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Giose Rimanelli
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UN FUTURO CHIAMATO RITORNO
Per G. B. Faralli
Per la teologia cristiana, poi, la vita medesima è un esilio. Il polacco
Joseph Wittlin osservò che nel "Salve Regina" infatti la parola esilio
appare ben due volte, prima con riferimento all'intera umanità, —
exules filii Haevae — e poi per qualificare l'esistenza sulla terra come
Exilium. Solo che, bisogna osservare, si è esiliati da un paese, un
luogo, in cui non si è mai stati [...] più paradossale del mito, per il
pensiero religioso cristiano è solo all'arrivo, alla morte, che si ritorna!
(P. Carravetta, Viaggio)
1. Maria Chapdelaine e Bertoldo — La regione dove son nato è grande
quanto un fazzoletto, questo è nascosto nelle tasche dell'Appennino
Centro-Meridionale. Si chiama Molise. In esso vi sono minuscoli ricami
fatti a tombolo che i geografi hanno denominato paesi, e uno di questi
è Casacalenda, la mia culla, situato su di una montagnola a 600 e più
metri sul livello del mare. Il mare dove sta Termoli, l'unica porta verso
il mondo dell'acqua — l'Africa, il Medio Oriente e le Colonne d'Ercole
— e a 42 chilometri di distanza dal capoluogo di provincia,
Campobasso.
Per via terra bisogna arrivare a questa bianca cittadina,
Campobasso, per aver già un cert'assaggio della vita al di là dei monti
— il favoloso Nord che immette nell'Europa — quindi entrare nella sua
seconda provincia, con Isernia capoluogo, e di là scavalcare le ultime
montagne, il Matese e le Mainarde.
Basta appena uscire dalla grotta dei manichini, quella platonica ο
vichiana, che ha inizio il viaggio.
Non sai ancora cosa vorrà ο verrà a significare per te, ma non
tarderai a capirlo. Sai solo, per ora, che vuoi uscire dalla topografìa
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confinaria di Corso/Piazza/Chiesa e cercar di vedere cosa c'è dietro il
sipario delle montagne. Il fascino del teatro è appunto quell'apertura di
sipario, perché sei curioso e ansioso della rappresentazione.
Sei curioso e ansioso, hai le orecchie tese e gli occhi aperti perché
il nuovo è rischio, è spavento. Ma questo già lo sai, ο lo prevedi,
inconsciamente, e l'hai accettato. Altrimenti perché andare al teatro?
Intanto nelle orecchie senti, risenti anche quella sciocchezzuola di
ammonimento/proverbio sempre in bocca ai carrettieri del sale, i filosofi
ambulanti dei paesi, che ti fa arrossire, che vorrebbe prenderti in giro
ο scalfire, improvvisamente e farti ricordare la noia, la non esistenza:
"Cumbà, se nèn riseche nèn rùseche," se non rischi non rosichi.
Bene. Quindi ora sai che la strada che vuoi percorrere è il rischio,
vale a dire ciò che non sai: e l'esempio più chiaro è quell'allucinante
foglio bianco che vuoi riempire. Forse, pensi, s'impara qualcosa proprio
camminando, scrivendo, chissà? Non tutto, certo, che non ce la fai poi
a sopportare tutto, comunque qualcosa s'impara.
"Col travaglio."
Mio padre così diceva: "Col travaglio."
Oggi che scrivo solo quella sua voce mi rivive nella mente. E lo
rivedo in quella fotografia che scattai, a lui e a mamma, all'imbarco a
Napoli subito dopo la guerra: la seconda guerra mondiale.
Accompagnai mio padre a Napoli quando s'imbarcò con mamma,
e sul ponte di quella nave — lui e lei dentro, appoggiati al parapetto del
primo ponte che rasentava la banchina, ed io fuori, sulla banchina — e
su quella nave gli feci quell'ultima fotografia ricordo come per salvare,
di loro, almeno l'addio. Lui aveva la fronte imperlata, ed io sapevo
cos'era: all'uomo di terra, il contadino in specie, l'acqua — il mare, fa
terrore. Lei sorrideva, invece, un po' mesta. Lei era Maria Chapdelaine,
così la chiamavo. L'eroina Québécois. E lui Bertoldo, the smart ass,
che se gli dai da scegliere l'albero da cui pendere dice che non c'è; tra
tanti alberi che ci sono, il suo manca, e lui vuol pendere "solo" dal suo.
Ma lui, ora forzato dalla moglie, partiva per trovarselo, ο ammirarselo,
ο comprarselo, chissà! E lei partiva per tornare, per lasciare
definitivamente l'esilio, il Molise, per tornare dov'era nata, a Montréal,
Canada. Per lei infatti quella nave si chiamava ritorno, mentre per lui
quella nave si chiamava destino.
Ed è così che ora li ricordo quei due, i miei genitori, per sempre
fermi in quella fotografìa.
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Un futuro chiamato ritorno
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2. Il "Viaggio" di Carravetta — L'emigrazione è un dolore: è come
morire e nascere di nuovo. E Peter Carravetta ne spiega tutti gli aspetti
nel suo fascinoso e dotto libro, Viaggio,
con il quale riassume
nell'emigrante il concetto del viaggiatore archetipo.
Le parole più sopra citate, e da me poste in corsivo: esilio, ritorno,
destino, un tempo erano più che altro usate e abusate negli scritti di
profughi, esuli, espatriati, ma in un mondo di postmodernità come
questo nostro, secondo il Carravetta, il termine "viaggio/viaggiatore" che
pur ispira quelle parole non può che essere riassunto nel concetto di
emigrante, di viaggiatore archetipo, poiché "quello che permane a
tutt'oggi dell'esilio di Ulisse è la necessità, da parte del viaggiatore, di
aguzzare il proprio ingegno, di badare all'immediatezza della propria
prassi, e di sviluppare una visione stereoscopica per cui il paese di
origine viene sempre visto in controluce, mentre quello attuale si legge
attraverso il filtro della luce originante: egli è sempre 'di là'."
Ma quelle tre parole, sia pure logorate dall'uso politico e religioso,
appaiono sempre nuove e quindi valide in determinate situazioni in
quanto necessarie, e per ciò ricorrenti, nella struttura stessa del
linguaggio del periplo, del viaggio. Come il mito che accade/riaccade,
esse si rincorrono e si ripetono e ad ognuno che le scopre parlano un
linguaggio diverso: sono prismatiche, sfaccettate, mentre il
viaggiatore/emigrante — che implicitamente dà un volto, un significato
a quelle parole, anche se non le genera — ci appare subito eterno,
biblico con la sua speranza e la sua paura. In fondo è proprio lui
l'Incipit dantesco, gigantesco di quel mondo che va a scoprire,
conoscere, quindi rivelare col suo lavoro/tremore e interpretarlo, farsi
Hermes, l'ermeneutico, in quanto il globo, composto di cielo/acqua/terra
contiene il soprannaturale.
Peter Carravetta addirittura ritiene, e noi con gratitudine
concordiamo, che la nozione di emigrazione "vada ripensanta come
costitutiva dell'ontologia antropologica fondamentale dell'uomo, ossia
come una sua propensione ο caratteristica 'naturale' e 'originaria' alla
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pari della religione, la sepoltura, e il matrimonio."
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3. Mnemosine — Il viaggio è imparare per seminare, raccogliere,
trascendere. E questo spesso nasce dal dubbio, che è un'altra forma di
curiosità; dalla mente che assorbe per osmosi la favola che vive
nell'aria, un po' come l'ombrello che ti ripara ma ti fa sentire la
pioggia. Il dubbio è fragilità, incertezza di se stessi, del proprio terreno,
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per questo si cercano le prove; e queste vengono fornite dall'azione,
cioè dalla pratica, la coerenza e il coraggio. Ma prima che ragioni, cioè
pratichi, la mente vede (noi diciamo questo del cuore, il "cuore che
sente"), e il vedere significa ricordare.
Ricordare che? se non si conosce?
È Mnemòsine, la dea della memoria (Mnème), madre delle nove
Muse, che nell'antichità veniva onorata con libagioni di acqua, latte e
miele, che ci prende per mano e misteriosamente fa conoscere Callìope,
Clìo, Polìnia, Eutèrpe, Tersicore, Erato, Melpòmene, Talía, Urània — ci
mette a contatto cioè con la poesia epica, la lirica e l'eloquenza, la
storia, gli inni sacri ed eroici, la poesia melica ed il suono del flauto, la
danza e il canto corale, la poesia amorosa, la mimica e la geometria, la
tragedia, la commedia, la poesia giocosa e quella pastorale, la poesia
astronomica e quella didascalica.
