nota a sentenza in materia di abusi sessuali

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nota a sentenza in materia di abusi sessuali
OSSERVATORIO PENALE
ABUSI SESSUALI SU MINORE
Capo di imputazione: reati di cui agli artt. 81 comma 2, 609 – bis, 609 – ter comma 1 n. 4, 609 –
quater comma 1 n.1, 609 – septies comma 4 nn.1 e 2 c.p., perché più volte, in esecuzione di un
medesimo disegno criminoso, compiva con la figlia avente età inferiore ai dodici anni, atti sessuali.
Infatti, all’incirca a far data da epoca anteriore e prossima al 6.04.1998, e fino al 26.09.2004
trovandosi in casa con la predetta minore, la induceva a recarsi a letto con lui e, chiusa a chiave la
porta della camera, denudandosi e denudando il predetto minore, la accarezzava su tutto il corpo e sui
genitali facendosi a sua volta accarezzare e dicendole quindi parole e frasi quali: “SE TI AZZARDI
A RACCONTARE QUESTE COSE SONO AFFARI TUA, E’ UN SEGRETO FRA DI NOI E I
SEGRETI VANNO MANTENUTI” “ TU ADESSO FAI QUELLO CHE TI DICO IO, SE NON FAI
QUELLO CHE DICO IO NON ANDIAMO Più D’ACCORDO”, “ SE TU ADESSO NON TI STAI
FERMA TI UCCIDO”.
Prima di analizzare la fattispecie sottoposta alla nostra attenzione, appare opportuna una breve
premessa relativa al caso che ci compete. L’imputato veniva tratto in giudizio per rispondere del reato
di violenza sessuale ai danni della figlia minore. Svolta l’istruttoria dibattimentale, e analizzate tutte
le prove poste all’attenzione dei Giudicanti, documentali e testimoniali, il Tribunale, in composizione
Collegiale, riteneva provata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati allo stesso ascritti.
Il Collegio, considerava decisiva, ai fini della pronuncia della responsabilità penale dell’imputato,
le dichiarazioni rese dalla minore, in sede di incidente probatorio. che all’epoca aveva l’età di anni
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Prima di passare alla rassegna giurisprudenziale relativa all’argomento, è necessario sottolineare le
problematiche che l’assunzione della testimonianza di un minore d’età comporta. Ed infatti essa deve
avvenire con criteri e modalità che la Legge si è sforzata di individuare, ma che inevitabilmente
lasciano insoddisfatti, magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili e
criminologi. Ed infatti la questione che si pone agli occhi di chi deve valutare la testimonianza di un
minore, si palesa sotto un duplice aspetto: la capacità di deporre dello stesso e la veridicità del suo
racconto, e ciò, a maggior ragione deve essere tenuto in conto soprattutto nel caso in cui il minorenne
sia anche persona offesa e vittima del reato. (Cass. Pen. Sez. III 11.07.2003 n.39959)
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Così come più volte ribadito in alcune pronunce dalla Suprema Corte infatti “le dichiarazioni rese
dalla persona offesa possono essere assunte come fonte di prova ove sottoposte ad un vaglio
positivo di credibilità oggettiva e soggettiva” ( Cass. Pen. Sez. Un. n. 41461 del 19.07.2012).
Ed infatti, molto dibattuta è stata la scelta del legislatore di consentire alla persona offesa dal reato di
deporre nella qualità di testimone, con la conseguenza che le sue dichiarazioni, possano da sole
fondare l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato. Nonostante il chiaro interesse della
persona offesa, soprattutto se costituita parte civile, all’esito del processo, il legislatore non ha voluto
privarsi del contributo probatorio che tale soggetto può apportare al processo. Un piccolo freno a tale
scelta, è pervenuto dall’indirizzo giurisprudenziale, oramai cristallizzato, secondo cui la
testimonianza della vittima necessita, a differenza della posizione testimoniale tout court, di essere
sottoposta ad indagine positiva in punto di attendibilità, attraverso un riscontro della credibilità
oggettiva e soggettiva, pur dovendosi escludere l’applicazione delle regole ex art. 192 commi 3 e 4
c.p.p., ossia la necessità di ricorrere ai riscontri esterni.
