggese;
sò tutte sentimento anema e core!
E sò carnale quanno fanno ammore,
femmene nata p’ ‘a felicità!
A Fratta, è overo, ‘o ccanepe
è ‘na specialità:
pe’ chelle ca ‘o ffaticano
fa ricca ‘sta città;
ma s’hadda dì ca ‘e ffemmene frattese
songo ‘e cchiù belli rrose ‘e stu paese! ...
Sò ghianche e rosse, e penzano ‘a fatica,
e faticanno passano ‘a jurnata ...
Se campa comme vò ll’usanza antica:
‘o sposo e ‘a sposa penzano ‘a campata ...
E ‘a sera ‘a sposa, quando s’è straquata,
è assaje cchiù doce p’ ‘a felicità! ...
Non bisogna pensare che questo tipo di esaltazione non trovasse anche una certa
compiaciuta rispondenza da parte di donne frattesi; perché, effettivamente, un certo
modo scanzonato di vivere e di raccontare le vicende tra i sessi era abbastanza frequente
nelle espressioni di alcune irriducibili canapine, soprattutto a livello dei loro canti ad
argomento amoroso.
E, come avremo occasione di notare, questo modo molte volte rappresentava una ironica
risposta alle mene maschiliste presenti nel conformismo culturale dell’epoca; e
rappresentava una soddisfatta gestione verbosa dell’attrattiva femminile.
Di altro tipo è questa testimonianza che viene tratta da un’opera 10 inedita in
preparazione:
10
L’opera è il saggio di P. COSTANZO che doveva essere pubblicata nella progettata III parte
di questo libro.
15
Fino a vent’anni fa si vedevano agli angoli delle strade le venditrici di ceci con caldaie fumanti.
Le canapine, uscendo dalle botteghe di pettini, merendavano presso queste caldaie col «ppane
‘nfuso ‘e cicere» (pane bagnato nel brodo di ceci): facevano un poco di baldoria nella strada e,
dopo mezz’ora di pausa, ripigliavano il lavoro cantando e dicendo barzellette.
Forse alcune non portavano neanche la camicia e, tornando a casa, ritrovavano la miseria che si
poteva tagliare col coltello: vivevano in una sola abitazione che serviva per dormire, mangiare,
bere e fare i loro bisogni. Eppure queste ragazze, con la schiettezza primitiva, donavano agli
altri sentimenti di bontà, di sacrificio, di comprensione; alcune, dotate di nativa bellezza e di
buona voce, trovavano ben presto un buon partito. [...]
Quale motivo le spingeva ad abbracciare un lavoro così ingrato? Non certo la sete per il denaro.
I soldi, guadagnati dal capofamiglia, bastavano sì e no a comperare il pane col companatico e
non erano sufficienti a far camminare la barca.
Ogni tanto bisognava pure acquistare un Kg. di carne, una bottiglia d’olio che mancava spesso
nella credenza, un paio di scarpe, una gonna, un po’ di biancheria bianca per le ragazze da
marito. C’era anche il pericolo sottinteso di finire i giorni al tubercolosario o di stendere la
mano ai passanti.
Come fare? [...] Allora ragazze e donne maritate pregavano i padroni che le prendessero a
giornate, non importava a quali condizioni, pur di guadagnare 3 lire al giorno per cavarsi la
fame.
I denari, raggranellati con tanto sudore, venivano conservati gelosamente dentro il saccone. Le
donne, che ci tenevano all’onore, dicevano: «Povere, ma oneste!».
Le canapine erano già all’opera alle due dopo mezzanotte; sul posto di lavoro quando la pioggia
notturna sferzava gli alberi o quando il vento fischiava fortemente, a ingannare il tempo,
manifestando con note malinconiche il romanzo dell’anima; qualcuna, quasi rediviva
profetessa, improvvisava delle vere nenie poetiche mentre le compagne facevano da sottofondo
corale. Nella bottega dei pettini si parlava di tutto: si metteva in caricatura il padrone, si narrava
con forti effetti drammatici una scappatella di qualche operaia, si tagliavano i panni al
prossimo, si rideva e si tossiva.
Il lunedì dell’Angelo, al canto di muntagna fredda e con tamburi e nacchere, molte pettinatrici
andavano su carri infiorati al santuario della Madonna dell’Arco; durante la notte del 23 e 24
Dicembre percorrevano le vie di Fratta facendo baldoria e dando la voce del venditore di
capitoni. La notte era pervasa da una gioia intensa: pochi dormivano; qua e là si accendevano i
falò che rompevano con i loro guizzi le ombre notturne. [...] Nel mese di settembre, a carovane,
avvolte in grandi scialli, suscitando simpatie e giocondità, andavano su carri infrascati a S.
Filomena, a Mercogliano, a Montevergine: qui alcune, per penitenza o per divozione
particolare, facevano ginocchioni dalla porta d’ingresso all’altare maggiore.
Le canapine sono scomparse da un ventennio. A queste lavoratrici, sottosviluppate e senza
nome, che portavano per tutta la vita il malanno del catarro bronchiale, vada l’ammirazione del
popolo frattese.
Come si è potuto osservare durante la nostra ricerca, le testimonianze più probanti
intorno alla vita e al canto delle canapine sono quelle contenute nel silenzioso ricordo
delle vecchie generazioni. Sono quelle testimonianze richiamate dal ricordo malinconico
di un passato che è meglio dimenticare, tanti erano gli stenti sofferti. Sono quelle
testimonianze che riportano la rabbia alla mente di quelli che un tempo erano giovani
innamorati, e che sentivano quasi cavarsi gli occhi al continuo tossire delle canapine
loro fidanzate (... «loro facevano la tosse e a nuie nci ascevano ll’uocchi ‘a fore» ...).
Sono quelle testimonianze che figurano i sottintesi di mille segreti in comune tra le
canapine, di cose che potevano essere dette e cantate solo tra loro, nel chiuso del loro
lavoro, di cose pudicamente considerate, alla nostra presenza, stroppole o cose che non
valeva la pena chiarire.
Sono quelle testimonianze che esprimono la generale memoria di una vecchia e
pittoresca vitalità popolana, festaiola, pettegola, anche drammatica, di cui si sente la
16
mancanza, e che un tempo imponeva la sua presenza e le sue espressioni in tutti i
momenti più o meno solenni della vita paesana.
Sono, infine, quelle testimonianze che dicono di una vita dura a morire, di un modo di
essere perfettamente identificato con un modo di cantare che è profondamente radicato
nella coscienza e nelle espressioni popolari: «... io, a fatica, m’alligereva cantanno» ...;
«... io ietti quatte vote ‘o spidale, mi mittevo a cantà a ffronne ‘e limone ... facevo
chiagnere ‘a rint’ ‘u lietto ... addoppa che era vecchia ... ricevo ciert’ ‘i canzone
appassiunate ... ma si sivi zitella o ommo, te ne careva ‘u stommaco ... erano ciert’ ‘i
canti appassiunati! ... Mi viri mò a cussì ... io ‘a notte m’ ‘u sonno sempe, e mi sceto e
m’arricordo quanno teneva ‘na ventina r’anni e nisciuna mi passava a cantà ...» ...
Esempio architettonico dell’interno e dell’esterno di un «inzolfatoio» in tufo e laterizio
dove era riposta la canapa pettinata per essere imbiancata e conferirle così un aspetto di
miglior pregio commerciale. Foto sulla destra in basso di un pettine per la canapa.
(Disegni di Kelly Grassia)
4. STRUTTURA E SISTEMAZIONE DEI CANTI
I canti delle pettinatrici di canapa rappresentano una produzione culturale e popolare
variamente composita e improntata a vario argomento.
Di questa produzione non è possibile effettuare una storicizzazione puntuale e
inequivocabile, a causa della mancanza di una documentazione scritta, e a causa del
particolare tipo di sopravvivenza dei canti, esclusivamente trasmessi a voce e molte
volte modificati e rielaborati nella stessa trasmissione.
Per quanto è possibile dedurre dall’analisi dell’insieme dei canti a nostra disposizione,
raccolti attraverso frammentarie registrazioni da persone diverse, si può affermare che
esiste un corpo di canti abbastanza omogeneo, nel quale si possono individuare brani
17
molto antichi e brani in grado di trascendere una dimensione strettamente localistica
ancorché dotati di una certa universalità poetica e culturale.
Questo corpo costituisce una tradizione originale, specificamente frattese, con un
contenuto che rispecchia i valori e la mentalità del popolo frattese. La compiutezza,
l’articolazione a più voci (‘a dumanda e ‘a risposta), l’argomentazione (rapporti
familiari, rapporti con padroni, riferimenti a fatti e a persone localmente noti, ecc.), lo
stesso linguaggio (con le tradizionali inflessioni 11 ritenute di derivazione osco-atellana),
testimoniano ampiamente questa originalità. Una originalità che probabilmente si è
andata inquinando e intaccando a causa della sovrapposizione di motivi e di contenuti,
verificatasi con l’avvento del mezzo radiofonico, il quale, proponendo diffusamente
nuovi riferimenti canori esterni, ha certamente smorzato lo sforzo culturale della
costruzione originale dei canti canapini.