Tutto questo è la memoria, cioè la mente. E il viaggio inizia sempre
da lí, dal giorno della nascita.
Quand'ero ragazzo salivo sulla più alta montagna del mio paese per
vedere il mare da una parte e cumoli di altre montagne dall'altra dietro
le quali, immaginavo, c'erano altre cose, altre strade, un nuovo
misterioso mondo. E c o s í per me pure ebbe inizio il viaggio, prima con
la mente, come ho detto, dal paese alla provincia alla regione; poi al
mondo al di là della montagna e al di là del mare, proiettato verso un
futuro che, fortunatamente però, si portava dietro le stigmate del luogo
di partenza: la memoria, appunto, ciò che evoca il passato e te lo fa
rivivere gettando un ponte tra il mondo dei vivi e quello delle ombre;
quello cioè che gli antichi desiguarono col nome di Mnème, la
rischiaratrice del buio, colei che decifra l'invisibile e si fa sorgente
d'immortalità.
Nel mio mondo bambino, nel quale la visione, il mito, s'incarnava
ad ogni angolo di strada tramite una striscia d'ombra, un raggio di luce,
una gobba di collina, un richiamo dai cespugli, io cercavo di esprimermi
con il linguaggio dei classici scoperti in soffitta, in atteggiamento di
preghiera. Cosiché le strade diventavano la strada, la quale era lucida
come una spina di cardo sotto un cielo assorto, di pervinca; le parole
venivano dalle forre; le tumide mimose ingemmavano le solitudini (non
la solitudine) dei crinali, delle isolate torri e degli sguardi di pietra
congelati nei bassorilievi di antiche cattedrali.
Di nascosto scrivevo che
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i radi ulivi con la chioma a palla proteggono il sonno ai tordi di
passaggio, e i colli arrotondati di mistero, mai aspri e mai del tutto
familiari, preservano un'innodica europea medievale introdotta da noi
nei primissimi anni del secolo VIII dai fratelli Paldo, Tato e Taso,
allegri spiriti di industriali di Dio che fondarono in finibus Samnie,
alle sorgenti del Volturno, il monastero di San Vincenzo, crogiuolo
di preghiere e recipiente delle ultime voci poetiche dei regni Romanobarbarici, e delle prime scholae dell'età carolina (sec. VIII-XI), già
create in sintesi qualche tempo prima da Boezio e Cassiodoro.
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Cominciò allora, credo, ciò che ora definisco il "fascino di
rappresentarsi," quella diretta ο indiretta autobiografia che si avverte in
quasi tutti i miei scritti, romanzi, cronache, viaggi e conferenze (e la
poesia naturalmente), ciò che (anche genericamente parlando) si
identifica anche con etnicità e etnografia in quanto l'autobiografia opera
un po' come l'etnografo che fruga in ciò che è nascosto e latente nei
linguaggi, nelle culture che a un primo contatto appaiono opache,
ostiche, per rivelare poi alla fine lo splendore dei caratteri; il discorso,
la dinamica. È più ο meno, questa, in corrispondenza con (o è essa
stessa?) la nozione pitagorica dell'oblio, della superficiale apparenza
dietro la quale si cela la nascosta realtà.
Question: Non è forse con la retrospezione, infatti, che noi
attingiamo la visione del futuro?
4. I monaci — C'erano sempre pinzocchere e frati mal ridotti dal
cammino nello sciaquío dei miei sonni di bambino all'ombra del fico
nell'orto, in quel Molise della mia nascita. Tra la risata ruscellante di
mia madre e le filastrocche di quei monaci questuanti, vaganti da
conventi e confraternite, un inno di Celio Sedulio, importato nel Molise
dalla Gallia Romana del V secolo mi si impresse nella mente:
A solis ortus cardine
Adusque terrae limitem
Christum canamus principem,
Natum Maria Vergine.
("Dalla porta dove sorge il sole / fino ai limiti della terra / cantiamo
Cristo Signore, / nato da Maria Vergine.")
E con questo canto anche il rotto latino medievale extraliturgico mi
crebbe sulla pelle come muschio.
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Dalle aie sparse fra conche, valli e terrazze di montagne, l'inno
ambrosiano che portavano i questuanti, Deus creator omnium, che tanto
impressionò Agostino, fu la semenza che m ' a p r í dentro spazi di tremore
(sialodatogesucristo,
sempresialodato,
sialodatogesucristo,
sempresialodato) e attesa dell'arcano in pomeriggi spenti, senza dolore.
Perché attendere è il destino dell'adolescenza. E per me l'adolescenza
significò trascorrere ore di buio fitto nella soffitta di mio padre,
frugando in sacchi di patate pieni di vecchi, preziosi libri dalle costole
rosse marcite. Ma piano piano la luce filtrava dall'abbaino e mi feriva
sulla fronte.
(Mi raffiguravo — felice me — come il San Luigi Gonzaga delle
oleografie di famiglia, le mani conserte e il viso in su, assolutamente
angelico, con quel denso fascio di luce che gli pioveva addosso
dall'alto.)
E a poco a poco cominciai a discorrere con Socrate e Platone,
Orazio e Cicerone, e in special modo con dei monaci dottori che vissero
dal IV al XIV secolo nella giovane Europa, cantando laudi ora al dio
celeste, ora a quello terreno, ora perdendosi in sospiri dietro le trecce
bionde di una signora e ora battendosi il petto per gli ingenui peccati
della carne, e spesso solo del desiderio.
Indossavano lunghe tuniche e portavano capelli tagliati a raggiera
come un tal monaco chiamato Notkerus Balbulus (Notker il
Balbuziente), ο Paolino da Nola. Componevano poesie d'ogni genere e
per ogni occasione: per il re ο la donna amata, per l'alba e la compieta,
per la morte di un guerriero — come l'incantevole e grave sequenza In
Morte del Duca Erico del Friuli, di Paolino D'Aquileia — ο per burlarsi
del priore Giovanni, parvulus statura non virtutibus, piccolo di statura
ma non di virtù.
5. Eva/Ave — Mi strinse un'acre passione per il convento. Avevo dieci
anni, mi ero slogato una caviglia mentre cercavo di saltare con un'asta
sopra un burrone, sotto il quale correva un serpente di fiume, e per
settimane mi trascinai da una stanza all'altra della nostra casa costruita
dal nonno americano coi guadagni fatti sul vino, e intanto meditavo la
fuga. E in quella meditazione mi sorprese Maria Chapdelaine, mia
madre, che intuì, presagí, e infine fece sí con la testa.
Era cattolica praticante del Québec quanto quell'eroina
franco/canadese del romanzo omonimo, portata nel Molise dal padre
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Antonio Minicucci (in America Dominick), ombrellaio e suonatore di
cornetta, nato nel 1863 a New Orleans, da un marinaio di Casacalenda
che diventò Giudice di Pace in Louisiana durante gli anni della
Ricostruzione (1867-1910) e testimone del famoso eccidio di 11 italiani
immigrati, nel 1891, passato negli annali della storia dell'emigrazione
con il titolo "Il linciaggio di New Orleans." Emigrato poi a Montréal
per suonare nei pubs, mise su un ristorantino che lasciò al figlio Mike
e ricercò la via del Molise di suo padre sul mappamondo, per morirci.
Ma mia madre non amò mai quel paese, per il quale lei era
forestiera, l'"Americana." E lo odiò tanto più in quanto Mussolini le
aveva estorta la fede nuziale, con la scusa di "un posto al sole" e le
conseguenti sanzioni e in più le aveva preso il marito, ufficialmente
"volontario" nella guerra d'Abissinia.
Mi ritrovai in un seminario delle Puglie con sandali e piedi nudi,
un cuore che batteva forte come un tamburo, e una voce bianca che
cantava:
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Ave maris stella,
Dei mater alma,
Atque semper virgo,
Felix coeli porta.
(Ave, stella del mare, / alma madre di Dio, / e pur sempre vergine,
/ felice porta del cielo.)
