IL DIBATTITO FILOSOFICO SULLA PENA DI MORTE Prima dell
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IL DIBATTITO FILOSOFICO SULLA PENA DI MORTE Prima dell
IL DIBATTITO FILOSOFICO SULLA PENA DI MORTE Prima dell’illuminismo La questione riguardante la pena di morte viene trattata fin dall’antichità da filosofi e pensatori. C’è da dire, però, che se prendiamo in esame il lungo corso della storia, solo in tempi a noi relativamente vicini si è iniziato a discutere circa l’abolizione di tale pena. La condanna a morte, dunque, fu a lungo considerata l’unico strumento mediante il quale venivano soddisfatti i bisogni di vendetta, di giustizia e di sicurezza della società nei confronti di uno dei suoi componenti. Andando a guardare all’antica Grecia, lo stesso Platone afferma nelle Leggi che i responsabili di omicidi volontari devono “necessariamente pagare la pena naturale cioè patire ciò che hanno fatto”. Platone inoltre sostiene che “la pena deve avere lo scopo di rendere migliore e se si dimostra che il delinquente è incurabile, la morte sarà per lui il minore dei mali.” Anche il cristianesimo ha avuto una sua influenza (molte volte ambivalente) in questo dibattito: l’opinione di San Tommaso è, per certi versi, illuminante. A suo parere, così come l’asportazione di un membro malato in molti casi permette al corpo di sopravvivere, se un uomo costituisce un pericolo per la comunità “è lodevole e salutare metterlo a morte per salvare il bene comune.” Abolizionisti vs antiabolizionisti È soltanto con l’illuminismo, però, che il dibattito sulla liceità, sulle condizioni e sulla possibilità della pena capitale maturò ampliandosi e arrivando a trattare e discutere anche il fondamento etico insito al dibattito stesso. La distinzione tra antiabolizionisti e abolizionisti dipende dalla concezione che si ha della funzione della pena di morte. Le teorie principali che vengono utilizzate nel dibattito sulla pena di morte sono essenzialmente due: quella retributiva e quella preventiva. Per la prima la funzione principale della pena è quella di contraccambiare il reato commesso (malum actionis) con una giusta pena (malum passionis). Per la teoria preventiva, invece, la funzione essenziale della pena è quella di scoraggiare le azioni che l’ordinamento considera nocive; la sua funzione è quindi dissuasiva e deterrente. Tali teorie sono de nite anche “concezione etica” e “concezione utilitaristica” della pena (vedi più in dettaglio, al 3.1, Le dottrine del diritto penale, diap. 3 sgg.). A giudicare dalla disputa pro e contro la pena di morte si direbbe che i fautori della pena di morte seguono una concezione etica della giustizia, mentre gli abolizionisti sono seguaci di una teoria utilitaristica. Per i primi “la pena di morte è giusta”; per i secondi “la pena di morte non è utile”. Quindi mentre per chi parte dalla teoria della retribuzione la pena di morte è un male necessario, per coloro che partono dalla teoria intimidatrice la pena di morte è un male non necessario e quindi non può essere in alcun modo considerata come un bene. L’utilitarismo degli abolizionisti La prima opera ad affrontare seriamente il problema e a offrire alcuni spunti per dare ad esso una soluzione, è il famoso libro Dei delitti e delle pene dell’abolizionista Beccaria (la posizione del quale viene messa a fuoco nel documento a questo correlato). Il filosofo di spicco dell’Utilitarismo, Jeremy Bentham, basandosi sulla concezione “la massima felicità per il maggior numero”, ritiene che le finalità di una pena debbano essere le seguenti: Impedire, per quanto possibile, tutti i reati; impedire il reato peggiore nel caso in cui il primo scopo non sia raggiunto; limitare il danno; agire con la minima spesa. Nel calcolo complessivo dei “pro” e dei “contro” rispetto alla pena capitale, il filosofo inglese giunge essenzialmente ad affermare che la pena di morte è inutile e dannosa (considerando anche la drammaticità dell’irreversibilità della pena specialmente nel caso della punizione di un innocente), ammettendola solo in casi davvero straordinari, quali “l’alto tradimento o la ribellione, l’incendio o l’omicidio di più persone”. Grazie al dibattito