FORUM AREE INTERNE
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FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 Il clamore del vuoto Pieno. Questo è l’aggettivo che dice in me il paese dell’infanzia e della giovinezza. Il paese era pieno, denso, compatto, di uomini, donne e animali. Nei bassi ormai vuoti e cadenti si stipavano famiglie di dieci e più persone. C’era il pieno delle strade, delle campagne, delle processioni, delle feste, delle riunioni, dei comizi. Delle casupole adibite a scuole e della madre che seguivamo in campagna. Il pieno delle voci, del raglio degli asini, del belato delle pecore, del vagabondare di gatti e di cani, e ancora il pieno dei giochi, degli ambulanti, delle gente che tornava dalla campagna. Il pieno della miseria, dei bambini scalzi e con in mano una fetta di pane, delle favole e dei pettegolezzi, degli abbracci e dei litigi. Arrivò il pieno delle macchine che partivano con famiglie stipate e che piangevano come le persone che restavano. C’era il pieno di chi salutava e diceva arrivederci sapendo che mentiva. C’era il pieno nel mio paese di Toronto, dove c’era mio padre e c’erano i padri dei miei amici. E quel pieno svuotava il paese e creava altri paesi, palazzi e città. Le case chiudevano ma si pensava al ritorno. La ruga era piena. Ed io abitavo un pieno di voci, di chiacchiere, di pettegolezzi e di preghiere. Adesso la via è piena di ricordi e di rimpianti. Sarebbero tornati un giorno i miei amici e i loro genitori. Noi partivamo per le città e le università, eravamo in viaggio, in giro per le città del mondo. Qualcuno tornava con il sogno di cambiare tutto. Cambiamo il paese, dicevamo. Bisognava restare. Bisognava tornare. E chi non tornava rinviava il ritorno. Tanto il paese aspetta, pensavamo. Il paese non aspettava. Mutava. Si svuotava. Non è più tornato nessuno. I mei compagni delle elementari e delle medie sono ancora in Canada. Ne vedo qualcuno, ma siamo diventati altri. Hanno ormai la faccia del padre come io ho la faccia di mio padre, dopo che per una vita abbiamo tentato di fuggire dal padre. E’ arrivato qualche rumeno. L’illusione di un nuovo pieno. Più cercavamo di fare vivere il paese e più moriva. E partivamo e tornavamo. Smistavamo emigrati all’aeroporto e alle stazioni. E Toronto, che avevo immaginato come il prolungamento del mio paese, l’ho vista quando mio padre era già tornato da anni ed era ormai ammalato. Quello che ieri ai locali e ai forestieri appariva «troppo pieno» oggi è diventato praticamente vuoto, vacanti. Anche centri ancora 1 FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 vivi e vitali contengono al loro interno una parte disabitata, case vuote, rughe morte, che li trasformano talora in luoghi inquietanti e sospesi, in attesa del peggio. Nei paesi dell’interno vengono, quasi quotidianamente, chiuse scuole, uffici postali, ospedali, presidii delle forze dell’ordine. E centri lungo la costa, di recente popolamento, si presentano con una zona vuota, disabitata, spesso in rovina. Quando muore una persona anziana non si chiude solo una storia, si chiudono le «storie», si chiude un’epoca, si chiude una casa, si estingue una famiglia, talvolta scompare un cognome. La vita e la cultura del vicolo sono finite da decenni, ma adesso i vicoli e le rughe diventano degli angoli bui, dei territori vuoti anche all’interno di paesi abitati. I mesi invernali sono quelli che fanno percepire fortemente una sorta di rischio chiusura dell’abitato, o comunque di stravolgimento degli spazi tradizionali. Il vuoto spaziale dà origine a una sorta di zona franca, a una specie di linea di confine, poco conosciuta e poco frequentata, evitata. I paesi in abbandono, con spazi deserti e vuoti, sono spesso senza più centro, senza piazza, senza bar, senza più rapporti, senza più punti di riferimento, con paesaggi stravolti. Il paese è invece luogo degli affetti e dei tradimenti, delle nostalgie e degli addii, dei pianti e delle maledizioni. Un luogo mobile, che misura le tue mobilità. In un paese che ha meno abitanti che in un condominio di città, diventi oggetto di relazioni, umori e sguardi imprevisti. Eppure dura e ti preserva il paese delle ingenue retoriche, delle infinite incompiutezze, del silenzio e del rumore, della