Quest'inno si cantava al vespro, e mi piaceva moltissimo. Mi
ispirava delicati sentimenti. Mi ricordava mia madre che, anche con la
neve alta, si spenzolava dalla ringhiera del nostro balcone sul Corso, che
era al primo piano, e — one, two, three, puff! — cadeva nel gran
mucchio di neve come un'enorme macchia nera. "Su, e tu non vieni?"
diceva, guardando in su dalla neve. Io mi arrampicavo sulla ringhiera
e sempre un po' esitante all'inizio, mi lasciavo andar giù come faceva
lei, a piombo. Mia madre rideva e mi abbracciava. Io sbattevo i denti,
ma ero felice con lei. Ogni mattina adavamo alla messa dell'alba, giù
giù alla Chiesa Madre, nella Terravecchia, aprendo la prima scia di
passi a quelli che venivano dopo. Io servivo la messa a Don Vincenzo
Marcogliose, il primo sacerdote simpatico della mia vita.
L'Ave maris stella, in ogni modo, forse risaliva al secolo X,
c'informò Padre Teofilo, il professor di musica e latino. E aggiungeva,
come arrossendo, che Maria è la riparatrice della colpa portata da Eva
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nel mondo. Da qui, dunque, l'inversione delle due vocali: Eva in Ave.
Padre Teofilo era pallido, e mi suscitava tremore, pena e una certa
insicurezza. Comunque mi piaceva perché sapeva tante cose che io
volevo sapere, anche se indietreggiavo non appena mi toccava un
capello della testa. (Tra i ragazzi si mormorava che era stato anni
prima ο mesi prima severamente punito con la sospensione della Santa
Messa per tutta una quaresima, a causa di un peccato [...] innominabile.)
Mi sorprese quell'inversione di Eva/Ave, e infine Padre Teofilo andò a
fare delle ricerche e dopo un mese ο due disse alla sua/nostra classe di
latino che quel "pasticcio" simpatico doveva certamente appartenere a
un tempo anteriore al X secolo, e l'attribuì al monaco donnaiolo
Venanzio Onorio Fortunato del periodo merovingico, di Valdobbiadene
Piave, emigrato poi in Francia, dove diventò il cantore ufficiale dei
sovrani di Austrasia.
"Era un essere tormentato, non proprio un santo con tutte le carte
in regola, ma genio lo era," diceva alle lezioni Don Teofilo, parlando
da esaltato, come se l'avesse conosciuto carnalmente, di persona,
commentava infine, sospirando e sbuffando come se facesse
un'autoanalisi, "Ma nonostante ciò, voglio dire le tentazioni diaboliche
del senso, della carne, Venanzio Fortunato ci lasciò l'inno segreto della
Chiesa, il Vexilla regis, nel giusto metro ambrosiano."
"Segreto? Perché segreto?" azzardai a chiedergli.
"Le cose che si fanno ο si dicono di nascosto, per tacito consenso,
ma non ufficialmente dichiarate si chiamano segrete, secondo me," lui
rispose. Quindi chiese: "E secondo te?"
"Boh!?" risposi, alzando le spalle.
"Boh? E cos'è boh?"
"Boh [...]" eclamai di nuovo, con una scrollata di spalle.
Pensò che lo sfottevo. Da qualche tempo m'ero accorto che lui
s'era accorto che lo sfottevo, e in verità non lo sfottevo: ero solo
stupido. Mi p u n í a pane ed acqua per due giorni, poi mi vide mesto
mesto al refettorio il primo giorno, inginocchiato con un libro e la
ciotola dell'acqua accanto al libro, e gli venne un'improvvisa
contrizione di cuore: mi assolse, disse con voce grave, "Mangia, va!" E
subito giustificò la sua magnaninità con professori e discepoli dicendo
che ero troppo gracile per sopravvivere a quella punizione. Ed io, per
dispetto, decisi di continuare la dieta magari fino all'anno seguente, se
non altro per convincere me stesso che quella mia esclamazione, "Boh!
boh!", non era stata emessa per sfotterlo.
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Don Teofilo non sappe mai se schiaffeggiarmi ο accarezzarmi. E
finalmente un giorno venne al mio banco con uno spartito di musica
gregoriana e chiese, "Sei tu, dimmi, ο Minervini che a vespro suonate
il Ρange lingua?"
"Delle volte lui, e delle volte io," risposi.
Si riferiva alle funzioni serali in cappella, prima di cena. E io
sapevo che lui sapeva chi suonava l'harmonium. Minervini era il
seminarista del gruppo "I grandi," ed io ero quello del gruppo "I
mezzani." C'era poi il gruppo "I piccoli": ma quelli non contavano.
Erano piccoli! M'aspettavo un rimprovero, chissà che cosa, per cui mi
strinsi nelle spalle, la mia maniera di trincerarmi, esser guardingo nel
pericolo.
"Sí" ripetei, "delle volte è lui che suona e delle volte io."
"Anche quella l'ha scritta lui," Padre Teofilo disse con un sorriso
di trionfo. "E l'ha scritta in un tetrametro trocaico perfetto."
Andò alla lavagna e scrisse:
Pange, lingua, gloriosi
et super crucis tropaceo
qualiter redemptor orbis
proelium certaminis
die triumphum nobilem,
immolatus vicerit.
(Loda, ο lingua, la gloriosa / lotta ed esalta il nobile / trionfo sul
trofeo della croce: / come il Redentore del mondo / abbia vinto,
immolandosi).
Quindi intonò l'Inno, e tutti noi lo seguimmo volentieri, perchè
quella stranezza significava fine della lezione.
Mi convinsi allora a studiarmelo (in segreto, naturalmente), e mi
divenne finalmente chiaro il "tormento" che il monaco Fortunato aveva:
se da una parte egli cantava dal chiostro di Poitiers le nozze della
vergine con Dio, De virginitate, dall'altra cantava anche il suo desiderio
d'amore per questa ο quella donna, e in special modo per una delle più
femminee e tentacolari, feroci e gloriose donne di quel tempo:
Radegonda (Fredegunde) (c. 545-597), seduttrice, assassina e regina
d'Austrasia, meglio ricordata per il suo feroce antagonismo nei riguardi
di quell'altra seduttrice, assassina e regina a nome Brunhilda.
E Venantius Fortunatus l'amava!
Di lui ci restano molte liriche, raccolte sotto il titolo di Carmina in
undici libri, e diversi di questi carmi sono indirizzati Ad Domnam
Radegundem. Il poeta sospira per lei, offrendole fiori e servizi, e cosí
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si lamenta: "Anche se appare terso il cielo, fuggita ogni nuvola, /
quando a me ti nascondi, il giorno è senza sole."
6. Sator Arepo — Quasi senza avvedermene, Venanzio Fortunato mi si
era attaccato come lappola al palato, e piano piano mi guidò negli anni
della vita, e anche se inconsciamente, verso la poesia visuale e quegli
strani giochi di quadrati magici — l'ars magna del "fare" poetico — che
uniscono anagrammi a frasi palindrome che possono esser lette da
sinistra a destra e viceversa, offrendo sempre lo stesso significato e
suggerendo, allo stesso tempo, che nascondono nel loro ventre un
carmen labyrintheum.
Appresi infatti che per uscire da certi quadrati lirici concepiti dal
Fortunato devi prima cercarne la chiave, un p o ' come quella che Borges
chiamava Aleph, la lettera A ebraica, inizio d'ogni cosa, che lui
ricercava nelle biblioteche, ο un po' come quella congelata nei quadrati
magici che fiorirono su bassorilievi di chiese e tombe, come il quadrato
sulla tomba del principe Silo in una chiesa di Oviedo, nelle Asturie,
tutto basato sulla lettera t, che tanto incuriosirono i poeti e i critici del
manierismo del Sei e del Settecento (il Marino, il Tesauro e Gràcian)
ed anche moderni e contemporanei quali Mallarmé e Gottfried Benn.
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Ma se il magico chiama il magico, come le scoperte di linguaggio
che contengono sedimentati strati di metafore e associazioni che
inaspettatamente saltan fuori, questo mio girovagare adolescenziale dal
Molise al mondo primitivo, e di nuovo al Molise e al mondo moderno,
mi creò una strabiliante sorpresa: apprendere che uno dei più celebrati
quadrati magici dell'universo, cioè la formula del Sator Arepo, è inciso
in una lapide del campanile della chiesa di Santa Maria Ester di
Acquaviva Collecroce paese etnicamente slavo, nella provincia di
Campobasso, nel Molise.