Si accompagnano, così, ai canti compiuti, conosciuti soprattutto dalle canapine vecchie,
una serie di canti appartenenti ad una «tiratura» più ampia di quella locale, ed una serie
di corti canti improvvisati e diffusi per i fatti e le occasioni più svariati. Questi ultimi
significano certamente un fatto importante, ancorché originale ed indicativo della
notevole rigenerabilità della cultura canapina, anche nel periodo più recente della sua
decadenza. Al di là di quelle che potrebbero essere le annotazioni di un’analisi
filologico-letterario-musicale 12 circa questi canti, si possono rilevare alcune
caratteristiche fondamentali nella loro struttura.
Un doppio ritmo sembra caratterizzare la maggior parte di questi canti, mentre la loro
costruzione in versi non rispetta che un semplice richiamo rimato, a volte alternato,
delle strofe precedenti, soprattutto di tipo sonoro; richiamo dato non dalle lettere finali
ma da un’analogia di accentuazione delle sillabe delle parole conclusive di ogni
passaggio.
Per quanto riguarda il doppio ritmo, esso deriva, si può dire, da una serie di necessità
tecniche relative al lavoro al pettine. Esiste un ritmo sistematicamente contratto il quale,
da un lato, si adatta quasi naturalmente, anche nella respirazione, agli sforzi e ai
piegamenti delle canapine impegnate nel tiro delle fibre di canapa, mentre, dall’altro
lato, impone esso stesso un sistematico andazzo dei movimenti operativi della
pettinatura. Esiste un ritmo dolce, di nenia, quasi lamentoso, monotono, che funziona
quasi da reagente vocale contro il forte sonno delle canapine durante le ore di lavoro
notturno.
In questo doppio ritmo si può individuare certamente la funzione più importante dei
canti canapini, e forse di tutti i canti di lavoro, i quali risultano così essere dei veri e
propri strumenti di lavoro, oltre che prodotti di una libera creatività culturale e popolare.
Ed è probabilmente proprio questa loro strumentalità che rischia di farli dimenticare,
così come viene dimenticato il lavoro per cui e in cui essi sono nati.
La sistemazione dei canti che segue è da considerarsi una sistemazione arbitraria, fatta
solo per uno scopo di convenienza d’analisi e di presentazione. Questo perché ogni
canto, in sé, rappresenta una sintesi culturale globale: una sintesi di vita e di esperienza
nella quale si compenetrano diversi temi esistenziali, il rapporto familiare, il rapporto di
lavoro, la protesta, ecc. Ogni canto è inserito nel quadro generale della cultura popolare,
11
Cfr. A. GIORDANO, Memorie istoriche di Frattamaggiore, S. R. Napoli 1834, pag. 101 e
segg.: («... dialetto Osco proprio degli Atellani, conservato fin dalla sua origine nella bassa
classe del popolo Frdttese» ...) e pag. 104 e segg., ove si analizzano le analogie linguistiche tra
l’osco-atellano e il dialetto frattese.
12
E’ auspicabile che anche questo tipo di analisi venga effettuata sul materiale registrato a
nostra disposizione. I risultati potrebbero essere notevoli, come dimostra ad esempio, il
tentativo fatto da L. Mosca nel senso del recupero del tema musicale della «Canzone di Zeza»
delle pettinatrici. Cfr. La seconda parte di questo libro.
18
fatto di mentalità, di valori, di avvenimenti e di modi di vita sociale, in una maniera
radicale tale da rendere veramente difficile il considerarlo come indicativo di un unico
aspetto di questa cultura. Di fronte all’alternativa tra una semplice elencazione dei canti
raccolti e una loro presentazione commentata, abbiamo scelto di descriverli
accorpandoli secondo i temi che ci apparivano in essi dominanti, cercando di svolgervi
intorno un discorso generale di ricostruzione di quello che alla fine dovrebbe risultare il
loro più generale ambito culturale, ovvero il quadro storicosociale in cui essi sono stati
elaborati e prodotti.
Ad ogni tema si vedrà attribuita una varietà di canti, a volte molto diversi tra loro nel
linguaggio e nei contenuti; una varietà che potrà rappresentare le diverse sfaccettature di
uno stesso tema e i diversi modi, anche apparentemente contrastanti, di viverlo e di
concepirlo.
La trascrizione dei canti tiene fedelmente conto delle varianti frattesi del dialetto
napoletano, così come sono state registrate dalla viva voce delle canapine (es. articolo ‘u
invece di ‘o, chepa invece di capa, tresi invece di trase, ecc.).
19
CAP. II
La tematica dei canti canapini
l. LA NOTTE
Il ricordo più notevole delle canapine, e della gente che di esse si ricorda, è un ricordo di
veglie notturne. E’ un ricordo di passi e di voci nella notte, di donne e fanciulle che si
recano parlottando o cantando alle botteghe dei pettini. Un ricordo di clamori, di attese,
di incontri paurosi, di febbrile lavoro, di celebrazioni di vigilie di feste importanti, di
alzate dolorose, di dolci serenate.
Di notte, al buio, quando ci si recava al lavoro, erano anche frequenti le cadute; ne
parlano questo frammento di canto e la testimonianza che lo segue:
MI SO’ SUSUTA MATINA
Mi sò susuta matina
‘u lampione steva stutato
aggia pigliata ‘nu bbutto
rint’ ’u vico mio
è venuta socoma
è stata essa che m’ha izzata.
«Nci susevemo ‘e ll’una ‘e ll’un’e mmezza ... si mi vene a mmente ... mi schifo a mme
stessa! ...
‘Na vota mi susietta a mezzanotte ... e a mmiezz’ ‘a via nova ‘i «Capuvetti» ... ‘lla ‘a
ro’hanno sfardato l’ati vvie ... a «Chiezza purtuso » e a «Ncoppo nuvale», ‘n ‘u ssoccio
si vui sapite «Ncoppo nuvale» là ... là stevene ‘i ccase ‘a part’ ‘a ccà. lo mi susiette e
mm’avviai p’ ‘u scuro ... Steve carenne a mmiezzo addò ‘a chiammavano
«Giuvannina’a zi’Maria» a «Chiezza purtuso». In tutt’ ‘i modi chella teneva ‘i ffiglie:
pettenavano e nu’ vulevano che loro pettenavano
A ’nu cert’ ‘i via, vicin’ ‘i «Capuvetti» a «Chiezza purtuso» ... Chilli seveno i veri
signori che stevano a «Chiezza purtuso» ... ‘u palazzo abbascio tenevano ‘a citeria ... là
steve ‘nu bbell’ ‘u ciardino a mmiezz’ ‘a via nova: steve ‘nu ciardino ‘a ccà e ‘nu
ciardino ‘a llà. In tutt’ ‘i modi, mi fermai ‘ccà ssotto pecché nci steva una fermata là ...
Riciette: «Figliò! che r’è? Ccà nci accumpare?»
Chella: «Nun voglio venì, voglio rurmì».
Ie ‘a vuleva cunvincere, ma chella che si facette afferrà! ... In tutti ‘i modi cchiù annanze
stevano maciulianno e ascettano fore ... ‘O scuro mi parevano rimmonie chi panni ncape
... Nuie nci vulevano fuì e carietteno una ncuollo a n’ ‘ata. «Nè figliò che r’è? Cu vvulite
arrubbà?» ricetteno chilli ballommi e curretteno tutti quanti ‘a parta mia ... Si nci penzo
mi vene ‘u schifo a mme stessa ... cu tutti chill’uommini attuorno e ie che chiagneva
nterra e nu mmu puteva aizzà. Pò mi canuscetteno e mu purtarano a casa inta ‘a ‘na
sporta ...
Si mme vene a mmente mi vene ‘u schifo a mme stessa».
La notte, evocatrice di incontri desiderati e non realizzati, portatrice d’angoscia e di
frustrazione, è il tema anche di questo frammento di canto, tenero e malinconico, a due
voci:
20
LA BUONA SERA
A: ‘Uagliona, vengo a notte, vengo a notte;
nun te lo pozzo dà la buona sera.
Te la rongo sotto e sotto la porta,
susete matinera e pigliatella.
B: Mi sò susuta e nu’ll’aggia truvata:
‘u viento pe’ mme si l’è ppigliata.
Canapina - Fototeca Istituto di Studi Atellani
2. L’AMORE E LA LONTANANZA
Altro tema importante nei canti canapini, certamente il più sviluppato, è l’amore fra
l’uomo e la donna. Un amore variamente considerato e variamente vissuto, comunque
sempre motivazione esistenziale fondamentale; l’amore nella immediatezza delle
esperienze di donne mature. L’amore verso il quale notevolmente si articola lo stesso
linguaggio dei canti: linguaggio che passa, con estrema semplicità, da espressioni
pudico-sentimentali a espressioni burlesche e «oscene»; queste ultime impressionanti
per il fatto di caratterizzare un verbalismo sentimentale di donne che ci si aspetterebbe
21
preoccupate di adeguare il loro linguaggio al formale perbenismo dominante nella
società tradizionale.
