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F. SOGLIANI, Vibo Valentia: il problema della continuità dell
VIBO VALENTIA: IL PROBLEMA DELLA CONTINUITÀ DELL’INSEDIAMENTO URBANO TRA TARDOANTICO E MEDIOEVO IN UNA CITTÀ DELLA CALABRIA CENTRO-MERIDIONALE Estremamente articolate sono le problematiche relative alla storia delle trasformazioni urbane attraverso i secoli e particolarmente complesse se riferite a quel particolare momento caratterizzato dal passaggio tra antichità e medioevo, in cui si sono verificati notevoli mutamenti culturali che hanno inciso profondamente sulla topografia delle città. L’indagine archeologica in ambito urbano può rispondere quindi a molti quesiti relativi ai grossi cambiamenti che la crisi della società antica ha prodotto nell’organizzazione dei centri urbani, dalle modalità e trasformazioni dell’aggregazione urbana, agli spostamenti dei centri abitati tra zone di pianura e postazioni arroccate, alla funzione e trasformazione delle cinte murarie e dei monumenti pubblici romani, nonché al loro riuso, all’ubicazione dei primitivi luoghi di culto e delle prime cattedrali ed inoltre può gettare più luce sui mutamenti istituzionali e culturali subiti dalle città in quei secoli, stabilire quindi il grado di ruralizzazione di un centro urbano o la sua funzione di centro di consumo aristocratico, come pure di centro economico specializzato e produttivo. Tutti questi aspetti appaiono come sostanzialmente relativi al problema più generale della continuità o meno dell’insediamento urbano tra età antica e medioevo, oggetto di un dibattito già in corso, i cui termini, precedentemente alle ricerche e agli apporti dell’ archeologia, oscillavano tra una continuità intesa come inalterata persistenza di strutture giuridiche e materiali all’interno della città e una continuità come persistenza della funzione peculiare della civitas rispetto al territorio rurale (1). In seguito, l’orizzonte di indagine si è ampliato e i diversi aspetti del problema sono stati sostanzialmente affrontati secondo due indirizzi di ricerca che sostengono l’uno la frattura, avvenuta durante i primi secoli dell’altomedioevo, della tradizione urbana in Italia (Hodges-Whitehouse 1983; Brogiolo 1984 e 1987), il secondo una continuità funzionale della città, esplicitata proprio dalle trasformazioni edilizie, particolarmente significative nei centri urbani in quei secoli (Ward-Perkins 1983; La Rocca Hudson 1986a e 1986b; La Rocca 1989; Wickham 1983 e 1988) (2). Pare opportuno suggerire in ogni caso, al di là delle pur ben motivate e documentate tesi sulla continuità o meno delle città italiane tra antichità e medioevo, l’importanza di indagini analitiche sulla evoluzione di ogni singolo centro urbano, nel rispetto delle sue caratteristiche peculiari, siano esse di tipo geografico, topografico, storico-culturale o politico, in molti casi più probanti rispetto all’utilizzo di tipologie standard o di astratti schemi prefissati. Per di più, è necessario tener conto che il dibattito sulle trasformazioni del fenomeno urbano ha riguardato soprattutto le città dell’Italia settentrionale e centrale, grazie alla notevole quantità di dati scaturiti da indagini archeologiche sistematiche su siti © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale urbani pluristratificati, mentre per le regioni meridionali sono solo da poco tempo disponibili, e non comunque su vasta scala, parametri archeologici tali da impostare una discussione approfondita sull’argomento. Tuttavia alcune considerazioni, a questo proposito, si rendono opportune: se difatti le dinamiche insediative urbane in età postclassica in Italia settentrionale hanno dovuto tener conto dell’imponente retaggio delle urbes romane, così un parallelo appropriato può riconoscersi nella rete di centri magnogreci, che costituirono il retroterra culturale degli insediamenti urbani nell’Italia meridionale. Proprio in tale prospettiva si è voluta collocare l’indagine sulla città di Vibo Valentia (Fig. 1), con l’intento di portare una nuova voce al dibattito summenzionato, fornendo un ulteriore contributo sulle trasformazioni del fenomeno urbano tra età classica e medioevo in Calabria (3). Il fenomeno più vistoso attraverso il quale genericamente vengono lette ed interpretate le trasformazioni dell’insediamento altomedievale in Calabria è quello dello spostamento dei centri abitati dalle fasce costiere alla zona collinare pedemontana, determinato da una forte migrazione della popolazione verso l’interno del territorio, che aveva trasformato “le fiorenti città greco-romane in vasti campi di rovine e cave di materiale” (Zinzi 1983, p. 91). Le cause di tale fenomeno sono state riconosciute nel mutamento della situazione agricola delle pianure, impaludatesi in seguito all’alterazione dei regimi fluviali e divenute quindi zone malariche, e nella situazione di insicurezza delle aree costiere determinata dalle incursioni longobarde prima ed in seguito arabe, che spingevano gli abitanti a risalire lungo le valli fluviali, verso siti naturalmente difesi (4). Genericamente attribuito all’altomedioevo, tale fenomeno è stato inoltre utilizzato come modello interpretativo per tutto il territorio calabrese, limite questo che, aggravato dalle lacune