lentezza e della fretta, del lavoro e dell’invalidità elevata a sistema. Resta il paese ed è luogo delle generosità e delle clientele, dei rapporti arcaici e dei legami postmoderni, dei vicoli spopolati e degli spazi virtuali affollati dai giovani. Giovani che somigliano ai padri e invecchiano come loro, prima di loro, e giovani che partono e non tornano più. Le case vuote parlano di persone. Di storie e di volti. Di attimi e di eternità. Di vita e di morte. Ai giovani non dicono nulla. Sempre vuote le hanno viste, quelle case, in un paese che pare il più brutto del mondo. Perché siamo nati qui?, dicono i figli. Conto i giorni e i morti. Raccolgo memorie e voci. Vado in piazza e non incontro nessuno. Ed io la ricordo piena e ciarliera. Bella e rissosa. Compatta pure nella sua frantumazione. Viva con tutti i suoi funerali. Chiude anche la piazza. E quando riapre d’estate è la piazza degli altri. Non è la piazza degli avi. Non c’è più la dimensione verticale e del ricordare: le memorie durano solo un generazione. 2 FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 E dei tanti volti, delle infinite notti, delle interminabili bevute, dei comizi e delle lotte di anni ed anni, di amori e tradimenti, di lutti e di personaggi amati, restano le memorie quando ne parli a qualcuno. Sono davvero tutti morti solo se perché nessuno ricorda, se nessuno può ricordare. Così ho accettato il presente e questo tempo, la necessità di accompagnare defunti, custodire tramandare memorie, ma anche il compito di rinsaldare speranza? Anche con gli avanzi e i frammenti di una realtà consumata. Non si può, forse, costruire riusando gli antichi materiali e accogliendo quelli che ci arrivano dal mondo? Mescolando? E questa l’inattesa possibilità raccontata da Sonia Serazzi. Forse proprio là dove appare tutto accaduto e si ritiene che «non c’è niente», può accadere qualcosa di nuovo, può affermarsi una nuova vitalità, un futuro che comincia nel clamore del vuoto. Paradossalmente proprio questi non più luoghi, «mezzo pieni» e «mezzo vuoti», arcaici e postmoderni, potrebbero costituire la risorsa di una nuova terra, che sa guardare avanti, senza dimenticare il passato, ma senza restarne prigioniera. I non più luoghi talvolta rivelano la volontà di cercare e acquistare un nuovo senso, inedite forme di «appaesamento» che resistono all’omologazione dominante. I nuovi luoghi forse sorgeranno dall’ostinato restare, dai più attenti ritorni, da sguardi più lucidi. 3 FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 Restare richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Restare ha bisogno di volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie. Restare non comporta autocompiacimento, autoesaltazione ma neppure afflizione. Chi resta non è un eroe, nè può sentirsi una vittima. Chi resta, semplicemente, vive. E vivendo interroga le tracce di coloro che sono partiti per sempre e ascolta i passi di quelli che invece ritornano, decifrando le complesse trame di sguardi tra luoghi sdoppiati, frammentati e dilatati. Restare è legato all’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre fuori luogo, proprio nel luogo in cui si è nati e si vive. Restare significa cercare, aspettare, incontrare gli altri che oggi arrivano da noi. Chi ha memoria delle antiche pratiche dell’ospitalità può aprirsi agli erranti di oggi e con essi costruire un nuovo mondo, in luoghi che hanno avuto un senso, ma che debbono essere rigenerati con slancio generoso. Restare non significa stare fermi, attendere muti e rassegnati; significa sentirsi sempre in atteggiamento di attesa e di ricerca; essere pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Restare significa riscoprire la bellezza della sosta, della lentezza, del silenzio, di un complesso e faticoso raccoglimento, stare insieme. Coloro che restano potenziano il senso del viaggiare, e si fanno approdo per quanti ritornano: forse perché viaggiare e restare, viaggiare e tornare, sono pratiche inseparabili, trovano senso l’una nell’altra. Chi vive fuori scopre una vicinanza impensabile al luogo di origine, mentre chi resta si misura con lontananze e solitudini inaspettate. Restare significa restaurare, raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Rimasti