LA ZINGARELLA
E’ un canto antico, cantato dalle madri delle vecchie pettinatrici, in cui si esaltano, come
valori superiori ad ogni altra ricchezza, la bellezza e la grazia di una donna povera.
L’è fatta notte
e lu sole accapanna;
lu miu cumpagno
aspetta alla cucina;
felice notte
a chi nci sta a sentì!
E lu rie parla a lu squadrone:
«Lassa passà a sta ronna!
Manco ‘i riali
teneno ‘i bellizzi
‘a ncoppa ‘i ‘n’atu sole!
Tene ‘na vocca:
è quante ‘nu carlino;
li rienti so’ d’avorio;
l’uocchie d’argiento,
li cigli so’ diamanti;
è ferro ‘u crine.
Ie so’ venuto, re,
ra’ Spagna a Roma,
pe’ te venì a truvà,
cara signora!
Nduvina quant’è ‘u vero che sei bella».
‘A CACCIA RIALE
Ovvero del desiderio di vantarsi di aver conquistato una donna meravigliosa.
Quant’è bello ‘u sabbato ‘e ssera!
Tutt”e beldonne vanno passianno.
Un’e’ chelle mu voglio piglià
e sempre appriesso m’ ‘a voglio purtà.
E ognuno dice: «quant’é bbella chella!
Addò nci ha’ fatta chesta caccia riale?».
Nci l’aggia fatta bella a chella tana,
addò cu ssorde e bracciali ievo caccianno.
22
CAR’AMMORE ‘NNAMMURATO
E’ un canto a due voci che tratta di un corteggiamento divenuto galante e paziente, dopo
essere stato audace e irrispettoso.
A: ‘Na vota ietto a spasso ‘o primmo ‘ill’anno
‘nsieme cu’ car’ammore ievo parlanno;
chille menaie ‘mmani vicino ‘a ‘unnella
ie riciette: «Car’ammore, tu che vai truvanno?»
B: Vago truvanno l’acqua fresca e bella,
chella che nc’iammo sorseggianno;
addò nc’iette chest’acqua nasce ‘na spina,
e nci nasce ‘na rosa spampanata;
‘i chesta rosa, mò ne voglio ‘na fronna
ma vene ‘u iuorno che m’ ‘a piglio tutta quanta.
CAR’AMMORE TRADITORE
Il complicato e fuorviante adattamento di un uomo al tradimento della sua donna.
‘Nu iuorno mi n’iette muro muro
e truvai ‘nu curnuto addunucchiato,
ie, ‘u ssai, nci tir’ ‘i ccorne e dico: «susete!
‘Na donna è chella, e male è chello che ha fatto».
‘Nu iuorno mi n’iette casa casa,
e truvai a car’ammore, ‘a truvai ‘nchiusa:
‘a rente steveno a cogliere ‘i cirase.
Ie riciette: «car’ammore, pigliemi ‘i cchiuddo!
Ile nun voglio nun prune e nun cirase,
megli’è che nci facci ‘ammore che curnuti;
chi nci ha da venì ha da venì in chesta casa
ha da essere billillo e ‘nginiuso!».
‘U VASO R’ ‘U ‘NNAMMURATO
Canto a due voci che parla delle schermaglie tra una ragazza ed un cavaliere importuno
e del simpatico modo in cui, di quest’ultimo, ella si libera.
A: ‘Nu iuorno me ne andai pe’ funtanelle
e truvai tre ggione belle.
Me ne pigliai un’ ‘i chelle
e la portai sul mio cavallo ...
23
rit.: «E tu che si’ ‘a cchiù bella
e dammi ‘nu vaso!»
B: Ie nun t’ ‘u pozzo ra’
‘ché se n’addona mama;
rit.: vieni quann’è ddimani
quanno mama nun ci stà.
A: E mmò che so’venuto
e tu mò ‘u vaso mu vuo’ rà? (rit.)
B: E mmò tu stai loco fore
e tuzze capo e muro! (rit.)
Altro tema connesso all’amore è la lontananza dell’amato (innamorato o figlio).
Nell’Italia post-unitaria, i lunghi anni di leva militare trascorsi lontano dalle loro case
dai giovani paesani, ed il loro recarsi in guerra (sia quella del ’15-‘18 che quella del ’39‘45), procurarono grandi sofferenze alle ragazze e alle madri; e in questo periodo, che è
anche quello del maggiore impegno artigianale e industriale della pettinatura, il tema
amore-lontananza diviene il tema più coralmente elaborato. Nel canto delle pettinatrici,
infatti, questo tema assurge a vera e propria base di un continuo dialogo canoro, tra le
donne al lavoro, fortemente evocatore degli affetti più cari. In questo senso è possibile
considerare alcuni brani che seguono come variazioni sul tema, facenti, in effetti, parte
di una unica lunga nenia: un vero e proprio poema popolare nel quale si impegna,
alternandosi in assoli e in cori, il canto sia delle giovani che delle donne mature.
MARIA ARENA
E’ il dramma di una ragazza innamorata, lottata tra il pensiero di perdere il fidanzato
lontano e la necessità sociale di una sistemazione matrimoniale.
- Maria Arena
nci teneva ‘a faccia ‘ianca,
mò che ‘ha fatta rossa:
songo ‘i vasi r’ ’u ‘nnammurato.
- Maria Arena
‘Chiazza Nova’s’è rivotata:
stanno tutte bandiere,
mò scenne ‘u vescovo e ‘u cardinale.
A croce a croce
aieri passai p’ ‘u campusante:
nci steve misa ‘na ‘roce,
nci steve scritto ‘u nomme
24
r”u primmo ‘nnammurato.
- Maronna, Maronna,
e nu’ priate mò cchiù i santi?
Munacella ‘i vuto mi voglio fà!
- Comme sisca chill’ ‘u vapore,
e sisca ‘u core ‘i tutt’ ‘e ‘nnammurate;
e tutt’ ‘e sere
sol chillo r’ ‘u ’nnammurato nun sente mai.
- Notte, che notte!
E ghiurno bello nu’ schiara mai,
pecché a mme’nu viecchio mi vonno rà.
Ie nun ‘u voglio:
nci teng’ ‘u pensiero
r’ ‘u primmo ’nnammurato.
- Aieri e oggi
a chepa mia s’é bbutata,
comme ‘u ‘riloggio
chellè ‘a sferra ‘i miezzo che nu’ gira mai.
- Comme sisca chill’ ‘u diretto
e ammore mio nci stà rimpetto;
comme sisca chill’ ’u vapore:
nci st’arrivanno’ ’u primm’ammore.
- Maronna, Maronna mia,
stivi malato e nu’ mm’ ‘u ddicivi;
Maronna ‘i Campiglione
e scansamillo ’u primm’ammore.
- Comme chiagnevo ‘nfacci’ ‘u ritratto;
traditore! Tu che mm’ he’ fatto!
- N’aggia avé’ ‘n’or’ ‘i nova
che l’hann’accidere ammiezz’ ‘a via nova.
- L’hann’accidere ‘u culunnello
che s’ha pigliato crisciuto e bello.
- Nun aggio, ne’, comme fà
‘u vulesse veré pe’ nci parlà.
25
- Maronna, Maronna,
si m‘ ‘u scansi ‘i fa‘ ‘u surdato:
te porto l’uoglio
e t’appiccio ‘a lampa iuorno e nuttata.
- Notte, che notte!
E ghiuorno pe’ me nu’ schiara mai:
vego ‘i fa ‘notte
e ninno bello nu’ sponta mai.
- Ammore è nu’ currive:
si nci more isso more pur’io!
- E nu’ mme passa manco p’ ‘a capa
e meglio ‘i isso ne trovo ‘n’ato.
Rifinitura nella lavorazione della canapa
greggia – Fototeca Istituto di Studi Atellani
VI’ CHE MO’ VENE
E’ una variazione sul tema precedente.
- Ammore è ‘na catena:
si nu’ mm’ ’u ranno io m’avveleno!
- Maronna, Maronna mia,
stivi malato e nu’mm ‘u ddicivi.
- Ammore è ‘na catena:
si nu’mm’ ’u ranno me vesta nera.
- sento ‘u sisco r’ ‘u vapore:
mò nci scenne u’ primm’ammore!
Coro: Vi’ che mò vene ...
26
- Maronna ‘i Campiglione
e scansamillo ’u primm’ammore!
- Si m’ ‘u scansi ‘i fa’ ‘u surdato
t’appiccio ‘a lampa iuorno e nuttata.
Coro: Vi’ che mò vene ...
- Nun aggio, ne’, comme fa’
pe’ sta’ ’npace e nu’mm’ ’u sunnà!
- Nu’ mme passa manca p’ ‘a capa
e meglio ‘i isso ne trovo n’ato!
Coro: Vi’ che mò vene ...
Sulla stessa falsariga è quest’altro canto, botta e risposta tra nuora e suocera sull’amato
lontano:
- Nu’ mmi mannà cchiù lettere
e nemmeno ‘i ccartulline:
chillo ‘u mio ‘u tengo vicino
e ‘i te che n’aggia fà?