Pertanto la potenzialità probatoria della testimonianza dipende non solo dalla rilevanza del fatto
esposto nel corso dell’esame, ma anche dall’attendibilità del testimone, in questa prospettiva, il teste
deve essere giudicato in relazione alla sua deposizione nella stessa maniera in cui si giudica l’imputato
in relazione al fatto che gli si attribuisce.
La giurisprudenza ha poi affermato che le modalità di valutazione della testimonianza devono mutare
in ragione della “qualità della prova”, determinata da una serie di elementi: dal grado di intrinseca
attendibilità del deponente, dato dalle sue caratteristiche personali, morali, intellettive e sensitive;
dalla presenza o meno di un suo personale interesse alla vicenda processuale; dalle sue capacità di
attenzione e di memoria.
Sempre in tema di valutazione della testimonianza, giova rilevare che la giurisprudenza aderisce al
principio della scindibilità che, consente di ritenere al contempo, sincera una parte della deposizione
ed, inattendibile un’altra parte della stessa. Il Giudice, peraltro, deve dar conto dell’applicazione di
tale principio, con adeguata motivazione che esplichi le ragioni di tale diversa valutazione e del perché
del configgente esito di essa non si rifletta in un complessivo contrasto logico-giuridico della prova
posta a supporto della decisione.
In particolare, relativamente alla valutazione dell’attendibilità della vittima del reato, è stato ribadito
che il controllo sulle dichiarazioni della persona offesa, considerato l’interesse del quale essa è
portatrice, deve, peraltro, essere particolarmente rigoroso, specie laddove si tratti di minore e l’esame
concerna fatti che possono interagire con delicati aspetti della personalità, come nel caso di reati
contro la libertà sessuale.
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Ed infatti se è vero che, le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte anche da sole
come fonte di prova ove sottoposte ad un vaglio di credibilità oggettiva e soggettiva (Cass. Pen. Sez.
Un n. 41461 del 19.07.2012) è altresì vero che tale controllo debba essere condotto con la necessaria
cautela attraverso un esame particolarmente rigoroso e penetrante che tenga conto anche degli altri
elementi emergenti dagli atti.
Tali principi trovano applicazione ancor più forte quando la persona offesa sia un soggetto affetto da
patologia mentale ed i fatti narrati possano interagire con gli aspetti più intimi della sua personalità,
così da accentuare il rischio di suggestioni, di reazioni emotive, di comportamenti di compiacenza o
auto protettivi, di contaminazioni da c.d. “dichiarazioni a reticolo” in comunità quali la famiglia.
Ed infatti, posto che la capacità del testimone di rendere dichiarazioni vada valutata in concreto, e
non in astratto, ne consegue che soltanto quando il Giudice disponga di concreti elementi per stabilire
che il dichiarante sia assolutamente incapace di rendere dichiarazioni, operi il divieto di assumerne
le dichiarazioni; diversamente in presenza di una patologia psichiatrica che non renda il dichiarante
incapace, le sue dichiarazioni, se valutate con particolare rigore, possono essere ritenute attendibili
ed utilizzate ai fini probatori. ( Cass. Pen. Sez. 2, n. 12195 del 14.03.2012).
Nel caso qui esaminato, siamo in presenza di una persona offesa che, all’epoca dei fatti come
specificato, era minorenne e portatrice di una seri di disturbi psicologici, emozionali e
comportamentali, ed in questi casi bisogna ricordarsi che seppur è vero che anche lo stato di ritardo
mentale della persona offesa, non escluda che alla testimonianza della stessa sia attribuito pieno
valore probatorio, è altrettanto vero però che ciò è possibile qualora il Giudice abbia accertato, ed
abbia dato congrua motivazione, che la deposizione non sia stata influenzata dal deficit psichico.
( Cass. Pen. Sez. 3 n. 9734 del 16.06.1999).
In estrema sintesi si ha che, da una parte, in generale le dichiarazioni della persona offesa di abusi
sessuali, che abbia piena capacità di intendere e volere, possono esse solo fondare la prova della
responsabilità dell’autore della condotta ove non sussistano elementi, anche solo indiziari di segno
opposto che possano indurre a dubitare dell’attendibilità di tali dichiarazioni, nel qual caso il Giudice
di merito è chiamato a valutarli criticamente e ad esprimere la ragione del suo convincimento. D’altra
parte, come autorevolmente chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le regole dettate
ex art. 192 comma 3 c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono
essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità
dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del
dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più
penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.