e partiti debbono dare vita a una dialettica che parla di integrazione, d’incontro, di vite separate e di riconciliazione. Rimasti e partiti debbono riguardarsi come doppi che hanno fatto una scelta diversa e hanno elaborato modi differenti di rapportarsi alla loro terra. Rimasti e partiti non possono fare a meno gli uni degli altri, anche se il loro legame non è sempre pacificato e amicale, ma basato talora su malintesi, su immagini distorte che ci si scaglia contro vicendevolmente. Se è vero che anche chi resta in qualche modo si sente in viaggio, è anche vero che chi è partito in qualche modo si sente rimasto. Rimasti e partiti, senza enfasi e senza rancori, senza quel miscuglio di odio e amore, dovrebbero percepirsi nelle loro somiglianze e nelle loro diversità, legate a una particolare esperienza di vita, a un singolare rapporto con il luogo d’origine e con gli altri luoghi. 4 FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 Tornare o ritornare non restituiscono il tempo e i luoghi perduti. Non si torna come si era e al mondo com’ era. Si torna nel paese per guarire, per pacificarsi, per morire, per creare una nuova vita, ma niente è più lo stesso. Tutto è cambiato. Le persone di prima non ci sono più. Quelli di prima sono diventati altri. Noi non siamo più gli stessi. Non ritroviamo il nostro io che avevamo lasciato. Il tempo della gioventù è trascorso. Il tempo è passato. Non si torna più. Il paese non è più lo stesso né più andrebbe raccontato come se fosse quello del passato. Bisognerebbe camminare nei paesi, ascoltarli come si fa con gli anziani, proteggerli come si fa con i bambini, ma pure pretendere da essi che fioriscano e diano frutto, come cose vive. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei paesi e da essa potrebbe forse nascere un progetto capace di oggettivare bellezza e valori, di farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi in cerca di terra. Riguardare i luoghi significa guardarli altrimenti, con la levità di chi non vuole farsi soffocare dal passato, con la gioia di chi parla di cose amate. Riguardare i luoghi comporta avere un legame autentico con la tradizione. Significa riconoscerla, ma anche abbandonarne gli aspetti grevi e deteriori, legati ad una storia di miseria e di oppressione. Riguardare i luoghi significa riconoscerli per quello che oggi sono diventati, senza rimpianti lamentosi, senza nostalgie sterili, senza favole a lieto fine da raccontarci. Significa riconoscere genealogie, case, antenati, ma anche pensare ai bambini, a quelli che verranno. Riguardare i luoghi significa uscire fuori dal localismo, dagli spazi ristretti, sentirsi parte di luoghi aperti, mobili, correre il rischio dell’alterità. Sulla scena geografica del vecchio e nuovo mondo si affacciano individui e gruppi che hanno bisogno d’inventare il villaggio, le origini, la piccola patria come luogo di una diversità da recuperare, di una superiorità da ostentare. Ma la ricerca di patria, casa, radici, etnie può assumere i colori della retorica e della falsità. Il bisogno di luoghi non può essere ridotto sempre a particolarismo, ad affermazione di privilegi, a desiderio di presa di distanza dagli altri, di separazione anche fisica da essi. Nell’odierno sentimento dei luoghi è senz’altro vano coltivare l’angustia di una mente locale, in un mondo caratterizzato da non luoghi, standardizzato, cablizzato. Riguardare significa rispetto, attenzione, ma anche riflessione sulla necessità di un nuovo senso comunitario, di un nuovo senso pubblico. Al Sud la casa bella all’interno diventa brutta all’esterno: ci si difende dall’altro. Bisognerebbe interrogarsi su come affermare un senso civico e un nuovo ethos in un contesto dove trionfa la logica del «meglio oggi l’uovo che domani la gallina». Dove la pratica è accontentarsi, 5 FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 perché domani potrebbe andare peggio. Le costruzioni vengono lasciate incompiute. Si rimanda a tempi migliori, sperando che poi i figli in qualche modo le ultimeranno. Non accade più come con la prima emigrazione: gli emigrati partivano per fare un po’ di soldi, tornavano e acquistavano un podere, avviavano la costruzione della casa, ripartivano, fino a quando non riuscivano a terminare i lavori, magari dopo dieci-quindici anni. Oggi invece gli scheletri di cemento, alzati e non finiti, pilastri svettanti, senza tempo e senza meta, si levano come una superba ipoteca sul futuro, come un desiderio di controllare il tempo e quello che verrà, mentre in realtà raccontano un presente indistinto e senza telos. Le case bene arredate all’interno sono inguardabili da fuori. Si pensa che il dentro riguardi noi, l’esterno riguardi soltanto gli altri, visti come ostili. Non verranno terminate quelle case: i figli se ne sono andati, se ne andranno, non torneranno. Intanto intorno a noi impera un’esplosione di incompiutezza, di disordine e approssimazione, di assenza di regole e progetti. Allora, riguardare significa anche intercettare sguardi di cui non ci siamo accorti prima, avvolgere e coinvolgere altri occhi. Tessere una fitta rete di orizzonti che scardini il silenzio, che stimoli i forestieri, che turbi la politica, che la chiami a sè. I paesi vivranno se riusciranno a collegarsi, a interpellarsi, a trovare un senso anche nella solitudine e nei piccoli numeri. Riguardare i luoghi significa avere riguardo per tutti quei luoghi con cui abbiamo un legame, un pezzo di storia comune. Significa ripensare oggi il senso del nostro essere figli di emigrati e anche le modalità di stabilire un legame diverso con i discendenti degli emigrati che sono andati via. Riguardare i luoghi significa sentirsi abitante di una zona, di un territorio, del mondo. Quello dell’abitare e dell’esserci è il tema che ci lega agli abitanti dei non luoghi, dei non ancora luoghi, agli abitanti delle megalopoli, delle banlieus, delle periferie del mondo, anch’essi al centro di uno sconvolgimento che richiede un altro senso dell’abitare. Riguardare i luoghi significa rispettarli, non deturparli. Tutto questo non chiama in causa soltanto gli amministratori, ma anche le associazioni, il singolo cittadino. Riguardare i luoghi comporta avere riguardo per le persone, per gli anziani, per i giovani, creando forme di assistenza e di socialità. Riguardare i luoghi significa anche valorizzare le persone per quello che fanno, per quello che valgono. Anche accettandone difetti e limiti. Possiamo essere critici, ostili, avere voglia di fuggire, essere vinti dall’ira, ma ognuno di noi ha un obbligo con il proprio luogo e non può disertarlo. I legami sono fatti anche di mediazione e di tolleranza. 6 FORUM AREE INTERNE Orvieto, 8 – 9 maggio 2014 L’angolo letterario – 8 maggio 2014 Riguardare significa avere cura. E la parola cura è parola densa, parola che parte dalla sfera emozionale, oscillando tra sollecitudine, premura, attenzione, riguardo, fino ad indicare l’amore e la pena amorosa. Cura è pure preoccupazione, inquietudine. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica e parla di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali, di un’attenzione che si espande alla natura e alla terra, oltre che alle persone. La cura è amore che accetta, perché possiamo amare in modo maturo solo ciò che conosciamo nella sua verità e nudità. E i luoghi hanno bisogno di amore vero, quello che nasce da una salvifica schiettezza, quello che mette a nudo bellezze e bruttezze per esaltare la profonda complessità del reale. Cura dei luoghi significa anche farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere o imbellettare, nascondere o rifiutare in ogni modo. I luoghi hanno bisogno di cura, anche intesa come sistema terapeutico lucido, deciso, privo di tentennamenti. Cura è anche saper fare i conti con il dolore. L’avere cura non è soltanto un fatto etico, morale, estetico è anche una pratica concreta. L’agire superficiale non prevede cura, ma l’occultamento dei problemi, o una loro falsa soluzione. Cura significa avere attenzione per le persone, per i rapporti, per i legami. La cura ha una visione globale del corpo, del corpo-paese, del corpo-comunità e dell’alterità che al corpo si accosta. Riguardare per cambiare significa muoversi a piedi in quei luoghi che sembrano condannati all’inesorabile marginalità, e che invece potrebbero trasmettere vitalità al mondo. Riguardare è attraversare paesi e campagne, conoscere quelli che arrivano, apprendere l’arte del camminare vigile, silenzioso, spesso solitario. 7