- S’è fatta l’ora ‘i notte
e ninno mio nu’ vene:
forse ‘n’ata ne tene
e ‘i te che ‘n’ha da fa’?
L’UOMMINI RIFURMATI
E’ la descrizione di una paradossale situazione amoroso-sentimentale, derivante dalla
lontanza degli uomini partiti per la guerra.
E primme i giuvinotti nci ieveno cu’ ‘i mole
mo nci hanno cacciato ‘n’ata moda ‘i cose:
e l’uommini rifurmati r’ ‘o distretto
vuie ‘i vvulite,
vuie ‘i vvulite,
vanno ‘a ‘cito,
ll’ite i’ a gghittà!
Povere figliulelle; Vuie sentite ‘a ro’ stà ...
‘a giuvintù nc’è ne rimasta poca.
Fore ‘u stabilimento
e quann’è ‘u miezziuorno
‘ite fatto ‘u ‘uaio,
‘ite perso ‘u scuorno!
Madalè, fallo pe’ mme!
27
lievi ‘i mmane ‘a cuollo a mme!
Figlimo è ‘u cchiù brutto,
riciti a sti pigneti!
Mò che è ‘u cchiù bello,
cammina arriuneto!
Chist’è ll’ebbroca!
Tenite ‘a faccia ‘i cuorno,
‘ite fatto ‘u ‘uaio
‘ite perso ‘u scuorno!
Madalè, fallo pe’mme,
lievi ‘i mmane ‘a’ cuollo a mme!
La lontananza è anche il tema di questi ultimi brani:
M’arricordo quanno isso partette,
m’arricordo quanno isso dicette:
«Nanninè, me ne vago e tu scriveme».
Nun so’ anni, so’ misi e so’ ghiuorni,
tu che m’amavi luntano si’ gghiuto.
Pure ‘i stelle r’ ‘u cielo parlavano,
ma io nun soccio a che pizzo si’ gghiuto.
***
Ie comme pozzo crerere
che Ciccillo torna a me:
e so’ tre anni ‘i seguito
che nun vene cchiù a du me;
p’ ‘a stessa ‘ppucundria
nci ha pigliata l’anemia.
E Ciccillo si’ vuo’ sta buono
piglia l’aria ‘a chesta via!
28
Le Canapine – Grafica di Franco Graziano
3. LA RELIGIOSITA’ E LE RICORRENZE
Nei canti canapini è possibile individuare solo un momento secondario dell’intensa
religiosità di cui era soffusa, in generale, la vita popolare e, in particolare, la vita
quotidiana delle canapine.
Le espressioni di questa religiosità - la messa mattutina che liberatoriamente
interrompeva il lavoro notturno, la preghiera interiore, il rosario recitato tirando tra i
pettini i fascetti di canapa, i momenti comunitari della partecipazione alle forme
liturgiche e solenni, le vigilie, ecc. - erano tante e tali, quotidiane e ricorrenti, al punto
che il filone ‘religioso’ dei canti delle pettinatrici occupava solo uno spazio limitato in
queste espressioni.
Esiste comunque questo filone del canto ad argomento religioso, il quale è notevole
soprattutto per una funzione complementare svolta rispetto alla liturgia ufficiale; dal
momento che attraverso di esso si verifica una importante estensione del clima delle
ricorrenze e delle vigilie di feste.
Di questo clima, infatti, il canto religioso rappresenta un vero e proprio annuncio
popolare, atteso e ascoltato, di volta in volta e di anno in anno, anche dalle altre
componenti della società tradizionale.
A questo riguardo è apparso forte il legame, registrato durante questa ricerca, che esiste
nella memoria della gente anziana, tra il ricordo delle feste di una volta e il ricordo delle
manifestazioni, non solo a livello di canto, che caratterizzano la significativa presenza
delle pettinatrici di canapa nello svolgimento della vita passata.
In questo senso, attraverso i canti religiosi si consolidava anche una elaborazione
originale dei contenuti della fede cristiana; una elaborazione che contribuiva a
sviluppare una visione totalmente popolare delle celebrazioni liturgiche, e che,
indirettamente, portava le canapine ed il loro lavoro ad essere strumenti di trasmissione
della fede. Una fede religiosa, la loro, che animava una visione della vita - del sacrificio
cristiano, dell’esaltazione materno-mariana della funzione femminile capace di
sublimare e di dare senso alla loro fatica e alla loro sofferenza.
29
I brani che seguono fanno parte del filone religioso del canto canapino.
Tutti esprimono con semplicità una religiosità popolare genuina, mentre alcuni di essi,
soprattutto quelli con evidente strutturazione mnemonica, illustrano con chiarezza la
loro caratteristica di strumenti di trasmissione della fede.
NOVENA ALLA VERGINE
E’ una lode cantata alla Vergine Maria, che veniva ripetuta dieci volte, durante la
settimana precedente la festa dell’Immacolata Concezione.
Ella sia laurata ora e sempre:
l’Immacolata;
sempre lu sia laurata
la Regina dellu cielo:
l’Immacolata.
L’Immacolata: ora e sempre
lu sia Immacolata
la Vergine Maria.
Sempre lu sia,
e laurammo la Regina dellu cielo:
l’Immacolata!
NOVENA AL BAMBINO GESU’
Come la precedente novena; anche questa veniva cantata dieci volte consecutive nei
giorni di vigilia prima del Natale.
Bambino mio divino
vieni a nascere
rint’ ‘u core mio;
vieni a nascere
vagliardo ‘i affetto:
biata a te sposa diletta!
DEDICAZIONE
Ambedue le novene precedenti costituiscono un vero e proprio rosario cantato dalle
canapine, e per tutte e due esse avevano questa dedica che cantavano con gioia a
conclusione della loro preghiera.
‘Stu rusario che nuie cantammo
a’Maronna ‘u ppresentammo,
a’Maronna e a Gesù Cristo,
a Santu Rumminico e a San Francisco,
‘o voie e l’asinello;
San Giuseppe ‘u vicchiariello
ieva a fatica e s’abbuscava ‘u panariello;
s’abbuscava ‘u panariello
30
pe’ pazzia’ ‘o figlio ‘i Maria,
Amen!
LE VENTIDUE PAROLE DI GESU’ CRISTO
La funzione di questo canto è la memorizzazione del mistero cristiano della Passione di
Gesù: un’occasione di preghiera di riflessione, di trasmissione della fede e della pietà.
E’ sunata l’ora ‘i notte!
Amata sei, Regina!
E ‘nfaccia a l’ora: miserere!
Gesù Cristo cchiù ddu lu sapeva:
alla morte nci si iette a presenta’.
A li roie: i piedi a lava’.
A li tre: a cunfessa’.
A li quattro: a prerica’.
A li cinque: alza gli occhi e se ne va.
A li sei: scende l’Angelo cu’ lu Battista:
«Chist’è giusto lu veru Dio!»
A li sette: ‘na truppa ad arriva’,
e Gesù Cristo cu’ la sua mano che l’arrennette.
A li otto: ‘nu schiaffo senza pietade.
A li nove: tutto malatrattato.
A li dieci: bianco fu vestuto
e pazzo cuntrattato.
A li unnici: miso incarcerato.
A li rurici: in casa Pilato.
A li tredici: a ‘na culonna battuto
e cu’ ‘na spina pugnente
comme ‘nu malafattore
stette ‘ncurunato quattordici ore.
A li quindici: miso ‘npassione.
A li sedici: cu’ la sua attenzione
cu’ ‘na mano schiuccatore:
morte di Gesù!
Manco eveno sazi chilli ebbrei!
A li diciotto: Nostro Padre ‘ncroce!
L’avesse perdonare l’eterna croce.
A li diciannove: corre ‘na Mamma
cu’ tanto ‘n’affanno;
- «Ronna! Ie pe’ figlio te resto a Giuvanni!»
A li venti: Gesù Cristo sete cercava
fele e ‘cita nci purtarono.
A li ventuno: Nostro Padre ‘ncroce!
L’avesse perdonare l’eterna croce.
A li ventidue: chisto è il Corpo sacratissimo di Gesù,
chesta è la vita castigata
che Gesù Cristo ha patuto per noi
pe’ salva’ a noi peccatori.
31
LA VIA DEI FERRARI
In questo canto antico e mesto si sviluppa il risvolto ‘mariano’ della Passione di Cristo:
la sofferenza mortale, la vicinanza e l’impotenza della Madre nei confronti del Figlio
che si avvia al Calvario.
- E mamma-ma’
che si’ venuta ‘a tanto luntano:
‘na veppeta r’acqua m’avissa purtata.
- Figlio
ie nu’ socci nu puzzo e nu piscina
e manca ‘a via ‘a ro’ me n’aggia i’.
- Mamma, mamma
piglia ‘a via ri’ ferrari,
‘a ro’ stanno chilli masti,
pe’ cortesia, rincelli:
chilli chiuovi che stanno a fa’
‘i facessero cchiù curti e cchiù suttili,
chè nci hanno trapassa’ carna gentile.
- S’affaccia lu giureo alla finestra,
cu’ ‘nu manto russo scarlato e niro,
ricette: «chilli chiuovi che stammo a fa’
l’avimma fa’ cchiù luonghi e cchiù gruossi
pecché nci hanno trapassà carna pelle e uosso!