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( Cass. Pen. Sez. Un. n.41461 del 19.07.2012), che peraltro ha precisato, come nel caso in cui la
persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali
dichiarazioni con altri elementi).
Altra considerazione di carattere generale, è che la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni rese
dalla persona offesa asseritamente abusata è rimessa alla prudente valutazione del Giudice di merito.
Il procedimento valutativo delle risultanze processuali converge, infatti verso un giudizio di
attendibilità del teste; in questo senso è bene sempre ricordarsi che mentre la verifica dell’idoneità
mentale del teste, diretta ad accertare se questi sia stato nelle condizioni di rendersi conto dei
comportamenti tenuti in suo pregiudizio e sia in grado di riferire sugli stessi, senza che la sua
testimonianza possa essere influenzata da eventuali alterazioni psichiche, è demandabile al perito,
l’accertamento dell’attendibilità del teste, attraverso l’analisi della
condotta dello stesso e
dell’esistenza di riscontri esterni, deve formare oggetto del vaglio del Giudice.
Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte, ha fornito alcune linee guida per valutare
l’attendibilità dei bambini in tenera età che si dichiarino vittime di abusi sessuali. Ed infatti, se è
vero che, in tali casi, il giudice possa trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale
anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo
circa la sua attendibilità, senza la necessità, come detto, di applicare le regole probatorie di cui all’art.
192 commi 3 e 4 c.p.p., che richiedono la presenza di riscontri esterni, è stato però stabilito che nel
caso di persona offesa nei reati sessuali, di età minore, è necessario che l’esame della credibilità sia
onnicomprensivo e tenga conto di più elementi quali:” l’attitudine a testimoniare, la capacità a
recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle ( ovvero l’attitudine psichica, rapportata all’età, a
memorizzare gli avvenimenti e a riferirne in modo coerente e compiuto), nonché il complesso delle
situazioni che attengono la sfera del minore, il contesto delle relazioni con l’ambito familiare ed
extrafamiliare ed i processi di rielaborazione delle vicende vissute” (Cass. Pen. Sez.3 n.39994 del
26.09.2007 e Cass. Pen. Sez. 3 n.29612 del 27.07.2010).
E’ stato precisato “ che l’assunto secondo il quale i bambini piccoli non mentono consapevolmente e
la loro fantasia attinge pur sempre ad un patrimonio conoscitivo deve essere contemperato con la
consapevolezza che gli stessi possono essere dichiarate attendibili se lasciati liberi di raccontare, ma
diventano altamente malleabili in presenza di suggestioni etero indotte, interrogati con domande
inducenti, tendono a conformarsi alle aspettative dell’interlocutore ( Cass. Pen. Sez. 3 n. 37147 del
18.09.2007).
Ed ancora “ per controllare che il bambino non abbia inteso compiacere l’interlocutore ed adeguarsi
alle sue aspettative, è utile poter ricostruire la genesi della notizia di reato, cioè, focalizzare quale sia
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stata la prima dichiarazione del minore (che, se spontanea, è la più genuina perché immune da
interventi intrusivi), quali le reazioni emotive degli adulti coinvolti, quali le loro domande, se la
narrazione del bambino si è amplificata nel tempo, è necessario verificare se l’incremento del
racconto sia dovuto all’abilità degli intervistatori oppure alle loro indebite interferenze (Cass. Pen.
Sez.3 n. 24248 del 13.05.2010).
Da tali assunti emerge la necessità di una valutazione rigorosa e neutrale da parte dei giudici delle
dichiarazioni rese dai bambini, con l’opportuno aiuto delle scienze che risultano rilevanti nella
materia (pedagogia, psicologia, sessuologia), al fine di esprimere un giudizio di attendibilità,
attraverso un’articolata analisi critica, anche e soprattutto, degli elementi probatori di conferma.