della storiografia precedente che poca attenzione ha dedicato al periodo cronologico in esame e alle problematiche ad esso connesse, ed ancor più dalla scarsità delle fonti scritte, ha determinato l’esigenza di una revisione degli studi e del metodo di indagine sull’argomento e soprattutto di una rilettura del fenomeno attraverso l’esame delle sue varianti cronologiche e regionali (5). Per comprendere le trasformazioni e le modalità dell’insediamento calabrese in età post-classica, è opportuno prendere le mosse dalla realtà insediativa urbana ed extraurbana dell’età imperiale. Le strutture di base dell’organizzazione romana nel territorio calabrese, erano costituite dalle città e dalle villae, collegate tra loro da un sistema viario che assicurava unità all’insieme. Il perno attorno al quale gravitavano tutte le comunicazioni era l’asse stradale che collegava Reggio a Capua aperto in seguito alla conquista romana, nella seconda metà del II sec. a.C., mentre le strade litorali risultavano cronologicamente più recenti (III sec. d.C.), anche se molto probabilmente dovevano insistere su assi di collegamento più antichi (6). Altre caratteristiche territoriali erano costituite dall’estrema accidentalità del territorio, molto montagnoso e frastagliato (elemento fortemente condizionante per il sistema di collegamento viario e per l’insediamento) e dalla scelta conseguente che privilegiava il trasporto marittimo per i collegamenti con il resto del Mediterraneo e con l’Italia, da cui deriva l’importanza dei porti per la regione (Reggio, Vibo, Crotone, Thurii) e degli scali minori, funzionali alla navigazione di piccolo cabotaggio, nonché l’utilizzo della rete fluviale per i collegamenti interni. © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Le città, in questo periodo, conservano tutte un carattere profondamente urbano, testimoniato dall’esistenza dei reticoli urbani ortogonali e dalle strade lastricate, anche se non risultano particolarmente estese. Tra le città rimaste importanti nel tardo impero, generalmente già colonie o municipi, sono da annoverare Reggio, sede del corrector nella tarda antichità, Vibo, Thurii, Crotone, Scolacium, Cosenza. Tutte occupavano una posizione strategica, di controllo sul territorio ed erano situate al centro di territori fertili, con i quali intrattenevano legami economico-commerciali molto articolati ed inoltre erano quasi tutte, ad eccezione di Cosenza, ubicate lungo le aree costiere. La forma stessa di queste città permane fino al V-VI secolo, senza subire grandi mutamenti e testimonia una continuità costruttiva, anche se, in alcuni casi, con finalità diverse (come, ad esempio, la trasformazione di un impianto monumentale pubblico del I sec. d.C., a Reggio, in strutture abitative ed artigianali più modeste, nel IV-V secolo e, in una fase ancora più tarda tra VI e VII secolo, in un impianto artigianale specializzato nella lavorazione del pesce) (Spadea 1991; Racheli 1991; Noyé 1994, pp. 704-705); inoltre il mantenimento del carattere urbano è spesso dovuto alla creazione dei vescovadi, già ben organizzati alla fine del V secolo (Noyé 1994, pp. 695-697). Occorre risalire a dei mutamenti a livello istituzionale dell’organizzazione urbana, verificatisi già dal II sec. d.C., per capire a fondo la dinamica della trasformazione delle forme insediative e ancor più dei rapporti esistenti tra centro urbano e territorio circostante tra tarda antichità e medioevo. Sin dalla fine del III secolo, si riscontra un calo di potere delle autorità locali a favore dei governatori imperiali, nonché l’apparizione del defensor civitatis, solitamente eletto al di fuori delle gerarchie locali e quindi proveniente da fuori. Di conseguenza mutano le condizioni politiche all’interno dei grandi centri urbani, anche in seguito alla situazione di precarietà determinata dagli eventi della guerra greco-gotica nella prima metà del V secolo. Tuttavia i gruppi dominanti risiedono ancora nei centri urbani, ma sembra solo in quelli che, grazie alla presenza o alla vicinanza di porti, mantengono la possibilità di scambi a lunga distanza, inoltre occupano in maniera consistente le ricche ville suburbane, controllando così il territorio. Nel V secolo si mantiene ancora un certo equilibrio tra città e campagna (Vibo, Thurii, Scolacium, Reggio), ma si verificano allo stesso tempo fenomeni nuovi, quali ad esempio l’allontanamento dalle città verso le residenze suburbane dei ceti aristocratici (7); la formazione di nuovi nuclei insediativi nel territorio, funzionali allo sfruttamento delle campagne e allo sviluppo artigianale (Tropea); la formazione di abitati sui fundi, vicino alle villae, determinata dalla presenza di chiese rurali, costruite dai possessores o dalle comunità di fedeli. In questo contesto, l’analisi relativa agli spostamenti dei centri abitati, non sempre del resto connessi all’abbandono definitivo, deve partire da una attenta valutazione di diversi fattori, raramente generalizzabili ed applicabili ovunque. I problemi concernenti la datazione di queste trasformazioni scaturiscono dal fatto che esse si realizzano in momenti diversi a seconda delle caratteristiche degli insediamenti ed in ogni caso occorre tener presente che si tratta di avvenimenti abbastanza