La formula è questa:
SATOR
AREPO
TENET
OPERA
ROTAS
La traduzione letterale ci viene data in questo modo: "Il seminatore
Arepo guida con il suo lavoro l'aratro."
Il suo significato religioso è però un altro: "Dio (sator) governa
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(tenet) il creato (rotas), il lavoro degli uomini (opera) e i prodotti della
terra (arepo = aratro)."
Prima d'ogni cosa, comunque, le parole del quadrato vanno lette
ben 4 volte orizzontalmente e verticalmente, cosiché da quelle poche
lettere sarà possibile portare alla luce ben 13 frasi anagrammatiche. Solo
a considerare la parola TENET, letta verticalmente e orizzontalmente,
ci avvediamo che essa disegna una croce.
Forse è un'indicazione.
Procedendo ora, come il cavallo negli scacchi che salta da un
quadrato all'altro ricercando la sua combinazione, è possibile ottenere
altri simboli da quel quadrato: una croce costruita sulle parole pater
noster, e le due lettere AO, Alfa/Omega = come monogramma di
Cristo. Ecco la figura:
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Il monogramma AO, evidentemente, s e r v í come segno magico. Il
quadrato magico di Acquaviva Collecroce era invece stato inciso
capovolto, disegnato a tavole.
È probabile che se lo portassero dietro gli slavi, quando vennero a
insediarsi nel Molise, verso il 1389, fuggendo le bande piratesche dei
turchi che devastarono la penisola balcanica. Se lo portarono dietro
unitamente a una vera scheggia della Croce di Cristo che ancora si
conserva lí, in un reliquiario d'argento. Da bambino qualcuno mi disse
che Sant'Elena, la madre di Costantino, aveva riportato quella scheggia
da Gerusalemme, dove aveva identificato l'autentico Santo Sepolcro, nel
327 circa.
Sempre il Molise mi apparve — con l'universo che mi presentava
attraverso l'innario medievale — con i monaci vaganti sulle aie che
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offrivano una pizzicata ai contadini dalla loro tabacchiera d'argento, con
i filosofi nel sacco di patate di mio padre, e col latino masticato ai
funerali. Sempre il Molise mi apparve come in uno stato di veglia, ed
io in esso/con esso, in quell'ermetico ordine dei quadrati magici che,
come il Sator Arepo, contengono il mistero; e che appunto vegliando
puoi di volta in volta frugare, esplorare, interpretare per il tuo futuro, e
trarne il fantastico, l'aggrovigliato, la preghiera, l'inespresso, il
linguaggio infine, quello proprio e della collettività: un labirinto
spiraliforme, un p o ' come quello che intravvide Jorge Luís Borges nel
racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, che "si allarga sempre
più, che racchiude passato e futuro e comprende in sé l'universo
galattico."
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7. Il vecchio — Oggi, 3 novembre 1995, nel preciso momento in cui
scrivo queste note sul Molise, lontano dal Molise mi pare d'esser
diventato vecchio d'improvviso, forse appunto perché sto ancora
vivendo/vegliando in quel "mondo galattico" labirintico sognato e
vissuto da ragazzo nel rincorrere una ragion d'essere, il linguaggio.
Certo, rincorrendo, per traslato, quel senso e sentimento del mito
che ci fece adulti e pensosi, che Pavese conobbe c o s í bene — e lo cito
perché fu proprio lui ad ufficializzare il mio destino di scrittore, e
quindi d'esule — e che lo studioso torinese di religione e antropologia
Furio Jesi mi riconferma esattamente in questa occasione, nel mentre
sfoglio un suo libretto preso in prestito da Luigi Bonaffini qualche
giorno fa a New York.
Come già proposero Mircea Eliade e Kàroly Kerényi, Jesi identifica
il mito con il linguaggio della collettività, e molto più singolarmente per
me egli riconnette questo mio fantasticare sul vivere in uno stato di
veglia, premonizione di futuro, con la profezia di Eraclito.
"Il mito genuino," Jesi scrive, "che sgorga spontaneamente dalle
profondità della psiche, determina con la sua presenza al livello della
coscienza una realtà linguistica il cui carattere collettivo corrisponde al
valore collettivo riconosciuto da Martin Buber nello 'stato di veglia' cui
si riferisce un frammento di Eraclito: 'coloro che vegliano hanno [in
contrapposizione a coloro che dormono] un unico cosmo in comune,
cioè un unico mondo al quale partecipano tutti insieme.'"
E, infatti, anche il "diventare," ο sentire di diventare
improvvisamente vecchio credo rifletta, ο forse spieghi, quel tipo di
mito in quanto entità psichica e il mito propriamente detto in quanto
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viaggio/realizzazione, entità di tempo e di spazio, quell'andare cioè "dal
punto A al punto B" come indica il Carravetta che, però, subito ne
sottolinea nel passaggio il movimento di "presa di coscienza sul che e
chi e come e dove del viaggiare che può coinvolgere l'intero essere, la
globalità della esperienza viaggiante."
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Il tempo, appunto, tutto quel tempo che ci ha effettivamente ridotti
vecchi, paradigmatici, con facce rivolte verso l'altra parte del fiume. Il
ragazzo che ieri aveva visto il mondo nella sua genesi culturale favolosa
dal Molise, oggi vede se stesso nel mondo americano del ciberspazio
proiettato verso un futuro che gli appare come ritorno. E pensa che il
futuro, ironicamente, era solo il sogno di ieri, mentre l'oggi è solo un
frammentario ricordo di ciò che è trascorso nel caleidoscopio di
pietruzze colorate — quello del ragazzo Marcel, in Proust — dell'appena
ieri. E ciò in quanto la tendenza non più corre verso i significati, ma è
volta in direzione del trascendere.
È quel caleidoscopio che intanto ora guardo, è quel barile di vino
che ora quasi vuoto rotola piano piano giù per la stretta scala della vita,
perché questa vita si restringe in se stessa ormai, ne conto le gocce
rimaste cercando di fare un ultimo calcolo sul dove come e quando del
bevuto per poi appoggiare la testa sulla pietra e dormire. Ma ricordo che
in nessun luogo al mondo son veramente riuscito a dormire più di
qualche ora, dopodiché richiudevo il libro nello zaino e riprendevo il
cammino. Scrissi una poesia anni ed anni fa che forse illustra un poco
quell'eterno "stato di veglia" di cui parla Buber ricordando Eraclito, ed
è questa:
Sono un viandante bruciato dal sale,
passato al setaccio dei venti:
ho vertebre enormi, voce possente,
e ho visto, vi giuro, cieli infiniti.
Col mio dio parlo Quechua ο Latino
ma spesso mi stanco, torno a partire,
a volte non solo, con Pound ο Celan,
Dante, Walt Whitman ο Ruben Dario.
Non sono infelice in America né cupo
ο collerico, ma non posso dormire.
La notte è velluto, rigurgito d'onde,
ruggito, tremito profondo; è la marea
Giose Rimanelli
164
che a balzi sale le scale, è la vita
che addosso mi cade alla King Kong,
mossa com'erpice, arpa ed altare.
È la canzone del cuore di Delmore,
Hart Crane? Oppure riguarda (non dire!)
altre catene? Nulla: tutto è normale
reale quando mi frulla. And I love you,
America, anche se non posso dormire.
17
8. I mangiatori di patate — La mandai in dono alla gentile Mary de
Rackewiltz, figlia di Ezra Pound, un uomo che vidi la prima volta
chiuso in una gabbia come un pauroso gorilla nel maggio 1945, senza
sapere ancora quale lume gli splendesse nel "cerébro," che aveva anni
prima, nel '19 pare, e a Londra, scritto che lui pure "non poteva
dormire" per qualcosa, che poi rividi nel novembre del '58 in casa di
Mary a Brunnenburg, nel Tirolo, quando lo rilasciarono da un altro
Disciplinary Training Center, il manicomio criminale di Saint Elizabeths
di Washington, quando anche finalmente lessi, nei Pisan Cantos, di
quel suo ineffabile rispecchiarsi in Cavalcanti e nel suo fato:
18
Morto che fui a Sarzana
aspetto la diana
della riscossa.
Sono quel Guido che amasti
pel mio spirito altiero
E la chiarezza del mio intendimento.