Sulla linea di tali studi scientifici, la Carta di Noto, che contiene le linee-guida per gli esperti
nell’ambito degli accertamenti da loro compiuti sui minori vittime di abuso sessuale (la quale, pur
non dettando regole di valutazione vincolanti, rappresenta un formidabile strumento di verifica dei
dati probatori acquisiti nel processo), nel nuovo testo approvato il 12.06.2011, ha sottolineato la
necessità di analizzare il minore considerando le modalità attraverso le quali il minore ha narrato i
fatti ai familiari, alla polizia giudiziaria, ai magistrati ed agli altri soggetti, tenendo conto in
particolare:
a) delle sollecitazioni e del numero di ripetizioni del racconto;
b) delle modalità utilizzate per sollecitare il racconto;
c) delle modalità della narrazione dei fatti ( se spontanea o sollecitata, se riferita solo dopo
ripetute insistenze da parte di figure significative);
d) del contenuto e delle caratteristiche delle primissime dichiarazioni, nonché delle loro
modificazioni nelle eventuali reiterazioni sollecitate.
Inoltre al punto 13 del testo è espressamente ricordato che deve essere data particolare attenzione ad
alcune situazioni specifiche idonee ad influire sulle dichiarazioni dei minori come:
1) separazioni coniugali caratterizzate da inasprimento di conflittualità dove si possono
verificare, ancor più che in altri casi, situazioni di falsi positivi o falsi negativi;
2) allarmi generati solo dopo l’emergere di un’ipotesi di abuso.
Quindi, per una corretta valutazione, i Giudici di merito devono stabilire se il racconto dei fatti, quale
emerge dalle dichiarazioni de relato rese dai genitori o da chi abbia ricevuto il primo “disvelamento”
dell’abuso sessuale, corrisponde a quanto il minore ha realmente vissuto, unitamente all’eventuale
conferma del racconto stesso in sede di incidente probatorio tenuto conto degli elementi scaturenti
dalle perizie psicologiche che siano state disposte.
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Con riferimento invece alla veridicità del racconto del minore di età vittima di abusi, la sede più
appropriata per l’escussione del testimone minorenne diventa l’incidente probatorio, con le garanzie
costituzionali e processuali riservate a tutte le parti del processo.
In tale sede, sotto il profilo della veridicità del racconto, bisognerà preventivamente valutare le
modalità per l’escussione del teste.
Non v’è dubbio alcuno, che il Giudice che avrà disposto l’incidente probatorio, ordini che si proceda
con tutte le cautele possibili, perché anzitutto devono essere tutelate le esigenze del minorenne.
Egli può stabilire particolari modalità per procedere all'incidente probatorio, che reputi necessarie od
opportune. Fra queste particolari modalità di assunzione della prova, ad esempio rientra sicuramente
anche la forma scritta, laddove sia consigliata o imposta dall'esigenza di proteggere la fragile
emotività del minore e di assicurare nel contempo la genuinità della deposizione.
Secondo la Suprema Corte “Il ricorso alla forma scritta, non costituisce una lesione del principio del
contraddittorio, giacché all'incidente probatorio partecipano necessariamente il pubblico ministero e
il difensore dell'indagato e ha diritto di partecipare anche il difensore della persona offesa (articolo
401, comma 1, del c.p.p.), e tutti costoro hanno diritto di proporre al giudice le domande e le
contestazioni da rivolgere al testimone ai sensi del combinato disposto degli articoli 401, comma 5,
e 495, comma 4, del c.p.p.
Questa forma scritta, inoltre, neppure configura una deroga al principio dell'oralità, dovendosi
intendere per tale il principio, fondamentale nel rito accusatorio, che vieta le prove scritte
precostituite, cioè formate fuori del processo, mentre nella suddetta modalità di svolgimento
dell'incidente probatorio la prova non si viene precostituita fuori del processo, ma si forma
nell'udienza camerale in contraddittorio tra le parti” (Cass. pen., Sez. III, 25/05/2004, n.33180).
Ma “l’inesistenza nel sistema normativo di preclusioni o limiti alla capacità del minore a rendere
testimonianza (art. 196 c.p.p.) non affranca il giudice dal dovere di controllarne le dichiarazioni con
impegno assai più solerte e rigoroso rispetto al generico vaglio di credibilità cui vanno sottoposte le
dichiarazioni di ogni testimone. In particolare, nei reati a sfondo sessuale - dei quali il minore è
frequentemente vittima e il suo contributo non è normalmente sottraibile alla ricostruzione del fatto il giudice deve accertare la sincerità della testimonianza del minore, con l'esercizio di una
straordinaria misura di prudenza e con un esame particolarmente penetrante e rigoroso di tutti gli altri
elementi probatori di cui si possa eventualmente disporre. A tal fine, può rivelarsi necessario il ricorso
agli strumenti dell'indagine psicologica per verificare, sotto il profilo intellettivo e affettivo, la
concreta attitudine del minore a testimoniare, la sua credibilità, la sua capacità a recepire le
informazioni, a raccordarle tra loro, a ricordarle e a esprimerle in una visione complessa, da stimare
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in relazione all'età, alle condizioni emozionali che regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla
qualità e alla natura dei suoi rapporti familiari. E ciò anche al fine di escludere che una qualunque
interferenza esterna, talvolta collegata allo stesso ambiente domestico nel quale l'abuso sessuale non
di rado si consuma, possa alterare la genuinità dell'apporto testimoniale” (Cass. pen., Sez. III,
28/02/2003, n.19789).