lenti, dilazionati nel tempo. Inoltre la difficoltà interpretativa del fenomeno è determinata dalla compresenza di più fattori: innanzitutto il fattore geografico, è necessario infatti ricordare che la regione, pur avendo uno sviluppo costiero tra i più grandi d’Italia, si presenta in gran parte montagnosa, con © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale rilievi molto estesi, spesso a picco sul mare che determinano una conseguente esiguità di aree pianeggianti (se si escludono le uniche due grandi pianure retrostanti il Golfo di Lamezia e il Golfo di Gioia). Tale situazione è stata inoltre alterata nel tempo dalle frequenti modificazioni delle linee di costa e dal cambiamento dei numerosi corsi d’acqua che costituiscono la ricca rete idrografica della regione. Il fattore storico ha determinato un’alternanza di occupazione del suolo tra zone d’altura e zone pianeggianti, a seconda delle esigenze di maggiore o minore difesa degli insediamenti, conseguenti ai periodi di attività bellica o di relativa tranquillità, per cui risulta evidente come lo spostamento dei centri abitati costituisca, per la Calabria, un fenomeno ricorrente a fasi alterne, dal periodo dei primi insediamenti indigeni fino al medioevo. In ogni caso, sembra opportuno sottolineare, a questo proposito, come le preoccupazioni di ordine difensivo relative al periodo delle invasioni gote e longobarde, vadano in realtà ridimensionate, in quanto queste non provocarono nessun tipo di occupazione stabile, come del resto le invasioni musulmane. Il fattore economico, legato inscindibilmente ai due precedenti, è caratterizzato da fasi di sviluppo dell’attività commerciale legate allo sfruttamento del suolo, soprattutto in relazione ai centri che erano in grado di utilizzare a pieno effetto sia la viabilità stradale, che quella fluviale, o ancor più quella marittima (porti), e da fasi di contrazione, anch’esse ricorrenti, ma mai, a quanto sembra, da periodi di collasso generale. L’integrazione di questi diversi fattori, assieme ai dati desumibili dallo stato delle conoscenze attuali sulla realtà archeologica dei nuclei insediativi urbani ed extraurbani, hanno evidenziato una certa omogeneità di base sostanzialmente relativa ad una sopravvivenza dei centri calabresi magno-greci, per lo meno di quelli più importanti, attraverso il periodo romano, fino ad età tardoantica, con alcune diversificazioni, tuttavia, riguardanti soprattutto i modi e le caratteristiche di tale sopravvivenza (8). In ogni caso, se è esistito un fenomeno di depauperamento dei centri urbani dopo il VI secolo, esso non è stato certo improvviso, e tantomeno causato dalle invasioni, tutt’al più queste ultime possono avere accelerato un processo già in atto da tempo. Riassumendo, il tipo di occupazione che caratterizza il periodo tra il VII e il IX-X secolo, doveva corrispondere press’a poco: a) alle città di antica formazione, forse ridotte in estensione e caratterizzate da cambiamenti di tipo funzionale (sedi vescovili), affiancate da spazi coltivati; b) a villaggi di grandi dimensioni (Tauriana); c) a città fortificate (Squillace). Attorno il territorio doveva essere costituito da piccoli insediamenti a carattere abitativo, lungo le pianure litoranee e le valli fluviali e gravitanti attorno a qualche chiesa cimiteriale, con battistero (vd. l’esempio di Botricello, chiesa a tre navate, con battistero e necropoli (9) e altri rinvenimenti di sepolture aggregate, nelle vicinanze di villae rurali). Nello stesso periodo compaiono alcune caratteristiche che determineranno l’aspetto dell’habitat nei secoli seguenti, come ad esempio la fortificazione di alcuni centri che assumono la fisionomia del Kastron bizantino, vengono circondati da mura e si identificano come sede dei funzionari laici e religiosi e delle guarnigioni militari. Si tratta dei centri strategici bizantini che dovevano servire come base per i legami politico-amministrativi con l’Impero (vedi il caso di Squillace nel VI secolo e di Amantea nel VII). Parallelamente, tra IV e XI secolo, si verifica tuttavia un progressivo abbandono di © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale alcune città costiere antiche della Calabria (Thurii-Copia, Locri), secondo delle forme che differiscono notevolmente nel tempo e nello spazio, in funzione di diversi fattori; e comunque già nel VI secolo, poi, cominciano a manifestarsi fenomeni tipicamente medievali, quali la fortificazione e il rifugio verso centri d’altura, accentuandosi nel VII per poi generalizzarsi solo nei secoli seguenti; lo spostamento all’interno di alcuni insediamenti inizierà nell’VIII secolo e caratterizzerà tutto il IX e X secolo, mentre già nell’XI si verifica nuovamente un ritorno verso la costa (10). In questa prospettiva, molto articolata, la storia dell’insediamento urbano di Vibo Valentia (Fig. 2) sembra essere caratterizzata da una fisionomia ben definita. Molteplici sono risultate le potenzialità di indagine relative alla continuità insediativa del sito dal tardoantico al medioevo, e abbastanza soddisfacenti i dati acquisiti nel corso dell’indagine (11), per cui pare potersi attenuare, se non addirittura modificare, l’ipotesi di abbandono del sito urbano dopo la prima metà VII secolo d. C., che