sulla pena di morte svoltosi durante il Settecento, fu emanata la prima legge penale in base alla quale fu abolita la pena di morte: la legge del Granducato di Toscana del 1786. Il libro di Beccaria ebbe un clamoroso successo nella Russia di Caterina II, nella cui celebre “Istruzione”, proposta nel 1765, si afferma come la pena di morte non abbia mai reso migliori le condizioni di alcuna nazione. I moderni fautori della pena capitale In senso opposto rispetto alla posizione di Cesare Beccaria si schierarono i due maggiori filosofi dell’età a cavallo fra ‘700 e ‘800: Kant e Hegel, sostenitori della teoria retributiva della pena e della doverosità della pena di morte. Immanuel Kant afferma che la pena non ha la funzione di prevenire i delitti bensì quella di rendere giustizia, ossia assicurare la perfetta corrispondenza tra reato e castigo. Friedrich Hegel sostiene inoltre che il delinquente, non solo deve essere punito con una pena corrispondente al delitto compiuto, ma egli ha il diritto di essere punirlo con la morte, perché solo la punizione lo può riscattare ed è solo con la punizione che egli viene riconosciuto come essere razionale. La bipolarità delle posizioni sulla pena capitale ha continuato a manifestarsi per tutto il diciannovesimo secolo, nel quadro di tematiche romantiche e positivistiche. Dunque, la sete di colonizzazione e il dilagante Imperialismo avevano causato e prodotto situazioni e trattamenti anche giuridicamente differenziati e discriminanti, secondo una logica che comportava il ricorso alla pena capitale nei confronti della maggioranza sottomessa. Per giustificare tale condizione si faceva ricorso (spesso impropriamente) alle teorie evoluzionistiche, specialmente a quella di C. Darwin. La nascita dell’ antropologia criminale e lo sviluppo della fisiognomica erano essenzialmente legati all’esigenza di preservare il corpo sociale da individui ritenuti dannosi: di conseguenza la condanna capitale, come rivelava Cesare Lombroso nel 1899, oltre “ad essere scritta nel libro della natura, sta nel libro della storia”. Negli stessi anni il filosofo F. Nietzsche aveva affrontato il problema assumendo una posizione volta a mostrare le contraddizioni della pena capitale manifestando una certa criticità nei confronti delle stesse modalità con cui un uomo veniva condannato e condotto a morte: “com’è che ogni esecuzione ci offende più di un omicidio? E’ la freddezza dei giudici, sono i meticolosi preparativi, è il sapere che un uomo viene usato come un mezzo per spaventarne altri. Giacché la colpa non viene punita, se anche ce ne fosse una: questa è negli educatori, nei genitori, nell’ambiente, in noi, non nell’omicida – intendendo le circostanze determinanti.” La posizione dei socialisti Sul versante abolizionista, fin dalla prima metà del secolo si era delineata, non sempre univoca su questo tema e comunque con differenti accenti, la polemica dei socialisti utopisti contro la violenza del potere: “La carcerazione e la pena di morte – afferma ad esempio Fourier – sono i mezzi estremi adottati da una società capovolta come la nostra”; “il carnefice è la pietra angolare delle nostre società poggiate su false basi”. Interessanti sono anche le posizioni assunte dal socialismo scientifico di Marx ed Engels, che aveva ripetutamente sottolineato la funzione di parte dello Stato come “organizzazione della classe possidente per proteggersi dalla classe non possidente sino a rilevare come lo stesso stato sia un assassino se “toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza, se li mette in condizioni nelle quali essi non possono vivere, se mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni finché non sopraggiunga la morte, che è la conseguenza inevitabile di tali condizioni”. Il dibattito sulla pena di morte (dibattito non mai completamente concluso ed esaurito in sé medesimo ma, al contrario, sempre vivo, attuale e dominante; dibattito che pur partendo da un “mondo” storico lontano è ancora presente alle soglie del terzo millennio) proseguì per tutto il XX secolo alimentato dagli eventi che sconvolsero specialmente il primo ‘900, tra cui le macabre pratiche punitive dei regimi totalitari.