In conclusione, come si è visto, non esistono riferimenti normativi e quindi processuali, tali da
delimitare i confini entro i quali debbono essere valutati i due elementi fondamentali per procedere
all’esame del testimone minorenne (capacità di testimoniare e veridicità delle dichiarazioni).
Tuttavia, grazie al contributo fondamentale della psicologia, della psichiatria, della neuropsichiatria
infantile, della criminologia, della giurisprudenza di merito e di quella di legittimità, l’esame
testimoniale del minorenne è ormai prossimo a quelle garanzie costituzionali di tutela poste alla base
del nostro (non perfetto) sistema giuridico.
Dal punto di vista strutturale, l’art. 609 bis c.p. distingue due diverse fattispecie: la prima, contemplata
nel primo comma, punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque con violenza o
minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali”;
mentre la seconda sottopone alla medesima pena “chi induce taluno a compiere o a subire atti
sessuali”,
attraverso
due
condotte
tipicamente
contemplate
dalla
norma.
Con l’entrata in vigore della legge n. 66 del 15 febbraio 1996, le vecchie fattispecie di violenza
carnale e di atti di libidine violenti (che erano previste dagli abrogati artt. 519-521 c.p.) sono state
ridefinite nell’unico concetto di “violenza sessuale” e collocate per una scelta di principio del
legislatore tra i delitti contro la libertà personale.
Il delitto previsto dall’art. 609 bis c.p. è quindi integrato da ogni costrizione a subire un atto sessuale,
che va inteso non soltanto come congiunzione carnale (che implica, pertanto, penetrazione) ma anche
come atto di natura oggettivamente sessuale (tra i quali i toccamenti, la palpazione, la masturbazione
ma anche, in taluni casi, il bacio sulle labbra), nel senso che tali comportamenti dovranno essere
valutati per la loro attitudine ad offendere la libertà sessuale della persona offesa.
Secondo una diffusa interpretazione gli atti sessuali presi in considerazione dal codice penale non
sarebbero solo quelli che involgono la sfera propriamente genitale, ma anche quelli che riguardano le
zone del corpo considerate erogene. Appare subito evidente che la norma attuale ha una portata molto
più ampia: non è violenza sessuale solamente la condotta di chi subisce atti sessuali, ma, altresì, quella
in cui o viene a mancare il contatto corporeo tra carnefice e vittima e quest’ultima deve realizzare atti
sessuali su se stessa, ovvero il contatto c’è e la vittima deve compiere atti sessuali a favore dell’agente.
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In tali ipotesi la giurisprudenza ha ritenuto che l'induzione sufficiente alla sussistenza del reato non
si identifica solamente nell'attività di persuasione, esercitata sulla persona offesa, per convincerla a
prestare il proprio consenso all'atto sessuale, ma consiste in ogni forma di sopraffazione posta in
essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non
risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, si sottopone al volere
dell'autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest'ultimo
(Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2008, n. 40795).
Peraltro la complessiva disciplina della “violenza sessuale” non si esaurisce nella previsione e
conseguente repressione della costrizione all’atto sessuale prevista dall’art. 609 bis comma 1 c.p.
perché il reato viene commesso anche tramite due tipi di “induzione” ritenute rilevanti da legislatore
nel secondo comma dell’art. 609bis c.p..
Occorre intendersi sul significato di induzione (che di norma, andrebbe intesa come attività di
pressione psicologica o più semplicemente, di persuasione) nello specifico ambito dell’art. 609 bis
c.p.