si sarebbe protratto fino alla sua rioccupazione in età sveva, altrove sostenuta in conformità con quanto generalmente ipotizzato per le altre città calabresi (12). Per quanto riguarda la topografia dell’insediamento urbano di Vibo Valentia, alla luce delle evidenze archeologiche finora censite, si può ritenere che mentre l’abitato greco si installò prevalentemente, pur con alcune eccezioni, nella parte alta della città, attuale centro storico, occupando solo in parte tutta l’area racchiusa dalle mura, che doveva comprendere quindi estesi spazi aperti, la città romana si attestò nella zona più pianeggiante, impostandosi secondo un impianto regolare, lungo quello che doveva essere l’asse stradale principale, proveniente dall’ingresso nord-orientale della città e corrispondente all’attuale strada S. Aloe (13). L’individuazione di alcune tracce del reticolo stradale romano (vedi ad esempio la coincidenza dell’orientamento delle strutture rinvenute nelle proprietà Soriano, Buccarelli, S. Aloe (14) con il quartiere meridionale della città, ubicato immediatamente al di sotto della cinta medievale) ancora leggibili nella planimetria odierna (Fig. 3), costituisce un elemento di grande interesse, in quanto indice di una continuità di vita urbana abbastanza intensa (15). Particolarmente significativa si rivela, a questo proposito, l’ubicazione di due tra i più antichi edifici religiosi di Vibo: la chiesa e il convento di S. Leoluca (chiesa cattedrale) e la chiesa del Rosario (già chiesa di S. Francesco) (Fig. 3, a, b), i quali sembrano rispettare lo schema ortogonale suddetto; inoltre, anche nel quartiere immediatamente sottostante alla cinta muraria di età angioina, è possibile riconoscere alcuni isolati e strade abbastanza regolari, in allineamento con la predetta strada di S. Aloe (Fig. 3, 1) e osservare la diversità planimetrica di questa parte della città, rispetto al borgo medievale sorto ai piedi del castello, caratterizzato da un sistema del tutto irregolare di vicoli e piccole strade a gradini (Fig. 3, 13). Questi elementi indirizzano la ricerca verso un’ipotesi di persistenza, in età tardoantica e altomedievale, della viabilità urbana di età romana, verificabile, per ora, sia attraverso la lettura filologica del sopravvissuto, e va ricordato a questo proposito come le sovrapposizioni architettoniche e i rimaneggiamenti della città post-medievale abbiano inciso profondamente sul tessuto urbanistico del centro storico, sia attraverso i pochi dati archeologici finora noti. Tenendo conto che la fase altomedievale di un insediamento risulta spesso di difficile individuazione e comprensione, sia per la scarsità delle © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale testimonianze strutturali conservate e per la qualità delle tecniche costruttive, sia per l’esiguità del dato materiale, pare opportuno sottolineare come l’analisi stratigrafica dei depositi in alcuni settori di scavo all’interno della città, abbia consentito l’acquisizione di qualche dato utile. In più casi si sono riconosciute le fasi di abbandono delle strutture romane (16): ad esempio il complesso termale di S. Aloe (Fig. 3, 1) sembra essere stato in funzione fino al III secolo d. C., come testimoniano i rinvenimenti ceramici, per venire riutilizzato, ma solo relativamente ad alcuni ambienti, nel V e VI secolo (17). Altri dati provengono da un sondaggio archeologico in via Terravecchia superiore (cantiere Buccarelli) (Fig. 3, 7) in cui, alla fase di abbandono delle strutture romane a carattere abitativo, datata alla metà del II secolo d. C., corrispondono dei crolli, nei quali risultano scavate due tombe, purtroppo senza corredo (18), ma che, dalla stratigrafia, potrebbero essere datate al periodo tardoantico; inoltre, sopra i crolli, è stato rinvenuto un muro in grosse pietre, che riprende l’orientamento delle preesistenti strutture romane. Purtroppo, per Vibo Valentia, non si hanno informazioni né di tipo archeologico né di carattere letterario o documentario, riguardanti l’ubicazione della cattedrale e questa mancanza costituisce una grave lacuna nella ricostruzione dell’organizzazione del centro tardoantico (19). Esistono tuttavia, anche se a livello di ipotesi, alcuni indizi che potrebbero far propendere per una continuità di tipo topografico tra il primitivo impianto cristiano e l’attuale cattedrale, costruita nel XVII secolo e ricostruita, dopo i danni del terremoto del 1783, nel XVIII (20): innanzitutto la continuità di frequentazione della zona di S. Aloe, adiacente all’area dell’attuale cattedrale, verso est, attestata dai rinvenimenti ceramici fino al V-VI secolo d.C., nonché la presunta riutilizzazione a scopi cultuali di parte delle strutture colà rinvenute, tra IV e V secolo; l’esistenza di un tronco di colonna, probabilmente relativa ad iconostasi, data la presenza di quattro fori laterali per l’inserimento di plutei o transenne e di un capitello bizantino, rinvenuti durante uno scavo dietro l’abside del Duomo (21) ed infine la menzione, nella letteratura locale, di una chiesetta “basiliana”, intitolata a S. Maria Maggiore, intitolazione canonica per la sede cattedrale, con annesso monastero, costruita, secondo il Bisogni, da un discepolo di S. Basilio, forse agli inizi del V