(Canto, LXXIII)
Tornai a casa e mia madre mi pianse nei capelli. "Dove sei stato
dove sei stato dove sei stato per farmi morire?" chiedeva a ripetizione.
Già: dove sono stato?
Poi lei tornò in America, quella sua parte d'America che si chiama
Canada, portandosi dietro marito e figli, ed io no dissi, me ne vado per
conto mio. E quando poi la rividi, la ritrovai, anni ed anni più tardi, mi
chiese la stessa cosa con la stessa ansia. "Dove sei stato dove sei stato
dove sei stato?" Le dissi allora di Ishmael che per curiosità del mondo
s'era imbarcato sul Moby Dick per vedere un po' d'acqua, e c o s í vide
acqua e balene, la calma e la tempesta e la morte, e infine a stento
riuscì a salvarsi abbrancandosi ad una bara che galleggiava sui morti.
"Il Signore," mi disse, "sa tutto e vede tutto. Sia ringraziato il
Signore."
Un futuro chiamato ritorno
165
"Sia sempre ringraziato," risposi.
E piano le parlai del Mato Grosso nel Brasile dove ero andato a
visitare la sorella di papà, zia Angelina, andata in sposa a un uomo di
Cuiabà; e le raccontai di Pietro Corsi, il mio compare, col quale
attraversai la foresta di Palenque, nello stato messicano del Chiapas,
dove dormii per alcuni giorni in un sarcofago Maya perché non c'erano
altri posti disponibili; e le dissi del freddo, del gran freddo del Labrador
verso lo Stretto di Hudson quando vi volavo sopra con un minuscolo
aereo dei missionari Moravi per salvare i geologi, i cercatori di uranio
e asbesto, dimenticati sotto una tenda e senza viveri; e di una testa
tagliata d'uomo in mezzo alla neve di una strada di Helsinki, in
Finlandia, proprio accanto alla chiesa di San Nicholas, quando c'era la
Cortina di Ferro e io viaggiavo l'Europa e il Sud America come
giornalista; e le raccontai di Parigi e di Amsterdam, e di uno strano
pittore chiamato Vincent, come papà, che andavo a vedere ovunque si
trovasse, in quanto non mi stancavo mai di vederlo. Mia madre allora
chiese se era un buon amico, e io risposi che lo era e glielo avrei
presentato non appena possibile. Mi misi alla ricerca di un Van Gogh
e finalmente lo trovai a New York. Era una riproduzione abbastanza
onesta dei Mangiatori di patate, e la portai a mia Madre a Detroit.
"E questo sarebbe [...] Come hai detto che si chiama?"
"Vincent Van Gogh, Ma."
"E ci parli anche, no?" chiese con civetteria, ammiccando.
"Certo, Ma."
Mia madre mi abbracciò con un sorriso, ma pensò che questo suo
figlio era diventato proprio scemo viaggiando. (A meno che non lo
fosse sempre stato.)
9. Medaglioni — "È strano," mia madre disse, "il mondo
dell'emigrazione. Tu vai e vieni ma non emigri. Ο sei stato sempre un
emigrante? Spiegami, figlio, perché non capisco."
"L'emigrante è quello che cerca lavoro, Ma," risposi. "E finisce con
lo stabilirsi in un posto e restarci. Ma pensa sempre a quello che ha
lasciato. Gli faranno la p i p í addosso."
"Di sicuro. Tuo zio Mike, di Montréal, l'ha fatta addosso a me. S'è
preso tutto quello che era nostro, di mio padre. Tu vieni dall'Italia, ha
detto lo svergognato. Tu non hai diritto, ha detto, E c o s í anch'io sono
un'emigrante, nel paese mio."
"Infatti, Ma," risposi, "tutto incomincia dal paese proprio per
19
Giose Rimanelli
166
cercare altri paesi perché il mondo è un mondo su un'altra parte, e se
non proprio loro che muoiono per strada trovi i loro figli e nipoti e
pronipoti, dipende da come e dove e quando hai viaggiato. È come un
girotondo, Ma. Solo che se ti fermi impazzisci."
E per tenerle compagnia un pochino più a lungo nel vespro della
sera, le raccontai alcune storie che la fecero un po' piangere e un po'
ridere.
Le dissi, "Ti ricordi, Ma, quando ti parlavo di quel mio amico di
Isernia che tutti chiamano G. B.? Ebbene un giorno tanto tempo fa un
uomo della Sardegna in vesti militari scende a Monteroduni, nel Molise,
per pescare un paio di trote nel Volturno e trova una ragazza occhi
sgranati che di lui s'innamora e con lui s'invola in matrimonio. Nascono
Paolo e Angela. Vanno a scuola, si laureano, si sposano, hanno figli.
Angela è ora la trepida custode di G. B., il mio amico, che scrive e
scrive di storia e letteratura tra un bicchiere e l'altro. E Paolo, pure
amico mio, s'immerge sia nei Mimiambi di Publilio Siro per filosofare
con la gente sulla melmosa carriera politica molisana. Ma dài e dài
diventa infine il fumogeno Presidente della Giunta regionale, in un
Molise finalmente senza Abruzzo."
"A tuo padre lo chiamavano abbruzzese," lei disse.
"Ecco, ecco!" esclamai. "Uno è una cosa ma cercano di farlo
diventare un'altra cosa! E un giorno," continuai, "un giorno tanto
tempo fa un uomo della Sicilia in vesti militari scende a Isernia per una
tazza di caffé al Caffé della Stazione e trova una ragazza occhi sgranati
che di lui s'innamora e con lui s'invola in matrimonio. Era tenera e
dolce e portava trecce nere quando sedeva sui banchi del Liceo accanto
alle trecce d'oro di Titina Sardelli, oggi custode del Molise, andata
sposa al matematico Cosmo Marinelli, inspiratrice di una Casa Editrice
che l'antropologo Alberto M. Cirese definisce 'elegante nella forma e
intelligente di contenuto' nei libri che pubblica. E a ragione. Alla
ragazza occhi sgranati, dalle trecce nere nascono Enzuccio e Gigiotto,
e il primo diventa pilota dell'Alitalia, e l'altro mio collega in queste
Università d'America. Oggi Gigiotto è il gurù del computer al Brooklyn
College, il traduttore eccellente dei dialetti italiani, e anche il traduttore
delle mie poesie."
"Ma è proprio come lo racconti?" mia madre chiese.
"Racconto cosa, Ma?"
"Quello che racconti."
"Certo! Chi può dubitare di quello che scrivo?"
20
21
22
Un futuro chiamato ritorno
167
"E se inventi ogni cosa?"
"Anche se invento ogni cosa, Ma, quella è l'unica cosa. Dipende se
l'accetti ο no. Io sono la Storia."
Mia madre non capí, ma sapeva che la divertivo.
"Vai avanti," disse.
"E un giorno," io dissi, "un giorno tanto tempo fa un uomo del
Nord scende a Castelmauro per prendere una fotografia del castello ma
inquadra nel suo obiettivo una fanciulla che dipingeva fiori di fratte su
di una tela lunghissima, di lei s'innamora e con lei s'invola in
matrimonio portandosela nel Nord. Nacque un ragazzo che, crescendo,
sognava il mondo studiando l'inglese — un p o ' come tuo figlio che
sognava il mondo studiando l'ebraico — e infine lui pure passò il mare.
Divenne il rispettato e, anzi, riverito Professor Glauco Cambon,
dell'Università del Connecticut a Storrs, autore di numerosi libri critici
e di un saggio fondamentale su Eugenio Montale. Nel Molise ci andava
in transumanza quando la madre ci tornava, spesso ospiti nel castello
oggi abitato da un altro mio amico, il poeta Giuseppe Jovine. E lei
continuò a dipingere fiori di fratte fino alla sua morte, folgorata da quel
paesaggio della sua nascita, Ma."
"Erano lupini, ginestra [...]," mia madre disse. "Fiori disperati, come
le persone. Per questo li strappavano e li bruciavano. Ma va avanti,
continua."
