Appendice - CISADU

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Appendice - CISADU
Katia Grilli
Percorsi antropologici per l'educazione interculturale: un'esperienza di ricerca nella scuola primaria
Tesi di laurea
Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in
Lettere - a.a. 2001/2002
Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Alba Rosa Leone
Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il
14 luglio 2004 http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html
Appendice - I "diari" di classe
Lo svolgimento della mia ricerca sul campo è stato fortemente limitato da due condizioni di partenza: né
io sentivo di possedere le competenze necessarie, né le maestre davano idea di aver ben compreso le
motivazioni e le finalità del progetto che insieme avremmo dovuto portare avanti. Non è stato facile
riuscire a convergere gli interessi, né svolgere con loro un lavoro di sostegno reciproco e di programmazione
delle attività didattiche. Questi diari possono essere considerati, senza pretesa di autorevolezza alcuna,
solo una pedissequa e puntuale riproduzione di tutto ciò che è avvenuto in classe nel corso della ricerca.
Esiste in me la consapevolezza di essere entrata in qualche modo a far parte della storia dei bambini ivi
narrata: per entrambi mi è sembrato a volte di dover scavare in un passato che non esiste (come nel caso
di Said) o che, se esiste, è stato ormai dimenticato (come nel caso di Elena).
Lunedì 22 gennaio
Il primo giorno, sono stata inserita in una classe di terza elementare, segnalata per la
presenza, tra gli altri, di un bambino italo-egiziano e di una bambina russa. Il mio
arrivò ha generato euforia e curiosità nello stesso tempo, ma non ho rivelato ai
bambini il vero motivo della mia presenza: volevo che lo svolgimento delle lezioni
proseguisse nel modo più naturale possibile, ma era un fatto troppo insolito per
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passare inosservato. I bambini, a dispetto dell’apparente ostilità della maestra,
sembravano felicissimi di accogliermi tra loro: mi sono resa subito conto che quel
mio arrivo improvviso non aveva bisogno di tante spiegazioni, almeno non per loro
che, dopo alcuni minuti, hanno cominciato a chiamarmi “maestra”.
Per non distrarre la loro attenzione, sono andata a sedermi all’ultimo banco, in fondo
alla classe, ma la mia presenza li incuriosiva e divertiva allo stesso tempo e facevano
altro che voltarsi per osservarmi. Said era eccitatissimo e cercava, in ogni modo, di farsi
notare: si alzava continuamente dal banco, alla ricerca di penne, matite e gomme da
cancellare e gironzolava per la classe disturbando anche i suoi compagni. Elena, invece,
è rimasta tutto il tempo in silenzio, seduta al suo posto: sembrava piuttosto che la mia
presenza la infastidisse e, non avendo il coraggio di voltarsi a guardarmi, mi sbirciava,
ogni tanto, con la coda dell’occhio.
La maestra di matematica stava interrogando alcuni bambini alla lavagna e uno di loro
ha cominciato a scrivere i numeri al contrario (cioè da destra verso sinistra), richiamando
l’attenzione di Said, che fino a quel momento era rimasto distratto: - «Che scrivi come
gli egiziani?», gli ha gridato «gli egiziani scrivono così...al contrario!».
Durante la lezione di italiano, la maestra ha parlato ai bambini delle differenze che
esistono tra la religione cristiana e quella islamica e ha chiesto a Said: - «Gli egiziani
vanno in chiesa?». Mi è sembrato che quella domanda lo avesse messo a disagio, e ha
risposto timidamente: - «No». - «Infatti..», ha ripreso la maestra «..gli egiziani vanno
nella Moschea, così come gli ebrei..», riferendosi a Sara «...vanno nelle sinagoghe. E voi
mangiate le stesse cose nostre? La mangiate la carne?», ha continuato sempre rivolta a
Said. Il disagio del bambino continuava ad aumentare e nelle sue risposte cercava, in
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ogni modo, di nascondere le supposte differenze: - «Anche in Egitto si mangiano gli
spaghetti!». - «Ma la mangiate la carne? La mangi la carne tu Said? Non devono
preparare cose diverse per te alla mensa della scuola?», ha insistito la maestra. La voce di
Said si faceva sempre più bassa, tanto che non siamo più riusciti a sentire le sue risposte.
- «Perché non parli più forte?», lo ha rimproverato la maestra e, rivolta verso di me: «Santo cielo, non so più quello che devo fare con questo bambino!»
Mercoledì 24 gennaio
Said si è fatto trovare impreparato sulla lezione di storia: per paura di essere interrogato
di nuovo, cercava di nascondersi dietro ai compagni ma la maestra, per guadagnare la
sua attenzione, gli ha chiesto di sedersi al primo banco. A malincuore ha radunato tutte
le sue cose e ha cambiato di posto anche se, una volta seduto, ha cominciato a piangere
dicendo di non volervi rimanere. In francese però è riuscito a prendere un bel voto:
questa volta, la maestra è stata molto comprensiva e, poco dopo, è tornato al posto tutto
contento anche per l’affetto che lei gli aveva dimostrato.
Al contrario, Elena non sembra avere problemi di inserimento di alcun tipo: in classe è
sempre attenta e preparata e i suoi quaderni sono pieni di bellissimi voti.. Tuttavia, è
diversa dalle altre bambine: già fisicamente sembra molto più grande e non le piace
molto parlare di sé (per questo è difficile per me riuscire ad instaurare un dialogo con
lei); preferisce stare da sola, oppure insieme alla sua compagna di banco, mentre le altre
giocano insieme (ad esempio, durante la ricreazione).
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Said è musulmano e non fa religione a scuola: di solito, durante la lezione, si sposta in
un'altra aula, insieme a Sara, una bambina di religione ebraica, accompagnati dalla
maestra di italiano: mentre lei sbriga le sue faccende, assegna loro alcuni esercizi da
svolgere, ma questo non avviene neanche sempre. Oggi mi ha lasciata sola con loro e
così abbiamo cominciato a parlare. Said mi ha detto che da grande vorrebbe fare il
pittore e disegnare “tutte le cose egiziane.....gli uomini, i segni” (riferendosi ai
geroglifici). Mi ha detto che preferirebbe vivere in Egitto, più che in Italia, e che gli
piacciono i cibi egiziani. In Egitto vive la famiglia di suo padre: - « Mia nonna era
egiziana, lei non ha mai conosciuto mia sorella. Tu la vuoi conoscere?». Nell’aula
accanto a quella dove eravamo ci sono le classi della materna e mi ha portato a
conoscere sua sorella, più piccola di lui di quattro anni.
Lunedì 29 gennaio
Questo è solo il terzo giorno e l’interazione con i bambini è perfetta ma la paura di
ferirli e di tradire, in qualche modo, la fiducia conquistata è ancora più grande. Non mi
chiamano più maestra (in realtà, non sono abituati a veder comportarsi così una normale
maestra), forse è per questo che, dopo soli tre giorni, si sono già affezionati tantissimo a
me, ai miei giochi, ai miei sorrisi. Io non riesco a dedicarmi in particolare a Said o ad
Elena e, soprattutto per quanto riguarda Elena, è anche difficile farlo: al contrario dei
suoi compagni (e di Said) fatica un po’ a lasciarsi andare. Oggi, vedendo che la sua
compagna di banco mi mostrava i suoi disegni, e non volendo essere da meno, anche lei
ha fatto lo stesso.
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Said mi ha chiesto, invece, di sedermi accanto a lui perché così avrei potuto aiutarlo ad
eseguire i compiti che la maestra gli aveva assegnato: doveva comporre delle frasi con gli
aggettivi qualificativi, dei quali non era riuscito ancora a comprendere bene il significato.
Ogni tanto, si avvicinavano al nostro banco gli altri bambini che chiedevano
suggerimenti per le loro frasi; anche Elena si è voltata un paio di volte (le eravamo seduti
dietro).
La maestra di matematica dice che il rendimento di Said è scarso perché i suoi genitori,
essendo persone di modesta condizione culturale e sociale, non riescono a seguirlo “più
di tanto” nello studio a casa. Said è molto preoccupato di suscitare nelle maestre un buon
giudizio perché ha un vero e proprio terrore dei loro rimproveri. Le maestre lo sgridano
spesso, sia per il suo scarso impegno e rendimento, sia perché si distrae in continuazione
per giocare con i suoi compagni, sia per il suo comportamento irrequieto. Al contrario,
mi sembra che la mia presenza lo rassicuri molto e lo stimoli anche nel lavoro in classe
che, da solo, non riesce quasi mai ad eseguire. Penso che questa sia, per lui, una
preoccupazione costante: il riuscire a farsi accettare, soprattutto dalle maestre. A questo
proposito è significativo ciò che è accaduto oggi in classe: la maestra di italiano, che
stava insegnando in un’altra aula, ha mandato a chiedere nella nostra un quaderno di
francese. Said è subito corso a prendere il suo per consegnarglielo ma, dopo cinque
minuti, la bambina che era venuta prima è tornata in classe, dicendo che la maestra
avrebbe preferito un altro quaderno che non quello di Said e lui c’è restato malissimo.
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Mercoledì 31 gennaio
- «La domenica, quando i cristiani vanno a Messa, ascoltano il Vangelo che è la “Buona
Novella” cioè l’annuncio del regno di Gesù!». Così la maestra ha spiegato ai bambini il
significato della parola “novella”. Mentre lei raccontava di quando la domenica va a
Messa con sua figlia, Said si è inginocchiato per terra e ha cominciato a pregare, come
fanno i musulmani. Era senza dubbio un modo per cercare di attirare l’attenzione ma la
sua reazione è stata comunque singolare. In principio, non avevo capito cosa stesse
facendo e l’ho sollecitato ad alzarsi ma lui continuava. Allora, l’ho guardato di nuovo e
gli ho domandato: - «Said, ma che stai facendo?» e lui mi ha risposto: - «Sto
pregando...noi preghiamo così quando andiamo nella Moschea!».
Said dice che, secondo lui, Sara dovrebbe fare religione a scuola perché: - «Gesù era
ebreo e lei è ebrea!». Sara gli ha spiegato che lei è ebrea perché gli ebrei non credono che
Gesù sia il Messia: - «Pensa che stupidi! Così lo stanno ancora aspettando: non
potevamo dire che Gesù era anche il nostro messia, così ci risparmiavamo un attesa
tanto lunga?!».
Mi aveva incuriosito il fatto che oggi, durante l’ora alternativa di religione, abbiano
cominciato a cantare una canzone sul Natale. Mi hanno spiegato che anche loro
partecipano alla preparazione delle recite durante il tempo di Natale, e imparano canzoni
e poesie sul Natale e a rappresentare la vita di Gesù, anche se Said sostiene di non aver
mai preso parte alla recita finale. Ascoltandoli parlare, continuavo a chiedermi in che
modo fossero riusciti a conciliare questi due aspetti della vita in classe: il fatto di non
poter (nel caso di Sara, per il divieto impostogli dai genitori) e non voler (nel caso di
Said, per l’influenza che la cultura del padre ha su di lui) partecipare alla lezione di
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religione a scuola, perché appartenenti a due religioni diverse; e il “dover”, ad ogni
modo, partecipare alle altre attività scolastiche che pure presuppongono lo scarto di
questa diversità, pena la loro totale esclusione dal gruppo. Probabilmente, la semplicità
con la quale, all’età di otto anni, i bambini si rapportano al mondo, ha fatto sì che questo
problema nemmeno li sfiorasse ma l’impressione che ho avuto è che ci sarebbero meno
significati contraddittori del mondo e delle cose se solo questi venissero spiegati.
Lunedì 5 febbraio
Oggi, Elena non è venuta a scuola: le sue compagne dicono che sia partita per la Russia.
Said ha voluto, di nuovo, che mi sedessi vicino a lui: ogni tanto, mi chiedeva
suggerimenti su come si scrivesse una tale o tal’altra parola, ma quasi si vergognava di
farmi leggere quello che scriveva, per paura che fosse sbagliato e “fare una brutta figura”.
Durante la lezione, ha cominciato a parlarmi dell’Egitto: - «Lo sai? una volta sono
salito su di un cammello altissimo!». - «E non avevi paura?», gli ho chiesto io. - «No!
Era grandissimo ma io non avevo paura, per niente!». - «Ci vai spesso in Egitto?», ho
continuato. - «Sì, spesso. Mi piace tanto! Io vorrei rimanerci per sempre ma papà non
vuole: lui è voluto venire a vivere qua, in Italia.......a me non piace l’Italia!», mi ha
risposto. - «Ma tu non sei nato in Egitto, vero?». - «No, io sono nato in Sardegna!».
Ho la sensazione che le sue “storie” siano più il frutto di una nutrita immaginazione che
reali, tuttavia è stato interessante scoprire come, attraverso i racconti, la sua fantasia
alimenti i suoi sogni.
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In classe di Elena e Said c’è un bambino filippino che si chiama Rolando e che non ha
ancora bene imparato a leggere e scrivere in italiano. Per questo motivo, a lui vengono
assegnati compiti diversi, rispetto ai suoi compagni. La maestra di italiano mi ha chiesto
se fossi stata disposta ad aiutarlo anche se, in realtà, c’è già chi si occupa di lui: certi
giorni, viene a seguirlo un ragazzo, un volontario, il cui ruolo sostituisce quello di un
insegnante di sostegno, alla cui presenza si è ormai “abituato”; al contrario, non vuole che
io mi avvicini. La maestra dice che si comporta così perché non mi conosce e “non sa che
voglio aiutarlo”: sembra quasi essere una mortificazione per lui. In realtà, da quando sono
arrivata, il ragazzo non è mai venuto e, in classe, il bambino non lavora affatto..
Durante la ricreazione mi sono accorta che Said non mangiava la sua merenda. Mi ha
detto che sua madre si era “sbagliata” nel mettergliela nello zaino perché per lui quello è
“un giorno di digiuno”, un giorno di “ramadan”, che è “una festa... che non si può
mangiare”. La religione musulmana non prevede che i bambini rispettino il digiuno del
mese di ramadan, che non dura un solo giorno ma l’intero mese, dall’alba al tramonto, e
quello era il primo giorno, secondo la suddivisione dei cicli nel calendario islamico. Poco
dopo, l’ho trovato che mangiava una caramella, allora gli ho detto: - «Said, ma oggi non
dovevi digiunare?». Lui ha alzato le spalle e, prima di correre via, mi ha risposto: - «Che
m’importa!»
Mercoledì 7 febbraio
Dopo avermi visto girare per i banchi e aiutare, con il consenso della maestra, gli altri
suoi compagni, Rolando mi ha chiesto anche lui di aiutarli e di restargli vicino mentre
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aspettava che la lezione (alla quale lui non poteva partecipare) si concludesse. Non che
Said non sia venuto a chiamarmi più di una volta perché tornassi da lui, di nascosto della
maestra. All’inizio, fu proprio lei a chiedermi di seguirlo, ma oggi si è arrabbiata
moltissimo dopo essersi resa conto che Said approfitta, sempre più, del mio aiuto per
non lavorare affatto. Dice che nel suo caso ci sarebbe bisogno di un vero e proprio
“sostegno”: - «Non riesce ancora a leggere e scrivere bene e speditamente in italiano, e
non può lavorare in classe se non c’è qualcuno che lo segue!».
Venerdì 9 febbraio
Elena è tornata a scuola dopo tanti giorni di assenza: è stata in Russia, lì vivono tutti i
suoi parenti, per questo è contenta di potervi tornare spesso. Le ho domandato se sa
parlare il russo e mi ha detto che non lo ricorda bene, perché era molto piccola quando
ha lasciato il suo paese. Avrei voluto continuare a parlare un po’ con lei ma Elena non è
come Said e, come al solito, le mie domande cominciavano ad infastidirla: mi sono
sentita come di forzare la porta di un mondo che è portata gelosamente a nascondere,
così ho desistito.
Oggi, anche Said e Sara hanno partecipato alla lezione di religione poiché la maestra li ha
portati a vedere il film “Giuseppe” (in cartoni animati). In realtà, ha molto esitato prima
di decidere se fossero potuti restare o meno. Entrambi lo avevano desiderato ma,
mentre salivamo le scale per raggiungere la sala video, Said mi ha detto che “non voleva
vedere un film su Gesù”. - «Questa non è la storia di Gesù!…», gli ho detto «...ma la
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storia di un principe egiziano!». Allora, tutto entusiasta ha gridato: -«Davvero! Allora lo
posso vedere.....allora, lo voglio vedere!» e ha cominciato a correre per arrivare primo.
Lunedì 12 febbraio
Di nuovo, Elena non è venuta a scuola. Quando sono entrata in classe, Said stava al
banco da solo ma questa volta non ha voluto che mi sedessi vicino a lui, piuttosto mi ha
chiesto di aiutare Rolando, che aveva “più bisogno di me”. Quest’ultimo era
completamente estraniato dalla lezione poiché, come succede sempre più spesso, mentre
gli altri compagni erano occupati ad eseguire i compiti che la maestra aveva loro
assegnato, a lui non era stato assegnato nessun compito alternativo e si trastullava a
ritagliare i fogli del suo quaderno, con il banco sommerso di carte, matite e oggetti di
ogni genere; ogni tanto si alzava e si avvicinava al banco di Said, distraendo anche la sua
attenzione.
In questi giorni di Carnevale, le maschere rappresentano l’argomento di maggior
interesse. Oggi, la maestra di italiano ha parlato delle differenze tra le diverse forme di
tradizione carnevalesca, riferendosi in particolare al Carnevale ebraico e filippino. Ha
chiesto a Said se in Egitto si festeggi il Carnevale, ma lui non le ha saputo rispondere. I
bambini non la stavano molto ad ascoltare, nemmeno Sara e Rolando: quest’ultimo
sfogliando il libro sulle pagine del Carnevale filippino, aveva trovato raffigurata la
bandiera del suo paese e continuava a ripetermi: - «Guarda, questa è la mia bandiera!
Guarda, la mia bandiera! Vuoi che te la disegni?». Alla fine, la maestra si è arrabbiata
molto, soprattutto con loro, e gli ha detto che “quel lavoro (cioè quello di parlare del
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Carnevale ebraico e filippino) lo stava facendo proprio per loro” e che, “se non erano
interessati nemmeno alle cose che riguardano la loro cultura, era inutile che continuasse
a spiegare”: - «É possibile che nemmeno questo vi interessi? Sara, non hai mai sentito
parlare del Purim? E tu Rolando, è come se non ci fossi in classe!». Mentre continuava a
rimproverarli, Said si è alzato in piedi e le ha chiesto: - «Perché Sara è ebrea? Gesù era
ebreo, perché lei non crede in Gesù?». Sembrava che quella domanda l’avesse colta un
po’ di sorpresa e che non riuscisse a trovare le parole giuste per rispondergli: - «Sara è
ebrea perché i suoi genitori sono ebrei..», gli ha detto «..e, quindi, hanno deciso che lo
fosse anche lei! Come per te Said: perché tu sei musulmano? Perché tuo padre è
musulmano e ha deciso che anche tu lo sia. Ma tua madre non è musulmana, vero?», gli
ha domandato. - «Non lo so..», ha risposto Said «…è della Sardegna!». - «Ma che
centra!?...», l’ha ripreso la maestra «... non ti ho chiesto di quale paese è, ma se è cristiana
o musulmana?». Said continuava a non capire, allora la maestra, un po’ spazientita, si è
rivolta alla classe dicendo: «Vedete, nel caso di Said si sono unite due culture e due
tradizioni diverse, quella italiana e quella egiziana, per questo la sua situazione è ancora
più complessa!».
Durante la ricreazione, mentre i suoi compagni giocavano fuori nel corridoio, Said è
rimasto in classe, per mostrarmi come sia capace di scrivere in arabo; dice anche di
saperlo parlare: ha cominciato ad emettere suoni strani. Non sono convinta che sia vero,
forse vuole imitare il padre, tuttavia ha finito con lo scrivere in “arabo” (lui lo chiama
“egiziano moderno”) il nome di tutti i suoi compagni di classe e anche il mio: - «Però»,
mi ha detto «per questa volta scrivo normale, comincio da destra, è più facile!».
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Mercoledì 14 febbraio
Said era nervoso, non parlava e non si alzava continuamente dal banco, come fa’ di
solito: le maestre lo avevano rimproverato perché si stava picchiando con un suo
compagno che, di nascosto, aveva mangiato i cioccolatini che lui aveva portato a scuola
per la festa di S. Valentino.
Durante l’ora di religione, ha chiesto di poter rimanere in classe con gli altri perché non
voleva stare fuori da solo. La maestra però non gliel’ha permesso perché ha detto che
“se fosse venuto a saperlo suo padre si sarebbe arrabbiato”. All’uscita di scuola, sua
madre si è arrabbiata molto per il fatto che le maestre lo avevano rimproverato,
intendendo che “il suo compagno, per primo, non aveva rispettato le sue cose!”.
Lunedì 19 febbraio
Anche oggi Elena non è venuta a scuola. La maestra di italiano ha finito di dettare gli
appunti sul Carnevale. In classe c’era anche la maestra disegno, che stava preparando i
cartelloni da attaccare con le maschere disegnate dai bambini e, sentendo parlare di
Carnevale ebraico e filippino, ha cominciato a dire a bassa voce: - «Non per essere
razzista, ma io non li sopporto più questi ragazzini! Va a finire che per studiare la loro
storia, ci dimentichiamo la nostra!». Intanto, si era avvicinata a noi l’altra maestra,
preoccupata per il fatto che sarebbe potuto nascere qualche problema, nel caso in cui il
papà di Said avesse trovato scritto, sul quaderno di suo figlio, qualcosa riguardante il
Purim ebraico. Allora quella ha ricominciato a dire: - «Santo cielo, che bella che era
prima la scuola, quando non c’erano tutti questi problemi! Mi dispiace, ma io proprio
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non ce la faccio a stargli dietro!». E l’altra: - «Io ci ho provato...ma visto come vanno le
cose, adesso ho rinunciato anch’io!».
Ho solo potuto immaginare quello che volevano intendere: la presenza in classe di
bambini stranieri può effettivamente rendere il lavoro degli insegnanti molto più
impegnativo e faticoso. Il mancato inserimento sociale o la scarsa conoscenza della
lingua allungano i tempi di svolgimento del normale programma, a causa delle continue
interruzioni per le spiegazioni aggiuntive e per i lavori di sostegno (quando questi si
attuano). In queste circostanze, a volte, la semplice pigrizia o distrazione del bambino
vengono attribuite alla sua origine straniera, anche quando questa non c’entra (come nel
caso di Said); oppure quando i problemi derivano proprio da questa, non si riesce a
trovare un modo di risolverli (come nel caso di Rolando) perché non si conoscono vie
per affrontarli: - «Questo scrivilo nella ricerca!», mi ha detto un giorno la maestra di
italiano, riferendosi a loro «Perché...vedi com’è: non si interessano di niente?!».
Martedì 20 febbraio
Elena non è venuta a scuola. Insieme alle maestre, ho accompagnato i bambini in visita
al museo etrusco di Villa Giulia. Alla partenza, abbiamo dovuto percorrere un pezzo di
strada a piedi per arrivare al pullman e, con fatica, siamo riuscite a mantenere ordinate le
file e a calmare l’esuberanza dei più scalmanati, tra cui Said e Rolando. Per tutto il tempo
della gita non hanno fatto altro che litigare: «Tu sei filippino!», gli gridava Said e Rolando
si arrabbiava.
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Di solito, anche a scuola, nell’intervallo tra una lezione e l’altra o durante la ricreazione,
si punzecchiano spesso: si rincorrono, si fanno dispetti ma, nonostante tutto, nel loro
modo di giocare, sembrano essere molto più uniti di tanti altri compagni (sebbene Said
continui a ripetere che Luca è il suo migliore amico, lo stesso che oggi lo ha chiamato
“maiale egiziano”). Mi è capitato di ascoltare Said dire che Rolando “non capisce perché
è filippino”. Le maestre fanno spesso questa constatazione: un giorno, parlando di
Rolando ad alta voce, la maestra di italiano mi rassicurò dicendomi che “tanto lui non
capiva ogni cosa”. Penso che, ascoltando anche le maestre, Said voglia intendere che
Rolando ha difficoltà a capire e parlare la nostra lingua.
Del resto, il disagio di Rolando emerge proprio a partire dal suo mancato inserimento
didattico. Ho già raccontato di come, durante lo svolgimento delle lezioni, rimanga
spesso isolato dal resto della classe, di come non sempre gli vengano assegnati compiti
alternativi di lettura o scrittura grammaticale, di come il più delle volte si trastulli
ritagliando fogli, disegnando, guardandosi intorno con aria assente. E tutto questo
dipende sì, dalla sua pigrizia che dipende, a sua volta, dal fatto di non riuscire a stare al
passo con i compagni. Ogni giorno che passa, cerca sempre di più il mio sostegno, sia
dal punto di vista scolastico che affettivo: mi prende per mano, mi vuole vicino. È come
se la mia presenza intervenga a farlo sentire uguale agli altri.
Venerdì 23 febbraio
Elena non è venuta a scuola. Io sono arrivata un po’ in ritardo rispetto gli altri giorni e
quando sono entrata in classe era vuota: i bambini erano andati in palestra, a fare
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educazione fisica e stavo per raggiungerli, ma per le scale ho incontrato Said: - «E tu che
ci fai qui?», gli ho chiesto «Non sei in palestra con gli altri?». - «Ho dimenticato di
portare il cuscino per fare gli esercizi e la maestra mi ha mandato fuori perché
disturbavo la lezione........ma non voglio tornare in classe da solo!», mi ha risposto. «Vuoi che proviamo a dirglielo insieme se puoi restare?», gli ho domandato. E lui: - «Sì!».
Così, l’ho preso per mano e siamo scesi in palestra: mi aveva promesso che da quel
momento si sarebbe comportato bene ma, una volta rientrato, ha ricominciato di nuovo
a bisticciare con Rolando che pure non faceva ginnastica: - «Zitto tu che sei filippino!..»,
gli gridava « …e hai le orecchie piccole piccole!». - «Che c’entra che ha le orecchie
piccole con il fatto che sia filippino?!», l’ho ripreso io «E poi non è vero! Anche tu hai le
orecchie come le sue, vedi?> e gliel’ho scoperte. Ma continuava a prenderlo in giro,
allora Rolando gli ha detto: - «E tu sei egiziano!», senza trovare nessun particolare difetto
da sottolineare.
Per qualche strano motivo Said associa l’essere filippino a qualcosa di negativo, ma mi
chiedo quanto il suo giudizio possa essere condizionato da ciò che sente dire sul suo
conto. Forse perché Rolando non riesce a parlare bene la nostra lingua e i suoi
compagni spesso lo escludono. D’altra parte, se è vero che esistono delle differenze e
che i bambini notano queste differenze, è anche vero che una loro prima valutazione
avviene proprio a partire dall’ ambiente scolastico che li circonda, anche se di questo
spesso non ci si rende nemmeno conto. I bambini si trovano a vivere in un contesto in
cui per prime le maestre parlano delle differenze, in riferimento ai diversi gradi di
apprendimento che i bambini presentano; in secondo luogo, le famiglie parlano delle
differenze in riferimento, ad esempio, alle loro tradizioni religiose (come nel caso di
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Said); e l’ambiente scolastico, di per sé, parla delle differenze, mettendo in relazione
bambini diversi per condizione sociale, culturale, religiosa. Il problema consiste allora
nel trovare un modo in cui parlare ai bambini delle differenze, senza creare in loro un
falso giudizio su ciò che è diverso.
A scuola, i bambini non soltanto vivono la diversità, loro e dei loro compagni, ma ne
sentono parlare sempre e nei più svariati modi: sentono i giudizi altrui sulla diversità e
fanno propri questi giudizi, a volte senza nemmeno capirne il reale significato. A mio
avviso, è quanto si è verificato oggi tra Said e Rolando e a confermare questa
impressione sta il fatto che, poco dopo, i due hanno ripreso a giocare come se niente
fosse successo.
Lunedì 5marzo
Dopo una settimana di vacanza (per la chiusura durante le elezioni parlamentari), oggi i
bambini sono tornati a scuola e ognuno aveva qualcosa da raccontare sul tempo
trascorso fuori. Solo Elena è rimasta per tutto il tempo in silenzio, ad ascoltare i
compagni che gridavano per riuscire a farsi sentire. - «E tu cosa hai fatto in questi
giorni?», le ha chiesto la maestra. - «Sono andata al mare», ha risposto Elena. - «Alle
Maldive! Elena è stata alle Maldive!», hanno gridato i suoi compagni.
Tema: Il viaggio alle Maldive.
“Domenica 18 febbraio siamo partiti per le Maldive. Il viaggio in aereo è stato molto lungo e per
questo siamo arrivati lunedì 19 febbraio. Lunedì appena arrivati ci siamo messi il costume e siamo
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subito andati a farci il bagno. Quel giorno era il compleanno di mia nonna e l’abbiamo festeggiato con
una torta buonissima e dei regali bellissimi”.
Said non è venuto a scuola ma all’uscita lo abbiamo incontrato, probabilmente perché
con sua madre è tornato a prendere sua sorella. Secondo il calendario delle festività
musulmane oggi si celebra la festa dell’ ‘Iid al-Fitre (o festa della fine del digiuno). Il
calendario islamico comprende 12 mesi lunari, così l’anno risulta di 354 giorni: la festa
del digiuno cade nel decimo mese (Shawwal) successivo al Ramadan. Said questa mattina
è andato in moschea, con suo padre, per questo non è venuto a scuola.
Tema: La festa del sacrificio.
“Stamattina mi sono preso un giorno di vacanza dalla scuola per andare alla festa del sacrifico che in
egiziano si dice l’Aid. La festa del sacrificio è simile alla pasqua dei catolici. Io con papà oggi sono
andato alla moschea e o pregato, e poi quando abbiamo finito di pregare siamo andati al bar di mio
papà e gli amici di papà mi hanno dato i soldi, perché nel giorno del sacrificio si danno sempre i soldi ai
bambini che li danno i genitori e gli amici dei genitori. Io ero felice perché sono stato con il mio papà e ho
ricevuto tanti soldi”.
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Lunedì 12 marzo
Mi sembra che, ogni giorno che passa, le maestre siano sempre più infastidite dalla mia
presenza in classe: nessuna di loro, a mio avviso, a ben compreso il senso, i modi e le
finalità della mia ricerca. Il loro comportamento nei miei confronti mi fa pensare di
essere soltanto un’ingombrante impedimento allo svolgimento regolare delle lezioni. Si
preoccupano soprattutto di assicurarsi che, dalla mia analisi, risultino chiare le loro
competenze culturali e manifeste le loro idee “dichiaratamente” e “inequivocabilmente”
anti-razziste. Per questo motivo, continuano ad assumere atteggiamenti contraddittori,
davanti a me e davanti ai bambini. Tutte, tranne la maestra di religione, non fanno altro
che sbagliare i modi di interazione e di mediazione e, in nessun modo, mi aiutano ad
entrare in comunicazione con i bambini, tanto meno con le famiglie. Io ho un bel da
fare, nel cercare di smorzare i toni di contrasto che, a partire dal loro comportamento, si
legano alla mia presenza in classe.
Mercoledì 14 marzo
Teresa è una bambina spagnola che, come Said e Rolando, trova molta difficoltà nel
restare al passo con il resto della classe. Ma nel suo caso, come nel caso di Elena (ma per
diverso motivo), non viene considerato il fatto che sia straniera. Di questo è causa: per
l’una (Teresa), il provenire da un paese europeo e il non possedere differenze somatiche
che la distinguano dagli altri bambini; per l’altra (Elena), il non presentare significativi
ritardi nel rendimento scolastico. Le maestre dicono sempre a tal proposito che “Elena
non dà problemi”.
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Durante l’ora di religione, che come al solito trascorre fuori (ormai quasi sempre in mia
compagnia), Said mi ha chiesto di aiutarlo a fare i compiti per casa. La maestra lo ha
sgridato per questo: - «A questo ti serve non fare religione a scuola?». D’altra parte però,
per tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme, lei non si è preoccupata minimamente
di vedere che cosa stesse facendo.
Per non essere costretto ad uscire, prima che arrivasse la maestra di religione, si era
nascosto dentro l’ armadio che si trova in fondo alla classe e che viene di solito usato
per riporre il materiale didattico. Nessuno riusciva più a trovarlo ma, una volta scoperto,
ha cominciato a piangere e a dire di voler restare in classe con gli altri suoi compagni,
visto che oggi non c’era neanche Sara a fargli compagnia. Piangeva tanto che, per un
po’, la maestra gli ha permesso di restare e, per coinvolgerlo nella lezione, gli ha chiesto
di parlare della sua religione. Said ha raccontato di quando suo padre lo porta in
moschea, a pregare: ci ha detto che i musulmani, prima di entrare nella moschea, devono
togliersi le scarpe, in segno di rispetto e che anche lui se le toglie “perché tanto per terra
ci sono i tappeti”; ci ha detto che tutti si inginocchiano sopra i tappeti, e che tutti
pregano con le braccia alzate, e anche lui.
Lunedì 19 marzo
Nel pomeriggio, ho avuto modo di parlare con le maestre, nel tempo della
programmazione didattica, per cercare di rendere espliciti ancora una volta gli obbiettivi
della mia ricerca e soprattutto gli ostacoli che, fino a questo momento, l’ hanno resa
difficile.
188
Purtroppo, la coordinatrice (maestra di storia) è stata più che mai risoluta nel precisare
che non mi avrebbe permesso di entrare in contatto con i genitori dei bambini, tanto
meno se a fare da intermediario doveva essere lei. Ha insistito nel dire che nessuno di
noi ha il diritto di intromettersi nella vita di queste famiglie. E poi: - «In che modo farlo
senza che abbiano ad infastidirsene? Per quanto riguarda il papà di Said, non è persona
con la quale poter parlare», mi ha detto «e poi non viene mai nemmeno alle riunioni, a
parlare con noi! La situazione familiare di Elena, invece, non è molto chiara: lei vive con
sua madre e il suo compagno, che non siamo ancora riuscite a capire di cosa si occupi.
Comunque sia, di qualsiasi lavoro si tratti, non è cosa molto pulita, a giudicare dal loro
tenore di vita». Insomma, soprattutto per lei, intendeva dire, è meglio non ficcare troppo
il naso in affari che non ci riguardano.
Per il lavoro da svolgere in classe, dopo aver messo ben in chiaro che durante le ore di
lezione nessuna di loro potrebbe, in alcun modo, venire incontro alle mie esigenze,
hanno deciso di assegnarmi delle ore settimanali, durante le quali poter portare avanti un
progetto personale (che loro supervisionerebbero, ma la messa in pratica del quale
sarebbe affidata esclusivamente a me). A dispetto di quella che potrebbe sembrare una
situazione ideale, il pensiero di dover lavorare da sola, senza il sostegno e l’autorità
legata alla presenza di una maestra, mi disorienta non poco.
Lundedì 26 marzo
Qualche giorno fa’, la maestra di italiano aveva informato la mamma di Said riguardo ciò
che era accaduto in classe durante l’ora di religione, e gli aveva chiesto se non ritenesse
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opportuno lasciare che il bambino restasse a seguire la lezione, qualora lo desiderasse. In
principio, sembrava che anche suo marito avesse acconsentito; ma parlando con lei
all’uscita di scuola, mi ha detto che, dopo averne parlato di nuovo, era piuttosto
convinto del contrario, e che non riusciva a spiegarsi il motivo di una tale discussione:
Said avrebbe continuato a scegliere di non fare religione a scuola.
Mercoledì 28 marzo
In questo periodo cominciano i preparativi per la Pasqua: Sara ha voluto raccontarmi
come lei festeggi la Pasqua ebraica: «Pasqua si dice Pesach, da noi commemora la
liberazione degli ebrei dalla schiavitù nelle terre d’Egitto e dura una settimana. Nella
prima sera, a cena mangiamo pane azzimo e erbe amare e il mio papà dice: “Ecco il pane
di miseria, che i nostri antenati hanno mangiato nel paese d’Egitto!”. Poi, versa il vino
nei bicchieri ma nessuno beve perché, a questo punto, i bambini devono chiedere: “In
che cosa questa sera si distingue dalle altre? Perché le altre sere mangiamo pane lievitato
e questa sera pane non lievitato? Perché tutte le altre sere mangiamo erbe di tutti i tipi e
stasera solo erbe amare?”. Mio padre, per rispondere alle nostre domande, apre il libro
dell’Haggadah e dice: “Noi eravamo schiavi del faraone d’Egitto e Dio ci ha fatto uscire
da questo paese.....”». Sara festeggia sia la Pasqua ebraica, sia la Pasqua cristiana, poiché
i suoi nonni materni sono cristiani. - «Lo sai che gli ebrei non possono pronunciare il
nome di Dio, che è Jahve, ma io lo dico sempre!».
Avevo portato a scuola due libri di fiabe illustrate per bambini, fiabe di tradizione
musulmana ed ebraica che avrei voluto leggere a Said e Sara durante l’ora di religione.
Sul primo dei due, in appendice, compariva l’alfabeto arabo, con alcune parole scritte
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nella stessa lingua, che Said ha subito cominciato a leggere (o dovrei dire, a far finta di
leggere). Già da qualche tempo sospettavo che il “suo arabo” fosse, in realtà, una lingua
del tutto inventata così gli ho chiesto se fosse stato in grado di tradurre certe parole che
io e Sara avremmo scelto: - «Come si dice “fiore”, Said? E “casa”? E “papà”? E come si
dice “mamma”? Come si dice “fiore”?». Lui rispondeva alle nostre domande, sforzandosi
sempre di farlo prontamente e in modo credibile, non accorgendosi che, ad intervalli più
o meno lunghi, continuavamo a chiedergli di tradurre sempre le stesse parole che lui,
distrattamente, continuava a tradurre in modo sempre diverso. - «Come hai detto che si
dice “fiore”? Ma prima non l’avevi tradotto in modo diverso? Imbroglione! Tu ci prendi
in giro, non è vero che conosci l’arabo!». «No, non vi prendo in giro, lo giuro!»,
rispondeva ma, alla fine, ha dovuto arrendersi e ammettere che stava fingendo: - «Anche
quel giorno, ti ricordi? Quando ho scritto in arabo il nome di tutti i miei compagni? Ho
fatto finta! In realtà me lo sono inventato, perché non ero capace».
Sempre perché si sta avvicinando la Pasqua, ho chiesto alla maestra di religione se avesse
già parlato della differenza tra la Pasqua ebraica e quella cristiana. Lei mi ha detto di no e
le ho proposto di farlo insieme, che avrei potuto portare dei libri adatti ai bambini; e le
ho chiesto anche se alla lezione poteva partecipare Sara (e di conseguenza Said, che
sicuramente non sarebbe voluto rimanere da solo, fuori dalla classe). Lei è stata
d’accordo ma alla fine non se ne è potuto fare niente poiché la mamma di Sara ha
pensato che avessimo voluto indottrinare sua figlia sulla religione: - «È come se un
rabbino si mettesse a fare catechismo a dei cristiani!», ci ha detto «Senza contare il fatto
che io sono proprio contraria all’insegnamento della religione nella scuola».
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Lunedì 2 aprile
Per rimanere legata al programma che stanno svolgendo quest’anno e nella speranza di
ricevere un piccolo appoggio da parte della maestra di italiano, ho pensato di cominciare
il discorso sull’identità a partire dalla lettura di una fiaba, “Il brutto anatroccolo”, di C.
Andersen. La storia è nota: si tratta di un anatroccolo “brutto”, perché più grande e più
sgraziato dei suoi fratelli che, solo dopo avventure e peripezie vissute fuori dal cortile di
nascita, da cui è stato scacciato, scopre di essere diventato un bellissimo cigno. La forza
di questa storia sta tutta nella metafora autobiografica che essa nasconde: è la storia di
un’infanzia “diversa” che si crede a lungo “sbagliata”, oppressa da molti che vogliono,
“per il suo bene”, omologare il giovane cigno sempre a qualche cosa di diverso da lui
(anatra, gallina, gatto). Il messaggio che volevo giungesse ai bambini riguarda sia il
riconoscimento della propria identità, sia la diversità dei punti di vista e la tendenza dei
personaggi ad apprezzare solo l’identico a se e mai il diverso. Dopo aver letto la fiaba in
classe, ho chiesto ai bambini di identificarsi con i personaggi, a seconda della
caratteristiche che presentavano. In un secondo momento, gli avrei chiesto di disegnare
il “mondo immaginario”, di cui parlava il racconto, dal punto di vista dell’anatra, della
gallina e degli altri animali protagonisti della fiaba, nei quali si erano identificati. In
questo modo avrebbero tracciato la loro “finestra sul mondo”.
Li ho lasciati liberi di
considerare gli animali sia per le caratteristiche che presentavano nella fiaba, sia per le
caratteristiche che li contraddistinguono anche nel mondo reale. Ad esempio, qualcuno
avrebbe potuto scegliere di identificarsi con il gatto perché si sentiva furbo, scattante,
curioso, etc..., come lui. Sapevo che questo esempio poteva essere un intervento teso a
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condizionare la loro scelta (e infatti la maggioranza dei bambini ha scelto il gatto, con
simili motivazioni) ma non potevo astenermi dal farlo, per far comprendere loro il
criterio con il quale avrebbero dovuto lavorare. Soltanto due bambini si sono identificati
con il brutto anatroccolo, motivando così la loro scelta: “Perché quando gioco con i più grandi
mi prendono in giro, come le anatre al brutto anatroccolo” e “Certe volte mi sento offeso”. Otto
bambini su diciassette hanno scelto il gatto, compresa Elena che ha scritto: “Ho scelto il
gatto perché mi piace essere curiosa e mi piacciono le coccole che mamma mi fa ogni giorno, mi piace
molto e ho due gatti”. Said aveva scelto, anche lui, il brutto anatroccolo ma poi ha cambiato
idea e ha scelto l’anatra e questa è stata la sua motivazione: “Ho scelto l’anatra perché mi
piace e perché sono brutto e sono antipatico come lui”. Questo conferma la mia idea circa la
disistima che ha di se stesso: l’ho ascoltato, infatti, più di una volta, definirsi “stupido” e
mortificarsi perché le maestre lo avevano sgridato.
Mercoledì 6 aprile
Riprendendo la mia idea di creare con la carta gli animali-personaggi della fiaba, la
maestra di italiano ha chiesto ai bambini di inventare delle storie da rappresentare in
forma di teatrino, utilizzando i personaggi ritagliati e incollati su apposite bacchette di
legno. Pochi di loro sono stati capaci di inventare una propria storia e quasi tutti hanno
modificato il testo di alcune fiabe più conosciute, come ad esempio “Biancaneve e i sette
nani” o “La Sirenetta”. Questa è la fiaba che ha inventato Elena:
Invento una fiaba: La città delle fate: la fata Celestina, la fata principessa e la fata nera
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“C’era una volta il paese delle fate, governato dalla principessa Viola, che aveva due figlie di nome
Rosina e Celestina. La figlia più grande era la più vanitosa di tutte le fate; la figlia più piccola era la
più bella del paese, ma nessuno era invidioso di lei. Un giorno, la fata Nera decise di trasformarsi in
una piccola fatina consigliera, per poter diventare la principessa del paese fatato. Celestina, che stava
passando da quelle parti, sentì tutto e con il suo unicorno bianco tornò subito a casa per avvertire la
madre. Arrivata davanti alla madre disse: <Madre, la fata Nera si vuole trasformare in una fata
consigliera per prendere il tuo posto!>. <Cosa? Quella fata malvagia vuole prendere il mio posto! Mai e
poi mai!>, disse la principessa Viola. Celestina ebbe un piano per far capire alla fata Nera chi
comandava in questo paese e chi no. Durante la notte Celestina chiamò tutte le fatine consigliere, perché
aveva tutti i nomi segnati sulla carta magica. Chiedendo il nome alle fatine scoprì chi era la fata Nera e
la uccise con la polvere celeste che non era mai riuscita ad usare. E così tutti fecero festa per la sconfitta
della fata Nera e vissero per sempre felici e contenti.”.
E questa, invece, la storia inventata da Said:
Invento una fiaba: La signore forbice e il signor foglio
“ La signora forbice cercava sempre di prendere il signor foglio, per tagliarlo. Un giorno, la signora
forbice preparò una trappola per il signor foglio. La signora forbice bussò alla porta del signor foglio e
lasciò della colla alla porta, poi il signor foglio ci cascò e la signora forbice lo prese e il signor foglio prese,
pure, la colla e la signora forbice correva fino a casa sua, mentre il signor foglio si incollò l’orecchio. Poi il
signor foglio scivolò nelle mani della signora forbice e la signora forbice prese una signora foglio e la
signora foglio si innamorò del signor foglio e pure lui, e si presero la mano e poi la signora forbice lei
tagliò a tutti e due, e la signora se ne andò via contenta.”
194
Quest’anno, come “lavoretto” di Pasqua da consegnare ai genitori, la maestra di disegno
ha fatto preparare ai bambini delle campane, fatte con il DAS. Oggi, mentre stavano
finendo di colorarle, ho notato che la campana di Said aveva una scritta diversa rispetto
a quella dei suoi compagni: - «È meglio che a lui scriviamo solo così “Auguri di Buona
Pasqua”, anziché “Auguri di una felice e serena Pasqua”», mi ha spiegato la maestra (che
poi ancora non ho ben capito a cosa possa servire questa distinzione). Dice che “in
questo modo il bambino lavora come gli altri (anche se poi, proprio come gli altri, non
è) e non si sente escluso”: - «Magari non capisce il significato di quello che sta facendo
ma....in fondo che possiamo farci noi? Cerchiamo un punto di mediazione, come per la
recita di Natale, che ogni anno si cerca di non fare diretto ed esplicito riferimento alla
nascita di Gesù». Ma non è, forse, anche questa, una sorta di manipolazione?
Lunedì 9 aprile
“Questo è il mio mondo”: la seconda unità didattica del mio progetto di lavoro
prevedeva che i bambini cominciassero a parlare di loro stessi. Attraverso il linguaggio
figurativo (ho ritenuto, infatti, maggiormente appropriata e più semplice da instaurare
una comunicazione di questo tipo, trattandosi di bambini di otto anni), ho chiesto ad
ognuno di loro di rappresentare il “mondo in cui vivono”: i luoghi, le persone, le cose che
ne fanno parte.
Sembravano piuttosto smarriti poichè non riuscivano a trovare nessun elemento di
identificazione: - «Il mio mondo? E che cos'è il mio mondo?», mi hanno chiesto molti di
195
loro. Per la prima volta, probabilmente, gli veniva chiesto di riconoscersi all’interno di
un contesto, un qualsiasi contesto. Era evidente che nessuno di loro si fosse mai posto il
problema. Alla fine, quasi tutti hanno disegnato la loro casa, i loro amici, la loro famiglia,
le attività che svolgono durante il giorno, ciò che preferiscono fare, ciò che gli piace. Per
questo, penso sia significativo il fatto che Said, al posto della casa, abbia disegnato una
piramide (pur senza aggiungere nulla di nuovo a quanto già sono riuscita ad apprendere
sul suo conto), accanto a un pupazzo che dovrebbe rappresentare il suo giocattolo
preferito, “Dragonball”, dall’aspetto un po’ inquietante a dire la verità. Elena invece ha
disegnato diversi oggetti: un pentagramma con due note musicali, a rappresentare la sua
passione per la musica; dei fiori; un gelato; un regalo; un letto, a rappresentare la sua
casa; un piatto di spaghetti; il mare; una maschera e un cappello a punta, come quelli che
si portano a Carnevale; una televisione; un uovo di Pasqua; un libro, che rappresenta il
suo amore per lo studio. In un angolo c’è scritto: “Primavera”; e poi ancora: “La mia
casa”, “La mia famiglia” e “Le mie amiche” e in basso “Scuola”.
Mercoledì 11 aprile
Tra pochi giorni la scuola chiuderà per le vacanze di Pasqua. Said mi ha detto che partirà
per la Sardegna con sua madre, anche se avrebbe preferito restare a Roma con suo
padre: «Non mi piace andarci!», mi ha detto «Anzi farò di tutto per non andarci» . - «Tuo
padre non viene con voi?>, gli ho chiesto io. - «No! Mio padre deve lavorare. Lui lavora
in un bar, fa’ il barista, e io voglio rimanere con lui». - «E tua madre che lavoro fa’?». «Mia madre pulisce le case!». In quel momento, è intervenuta Sara: - «Io lo conosco il
papà di Said, lo vedo sempre quando vado al bar!». - «Io pure ci vado sempre..», ha
ribattuto prontamente Said, quasi per paura di rimanere escluso «...mio padre mi porta
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spesso a lavorare con lui, mi fa’ sparecchiare e apparecchiare i tavoli, mi fa pulire il
bancone, mi fa lavare i bicchieri! A me piace tanto lavorare al bar, vorrei starci sempre. Il
pomeriggio, dopo che ho finito i compiti, vorrei sempre andarci ma da solo non posso
perché è lontano, allora vado a giocare in un posto che sta sotto casa, dove ci vanno
anche gli altri bambini e ci sono anche i videogiochi!».
Lunedì 23 aprile
“Io e l’altro a confronto”: questa è la terza unità didattica. Utilizzando, di nuovo, il
linguaggio figurativo come mezzo di comunicazione e comprensione della realtà, ho
chiesto ai bambini di rappresentare dapprima se stessi in un autoritratto e, in secondo
luogo, il proprio compagno di banco. L’intenzione era quella di fargli scorgere, previa
osservazione e successiva riproduzione, le differenze (per ora soltanto fisiche) che
ciascuno avrebbe riscontrato tra se e i compagni: innanzitutto, avrei potuto scoprire in
che modo essi vedono se stessi (se pure questa analisi era limitata alle sole caratteristiche
fisiche); poi, nel modo in cui avrebbero ritratto i loro compagni, avrei potuto notare la
differenza nel modo di vedere gli altri, quali caratteristiche fisiche, in questo caso,
avrebbero messo in risalto.
I loro disegni mi hanno suggerito le seguenti riflessioni: per quanto riguarda Elena, ha
ritratto la sua compagna di banco rendendola quasi uguale a lei, solo con un diverso
colore di capelli; al contrario, Said (a parte il suo modo di disegnare ancora molto
infantile) ha cercato di sottolineare la differenza negli occhi: il suo compagno è
anonimo, non ha naso, ha per bocca occhi due puntini e per bocca una linea sottile,
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leggermente incurvata. D’altra parte, ha messo in risalto i suoi occhi, rendendoli simili a
quelli degli antichi egiziani dipinti sui papiri, il suo naso e la sua bocca.
Mercoledì 2 maggio
La quarta unità didattica prevedeva che i bambini compilassero una tabella relativa a vari
aspetti della loro personalità: aspetto fisico, dei sentimenti, delle conoscenze, della
fantasia. In questo modo avrei potuto conoscere, oltre alle caratteristiche fisiche di
ognuno, anche quegli aspetti della personalità che, di solito, rimangono più nascosti.
Avevo preparato la scheda in questo modo: i dati relativi all’aspetto fisico riguardavano
il nome, il cognome, l’altezza, il colore degli occhi e il colore dei capelli; i dati relativi
all’aspetto dei sentimenti riguardavano gli stati d’animo, ad esempio: sono felice
quando..., sono triste quando..., ho paura di..., voglio bene a..., mi piace..., etc...; i dati
relativi all’aspetto delle conoscenze riguardavano le attitudini particolari di ognuno, ad
esempio: sono bravo in..., sono capace di..., sono appassionato di...; infine, i dati relativi
all’aspetto della fantasia riguardavano i desideri: vorrei fare..., vorrei essere..., vorrei
diventare..., vorrei cambiare... .
Nel riportare le tabelle ho conservato volontariamente gli errori di ortografia che vi
figuravano. C’è da notare che alcune risposte, soprattutto nella tabella compilata da
Magdy, non possono essere considerate per la loro veridicità, per la poca serietà con la
quale sono state date:
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ASPETTO FISICO
ASPETTO DEI SENTIMENTI
Nome: Elena
Sono felice quando: gioco con i miei
gatti
Sono triste se: mamma e papà buttano
fuori i gatti
Mi piace: giocare con il computer
Non mi piace: la minestra
Ho paura di: serpenti
Mi arrabbio quando: non voglio
andare a dormire
Voglio bene a: mamma e papà
Mi piace giocare con: piombo, il mio
gatto
Altezza: 1.42
Occhi: verdi
Capelli: biondi
ASPETTO DELLE CONOSCENZE
ASPETTO DELLA FANTASIA
Sono brava in: Italiano
Sono capace di: leggere libri di architettura
Sono appassionata di: tiro con l’arco
So usare: l’arco
Vorrei fare: il dottore
Vorrei essere: grande perché voglio
lavorare
Vorrei diventare: dottore
Vorrei cambiare: aspetto
ASPETTO FISICO
ASPETTO DEI SENTIMENTI
Nome: Said
Altezza: 120 metri
Sono felice quando: vedo Dragonball
Sono triste quando: non vedo mia
sorella
Mi piace: giocare a lotta
Non mi piace: fare sesso
Ho paura di: gnente
Mi arrabbio quando: mi menano
Voglio bene a: mia sorella
Mi piace giocare con: Dragonball
Occhi: marroni
Capelli: marroni
ASPETTO DELLE CONOSCENZE
ASPETTO DELLA FANTASIA
Sono bravo in: Matematica
Sono capace di: nuotare
Sono appassionato di: combattere
Vorrei fare: il pittore
Vorrei essere: un guerriero
Vorrei diventare: un ciclone
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So usare: monopatino
Vorrei cambiare: C. (fa il nome di
un compagno)
Lundedì 7 maggio
A metà della lezione di religione, ho raggiunto Said nell’altra aula: era molto nervoso
perché la maestra lo aveva sgridato; non aveva voglia di eseguire i compiti che gli aveva
assegnato e non parlava. La maestra, con calma questa volta, gli ha chiesto: - «Perché fai
così? Perché non ascolti quello che ti diciamo? Sei sempre distratto, non esegui i
compiti, stai sempre a giocare? Non ti piace stare a scuola? Non vuoi imparare cose
nuove?». Lui non osava sollevare la testa. - «Perché non rispondi?», ha continuato la
maestra « Non parla, è inutile! Vedi com’è? Io non capisco perché debba comportarsi
così». - « Non voglio stare in questa scuola!», ha sussurrato Said. Io non avevo capito. «Non ti piace questa scuola, vero?», ha ripetuto la maestra e rivolta verso di me: «Io lo
so, a lui non piace stare qui, avrebbe preferito un’altra scuola, vero Said?». - «Sì!», ha
risposto lui sempre a bassa voce. - «E perché?», gli ho domandato io. - «Perché mi
prendono in giro! E poi l’anno scorso c’era un bambino che mi menava sempre». «Jacopo!», ha esclamato la maestra «Non puoi capire l’anno scorso che cosa hanno
combinato insieme. Sì, ma quest’anno non c’è più!», gli ha detto. - «Io vorrei andare
all’asilo per sempre, così posso giocare senza che nessuno mi rimprovera», le ha risposto
Said. - «Ma non puoi giocare sempre!», gli ha detto la maestra «Devi anche studiare per
imparare cose nuove!». Intanto Said aveva cominciato a disegnare e sembrava che quel
discorso, ormai, non gli interessasse più. La maestra se n’è andata e poco dopo, anche
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noi siamo tornati in classe, perché la lezione stava ormai per finire e sia Said che Sara si
sarebbero dovuti preparare ad uscire.
Mercoledì 9 maggio
La quinta unità didattica, che introduceva il discorso sull’alterità, prevedeva la lettura di
un brano tratto dal libro di Margaret Mead “Crescita di una comunità primitiva”, in cui
l’autrice parla dell’educazione dei bambini Manus, una popolazione dell’Oceania.
Cosciente del fatto che possa risultare un po’ strano, vorrei precisare che ho preso
spunto da una proposta didattica presente nella rivista “Scuola italiana moderna” del
mese di febbraio, che nella sezione riservata alla didattica interculturale, proponeva di
guidare progressivamente gli alunni “ad ampliare l’orizzonte culturale e sociale oltre la
realtà ambientale più prossima e in particolare” per portarli:
“ a una chiara differenziazione fra sé e l’ambiente. Nel secondo ciclo della scuola elementare l’azione
educativa deve aiutare bambini e bambine a maturare coscienza e capacità di vivere con gli altri, di
affrontare i problemi legati alla convivenza e di assumere gradualmente responsabilità personali che
consentono di operare perseguendo il bene comune. A questo scopo incontriamo i bambini
Manus. Le cure dei genitori per i figli non sono una caratteristica peculiare della nostra società. A
seconda dei diversi contesti naturali e culturali, può cambiare la struttura della famiglia, ma l’attenzione
ai problemi educativi dei bambini, con l’intento di incoraggiarne la ricerca della massima autonomia, è
presente in tutte le comunità sociali.” (da Scuola italiana Moderna, didattica di marzo per la
classe terza, pg 53 e sg.)
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Il testo di M. Mead è risultato utile a questo scopo, forse proprio perché propone come
termine di paragone dei bambini: la vita e l’educazione dei bambini Manus.
Considerando il fatto che si tratta di una proposta didattica è significativo che la sua
applicazione non ha dato esiti molto positivi ma, nel mio caso, ovviamente, sono
sempre da tener presenti i limiti legati alle circostanze della mia presenza. Tuttavia, ho
proposto il lavoro ai bambini semplificando il brano di M. Mead e accennando,
brevemente, al contesto storico e geografico in cui vivono i Manus con l’intento di dare
poi maggiore risalto alle differenze che sarebbero risultate dal confrontare la vita e le
abitudini educative in Italia, in Russia e in Egitto.
“I Manus sono una popolazione dell’Oceania e vivono in palafitte costruite sulla laguna. Il bambino
Manus è abituato all’acqua fin dai primi anni di vita. Quando ha nove o dieci mesi, sua madre o suo
padre, prendono l’abitudine di sedersi, tenendolo in braccio, sulla piccola terrazza davanti alla casa, così
i suoi occhi si abituano al passaggio delle canoe e al villaggio costruito sul mare. I genitori vogliono che i
bambini da piccoli imparino ad aggrapparsi al collo della madre, perché può succedere che la canoa, sulla
quale viaggiano i Manus per spostarsi da un posto all’altro, ondeggi e rovesci madre e figlio nell’acqua:
questo gesto gli insegna quindi ad essere pronti e rapidi. I genitori incoraggiano i bambini a fare del
proprio meglio negli esercizi fisici, per divenire forti e robusti. Quando il bambino inizia a fare i primi
passi, gli uomini e le donne del villaggio si radunano intorno a lui e lo incoraggiano a camminare da
solo; se cade nessuno si spaventa, anzi viene incoraggiato a rialzarsi e a provare ancora. In questo modo,
il bambino impara a non piangere e ad andare avanti da solo. All’età di tre anni ai bambini viene
insegnato a dirigere una canoa, sebbene questa sia molto più grande della loro statura. La vita così
faticosa richiede che il bambino sappia badare a se stesso nel più breve tempo possibile.”
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Dopo avergli letto il brano, ho chiesto loro di provare a rappresentare il villaggio dei
Manus, così come lo immaginavano; in un secondo momento, gli ho chiesto di
disegnare la loro casa, per riuscire a notare le differenze che li contraddistinguevano. Sia
Elena che Said hanno sottolineato il fatto che le loro case non sono costruite sul mare,
né usano canoe per spostarsi, né vivono in un villaggio. Elena mi ha chiesto se al posto
della sua casa in Italia avesse potuto disegnare la sua casa in Russia: le risposto che,
certamente, poteva farlo.
Lunedì 21 maggio
Probabilmente non mi sarà concesso più molto tempo per lavorare insieme ai bambini
poiché le maestre sono rimaste indietro con il programma, e di conseguenza non sono
più disposte a “perdere” intere ore di lezione.
Avevo assegnato loro un compito da eseguire a casa, con il quale gli chiedevo di
raccontare la storia della propria vita, descrivendo il modo in cui i genitori si prendevano
cura di loro da piccoli, ed il modo in cui lo fanno ora:
“Racconta la storia della tua vita, descrivendo prima, il luogo in cui abitavi da piccolo e il
modo in cui i tuoi genitori si prendevano cura di te; poi, come vivi adesso: com’è la tua
casa, come trascorri il tempo con la tua famiglia e i tuoi amici e quali insegnamenti ricevi
oggi dai tuoi genitori”.
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Purtroppo avrei dovuto immaginare che un lavoro eseguito a casa non avrebbe dato i
risultati sperati: infatti, sia Elena che Said hanno pensato di dover descrivere
“architettonicamente” la loro casa, non aggiungendo alcuna informazione sul proprio
modo di vivere in famiglia. Tuttavia, ho deciso ugualmente di riportare qui di seguito i
loro lavori:
“Io sono nato a Nuoro. Nuoro è una città di montagna dove vivono i miei nonni materni. Quando ero
piccolo vivevo in una casa molto carina con il balcone e una sala grande e avevo tre camere. Quando ero
piccolo i miei genitori mi curavano bene, mi portavano a spasso. Adesso io abito a Roma, in Via.... .
Nella mia casa c’è una cameretta che è mia e di mia sorella e la camera di papà e mamma è più grande
della nostra e è carina. Oggi i miei genitori mi trattano molto bene e mi fanno contento”.
“Io sono nata in una città chiamata Riazan, che si trova vicino Mosca, in Russia. È una città con resti
antichi e ha tanti parchi colorati in autunno. Quando ero piccola vivevo in una casa che aveva due
camere da letto, un salone, due bagni, e una cucina. Da piccola i miei genitori giocavano sempre con me e
la sera mi leggevano le favole. Adesso io abito a Roma, una città antica e bella. In una casa molto bella
che ha una cucina, due bagni, un salone, due camere da letto e uno sgabuzzino. È una casa molto
moderna con tanti quadri in stile temporaneo. I miei genitori giocano sempre con me e mi aiutano a fare
i compiti”.
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Mercoledì 23 maggio
Oggi Elena non è venuta a scuola. La maestra di disegno ha voluto regalarmi una
campana di Pasqua fatta col DAS e Said ha voluto rifinirla lui. La maestra si è arrabbiata
dicendo che me l’avrebbe sicuramente rovinata e che, se avesse saputo che l’avrei fatta
dipingere a lui, non me l’avrebbe di certo regalata. Così è stato: io ho permesso a Said di
colorarla e alla fine la maestra ha esclamato: - «Ecco, vedi che brutta! L’ha rovinata tutta,
te l’avevo detto», e rivolta verso Said «Che brutta che l’hai fatta, l’hai rovinata!». Quando
se n’è andata mi ha detto: - «A questa non le va bene mai niente!» e ha ricominciato a
disegnare.
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