secolo (22). In questa chiesa, ubicata nella stessa zona dell’attuale cattedrale, sarebbe stato sepolto in seguito il corpo di S. Leoluca da Corleone (815-915 o 917) protettore di Vibo Valentia (23); nella Vita del Santo (24), è descritta la sua permanenza presso Monteleone, forse nel monastero di Vena, negli ultimi anni della sua vita “in Calabriam ad Monasterium prope Montileonis urbem situm, Spiritu Sancto ducente, se contulit” e il trasferimento, post-mortem, del suo corpo nella chiesa di S. Maria Maggiore nella vicina Monteleone “ove prima era stata la sua cella”. Questa chiesa, dopo la traslazione del corpo del Santo intitolata anche a S. Leoluca, dovette rimanere in uso, come chiesa Matrice, fino all’età angioina (25) quando, in seguito alla costruzione della cinta muraria che racchiudeva la parte alta della città, venne a trovarsi distante dalla zona più densamente abitata e protetta dalle mura, per cui la funzione di cattedrale venne assunta dalla chiesa di S. Pietro e, dal XV secolo, da quella di S. Michele, entrambe ubicate vicino alle mura. Molti sono però i quesiti ancora irrisolti su altri possibili aspetti topografici dell’insediamento urbano, quali ad esempio l’individuazione del tessuto abitativo residenziale e dell’edilizia pubblica a carattere rappresentativo, o ancora l’ubicazione © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale delle fondazioni religiose, che pur dovevano esistere, data la presenza a Vibo della sede vescovile, nonché delle aree adibite alla vita produttiva, commerciale e artigianale della città tardoantica e medievale. La complessità di queste problematiche è accentuata inoltre dalla discrepanza, relativamente al problema della continuità tra città antica e insediamento post-classico, tra le fonti documentarie e le testimonianze di cultura materiale provenienti dal centro urbano; in effetti lo studio della ceramica documenta l’esistenza di materiali dal IV fino agli inizi del VII secolo per riprendere poi nell’XI (26), tanto da far pensare ad uno iato nella storia dell’insediamento. Sembra significativo però, a questo proposito, come la documentazione ceramica seriore provenga dagli stessi siti che avevano restituito i materiali datati fino al VI-VII secolo. Di segno contrario sono invece le informazioni desumibili dalle fonti documentarie, in particolare quelle di tipo ecclesiastico, che sembrano coprire, senza soluzione di continuità, un arco cronologico che va dal V secolo d. C. all’XI (27). La prima fonte di tipo cartografico sull’impianto urbano di Vibo Valentia è purtroppo abbastanza tarda, ma non per questo meno interessante: si tratta della mappa del Bisogni, allegata alla sua monografia sulla città del 1710, la quale illustra la situazione topografica agli inizi del XVIII secolo (Fig. 4). La lettura di questa mappa, condotta tramite un confronto parallelo con alcune piante più tarde, redatte rispettivamente nel 1819, 1832 (Fig. 5), 1870 e con le recenti carte catastali, è risultata di particolare interesse. La città vi è rappresentata organizzata in un’area di altura, sviluppatasi a ventaglio ai piedi del castello e racchiusa da una cinta muraria, con una planimetria tipica del borgo medievale, caratterizzata da un sistema del tutto irregolare di vicoli e piccole strade a gradini, denominata Borgo Nuovo e in un’area più pianeggiante, che segue il declivio del colle, caratterizzata da un impianto regolare, che sembra rispettare l’andamento della planimetria di età romana, ed in cui sono ben identificabili la via S. Aloe e le chiese di S. Leoluca (cattedrale) e del Rosario. Da notare come nella pianta ricorra il toponimo Terravecchia ad indicare il quartiere nella parte bassa della città, corrispondente all’antica Vibo romana, mentre viene usata la denominazione Borgo Nuovo per la zona entro le mura, ai piedi del castello normanno-svevo. Tale organizzazione urbana sembra riflettere a grandi linee l’aspetto della città nel medioevo, per lo meno dai secc. XI-XII in poi (per i secoli precedenti purtroppo le ipotesi sono più difficili), quando i nuclei urbani antichi (contrada Terravecchia – S. Aloe) vennero probabilmente rivitalizzati mediante la loro utilizzazione come aree abitative e ortive (nel senso di ambienti attestati lungo i lati dell’antico isolato romano, il cui interno rimaneva libero o adibito ad orto: situazione peraltro ancora leggibile nella pianta settecentesca del Bisogni), fino ad arrivare al XIII secolo, in cui si delineano due aree ben precise, distinte tra loro: il Borgo Nuovo, dominato dal castello e definito da una cinta muraria, con funzionalità difensive e rappresentative e il borgo vecchio, o Terravecchia, adibito a zona abitativa e artigianale. In età angioina, si assisterà poi ad una riorganizzazione del centro urbano, anche in rapporto al territorio, che sembra riacquistare pienamente le sue potenzialità economiche, assieme al ripristino delle attività terziarie di scambio e di mercato, circostanza peraltro ormai ben testimoniata dall’incremento dei dati quantitativi concernenti i rinvenimenti ceramici databili tra XIII e XIV secolo. © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Dalle testimonianze documentarie, archeologiche e topografiche finora reperite, si evince la