- Mamma Maria, comme sente ‘sti parole,
all’erta steva care ‘nterra e more.
Nisciuna mamma è morta pe’ dulore r’ ’u figlio,
e manca Maria nci more pe’ Passione r’ ’u Figlio!
Accanto al canto specificamente religioso, nel quale predomina il linguaggio e
l’atteggiamento di una riflessione orante, e in rapporto alle ricorrenze, esiste anche un
canto canapino profano, che si sgancia da questo tipo di riflessione per esprimersi,
talvolta, in un linguaggio volgare.
Ci si riferisce soprattutto ai canti carnevaleschi, nei quali si sfrena, tra lo scandalo dei
benpensanti, tutta la fantasia e tutta l’ironia delle pettinatrici.
Per questo tipo di canti, come per la maggior parte dei canti a contenuto burlesco, vale,
comunque, la considerazione della loro volgarità intesa come rappresentativa del
disincantamento esistenziale delle pettinatrici, e come reazione verbosa, a volte dura e a
volte divertita, alla loro vita disillusa: vita fatta di stenti e fatta di una fatica svolta tra le
esalazioni sulfuree e in lunghe ore di doloroso travaglio fisico.
VE’ SCISO ‘U CAPITONE
32
E’ il canto della mattina della vigilia di Natale, cantato con gioia e baldoria, per la
strada, dalle pettinatrici, particolarmente felici anche per il ritiro della gratifica natalizia
dai loro datori di lavoro (la ‘mberta).
Susete, susete cumpagna mia!
A miezz’ ‘i Fratta è sciso ‘u capitone!
Vi’ comme chiove e serenea:
comme cresce ‘a capa r’ ‘u pesce!
E’ sunata quatto e ddoie:
a miezz’ ‘i Fratta è sciso ‘u capitone!
Ah ne’...
‘U padrone mio è ‘nu signore:
m’ha rate ‘i llire p’ ‘u capitone!
Ah ne’ ...
VENE NATALE
E’ un canto, ancora oggi famoso: cantato, o recitato, anche da tutte le altre componenti
della società tradizionale.
Vene Natale ‘i renzi ‘i renzi:
‘a putegara nci fa ‘a crirenza,
‘u cantiniere nci mette ‘u vino,
facimmo Natale ‘ngrazia ‘i Dio.
Vene Natale e nun tengo renari:
‘u megliu pizzo è ‘u fuculare.
Vene Natale e nun tengo nucelle:
‘u megliu pizzo è ‘u lietticiello.
PRIMA E DOPO NATALE
L’approssimarsi della festa avvicina persone con interessi diversi, salvo poi il
raffreddamento dei rapporti umani e la presa delle distanze sociali dopo che la festa è
trascorsa.
Primm’ ‘i Natale: Cummara Maria!
Ropp’ ‘i Natale si chiamma Maria.
Primm’ ‘i Natale; Cumpare Braciola!
Ropp’ ‘i Natale si chiamma Braciola.
33
LA MORTE DI VINCENZO
E’ un brano del testamento di Carnevale cantato dalle pettinatrici: occasione per
scandalizzare se stesse e i benpensanti, e occasione per affermare, in termini burleschi,
la verità di un lascito inutilmente ricco; dal momento che non esiste oro o argento che
possa sostituire una sana funzione naturale, e dal momento che, con la morte di
Vincenzo, si presenterà il periodo di una lunga astinenza quaresimale.
E’ venuto Carnevale
e Vicienzo s’ha mangieto
tutt’ ‘i palle ‘int ‘u tieno!
Vicienzo tutto surunto
quann’è Pasca facimm’ ‘i cunti!
Vicienzo è gghiuto’accu mierico ‘i «Carone»:
tutt’ ‘u male ‘u teneva rint’ ‘u cannarone!
Hii, ggioa soia! Uuh Vicienzo, neh!
Vicienzo se n’è gghiuto
e a mmiezz’ ’i ’uai mha rimmanuta!
Hii, ggioia soia! Uuh Vicienzo, neh!
Aah! Si sapevo che Vicienzo mureva
tutt’ ’u male nun ci ‘u facevo!
Hii, ggioia soia! Uuh Vicienzo, neh!
Vicienzo ha fatt’ ‘u testamiento:
ha lasciato ‘u peso r’oro e ‘i palle r’argiento!
Hii, ggioia soia! Uuh Vicienzo, neh!
QUARAVESIMA SECCA SECCA
E’ il canto divertito dell’astinenza quaresimale: il canto di una ricorrenza che, in
definitiva, impone restrizioni da accogliere senza eccessiva mestizia, anche perché
bisogna lasciare lo spazio interiore ad una giusta e serena speranza pasquale.
Quaravesima secca secca
s’è mangiata ‘i ficusecche;
aggia ritto: «ramme una»
m’ha ralluto nu scarpuno
Aggia ritto: «ramme ‘n’ata»
m’ha ralluto ‘na scarpunata!
34
4. LA FAMIGLIA
La famiglia che emerge dalla concezione popolare tradizionale si identifica come una
organizzazione fondamentale degna di ricevere, per la sua costituzione e per il suo
mantenimento, la profusione di tutto l’impegno esistenziale, di lavoro, di onestà,
possibile.
La famiglia è considerata, sia per la donna che per l’uomo, una conquista che non
ammette debolezze ed impreparazioni: una esigenza sostanzialmente pratica,
economica, utilitarista, che riesce sempre ad imporre queste sue caratteristiche
fondamentali, al di là di ogni romanticismo che si possa rapportare ad essa.
Le difficoltà esistenziali ed economiche sono la causa principale di questa concezione,
la quale poco lascia alla tenerezza e al sentimentalismo come valori intorno a cui si può
costituire una famiglia.
Nulla togliendo alla genuinità dei sentimenti familiari, all’amore materno, paterno e
filiale, la solidarietà tra i membri di una famiglia, molte volte, sembra essere un valore
che si consolida quando gli interessi divengono comuni, soprattutto in rapporto
all’esterno, e quando cresce la dimensione dell’affetto.
Di qui è comprensibile l’enorme conflittualità che si riscontra all’interno e all’esterno
dell’istituto familiare, a livello di fidanzati, mariti e mogli, quando vengono messe in
discussione, per un verso o per un altro, le garanzie della solidarietà familiare;
conflittualità che, per altro, sembra anche essere assunta come tema di fondo dei canti
canapini che hanno per argomento i rapporti familiari.
Le pettinatrici in età da marito, più delle altre componenti femminili popolari, in effetti,
vivevano questa conflittualità, impegnate come erano a prepararsi, con il loro duro
lavoro, gli strumenti economici, in termini di dote, per la trattativa matrimoniale.
Evidentemente, la famiglia nella concezione popolare non è caratterizzata solo da questi
elementi, che si possono indicare come contingenti; essa è soprattutto l’espressione di
una contestualità, di una civiltà storica e culturale di tipo rurale, già formalizzata nei
suoi valori, di sacrificio, di solidarietà, di ambito educativo, di crescita e di
soddisfazione personale e sociale; espressione che si offre, in maniera certamente
gratificante, come uno schema precostruito, sperimentato, di rapporti coniugali ed
umani, con una proposta di organizzazione interna che si rifà al ruolo preminente del
capofamiglia e ai ruoli prefissati, in qualche modo subalterni, della madre e dei figli.
Una famiglia che è, in fondo, la classica cellula germinale riproducente l’organizzazione
sociale più ampia, attraverso i suoi allargamenti parentali e comunitari.
Dai canti che seguono emerge sia la dinamica conflittuale dei rapporti familiari interni,
sia la dinamica dei rapporti esterni, di vicinato; più generalmente, emerge il riferimento
ai valori culturali storicamente consolidatisi nell’ambito dell’istituto familiare: la figura
del padre-padrone, la madre come donna di sacrificio e di servizio e come principale
corresponsabile della conduzione della casa, i figli come componenti allineati alle
direttive dei genitori.
LA FIGLIA SPOSATA
Questo è un canto a botta e risposta tra madre e figlia, tra una madre preoccupata di
quello che può succedere alla figlia durante il matrimonio, nei rapporti con il marito, e
una figlia che, invece, si rivela capace di usare astuzia e di riscattare la sua posizione
subalterna.
35
- Figlia figlia, ie t’ ’u ddicevo
quanno tu faciv’ammore:
maritete è ‘u padrone
‘i tutto chelle che tu vuo’ fa;
maritete ... (ecc. rit.)
- ‘A tre notte e ‘a tre gghiuorni
nci cusette ‘na cammisa,
e ‘a piglia e ‘a gira e ‘a vota
nci ‘a scusette ‘n’ata vota
O che figlia, o che figlia!
pozz’essere acciso chi s’ ‘a piglia!
O che figlia (ecc. rit.)
Mamma mamma, ie te ringrazio,
chella figlia che me rai
‘na nuttata sana sana
nun s’è vuluta veni’ a ccucca’!
‘Na nuttata (ecc. rit.)
‘A CAINATA MEIA
Ovvero della conflittualità tra nuora, cognata e suocera.