Infatti il delitto (ulteriore e diverso da quello descritto al primo comma) è commesso da chi “induce”
taluno a compiere o subire atti sessuali, purché ciò avvenga attraverso due modalità descritte dalla
stessa norma al comma 2: 1) l’autore del fatto deve avere abusato delle condizioni di inferiorità
fisica o psichica della vittima; 2) deve essersi sostituito ad altra persona traendo così in inganno
la persona offesa.
In tali casi, si noti, il consenso della vittima è viziato da una oggettiva situazione di “minorata difesa”
o dall’inganno perpetrato dal soggetto agente. La seconda fattispecie assume rilevanza penale quando
si realizzano le condizioni, indicate dal legislatore, ossia l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica
o psichica ovvero la sostituzione di persona (violenza sessuale per induzione).
La pena è assai elevata (da 5 a 10 anni per la fattispecie-base) e, per le vicende di basso profilo
delinquenziale (si pensi alla “manomorta”, al bacio, alle palpazioni, a taluni approcci maleducati),
sembra palesemente sproporzionata.
Unico elemento d’equilibrio è nell’ultimo comma dell’art. 609bis c.p. ove si prevede che: “nei casi
di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi” (sicchè il minimo della
pena sarà pur sempre di un anno e otto mesi di reclusione).
Per contro, il reato è caratterizzato da una serie di aggravanti specifiche (art. 609ter c.p.): la pena è
della reclusione da sei a dodici anni se il fatto descritto nell’art. 609bis c.p. è commesso - nei confronti
di persona minore di 14 anni; - nei confronti di persona minore di 16 anni quando l’autore del fatto
sia l’ascendente, il genitore (anche adottivo) o il tutore; - all’interno o nelle vicinanze della scuola
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frequentata dalla persona offesa; - con l’uso di armi, alcool o sostanze stupefacenti; - da persona
travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale; - su persona sottoposta a limitazioni della libertà
personale.
La più incisiva delle circostanze aggravanti (per cui la reclusione è da sette a quattordici anni) opera
nel caso in cui la vittima non abbia ancora compiuto 10 anni.
La scelta repressiva del legislatore nei confronti di questo tipo di reati è resa particolarmente evidente
da due previsioni introdotte nel codice di procedura penale. In primo luogo, l’imputato di violenza
sessuale non può ottenere una sentenza di patteggiamento (art. 444 ss. c.p.p.), “qualora la pena superi
due anni soli o congiunti a pena pecuniaria” (soluzione impossibile con una pena minima di 5 anni di
reclusione per la fattispecie-base).
Inoltre, il condannato per il delitto previsto dall’art. 609bis c.p. è fortemente ostacolato anche nella
possibilità di ottenere misure alternative alla detenzione.
Egli infatti non può beneficiare della sospensione dell’esecuzione della condanna (si veda art. 656 co.
9 lett. a che rinvia all’art. 4bis legge ordinamento penitenziario), sospensione comunemente prevista
dal codice di procedura penale in tutti i casi in cui la pena detentiva da eseguire non sia superiore a
tre anni: quanto sopra significa che il condannato per violenza sessuale dovrà necessariamente subire
l’esecuzione (con traduzione, dunque, in carcere) prima di potere formulare istanze per scontare la
pena tramite una delle note misure alternative (affidamento in prova e detenzione domiciliare).
La tutela della persona offesa dal reato previsto dall’art. 609bis c.p. e, in generale, dai reati contro la
libertà sessuale, è dunque particolarmente intensa. Ciò si riflette anche sul piano della prova, dal
momento che la giurisprudenza è costante nell’ammettere che la sentenza di condanna possa essere
fondata sulla sola testimonianza della parte offesa: non v’è dubbio che l’estrema durezza del
legislatore nei confronti dell’autore (o anche solo del supposto autore) di questo genere di reati non è
del tutto compensata dalla presenza di garanzie per l’imputato proprio nel più delicato settore della
ricostruzione del fatto e della valutazione della responsabilità.
L’art. 609 bis c.p., inoltre, all’ultimo comma statuisce che “nei casi di minore gravità la pena è
diminuita in misura non eccedente i due terzi”. La norma ha suscitato alcune perplessità in dottrina.
Al riguardo, è stato evidenziato come tale previsione abbia l’intento di consentire diminuzioni di pena
nei casi più lievi in cui la pena, stabilita negli altri commi, potrebbe risultare eccessiva. Tuttavia, così
operando, il legislatore ha delegato al giudice il compito di mitigare e rendere più eque, nel caso
concreto, delle sanzioni molto rigorose.