fisionomia di una città che, in particolar modo per le sue caratteristiche geografiche, continuò a mantenere un ruolo egemone rispetto al territorio circostante, anche in età tardoantica e altomedievale, evidente, tra l’altro, nella persistenza dell’attività commerciale ed economica connessa all’esistenza del porto, rimasto in uso fino al medioevo, e ad una efficiente rete idrica superficiale (28). L’esistenza della sede vescovile, attestata senza soluzione di continuità fino alla fine dell’XI secolo, costituisce un ulteriore momento di verifica, soprattutto se letta attraverso l’attività del vescovado vibonese, particolarmente articolata ed importante, difatti il vescovo di Vibo sembra essere uno degli interlocutori privilegiati del Papa nel Bruttium (a lui viene assegnata la cura del vescovado di Nicotera e il compito di visitare le sedi di Tauriana, Thurii e Cosenza). All’obiezione se alla menzione del vescovo dovesse necessariamente corrispondere l’esistenza della sede vescovile, e del relativo centro urbano, sembra difficile rispondere altrimenti, se non sostenendo l’ubicazione della sede in un sito con delle caratteristiche urbane già ben definite fin dall’età classica (di cui restano peraltro sicure testimonianze) ed inoltre caratterizzato da una naturale posizione strategica e di controllo sul territorio. È stata inoltre avanzata l’ipotesi di un prevalere, nell’altomedioevo e per lo meno fino alla rioccupazione di Vibo Valentia in età sveva, della zona costiera collegata al porto, in virtù della alternanza, nelle fonti ecclesiastiche tarde, del nome Vibona/Bivona – toponimo, quest’ultimo, ancora esistente ad indicare una località vicino alla costa – e quindi del presunto spostamento della sede vescovile dalla città alta, ormai abbandonata, al sito costiero di Bivona; tuttavia, di questo non esiste nessuna documentazione, ed inoltre l’alternanza della menzione di Vibona/Vivona/Bivona/Bibona si riscontra già nelle fonti topografiche di età imperiale e tardoantica (29). Se si considera poi la maggiore insicurezza delle zone costiere nei secoli VI-X, segnati dalle vicende della guerra greco-gotica, dalle scorrerie longobarde e poi dall’invasione musulmana, risulta ancor più verisimile l’utilizzazione a carattere insediativo di una zona d’altura, già di per sé ben difesa. Certo la carenza, o addirittura la totale assenza, di dati archeologici, sia di tipo strutturale che materiale, per i secoli VIII-IX e X depone a sfavore dell’ipotesi di sopravvivenza del centro urbano, soprattutto perché impedisce un confronto integrato con le altre fonti che si sono rese disponibili durante l’indagine, e che paiono di segno contrario. Ma si è già avuto modo di osservare come la conoscenza della ceramica altomedievale, soprattutto per Vibo Valentia, sia soggetta ad ulteriori approfondimenti ed inoltre come i contesti di scavo siano per ora molto pochi e a volte di difficile lettura. Sicuramente le caratteristiche della città classica subiscono, in questo periodo, dei mutamenti notevoli, di tipo funzionale e strutturale, così come demografico e politico, che portano, molto probabilmente ad una grossa contrazione dell’abitato così come a dei profondi cambiamenti nella vita associativa del centro urbano. La situazione si presenta più chiaramente interpretabile a partire dall’occupazione normanna del sito, testimoniata dal primitivo nucleo fortificato dell’altura che domina la città, così come da fonti documentarie e narrative e dall’età sveva in poi, quando riprendono in notevole quantità le attestazioni di materiale ceramico provenienti da © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale contesti urbani e la città, con il nuovo nome di Monteleone, recupera appieno la sua vocazione urbana, per diventare uno dei centri più grossi e più rappresentativi della regione. Una considerazione, infine, va fatta sul termine stesso di città, osservando come esso conservi due ordini di valenze in connessione tra loro, anche se a volte non precisamente interdipendenti e cioè l’aspetto politico-amministrativo e quello economicodemografico. Lo sforzo di indagare e riconoscere i livelli di integrazione tra i due aspetti attraverso i periodi cronologici considerati potrà portare, proseguendo l’indagine, tramite l’analisi e il confronto delle fonti scritte e documentarie e dei dati archeologici, all’identificazione delle funzionalità specifiche del centro urbano, in senso diacronico e, allo stesso tempo in senso spaziale, cioè in riferimento ai rapporti economico-territoriali della regione. Francesca Sogliani Bibliografia F. Albanese, 1975, Vibo Valentia nella sua storia, Vibo Valentia 1975 (2 ed.). Alto Medioevo = La Storia dell’Alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia, Atti del Convegno Internazionale (Siena, 2-6 dicembre 1992), a cura di R. Francovich e G. Noyé, Firenze 1994. E.A. Arslan ,1971, Recenti scavi a Botricello e Roccelletta (Catanzaro), in Atti del II Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Matera, Venosa, Melfi, Massafra, Taranto, Canosa, Foggia 1969), Roma, pp. 107-125. E.A. 