"E un giorno tanto tempo fa un altr'uomo della Sicilia che scappava
da un esercito italiano sbandato dopo l'8 settembre 1943 arrancò
assetato sulla polverosa strada di San Martino in Pensiiis, nel Molise,
per rifugiarsi in disperazione e pianto nella chiesa di San Pietro dove
una ragazza occhi sgranati vide le sue lacrime e gliele asciugò con il
fazzoletto dell'amore e con lui poi s'invola in matrimonio percorrendo
a piedi la strada verso Lascari e Cefalù dove in una notte di scirocco e
acqua nacque, a ridosso della spinosa spiaggia di Sette Frati, Joe Nardi,
pittore e ceramista che oggi vive a un tiro di fresbee da casa mia, in
Albany, New York. La vagabonda innamorata dell'amore, la madre di
Joe, spesso siede nell'orto di cardi e mandragola sotto la terza finestra
del mio studio su in alto, dalla quale osservo a occhio nudo il va e vieni
di Joe Nardi nel suo studio che accoltella le tele alla maniera del
milanese Manzoni. Lui anche cuoce mattonelle in un forno ad alta
tensione, sulle quali dipinge solo asini e cani del Molise tradottigli dal
discorso orale della madre, ma in Molise lui non c'era mai stato."
"E c o s í quella donna l'hanno portata qui, da un posto all'altro, non
è vero?" mia madre interruppe. E io capii, il mio discorso è pesante.
Giose Rimanelli
168
"Non propriamente," risposi. "Perché anche sposare, come l'acqua
del fiume per esempio, significa andare. E quel marito la prese nel
Molise, la portò in Sicilia a concepire e poi io l'ho vista sotto la mia
finestra, in America, la madre di un mio amico che taglia le tele che
dipinge e si tormenta."
"Ma come mai tu conosci solo questo tipo di gente?"
"Perché uno conosce solo ciò che vuol conoscere, Ma," risposi. "E
tu lo sai."
"Io lo so?"
"Hai sposato mio padre, perché non quel qualcun altro che voleva
nonno Dominick?"
Mia madre disse basta, vattene via. Era stanca, non voleva pensare.
Il ricordo le faceva sempre impressione, per non dire orrore. Perché il
ricordo di ciò che io ricordavo apparteneva in un certo senso anche a
lei, io ero stato cresciuto da lei, per questo mi aveva chiesto di
raccontare. E ora era subentrato un po' di rancore.
Io partii di nuovo.
10. Tondo — Ed ora mia madre è dall'altra parte del fiume, e devo di
nuovo, assolutamente, tornare da lei. Forse per l'ultima volta. Con la
speranza di poterle ancora dire qualcosa, e da lei ricevere qualcosa.
Come sempre.
È sui novanta: ma che tempo è?
Ed io sono sui settanta: cosa vuol dire?
Ogni giorno conta, mio padre diceva, sui novantacinque.
Il circolo si chiude in un tutto tondo, che è buono e giusto. Hai mai
visto quei torciglioni del Bernini, tutti lisci, fluenti, in tutto tondo? Sono
la fine del mondo, diceva ammirato quell'amico romano, Ugo Moretti,
che finí lui pure in alto, nel tutto tondo del Bernini.
Chiamami tondo!
Non mi fa più niente, puoi dirlo. Scrivo anzi a G. B. nel Molise,
per dirgli che non mi fa più niente né mi manca niente in America.
Penso, anzi, di travasarmi un poco: come il vino.
M'han dato tutto quello che volevo
in Merica, ma come nell'Ovidio
che tu sai, lontano dal Molise evo
e credevo non son versi che invidio.
Strabevo, ora, per non esser longevo
Un futuro chiamato ritorno
169
in questi ed altri momenti d'oblivio.
Francamente, da tant'anni m'allevo
un fungo nel seno, e cerco un abbrivio,
G. B., forse un convivio in subcoscienza
coi carolini Paldo e Tato e Taso
perché m'insegnino l'ambivalenza.
Non ho più fior di prato nel mio vaso,
per questo ho perso un po' di conoscenza:
ma sono ancora vino, e mi travaso.
23
Un travaso che chiamerai trascendenza con Emanuel Levinas,
specie perché proietta il "nostro tempo" non come definito dal trionfo
della tecnologia per la tecnologia ο dall'arte per l'arte e nemmeno dal
nichilismo, ma come azione di un mondo a venire, trascendenza del suo
periodo — "transcendence of Self which calls for epiphany of the
Other."
The Other?
Ecco: è come dire, Wath?
Ma certo, Don't be silly! È Il-Ciò-Che-Non-Sai, sai?
E di nuovo penso a mia madre, già oltre i novanta, forse i cento,
che dall'America venne portata nel Molise per infine sradicarci con la
sua partenza dal Molise e portarci in America, c o s í ricambiando le
condizioni dell'esilio, dello sradicamento.
Dal dopoguerra in poi, visse tra Montréal e Detroit, ed ora sta
morendo a Windsor, Ontario, da dove mi ha fatto sapere che vorrebbe
vedermi. E dove io andrò per dirle, certo, "Mi chiamo Freud, ed ho il
complesso edipico. Mi riconosci, madre?"
11. Oh, Canada! — Tra il 30 e il 31 dello scorso ottobre i
franco/canadesi del Québec votarono in un Referendum per decidere di
rendersi indipendenti dal Canada ο di restare uniti alle altre 9 regioni
che formano il Canada.
E di nuovo pensai a mia madre.
Lei non aveva mai detto: "Sono del Québec." Aveva sempre detto:
"Sono canadese."
Se avesse avuto la possibilità di prendere un aereo, invece di
starsene a morire al Devonshire Senior's Residence di Windsor, Ontario,
avrebbe certamente votato contro i separatisti. E infatti i separatisti
Giose Rimanelli
170
24
persero.
Ci scrissi sopra un sonetto, col titolo Oh, Canada!, che mandai a
G. B. nel Molise, accompagnandolo con una nota che, dopo,
ripensandoci, mi apparve un tantino ο parecchio critica della genitrice,
tanto che la consideravo già morta. Ne ebbi un incubo la notte del
l u n e d í 30 ottobre, e il giorno dopo — in riparazione — scrissi un altro
sonetto, col titolo Mia madre.
G.B., non è morta, anche se lo penso.
Ha perso quasi tutte le sue piume
e il gesto, la parola. Già l'incenso
tinge la sua stanza di là del fiume.
Alla sua vita non c'è alcun compenso,
eccetto un pensiero: ci è stata lume,
porta aperta sul mondo in quel suo denso
ipotecare la speranza. Schiume
d'ignoto pianto battono le sponde
d'America, fino alla patria Italia,
e sfumano. Nessuno mai risponde.
Vanno e vengono, aggobbiti d'alia,
figli e nipoti, e parlan di Laonde:
la mamma/nonna, stelo della dalia.
Mi consolai un p o ' . Poi scrissi a G. B. una nota, e di nuovo rovinai
tutto. Da spararmi!
"Credo di averla dileggiata abbastanza con la precedente nota. E
invece l'ho sempre amata, nei miei libri vi fa la figura della santa. Solo
tanto più tardi, ormai da vecchio quasi, mi sono reso conto che, nella
sua dignitosa riservatezza e gioia di vita, giovinezza, mia madre
dev'essere stata una donna capricciosa, imperiosa, gelosa, scontrosa,
superba. Era ricca, aveva cavalli e servi da ragazza, e a 19 anni contro
il volere di tutti, sposò mio padre che aveva solo la camicia. E
quest'uomo l'amò, e ne s e n t í il fascino e il capriccio.
"Nei miei libri mio padre vi appare come uomo duro, villano, forse
disperato. Solo dopo tanti anni, diventato anche io padre, mi sono
accorto di essermi avvicinato a lui, allontanandomi da lei. Lui c a p í la
mia indipendenza, la mia rivolta contro tutori e preti e dittatori, e capí
perché scrivevo. Fu l'unico a leggere le mie cose. Lei no. Disse un
25
Un futuro chiamato ritorno
171
giorno, ' O r a sei vecchio, hai fatto la tua vita, sei in pensione, riposati,
goditi gli ultimi giorni prima del nostro ritorno a Dio. Come mai
continui a stare al tavolino, quando invece la vita è fuori?' E mio padre
ch'era presente, qui in questa casa di Pompano Beach che comprai per
loro con i soldi del mio 'tavolino,' le rispose: 'Se va fuori nella vita,
come tu dici, lui muore. Ma se sta dentro muore lo stesso, perché da
quella non si scappa, perché vuoi rimuoverlo?' Mio padre aveva
un'ironia a doppio taglio, quasi colta. E m'accorsi di volergli bene."
Giovedì 2 novembre, giorno dei morti, andai alla chiesa St. Gabriel
su North Ocean Boulevard, nostra parrocchia, e feci dire una messa per
mio padre.
Il sacerdote ufficiante, Father Mathew, ricordava bene sia mio padre
che mia madre. Dal condominio, camminavano tre isolati di case fino
a quella chiesa, ogni domenica.
E Father Mathew chiese, "And your mother? How is she?"
Scossi la testa, senza dir parola. Non so cosa intuisse, lui, avevo la
testa abbassata mentre m'inginocchiavo al banco, il "nostro" banco, ma
girandosi per andar via udii lui che diceva, "I'm sorry."
Quasi subito dopo, una minuscola processione di preti e chierici con
le candele accese e i turiboli dell'incenso camminarono verso l'aitar
maggiore, ed anche una voce d'angelo prese a cantare dall'invisibile,
accompagnata dall'organo. Anch'io, con le labbra se non con la voce,
con quella voce ripetevo, "In exitu Israel de Aegypto."
Mi accorsi che i banchi s'erano riempiti di gente, ma non guardavo.
Sentii un certo profumo di crisantemo che emanava dalla persona
accanto. poi intravidi come in un velo la sua lunga mano con le unghie
rosse arpionare dalla specola che mi stava davanti il libretto rosso e
azzurro dei salmi di quel giorno. Ora seguivo solo il ripetuto ritmo del
su, giù, in piedi, seduti, ginocchioni durante la funzione, e mi
immaginai morto, fluttuare sul fiume, poi arrampicarmi per una ripa con
dei disgraziati che avevo già visto prima, dipinti da Gustave Doré, ma
ignorandoli scrissi mentalmente un sonetto per me stesso, quasi
invitando G. B. a visitarmi un bel giorno.
Aspetto la mia morte con lo sguardo
di mio padre, a cui sempre più somiglio:
chiaro, con tutta una sua grazia; il cardo
che pungeva è perso, tra grano e miglio.
Aspetto la mia morte col ritardo
Giose Rimanelli
172
mitico dei treni, nel ripostiglio
della mia gloria; odorerà di nardo
e farro, vuota quanto uno sbadiglio.
La morte è rito solo per chi resta:
per me c'è il canto del Salve Regina
nella Valletta dove ognuno appresta
una tela sospirosa, in sordina;
e dove incontrerò te pure, in testa,
G. B., ad una brigata d'albaspina.
Due giorni dopo presi l'aereo e andai dai fratelli a Detroit, poi
attraversai il Detroit River e mi trovai all'altra parte, a Windsor,
Ontario.
Un uomo con gli occhiali bianchi e la testa sale e pepe tagliava
furiosamente con la sega elettrica un ramo secco da un albero, alto
quasi due piani di edificio sulla sua scala di metallo, nel retro della casa
dove avevo posteggiato la macchina prima di entrar dentro, e cercarvi
mia madre. Poi quell'uomo volò in aria mentre lo guardavo, insieme al
ramo tagliato e la sega, e il tonfo sotto la rete del prato fu pauroso.
Accorse la guardiana della casa, un donnone con un pelo nero sul
labbro. E quasi allo stesso tempo due uomini coi berretti da foot-ball
arrancarono dal basso della strada. Uno riuscì a trovare il bottone della
sega, senza tagliarsi, e la spense. L'altro allungò una mano verso il
caduto, ma il donnone in alto lo paralizzò.
"Non toccarlo! Chiama piuttosto un'ambulanza." Sollevò quindi gli
occhi verso l'albero tagliato e sospirò, sollevata. "Grazie a Dio," disse
guardandomi, "i guai sono del vicino."
12. Ritorno — Dentro, in quella casa, c'erano corpi ovunque, uomini e
donne seduti nell'ombra, contro i muri, altri a tavoli rotondi con un
piattino concavo di zuppa calda, e nessuno si mosse quando mi videro
entrare col cappello di feltro in testa e il pesante barracano. Era come
se entrasse l'aria, forse non vedevano neanche.
La donna col pelo nero sul labbro mi guidò per dei corridoi,
parlandomi di articoli che avrei dovuto scrivere per pubblicizzare la sua
opera umana del ricovero, mostrandomi l'attico e il sotterraneo, con
ogni cubicolo pieno di gente, carne morente, bastoni e occhiali, ma non
c'erano lamenti.
"È un trattamento famigliare."
Un futuro chiamato ritorno
173
"E mia madre?"
Stava allungata sulla sua tavola tutta vestita di nero, con una
camicietta di seta nera, ricamata ad ago, e la mano sinistra ingessata e
sostenuta da uno stecco.
"Signora. C'è suo figlio."
Non mi riconobbe.
Piano piano l'aiutammo a mettersi in piedi, camminammo fino alla
grande finestra che affaccia sull'albero tagliato, e sedemmo al tavolo
rotondo, l'infermiera portò il piatto concavo della minestra. Cercai
d'imboccarla, ma lei disse no, noooo, tu, tuuu. Allora seppi che sapeva
chi ero. Voleva che la mangiassi io, la minestra. Le carezzai la testa,
sorrideva appena, e io dicevo Ma, Ma.
Poi giunse un uomo col cappello dei pastori del tratturo, seguito da
una donna con le calze grosse e le scarpe di gomma. Si misero seduti
al tavolo, erano felici di vedere mia madre, seduta al tavolo, e poi lui
mi chiese chi ero. Gli dissi che ero il figlio di mia madre, il primo, e
lui subito disse, "Ah, sei il figlio di Vincenzo?"
"Sono il figlio di Vincenzo."
"Ma guarda! E io non ti ho mai conosciuto! Conosco Antonio e
Gino, i tuoi fratelli, ma a te non ti ho ma conosciuto!"
"E lei chi è?"
"Sono Michele Vincelli di Casacalenda. Sono della stessa classe di
tuo padre Vincenzo, e sono andato a scuola con lui. Ma guarda, guarda!
Tu sei il figlio di Vincenzo, e io non ti ho mai conosciuto."
"Sono stato fuori. Sono stato sempre fuori."
"Ma guarda, guarda! Sei il figlio di Vincenzo, e io non ti ho mai
conosciuto."
Poi la donna col pelo nero sul labbro, la guardiana della casa, pregò
lui e la donna con le scarpe di gomma di andare a sedere a un altro
tavolo, ed io restai solo con mia madre che sorrideva pallidamente, non
voleva mangiare, e ogni volta che volevo darle un'imboccatina col
cucchiaino lei gemeva, diceva no, noo, tu, tuuu. Era domenica, 5
novembre 1995, e sul braccio ingessato di mia madre tentai di scrivere
un ultimo sonetto a G. B., per sua informazione, e l'intitolai Ritorno:
Mia madre muore a Windsor, nell'Ontario,
in una casa abbandonata all'ombra.
L'abbraccio, la vezzeggio, non s'adombra:
lei sa d'esser sola nel suo santuario.
Giose Rimanelli
174
Qui a suo modo ognuno fa il solitario
come a intrattenersi con la penombra
che a poco a poco invade i vetri, e sgrombra
d'ogni residuo d'olio il lucernario.
Nella mia terra abbarbicata ai muri,
mia madre visse un riluttante esilio.
Ora qui noi siamo, nella sua: duri
da rompere col rimpianto, l'ausilio
dell'icognita, la testa agli scuri ...
La Gloria? Passa sotto il peristilio!
(Tutta questa storia è parte di un conferenza in due puntate che terrò a
Toronto venerdì 17 e sabato 18 novembre 1995, ed oggi è mercoledì 15
a St. Paul, Minnesota, con la neve sulle strade e il raffreddore sulla
punta del naso. Partirò domani.)
GIOSE RIMANELLI
Toronto, 16 dicembre 1995
NOTE
1
Maria Chapdelaine, romanzo del franco/canadese Louis Hémon (1880-1913),
nato in Francia ed emigrato nella regione un tempo conosciuta come Acadia,
di lingua e costume francesi. Lavorò come farmer, e venne ucciso da un treno
(1913). Dei suoi quattro romanzi pubblicati postumi, Maria Chapdelaine (1941)
è oggi considerato un classico della letteratura franco/canadese. Con realistiche
tinte, dipinge la dura pioneristica vita della gente del Québec.
Nome proprio del popolare racconto di Bertoldo e Bertoldino di G. C. Della
Croce (1550-1620). Il nome si usa secondo il Panzini, esclusivamente e
familiarmente per uomo sciocco e da poco, uno che ne fa di cotte e di crude.
Ma il Panzini aggiunge nel suo Dizionario moderno (1905) (rivisto dopo la
morte dell'Autore e da Alfredo Schiaffini e Bruno Migliorini [Milano: Ulrico
Hoepli, nona edizione 1950]), "badisi però che il nostro Bertoldo è tutt'altro che
sciocco! Pieno di buon senso popolare, che oggi si desidera!"
P. Carravetta, "Viaggio," in Segnalibro. Voci da un dizionario della
contemporaneità, a cura di Lucio Saviani (Napoli: Liguori, 1995), pp. 205-56.
Ibid., p. 212.
Ibid., p. 231.
2
3
4
5
Un futuro chiamato ritorno
6
175
È questo un pensiero di Jean-Pierre Vernant, "Memory appears as a source of
immortality," citato da Michael M. J. Fischer in "Ethnicity and the Post-Modern
Arts of Memory," in Writing Culture. The Poetics and Politics of Ethnography,
a cura di James Clifford e George E. Marcus (Berkeley-Los Angeles-London:
University of California Press, 1986).
Il brano citato venne probabilmente scritto verso il 1938, quando avevo circa
13 anni, in un seminario delle Puglie dove ero stato mandato da mia madre. Me
lo ritrovai fra le mie cose non molti anni addietro, e con lo stesso stile lo
trasfusi in un articolo dal titolo La strada del Molise in un Medioevo della
mente, apparso sul mensile La Follia di New York (maggio-giugno 1983),
quindi tradotto e ampliato per Γ Annual Conference of the American Association
for Italian Studies svoltasi a Provo, Utah, nell'aprile 1988, e stampato con il
titolo "The Road to Molise in a Medieval Time of Mind" in Italian Echoes in
the Rocky Mountains, a cura di Sante Matteo, Cinzia Donatelli Noble e Madison
U. Sowell (The American Association for Italian Studies and the David M.
Kennedy Center for International Studies at Brigham Young University, 1990).
8
Vedi il mio Monaci d'amore medievali (Roma: Trevi Editore, 1967). Si tratta
di traduzioni da me operate in viaggio, girovagando per l'Europa e il Marocco,
con testo latino a fronte di liriche lascive di monaci-dottori hipsters dell'alto
Medio Evo, il cui motto pareva esser questo: "Non est crimen amor, / quia si
scelus esset amare / nollet amore deus / etiam divina ligare —". "Non è un
crimine l'amore; / se fosse peccato l'amare / Dio non stringerebbe d'amore /
tutte le cose divine."
Vedi The 1891 New Orleans Lynching and the US.-Italian Relations — A
Look Back, a cura di Marco Rimanelli e Sheryl Lynn Postman (New York:
Peter Lang, 1992). Io vi partecipo con due saggi: "An Introspective Preface:
New Orleans and 'Nonno Slim' Dominick" (10-14), e "The 1891 New Orleans
Lynching: Southern Politics, Mafia, Immigration, and the American Press" (53105). Sheryl Lynn Postman vi analizza il mio romanzo Una posizione sociale
(1958), il quale ha per sottofondo appunto quell'eccidio, narrato nelle sere
d'inverno accanto al focolare da nonno Minicucci/Dominick a Casacalenda,
quand'io ero un ragazzino.
Ho ricordato questo mio nonno nel romanzo Una posizione sociale (Firenze:
Vallecchi Editore, 1959). È stato ristampato col titolo La stanza grande, a cura
di Sebastiano Martelli (Cava dei Tirreni: Avagliano Editore, 1996).
Ricatturai certi episodi di seminario, col padre Teofilo al loro centro, nel
racconto Il pretino, pubblicato a Roma su 'Il Mondo' nel 1948, e lo riporto nel
mio libro di minimemorie Molise Molise (Isernia: Libreria Editrice Marinelli,
1979), pp. 69-74.
Vedi Il manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria
esoterica di Gustave René Hocke (Milano: Il Saggiatore, 1965). Per questo
nostro discorso è rilevante la Parte Prima del libro, "La lettera magica," pp. 1372.
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Giose Rimanelli
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Hocke, op. cit., pp. 27-8. Vedi anche V. Maurice Bouisson, La Magie (Paris:
Nouvelles Editions Debresse, 1958), pp. 146 sg.
Vedi J. L. Borges, Obras completas (Buenos Aires: Emercé Editores, 1974),
pp. 617-28; il racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, op. cit., pp.
472-80.
Furio Jesi, Letteratura e mito (Torino: Einaudi, 1968), p. 36.
Carravetta, op. cit., p. 215.
Vedi il mio libro di poesie Alien Cantica. An American Journey (1964-1993),
a cura di Luigi Bonaffini (New York: Peter Lang, 1995), p. 56.
Accennai a quel campo di prigionia di Coltano, in Toscana, con Tiro al
piccione (Milano: Mondadori, 1953; Torino: Einaudi, 1992), il romanzo che
accenna alla mia fuga dal seminario, quindi dalla mia casa di Casacalenda per
finire in un campo nazista di lavori forzati prima, a Villafranca, da cui fuggii,
quindi rastrellato a Milano dalle Brigate Nere e arruolato nella Legione
d'Assalto Tagliamento che combatteva i partigiani in Val Sesia e poi in
Valcamonica e Valtellina, quindi ancora prigionia con gli Alleati a Coltano, poi
fuga dal treno dei deportati e ritorno a casa, nel Molise.
Vedi Biglietto di terza, già citato.
Vedi Molise Molise, già citato.
Cosmo e Titina mi riportarono nel Molise con la pubblicazione del mio
romanzo, Graffiti (1977). Pubblicai poi Molise Molise, già ricordato, e la
raccolta di miei racconti curata da Sebastiano Martelli con il titolo Il tempo
nascosto tra le righe (1986).
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Vedi il mio Moliseide. Songs and Ballads in the Molisan Dialect, trad. di
Luigi Bonaffìni (New York: Peter Lang, 1992). E vedi anche Alien Cantica, già
citato.
Scritta venerdì 3 novembre 1995 nel mio appartamento di Pompano Beach,
Florida, e inviata a G. B. con questa nota: "I pellicani mi ricordano (e qui ce
ne sono) quella stupenda poesia del Lamartine, e uno strano uomo del Molise,
Gabriele Pepe, che lo feri a duello. Amavo il primo, per quella poesia; m'irritò
poi, con quell'altra su La terra dei morti, che provocò la reazione del Pepe.
Ogni volta che vengo a Pompano scambio i gabbiani per i pellicani, e la statua
del Pepe davanti al bar Lupacchioli di Campobasso. Mi faccio c o s í triste che
bevo per non vedere. Ma ricordo anche che i poeti sono cattivi, per questo non
muoiono: Quasimodo contro Ungaretti, Pepe contro Lamartine. E io contro me
stesso. Ecco la tristezza, G. B."
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Vedi il mio Biglietto di terza (Milano: Mondadori, 1958), col quale illustro
la vita degli emigrati italiani, e della mia famiglia, a Montréal.
Vedi Molise Molise, già citato. "Lo volle anche lei, la ragazza. E per il
motivo che lui la sedusse con la macchina da scrivere. Mio padre fece un
viaggio fino a Roma, nel 1923 ο 24, per comprare la macchina da scrivere. Era
una Olivetti enorme e rudimentale. La chiamavano ancora "cembalo scrivano."
Batteva lettere d'amore con un sol dito, poi incaricava sua sorella Luisa di
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Un futuro chiamato ritorno
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metterle sotto la porta dell'americana. A Roma s'incontrò con dei gruppi di
fascisti che lo picchiarono, perché con quella macchina da scrivere tra le braccia
non era riuscito a salutare il gagliardetto. Odiò i fascisti. E quando questi
arrivarono anche nel Molise lo circondarono e gli fecero bere l'olio di ricino"
(p. 31). I sonetti citati sono raccolti nel volume Sonetti per Joseph, in stampa
presso Caramanica Editore di Marina di Minturno, nella collana "I
Transatlantici" diretta da Rodolfo Di Biasio e Luigi Fontanella.