In ogni caso, la valutazione relativa alla maggiore o minore gravità della violenza deve essere posta
in essere sulla base dei seguenti elementi:
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1) Valutazione del disvalore della condotta criminale, desunto dalla natura, dalla specie, dai
mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione;
2) gravità del danno criminale o del pericolo cagionato alla persona offesa;
3) l'intensità del dolo o il grado della colpa; senza alcun obbligo, invece, di prendere in
considerazione specificamente anche gli indici della capacità a delinquere, i quali potranno
essere valutati solo ai fini della commisurazione finale della pena (Cassazione Penale, sez.
IV, sentenza 8 giugno 2007, n. 22520).
Sempre sull’argomento, va rilevato come siano sorti dei dubbi anche sulla qualificazione giuridica
della norma.
In buona sostanza ci si è chiesti se le ipotesi di minore gravità integrino una circostanza attenuante
ovvero una autonoma fattispecie incriminatrice.
Dottrina e giurisprudenza ( Cass. Pen. sez. III, 5 Febbraio 2009, n. 10085) sono concordi
nell’abbracciare la prima tesi .
Va, infine, rilevato che tale circostanza, non può essere concessa nell'ipotesi di reato di violenza
sessuale di gruppo di cui all'art. 609 octies c.p., in quanto trattasi di attenuante specifica prevista
soltanto per la violenza sessuale individuale ed essendo, in ogni caso, incompatibile logicamente con
la maggiore gravità di una violenza sessuale di gruppo (Cass. Pen., sez. III, 12 ottobre 2007, n.
42111).
A tal fine in tema di reati sessuali, per l’applicazione dell’attenuante speciale dei casi di minore
gravità, di cui all’ultimo comma dell’articolo 609-bis del c.p., non è sufficiente la mancanza di
congiunzione carnale tra l’autore del reato e la vittima, essendo piuttosto necessario verificare che vi
sia stata una minima compressione della libertà sessuale della vittima, da verificare prendendo in
considerazione le modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso una valutazione globale
che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche
della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, l’entità della lesione alla
libertà sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il profilo psichico.
Con la pronuncia numero 46184 del 18 novembre 2013 la terza sezione della Corte di Cassazione
è tornata a pronunciarsi in merito ai parametri di valutazione dei cd. casi di “minore gravità”
richiamati dall’ultimo comma dell’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale).
L’art. 609 bis c.p. dispone, al 3° comma infatti: Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in
misura non eccedente i due terzi.
E’ opportuno precisare come sulla questione riguardante i casi di “lieve entità” si pronunciò il 18
luglio del 1995 la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati. Il suggerimento
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della Commissione fu di spingere il legislatore a predefinire in maniera più puntuale i criteri di
giudizio in base ai quali valutare i casi di lieve entità del fatto, relativi alla normativa in tema di
violenza sessuale antecedenti alla legge del 1996. Con la riforma dei reati sessuali si ottenne la
sostituzione della formula “lieve entità” con l’altra che fa riferimento ai “casi di minore gravità”. Tale
sostituzione, rappresentò però, una semplice modifica di carattere terminologico.
Nel caso de quo il Collegio rileva come l’assenza di congiunzione carnale non sia motivo idoneo ad
integrare l’attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis (Sez. 3 n. 10085, 6 marzo 2009; Sez.
3 n. 14230, 4 aprile 2008), ma sia piuttosto necessaria una “minima compressione della libertà
sessuale” attraverso una valutazione di carattere globale prendendo in considerazione le modalità
esecutive (art. 133 c.p.) In sostanza, quindi per giudicare della minore gravità del fatto, bisogna aver
riguardo, non già della “quantità” di violenza fisica impiegata o alla tipologia dell’aggressione
sessuale, ma piuttosto alla “qualità” dell’atto compiuto, che deve desumersi dall’intero contesto del
fatto e delle condizioni personali della vittima (grado di coartazione esercitato dal soggetto agente,
caratteristiche psicologiche della persona offesa anche in relazione all’età, danno arrecato alla vittima
in
termini
psichici)
(Cass..,
Sez.
III,
24
marzo
2000).
Avv. Teresa Caiazza e Adriana Toti
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