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(3) Uno studio approfondito sulla fisionomia archeologico-topografica della città di Vibo Valentia è stato oggetto della mia Tesi di Dottorato in Archeologia tardoantica e medioevale (Università degli Studi di Bologna), dal titolo: Dal tardoantico al medioevo in Calabria. Indagine storico-archeologica su alcune aree campione: Vibo Valentia e il suo territorio; sull’argomento cf. inoltre F. Sogliani, Per la storia di Vibo Valentia dal tardoantico al medioevo, in L’Italia meridionale fra Goti e Longobardi, XXXVII Corso di Cultura sull’Arte Ravennate e Bizantina, Ravenna 1990, pp. 453-478; Ead., Vibo Valentia e il suo territorio; testimonianze di eruditi e viaggiatori, “Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti in Napoli”, LXII (1991-1992), 1994, pp. 561-610. Pare opportuno sottolineare, in questa sede, come l’attenzione al periodo tardoantico, altomedievale e medievale in Calabria sia un fenomeno molto recente, poiché fino a pochi anni fa le indagini archeologiche condotte dagli organismi istituzionali, Soprintendenza archeologica e Università, nonché da organismi di ricerca stranieri, hanno riguardato prevalentemente siti e contesti di età preistorica, protostorica e, soprattutto, greco-romana. Nella regione si registrava quindi un’estrema esiguità numerica di scavi archeologici medievali e, di conseguenza, la relativa mancanza di dati concernenti la cultura materiale, l’evidenza topografica e architettonica (intesa, quest’ultima, nel senso di studio delle tecniche e delle modalità costruttive, dei materiali, delle caratteristiche funzionali) cui fare riferimento per queste epoche. Tuttavia, tra gli anni ’70 e ’80 si realizzarono le prime indagini archeologiche di alcuni siti, condotte e pubblicate con un’attenzione, in qualche caso specifica, alle fasi di occupazione tardoantica, altomedievale e medievale, mi riferisco agli scavi di Botricello (Arslan 1971, pp. 107-125; Arslan 1974-1975, coll. 597-606), Locri (Lattanzi 1981, p. 162; Lattanzi 1983, p. 125; Lattanzi 1984, pp. 569-570), Scribla (Noyé-Flambard 1977, pp. 227-246; Flambard 1981, pp. 527-548), Scolacium (Bougard-Noyé 1986, pp. 1195-1212; Bougard 1988, pp. 511520; Skylletion) e Castelmonardo (Maestri-De Luca 1978). Ma occorre arrivare al dicembre del 1989 perché si svolga il primo Seminario sulla Calabria tardoantica, organizzato dalla Soprintendenza Archeologica della Calabria in collaborazione con l’École Française di Roma, particolarmente importante in quanto, per la prima volta, sono stati presentati i materiali relativi a contesti di scavo dal IV al VII secolo della regione (cf. La Calabre). Quest’incontro ha dato l’impulso per il proseguimento delle ricerche e per l’approfondimento dell’impegno scientifico in tale direzione. Recentissimi, e ancora in via di pubblicazione, sono due interventi nel retroterra della costa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, si tratta dello scavo dell’insediamento monastico bizantino-normanno di S. Giovanni Theresti a Bivongi, poco distante da Stilo e del rilevamento delle strutture di età normanna sottostanti la chiesa matrice di Stilo, (per la notizia cf. Sogliani 1991b, p. 675; D’andrea-Sogliani 1991, pp. 674-675; Iannelli 1994); ulteriori indagini in questo settore si stanno realizzando nella bizantina Gerace (Di Gangi 1991; Id., 1993), a Tropea (Sabbione 1994), presso l’abbazia benedettina di S. Eufemia, a Lamezia Terme (CZ) (Di Gangi 1994; Ruga © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 1994) e in numerosi altri siti calabresi (cf. la sezione Schede 1993-1994. Calabria, “Archeologia Medievale”, XXI, 1994, pp. 401-461). Da segnalare, inoltre, le indagini archeologiche realizzate dalla stessa Soprintendenza nell’area istmica catanzarese (zona di particolare rilievo, poiché già alla fine del VII secolo vi si stabilì la frontiera tra i territori longobardi e bizantini) relative a contesti altomedievali e medievali, presentate in un recente Seminario (febbraio 1992) presso l’École Française di Roma, i cui Atti sono in via di pubblicazione. Una sintesi regionale delle conoscenze attuali relative alle evidenze archeologiche altomedievali calabresi è in F. Cuteri, La Calabria nell’Alto Medioevo (VI-X sec.), in Alto Medioevo, pp. 339-359, mentre una rassegna aggiornata sulle testimonianze ceramiche di età altomedievale e medievale provenienti sia da ricognizioni sul campo che da scavi archeologici, riguardante in particolare la Calabria centro meridionale, è in G. Di Gangi, C. M. Lebole Di Gangi, F. Sogliani, Early medieval and medieval pottery in central and southern Calabria. Conclusive notes and research perspectives, in AA.VV., Proceedings of 8th CIMTEC. World Ceramics Congress, Symposium B: “The Ceramics Heritages”, (Firenze 1994), Firenze 1995. (4) Arslan 1981, pp. 47-52 (p. 49: “Una serie di indizi ci convince ad individuare in questo periodo, tra l’inizio e la metà dell’VIII secolo, il momento in cui viene capovolto radicalmente lo schema poleografico calabrese, che da struttura attestata sulla linea di costa marittima diviene struttura organizzata su centri di monte autarchici, con collegamenti quasi esclusivamente interni, per sentieri”), ma cf. un ridimensionamento di tale posizione in Arslan 1990. (5) Noyé 1988, pp. 57-138; Arslan 1990, pp. 59-92. (6) Givigliano 1986, pp. 68-75. (7) Nell’anno 527 Atalarico lamenta l’abbandono delle