Puozzo passa’ ’nu ‘uaio ‘a caianata meia
che va ricenno che nu’ m’ ‘u vo’ ra’.
M’ha miso in custione a mme cu’ ‘u frate, ne’!
Va ricenne che chille nun è cchiù r’ ‘u mio.
Essa e socoma si so’ mise
e ie cu’ isse m’aggia lassa’.
Nci sta ‘na via stretta e longa
e socoma ha da tuzza’ ‘nfaccia a ddoie culonne!
Si primma ‘u figlio ie ‘u vulevo
mò nun ‘u voglio cchiù!
SI ‘A MAMMA E ’U PATE NCI MURESSE
Ancora un canto sulla conflittualità familiare: partendo dal litigio con la suocera (vero
centro unificante della famiglia interlocutrice) si coinvolge anche l’innamorato che non
riesce a distaccarsi dalla madre.
36
Quatto ‘a mamma e cinque ‘u figlio
ie tanno ‘u crere quanno m’ ‘u piglio!
Si ‘a mamma c’ ‘u pate nci muresse
ie ‘u figlio m’ ‘u piglio ‘u stesso.
Comme vene e comme va
ie ‘u figlio m’aggia piglia’!
Tanno vago a da’ parola
quanno socoma schiatta e more!
Comme vene cu’ ‘ntunzione
accussì ha da i’ c‘a capa sott’ ‘u «papone».
Chella ‘a mamma è ‘na ‘nciucessa
e tene ‘u figlio ch’è peggi’ ‘i essa!
Chella ‘a mamma è ‘na zucculone
e tene ‘i ccorne essa e ‘u figlio a vutatore!
I due brevi canti che seguono mettono in risalto l’amore materno e la preoccupazione
che questo non venga ricambiato.
QUANT’E’ BRUTTA PORTA CAPUANA
Quant’è brutta Porta Capuana:
st’azzeccata mure e mure cu’ ‘i ggalere.
Si ninnu mio avesse fatt’ ’u mmale
scarcerate a isso e ‘ncarcerate a mme.
Le Canapine – Grafica di Franco Graziano
FAMMI RICERE ‘NU «DIES IRAE»
37
M’arricordo quanto io ti lavavo
cu’ festa grande ‘nbraccio te teneva;
ti si’scurdato di tutte chelle pene
ti si’scurdato del passato amor;
si ‘na messa nun me la puoi mandare
allimmeno ‘nu «dies irae» fammello dicere.
CIMME ‘I BACCHETTE
E’ un canto a ffronne ‘e limone a più voci che parla dell’audacia di un carrettiere
innamorato, deciso ad andare fino in fondo, con le buone o con le cattive, alla conquista
della sua amata.
Dal momento che necessitavano anche di voce maschile, canti di questo tipo, talvolta,
venivano anche cantati in collaborazione con uomini, che spesso sostavano nei pressi
delle botteghe dei pettini a tentare approcci canori con le pettinatrici al lavoro.
- Esci Vincenzella da lu palazzo
‘u fidanzato fore lu tieni.
- Fronne ‘e limone,
e ’a mamma nu’ m’ ‘u vo’ ra’,
«chille ‘a vagliona - ha ‘itte –
essa l’ha dda truva’»;
- e la di fore
‘u cavallo nci aspetta;
- e la di fore
‘u cavallo che nci ‘u mietti a fa’?
- E ie nci ‘u metto
io frisco ‘a ddo’ sta,
tutt’ ‘e sere
che ha fatto la giurnata.
- E ’a mamma
arrivota ‘u vicinero:
Micheluccio!!!
Chiamatamello ‘a vascio ‘u zi’ Michele!
- ‘U zi’ Michele nun si fire.
- Cimme ‘i bbacchette
e tu cucchiere nu’ schiassia’,
ie so’ zitella
‘addo me tuocchi nci passo ‘nu ‘uaio.
- Quanto ti si’fatta bella!
Mammete a te che te rà a mangià?
38
- Ove e muzzarella,
‘u vino buono m’ ‘u ppassa ‘u frate.
- Fronne ‘e limone
e chella ‘a mamma nu’ m’ ‘a vo’ ra’,
nci faccio ‘a festa
e roppa m’ ’a sposa p’ ‘u tribunale!
Nell’ambito di questo capitolo sulla famiglia, dal punto di vista antropologico, rientra
anche l’analisi del «redeculuso contrasto de matrimmonio» sviluppato nella «Canzone di
Zeza», da noi registrata dalla voce di una vecchia pettinatrice.
In questa canzone il tema del contrasto e della conflittualità familiare sembra assurgere
alla dimensione di un vero e proprio tipo storico nella psicologia popolare; dal momento
che la «Canzone» risale, nella sua forma ufficiale, ai primi anni del ‘700.
Per la lettura del testo della «Zeza» frattese si rimanda all’analisi predisposta da Luigi
Mosca, che tra l’altro ne ha recuperato l’originale tema musicale 13.
5. LA SOCIETA’
L’interpretazione della società - e dei vari rapporti, economici, di potere, gerarchici,
individuabili in essa - che affiora dai canti delle pettinatrici di canapa, è l’interpretazione
di una componente sociale diversificata ed unita nelle dimensioni della cultura
tradizionale.
Le pettinatrici non partecipano ai momenti decisionali; ma sono una componente che
non rinuncia ad esprimere giudizi ed osservazioni morali sui fatti, sugli avvenimenti e
sui rapporti paesani.
Nella società tradizionale gli spazi unificanti per le diverse componenti sociali restano
quelli degli interessi comuni: gli interessi e le manifestazioni di una fede religiosa in
comune.
Gli spazi di diversificazione riguardano l’esperienza di una cultura popolare vissuta in
maniera originale ma sempre complementare e funzionale rispetto al quadro generale
dei valori dominanti del paese.
Le canapine, come le altre componenti popolari, fungono, cioè, da elemento sia critico e
sia consensuale per la gestione della comunità civica.
Evidentemente, il discorso sull’argomento società è portato ad allargarsi a dismisura,
seguendo questa pista e se si volesse cogliere meglio la natura dei rapporti intercorrenti
tra le varie componenti della società tradizionale; ma questo discorso bisogna
concentrarlo anche sui contenuti realmente analizzabili nei canti canapini, i quali
richiamano, altresì, l’attenzione soprattutto sulla visione dei rapporti intercorrenti
nell’ambito stesso delle componenti popolari.
Essi richiamano alla mente anche l’analisi effettuata per la famiglia, perché anche in essi
è leggibile quella conflittualità interna ed esterna, è leggibile la denigrazione e la
mormorazione (‘u ‘nciucio): quella conflittualità che anche qui appare essere strumento
popolare di perfezionamento sociale, di critica, e di vera e propria autocritica sulla
propria condizione sociale ritenuta, in fondo, coscientemente insoddisfacente.
Alcuni di essi, inoltre, raccontano di luoghi e di avvenimenti paesani, dando
l’impressione di una viva partecipazione popolare alla vita morale di un tempo.
13
Cfr. la II parte di questo libro.
39
LUOGHI DI FRATTA
Canto che descrive il rapporto esistente tra i luoghi di Fratta e chi l’abita, e nel quale si
dichiara l’attaccamento al proprio quartiere, così come si dichiara l’amore al proprio
amato. Nella società tradizionale l’attaccamento al proprio quartiere è un fatto scontato,
importante dal punto di vista culturale, fino al punto di essere indicativo di virtù, di
modi di vita e dello stesso carattere della gente che lo abitava: quasi una estensione
dello spazio della famiglia, che andava difeso con lo stesso impegno con cui si
difendeva la propria famiglia nei confronti delle realtà esterne.
‘Ncopp’ ‘u «papone»
nci sta lu signore
‘ncoppa ‘a «carrara»
nci sta munsignore
a miezz’ ‘i Fratta
nci stanno i padruni
‘la ret’ ‘i «murelle»
nci stanno i pezzienti
a chiazza «mantano»
la nci stanno ‘i giuni belli:
‘u mio è cchiù bello
e cchiù doce a chiammarlo.
‘U PURUCCHIO ‘NFARINATO
Questo canto rientra nel filone del giudizio popolare, il cosiddetto «pvugiudcà», con il
quale si critica chiunque si scosta o ritiene di scostarsi dalle condizioni e dal modo di
vivere del popolo più povero, il quale reagisce, così, ad un atteggiamento ritenuto per
esso offensivo, dal momento che si ritiene che il raggiungimento di nuove condizioni
sociali sia sempre accompagnato dal ripudio delle condizioni precedenti.
‘U purucchio ‘nfarinato
si crere ‘i essere cchiù dell’ato,
quanno iesce la rint’ ‘a farina
si crere ‘i essere ‘na cosa fina.
T’affacci a stu balcone
e te pigliano pe’ signora,
nun ‘u ssapeno
che si’nata ‘int’ ‘u stallone?
Primme che te pretieni
40
dimme ‘a che razza vieni!
MEGLI’ E’ LA BELLA SENZA NIENTE
E’ un canto dei valori popolari: non c’è ricchezza che valga la bellezza.
Lu sapite? Si chiamma allero core
chi la tene bella la mugliera!
Pi’ chi la tene bella sempe canti,
Pi’ chi la tene brutta li scura ‘u core!
Megli e’ a piglia’ la bella senza niente
nun che la brutta cu’ roba e dinari!
La bella ra’ l’unore alli parienti
e a brutta ti sbriogna nomme e casata!
Li rinari so’ comme lu niente
li mali iuorni sempre ‘a casa tiene!
Canapina – Foto fornita da Nicola Dattilo
6. IL LAVORO, IL DISAGIO, L’ASSUEFAZIONE
41
Il lavoro fa da sfondo a tutti i canti canapini. Esso è la condizione nella quale il canto
viene elaborato e si afferma, in tutta la sua strumentalità operativa e intellettiva, come
supporto vocale sia dell’assuefazione ai movimenti del tiro al pettine, e quindi come
fattore legante delle pettinatrici alla loro macchina, sia della loro liberazione mentale dai
vincoli che fisicamente le tenevano impegnate e fissate sul loro posto di lavoro.
Attraverso il canto, perciò, il lavoro veniva vissuto e trasfigurato nella umanità delle
canapine, nei loro sentimenti mediati e immediati. Disagio ed assuefazione erano quindi
dei sentimenti sempre presenti nel canto: il disagio come costrizione del lavoro e
l’assuefazione come necessità di lavorare.
L’assuefazione appare predominante come contenuto mediato dei canti di lavoro; in
essa, in effetti, si smorzano, con il ragionamento della necessità le punte più reattive del
sentimento del disagio il quale, a sua volta, appare sì un sentimento rimosso ma mai
eliminato dalla mente delle pettinatrici dal momento che si traduce spesso in vere e
proprie imprecazioni.
Alcuni canti che seguono riflettono abbastanza chiaramente questi elementi, mentre
qualcuno di essi è semplicemente descrittivo del lavoro al pettine.
‘A STOPPA STRUTTA
Piccolo brano col quale si supera, cantando, le difficoltà del pettinare.
‘A stoppa strutta e ‘i ppacche grosse
lu pettine è stato stritto
e nun putimmo stuppilia’.
LA PETTINATRICE CHE LAVORA
Breve canto di un’amara riflessione sul proprio maltrattato ruolo di lavoratrice e di
moglie.
‘U padrone conta ll’ora e ‘a ‘jurnata
‘da pettinatrice nci esce rotta e scufanata,
‘u marito nu’ mangia e nu’ conta renare,
a pettinatrice se scianca e piglia mazzate.
STRUITE STRUITE PEZZIENTE
Le commesse di canapa pettinata ordinate dallo Stato erano quelle che imponevano più
sforzo alle pettinatrici, costrette a trattare anche gli scarti (‘u struire), ma erano anche
quelle che facevano guadagnare di più ai padroni delle botteghe dei pettini.
Struite struite pezziente
‘u struire nun è niente,
è venuto l’ordine ‘a Roma:
‘u struire porta guaragno ‘o padrone!
42
SI ‘U PETTINE NU’ CONTA
E’ il canto breve di un necessario adattarsi al lavoro al pettine, di fronte alla prospettiva
di una povertà più grave.
Si ‘u pettine nu’ conta
‘i pettinatrici comme fanno?
Se mettono ‘u panaro ‘a scianco
e ‘a munnezza vanna ‘ccucchia’.
HA DA VENI’ L’ORA PUR’ESSA
E’ la mescolazione canora di diversi temi, che esprime un poco tutto il carattere
burlesco, la verbosità, la voglia e le speranze irriducibili delle pettinatrici per un domani
migliore.
Con questo canto si conclude anche questa parziale raccolta, che valga soprattutto come
un omaggio postumo all’arte, alla creatività e al duro lavoro, di una gente povera e
dimenticata; che valga come stimolo ad una riflessione e ad una volontà di
rinnovamento sociale che, tra l’altro, recuperi, valorizzi e liberi da ogni ingiusta
emarginazione.
Trapanarella c’ ‘u cufunaturo
è zoccola ‘a mamma e ‘a figlia pure!
E ‘nzogno! Vota ‘a rota!
‘Uaglio’ vattenne ‘a lloca!
E don Dumminico manc’ ‘u tene
‘u pesa sale!
‘Uaglío’ vattenne ‘a lloca!
Piglia ‘a mazza e ‘ncasa ‘a mana:
‘ncopp’ ‘u stipo ralle ‘na botta!
E ‘u stipo sotto e ‘ncoppa
e accuminciano a fui’!
Ha da veni’ l’ora pur’essa
che nci putimmo mettere l’uoglio
‘ncopp’ ‘i cicere e ‘ncopp’ ’a llessa!
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PARTE SECONDA
La «Canzone di Zeza» delle pettinatrici
di LUIGI MOSCA
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Un esempio di canto-rappresentazione
nella tradizione popolare
Tra i canti delle pettinatrici frattesi è stata registrata una versione originale della famosa
‘Canzone di Zeza’.
Ufficialmente, il testo originario di questa canzone, che era l’intermezzo cantato di una
rappresentazione popolare dei primi anni del ‘700, fu scoperto e pubblicato dal Croce ne
«I teatri napoletani».
Essa rientrava nell’ambito delle ‘pulcinellate’, che erano farse teatrali improvvisate,
imperniate sul personaggio e sulle vicende familiari di Pulcinella, e recitate nelle piazze
dai ‘castelleggianti’ (teatranti di Piazza Castello).
Queste farse si rifacevano, nella loro tematica, alle paradossali vicende familiari
derivanti dai c.d. redeculusi contrasti de matremmonio, e facevano leva sui personaggi
di Pulcinella il padre, Zeza la madre (Zeza diminutivo di Lucrezia), Vincenzella (o
Tolla) la figlia, e Don Nicola ‘pacchesecche’ l’abate pretendente della figlia 1.
1
V. Viviani nella sua Storia del teatro napoletano - Napoli 1969, pag. 395 e segg. - così
descrive la recita della farsa: «Veniva recitata dai quattro personaggi con un cantalenare fisso,
concluso alla fine d’ogni strofa da una cadenza a mò di arietta: il che dava al componimento
una sua razionale unità poetico-musicale nella quale il gioco istrionico trovava un suo preciso
limite, una sua giustezza di misura ritmica, come in un cantar danzando.
La scena: «Strada a deritta vascio cu na fenestrella ncoppa». Pulcinella è un personaggio reale:
un padre di famiglia pieno di guai, e pieno di preoccupazioni per la moglie, dalla quale egli
teme qualche brutta sorpresa.
Signure mieie, sentite
a me che me succede
co sta mugliera cana e nun ze crede.
Sera jette a la casa
trasette, e che sapeva?
Sotto a lo lietto Don Nicola steva.
Zeza lo aggredisce e si giustifica:
Lo padrone chill’era de la casa;
voleva li denare
de lo mese passato
ca si no te metteva carcerato.
Pulcinella finge di crederci e, nell’andar via, raccomanda la figlia:
Zeza vi’, ca ‘i mo esco
sta attiente a sta figliola,
tu che si’ mamma dalle na bona scola;
tienetella nzerrata
no la fa prattecare,
ca chello che non sa se po ’mparare.
Il povero uomo va via, e sua moglie scoppia:
Si pazzo si lo cride
ch’aggia a tene ’nzerrata
chella povera figlia sfortunata.
La voglio fa scialare
co ciento nnammorate
co Milorde, Signure e co l’Abate.
Un Abate, infatti, Don Nicola Pacchesecche, che si presenta a Tolla, smanceroso ed amante;
sennonché improvvisamente torna Pulcinella e picchia l’intruso; il quale fugge gridando, per
poi ripresentarsi armato.
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Grazie al girovagare del teatro popolare dell’epoca, le pulcinellate, e specificamente la
‘Zeza’, hanno avuto una diffusione notevole su scala regionale, al punto da essere
assorbite in aree diverse, come quella nolana, e soprattutto in Irpinia dove con
elaborazioni proprie la ‘Zeza’ è ancora parte del repertorio carnevalesco 2. Infatti, nelle
varie elaborazioni ancora esistenti, la ‘Canzone di Zeza’, il più delle volte, è legata alla
festa di Carnevale dove, nel gioco dei travestimenti, le parti femminili sono cantate e
recitate solo da maschi.
L’origine su cui è basata la struttura di questo tipo di rappresentazione scenica va,
probabilmente, ricercata, come viene anche messo in risalto da diversi autori, in un area
geograficamente più distinta; nell’area, cioè, dell’antica città osca di Atella. Infatti, in
questa città si sarebbe dato vita alle prime forme di farsa note come fabulae atellanae,
dalle quali deriverebbero alcuni caratteri comuni riconoscibili nelle varianti della
‘Canzone di Zeza’, come l’uso delle maschere (Maccus-Pulcinella) e la tipologia fissa
dei personaggi. A caratterizzare l’origine atellana di queste farse concorrerebbero anche
la licenziosità del testo del canto e tutta la fenomenologia gestuale che lo accompagna;
licenziosità e gestualità che la stessa fabula avrebbe fatte proprie in seguito all’influenza
da essa subita da parte del più antico fescennino etrusco e del mimo greco. La stessa
area atellana, nel periodo storico contemporaneo a quello della diffusione della ‘Zeza’
su scala regionale, presenta una variante di questa Canzone nella sua struttura di farsa
recitata e cantata 3.
Arretu vastasuni,
Eu t’aju a la tagghiuola!
Te vogghio fa vidì chi è Don Nicola!
Pulcinella è costretto ad accettare il matrimonio ed a concedere la relativa dote, promettendo di
non protestare mai più.
Nun parlo pe cient’anne
songo cecato e muto,
starraggio ncasa comme a nu paputo.
2
Cfr. C. PISCOPO, Saggio di storia delle tradizioni popolari (Due studi di folklore irpino),
Avellino, 1975, 153 e segg.; e AA. VV., Storia arte e folklore in Campania.
3
E’ dovuta alla ricerca di V. LEGNANTE la registrazione di questa Zeza-Zeza della zona
atellana (cfr. La rivista Atellana dell’Istituto di Studi Atellani, S. Arpino, Giugno 1890, Numero
di saggio, pag. 12 e segg.);
Personaggi: Pulcinella, marito di Zeza-Zeza, Vincenzella, loro figliuola, per le cui grazie Don
Nicola, notabile del tempo, spasima. Coro.
ATTO UNICO - SCENA UNICA - CORO / Pulcinella e Zeza-Zeza, indi Vincenzella e poi Don
Nicola.
PULCINELLA (nell’atto di uscire di casa):
Zeza-Zeza, ca i’ mo’ esche / Statte attient’a sta figliola; / Tu lle si mamma e fance / nà bbona
scola. / Coro: ultimo versetto Nun a fà ascì e trasì, / nun la fà pretticà / ca chelle che nun sape /
se po’ ‘mparare / Coro: ultimo versetto.
ZEZA-ZEZA:
Nun ‘nce penzare a ccheste, / maritielle belluo mie / chest’ ‘a figliola l’agge / crisciuta ie /
Coro: ultimo versetto.
(Uscito Pulcinella) La voglio fà scialare / Co’ cciente ‘nnammurate, / cu’ princepe, signure / e
cu’ li abbati / Coro: ultimo versetto.
VICINZELLA (entrando):
Mamma, ma’ vide chi vene / Chillo me pare o’ zi’ don Nicola, / che libbre sott’o ‘racce scenne
/ a’ copp’a’ scola / Coro: ultimo versetto.
Ce si’ isse me vulesse, / mo’ mo’ mu spusarrie, / ‘nnanz’a’ sta’ccise e’tate / non nce starrie /
Coro: ultimo versetto.
(E si abbracciano sotto lo sguardo compiaciuto di Zeza-Zeza).
PULCINELLA (entrando e afferrando don Nicola da dietro):
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E nella stessa area atellana che la ‘Canzone di Zeza’, registrata tra i canti canapini
frattesi, presenta dei caratteri propri 4. In primo luogo essa è eseguita solo da donne nelle
ore di lavoro, e in questo senso essa perde la sua connotazione scenica e diviene,
piuttosto, un canto di accompagnamento al lavoro.
Essa viene cantata, infatti, come una cantilena ed ha un tempo di battuta originario in
3/4 5, tempo certamente dovuto al suo sincronizzarsi con i tre caratteristici movimenti
che si compiono durante la pettinatura dei fascetti di canapa (rotazione, appoggio e tiro).
Le pettinatrici stesse si alternavano, probabilmente, nel canto delle varie parti che
compongono il fraseggio della Canzone, identificandosi più nella situazione di contrasto
matrimoniale in essa descritta che nei suoi personaggi nominali.
LA «CANZONE DI ZEZA» DELLE PETTINATRICI
Vincinzella: Mamma mamma che stei loco fore
I voce:
sola sola stei a lavò
perché nun tresi rinte a cucinere?
Si vene ‘gnore ‘u pate
e nun trova cucinato
cert’è fa arriutà stu vicinero!
Coro:
Ah, chistu vicinero
arrète, arrète, arrète.
ZEZA-ZEZA (intervenendo):
A lu’ canchere che t’afferre / dint’a’ stu’ bruttu nase, / chill’era don Fabrizio, / o’ patrone
e’case. / Vuleva li denare, / de la terza passato, / e si nun era pe’ Vicenzella, / ive carcerate:
Coro: ultimo versetto.
PULCINELLA (alla folla che si è fatta):
Sentite bella ggente / a mme che me succede / ’nnanz’a’sta piezz’e’mpesa / de mugliera / Aier
sser’a’ casa, / nun truvaie a’ cannela appesa / e don Nicola sott’o liette / Steve / Ah, che ‘nce
faceva? / Coro/ ultimo versetto.
Ma sta vota nun m’a’ faie, / pezzo di bastardona, / si’ sott’ o’ liett’ancora / ll’ai’nnascuse. / Si’
o’ ‘ncocce, nun’ ‘o sacce / chelle che ne succede / ve lev’a, tutt’e’ dduie o’ stentenielle.
DON NICOLA (ricompare smargiasso e impetuoso):
Basta, ormai basta, pezzo e cacarone, / difenditi se puoi dal mio bastone / (e si scaglia).
PULCINELLA:
Mugliera; mia mugliera, apàreme sti’botte / dancella, dancella subbete a Vicenzella nosta.
(Abbraccio delle due coppie e gran finale rumoroso con partecipazione danzata del coro).
4
A tale proposito è interessante considerare come la versione originale frattese abbia alcune
analogie con le prime forme di canto afro-americano. Caratteristica comune è, infatti, la
presenza dell’ambiguità del linguaggio (il double talk del blues); come caratteristica comune è
il fatto che fossero anche canti di lavoro. Canti come quelli che venivano eseguiti dai negri
originari dell’Africa occidentale, durante le loro attività lavorative, e come quelli
genericamente noti come work songs propri delle popolazioni di colore durante la loro schiavitù
nelle piantagioni di cotone americane.
Nel senso dell’analogia va pure considerato la comune configurazione di «canti collettivi», e
soprattutto il comune carattere d’improvvisazione che è la base della loro esecuzione.
5
La partitura melodica fuori testo è elaborato in 4/4, tempo dominante nella voce soggettiva
della vecchia pettinatrice dalla quale si è registrato la canzone.
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Zeza:
Figlia mia, tu rici buono,
II voce:
pigli e tresi pure tu,
si vene patete ‘a fore
Chille te carosa,
o chille te spertosa,
chille te la fa ‘na bona ‘ntosa!
Coro:
Mammete sta carosa …
Vincenzella: Ma verite chi vene,
I voce:
chiste me pare ‘u zi’ ro’ Nicola,
pare che mo nc’è sciso ra copp’ ‘a scola.
Si isso me vulesse
e io me lu pigliarria,
Innenz a st’ accise ‘e tate nun ce starria!
Coro:
Ah, nun ce starria
Don Nicola: Ma sarà comme tu rice,
II voce:
Che ie mo me n’aggia i’,
arrape ‘u fenestriello che voglio trasire!
Mo vieni, nun sarra’
mi ha’ fa cchiù prattica’
chello che nun sape t’ ‘u vuo’ ‘mpara’?
Coro:
Ah, t’ ‘u vuo ‘mpara’
Vincenzella: Mu vuo’ truvanno ‘i carria’?
I voce:
Ma che r’è, Ro’ Nico’, ch’è stato?
Soccio comme te vego, accussì sdignato!
Gna! Cocca vota bella!
E tu, po’ che m’he’ creruto,
lo pizzo ‘i Vincenzella m’ he’ mettuta.
Coro:
Ah, m’he’ mettuta,
Tutte:
E mo’nci sevemo a tanti ‘uai,
mo’nci simmo tutti cantenti,
Zeza, vatta a ‘nvita li tuoi parenti.
E tu che nci si ghiuta,
e nuie nci stevemo a sentì,
e ‘a zita ‘e Ro’Nicola vonno veria.
Ah, vonno veria …
Questa presenza della «Zeza» nell’area atellana potrebbe anche porre in termini nuovi la
questione delle fonti popolari campagnole, cui attingevano i castelleggianti per
l’ispirazione e l’elaborazione delle loro farse, dal momento che è forse possibile
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circoscrivere queste fonti nella stessa area culturale delle fabulae; un’area culturale nella
quale, tra l’altro, si sviluppa la fenomenologia dei canti canapini, con contenuti e temi
già caratterizzati nel saggio precedente, e nella quale, come altrove non è dato
riscontrare, la stessa «Zeza» si connota di valori e di funzioni ulteriori alla farsa e
relativi alla sua utilizzazione come canto di lavoro delle pettinatrici.
In questo senso la Canzone di Zeza, nel suo contrasto e nella licenziosità del suo testo,
si rivela una delle rappresentazioni, o meglio un canto-rappresentazione tra i più
congeniali alla produzione culturale popolare che storicamente si è sviluppata nell’area
atellana, e che più specificatamente ci è pervenuto attraverso le testimonianze della
cultura canapina.
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