città di Lucania-Bruzio (Cassiodoro, Variae, VII, 31). (8) Per un’analisi della realtà insediativa tardoantica e altomedievale dei centri calabresi, cf. Noyé 1988, pp. 57-138 e, da ultimo, Noyé 1994. (9) Arslan 1974-75, coll. 597-606. (10) Un panorama più vasto, esteso a tutto il meridione, sulla realtà insediativa altomedievale e sulle relazioni tra insediamento urbano e rurale è in J. M. Martin, Città e campagna: economia e società (sec. VII-XIII), in Storia del Mezzogiorno, III, Alto Medioevo, Napoli 1990, pp. 258-382, in part. pp. 259-281. (11) Sogliani 1991a. (12) Arslan 1981, pp. 47-52; Noyé 1988, pp. 118-120. (13) Iannelli-Givigliano 1989, pp. 677-681. (14) Sangineto 1984, pp. 17-26; Id. 1989, pp. 833-843; Sogliani 1991a, pp. 168-174; 181-183. (15) Tale circostanza costituisce una delle caratteristiche peculiari di molte città italiane (Pavia, Piacenza, Verona, Albenga, Lucca, ecc.); cf. Topografia urbana e vita cittadina nell’altomedioevo in Occidente, XXI Settimana di Studi sull’Altomedioevo, Spoleto 1974, essa è stata pertanto utilizzata come prova della continuità di frequentazione dello spazio urbano in età altomedievale e medievale, anche se, più di recente, si è cercato di ridimensionarne il significato. In realtà, si è notato come in alcuni siti il reticolo ortogonale romano si fosse conservato, anche solo parzialmente, nelle aree urbane abbandonate e destinate ad un progressivo degrado (Ward Perkins 1988; Delogu, La fine, cit.). (16) Per il problema della datazione dell’abbandono degli edifici pubblici romani, cf. Ward Perkins 1978, pp. 33-46. (17) Parte di questo impianto termale sarebbe stato trasformato, nel IV-V secolo d. C., in basilica paleocristiana, ma, purtroppo, la notizia è priva di documentazione (Guzzo 1986, p. 536). (18) Sangineto 1989, p. 839. (19) Maggiori informazioni su questo argomento contribuirebbero ad arricchire le problematiche, quanto mai attuali, dell’origine dell’insediamento cristiano nell’ambito della complessità dello sviluppo urbanistico della città tardoantica e altomedievale. Alla primitiva ubicazione della chiesa cattedrale nelle città europee, è stato dedicato il penultimo congresso Internazionale di Archeologia Cristiana; cf. Actes du XI Congrés International d’Archéologie Chrétienne, Lyon, Vienne, Grenoble, Genéve et Aoste (21-28 septembre 1986), Città del Vaticano 1989. © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale (20) Albanese 1975, II, pp. 366-374. (21) Così si trova scritto, ma la notizia non è purtroppo verificabile in nessun documento, sulla didascalia nel Museo Valentianum del Duomo, dove la colonna è conservata; di essa parla anche l’Albanese, ricordandola nella sua precedente collocazione, incastonata nel muro laterale esterno nord-est della cattedrale (Albanese 1975, I, p. 213). (22) Bisogni 1710, pp. 138-139. G. Bisogni de’ Gatti, illustre nobile cittadino, è autore di un’opera monografica sulla città di Vibo Valentia, pubblicata nel 1710; cf. Sogliani, Vibo Valentia, cit. , pp. 572577. (23) Capialbi 1843. L’A. sostiene che fu l’unica chiesa che sopravvisse agli attacchi degli Arabi, assieme al suo cimitero, che ospitava il corpo del Santo (pp. 21-27: “Le antecedenti Saraceniche incursioni ne’ secoli IX, X e XI col distruggere il paese atterrarono i sacri tempi, onde gli abitanti scampati dalle mani di quelle orde devastatrici furon costretti di attendere a’ divini uffici nell’unica chiesa dell’antico monistero Basiliano titolata di S. Maria Maggiore, altrimenti detta La Grande, che sola era rimasta, o si era rifabbricata da’ monaci, e nel recinto del cui cimitero narra costante tradizione esser serbato il prezioso deposito del glorioso S. Leone Luca, o come comunemente si appella S. Leone Luca Abate Basiliano protettor potentissimo di Montelione”). Sul conte Vito Capialbi (1790-1835), insigne figura di studioso vibonese, cf. Sogliani, Vibo Valentia, cit., pp. 578-580. (24) La Vita è conservata solo in traduzione latina, BHL (Bibliotheca Hagiografica Latina antiquae et mediae aetatis, ediderunt socii Bollandiani, Bruxelles 1898-1901), 4842; testo in Acta SS. martii, I, Antverpiae 1658, pp. 98-102. Cf. inoltre Da Costa-Louillet 1959-1960, pp 110-113. (25) L’esistenza di un monastero a Monteleone, intitolato a S. Maria e a S. Leoluca, si ritrova in un Breve di Onorio III, dell’anno 1221, diretto al vescovo di Crotone e all’Abate di Montecassino, nel quale vi è un elenco dei monasteri da visitare: “Episcopo Crotonensi et Abbati S. Mariae de Cryptaferrata. Ut Graecorum monasteria O. S. Basilii in Terra Laboris, Apulia et Calabria consistentia, visitent et reforment..”; cf. Russo 1974, n. 670. (26) Sogliani 1991a, pp. 203-224. (27) Sogliani, Per la storia, cit., pp. 464-470. (28) La continuità funzionale del porto in età altomedievale era strettamente connessa allo sfruttamento delle foreste silane, come risulta evidente da fonti documentarie di VI, VII e VIII secolo; su questo argomento cf. Sogliani, Per la storia, cit. pp. 456-461. (29) Sogliani 1991a, pp. 10-14. Fig. 1 – Posizionamento della città di Vibo Valentia nel contesto regionale. Fig. 5 – Pianta topografica della città di Monteleone/Vibo Valentia (da Capialbi 1832). © 1995 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale