Mille volti della carità e della santità oggi

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Mille volti della carità e della santità oggi
UNA STORIA DA VIVERE: MILLE VOLTI DELLA CARITÀ E DELLA SANTITÀ OGGI
Introduzione
Vi sono parole che hanno un fascino, una forza e una ricchezza particolare, ma proprio per questo, al tempo stesso, presentano difficoltà di comprensione. In fondo, questo è del tutto naturale,
perché il linguaggio è vivo e sulle parole si sedimentano inevitabilmente significati diversi. Ecco
perché, sapientemente, prima di ogni discorso bisogna porre il problema della verborum explicatio.
Basta pensare, ad esempio, alla ricchezza di certe espressioni paoline, come «giustizia di Dio», o
parole come sarx, soma, psyché e pneuma. Si pensi anche alla «verità» o al «mondo» in san Giovanni. A dire il vero, non basta neanche questo, perché ogni scritto è figlio del proprio genere letterario e del contesto, ed è condizionato anche dai destinatari. Ma questo, per ora, non ci interessa.
Parlare di «carità» e di «santità» non è facile. Questo capita anche con altre parole, come «giustizia», «spiritualità», «salvezza», «verità»… Se qualcuno ci chiede di definire il concetto, probabilmente ci troveremmo in difficoltà. Quando si parla di «santità», si pensa quasi istintivamente ad
una «persona santa» (San Francesco, Sant’Antonio, San Luigi Orione, Madre Teresa); si pensa al
suo stile di vita, al bene che ha fatto oppure al suo martirio per la fedeltà a Cristo e alla Chiesa. Oppure possiamo pensare al Papa, che viene chiamato abitualmente «Santità».
Quando, poi, cerchiamo giustificazioni al nostro modo di fare, affermiamo: “Non sono mica un
santo!”. Una lettura di tipo moraleggiante rischia, però, di complicare ulteriormente le cose. Certo,
un «santo» è tale anche per una vita onesta, trasparente, generosa…, ma non basta questo per comprendere in profondità la bellezza della «santità».
1) Il fascino delle parole:
a. Agápe
In greco si danno diversi modi per esprimere quello che noi chiamiamo amore 1. Il vocabolo più
usato è philéo, che indica in generale affezione verso una persona o una cosa. In primo piano sta il
rapporto con i parenti o con gli amici (tipico composto è philadelphía, amore fraterno); ma vi è
compresa l’intera dimensione del sentimento di piacere, benevolenza per qualcosa, che può avere
come oggetto dèi, uomini e cose. Conformemente a ciò philía designa l’amore, l’amicizia, l’ attaccamento, il favore e phílos il parente o l’amico; éros invece è l’amore passionale, possessivo; e agapáo, in origine tenere in onore, trattare con gentilezza, è il vocabolo meno caratterizzato nel greco classico; viene spesso usato come sinonimo di philéo, senza apprezzabili differenze tra i due
termini 2. Nel Nuovo Testamento, invece, agapáo e il sostantivo agápe hanno assunto un significato peculiare, venendo usati per indicare l’amore di Dio e il modo di esistenza che in tale amore si
fonda.
Il sostantivo agápe nel NT ricorre 113 volte (di cui 30 negli scritti giovannei); il verbo agapáo
ricorre 117 volte (di cui 27 in Gv e 19 nella 1 Gv); agapetós (amato, prediletto) ricorre 61 volte (di
cui 10 volte nelle lettere di Gv [non è presente nel vangelo di Gv]). Con agapáo i LXX traducono
prevalentemente l’ebraico aheb. Ha qui la sua origine il sostantivo agápe, che traduce l’ebraico ahaba.
Nel NT «amore» è uno dei concetti centrali, capaci di evocare l’intero contenuto della fede (cfr.
Gv 3,16). L’azione di Dio è amore che attende come risposta l’amore dell’uomo (1 Gv 4,19). Anche
l’etica si fonda sull’amore di Dio e da questo trae la sua forma (1 Gv 4,17). L’amore vien posto al di
1
Ci serviamo del contributo di W. GÜNTER – H.-G- LINK, «Amore», in L. COENEN – E. BEYREUTHER – H. BIETENHARD (a cura di), Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1989, pp. 91-99.
2
Il greco classico conosce un altro termine: stérgo, che indica specialmente l’affetto filiale, paterno, coniugale, verso
amici, ecc. Da qui stérghema, che indica il filtro d’amore.
1
sopra della fede e della speranza (1 Cor 13,13) e Dio stesso infine viene definito come amore (1 Gv
4,8.16). In Giovanni l’essere e l’agire di Dio vengono definiti con particolare energia dal concetto
di agápe. Mentre per Paolo il volgersi dell’uomo a Dio è definito principalmente dal concetto di pìstis, fede, in Giovanni abbiamo invece agápe. Il rapporto tra Padre e Figlio è agápe (Gv 14,31) e i
credenti vengono accolti all’interno di questa relazione di amore (Gv 17,26). In Giovanni, ancor più
nettamente che in Paolo, l’amore vicendevole si fonda nell’amore di Dio (Gv 13,34; 1 Gv 4,21).
L’amore assurge a segno e prova della fede (1 Gv 3,10; 4,7). L’amore per il fratello scaturisce dall’
amore divino. Senza l’amore fraterno non si dà relazione con Dio.
b. Qôdeš
“La parola semitica qôdeš, cosa santa, santità, derivante da una radice che significa indubbiamente « tagliare, separare », orienta verso un'idea di separazione dal profano; le cose sante sono
quelle che non si toccano, o a cui non ci si avvicina se non in determinate condizioni di purità rituale. Essendo cariche di un dinamismo, di un mistero e di una maestà in cui si può vedere il soprannaturale, esse provocano un sentimento misto di spavento e di fascino, che fa prendere coscienza
all'uomo della sua piccolezza dinanzi a queste manifestazioni del « numinoso ».
La nozione biblica di santità è molto più ricca. Non contenta di presentare le reazioni dell'uomo
dinanzi al divino, e di definire la santità mediante negazione del profano, la Bibbia contiene la rivelazione di Dio stesso; definisce la santità alla sua stessa sorgente, in Dio, dal quale deriva ogni santità. Ma con ciò la Scrittura pone il problema della natura della santità, che in definitiva è quello
del mistero di Dio e della sua comunicazione agli uomini. Dapprima esteriore alle persone, ai
luoghi e agli oggetti che essa rende « sacri », questa santità derivata non diventa reale ed interna se
non mediante il dono dello stesso Spirito Santo; allora l'amore che è Dio stesso (1 Gv 4,8) sarà comunicato, trionfando del peccato che fermava la irradiazione della sua santità” 3.
Qualche dato statistico nell’AT: dalla radice qdš derivano varie forme; la più comune qôdeš ricorre ben 469 volte ed è presente soprattutto nel Lv (92), nell’Es (70), nel Dt ed Ez (57), nei Salmi
(45). Curiosità: gli unici libri dove non ricorre alcun derivato da questa radice sono Nahum, Rut,
Cantico dei Cantici, Ester. L’aramaico qaddiš «santo» ricorre 13 volte e solo in Daniele 4.
Qualche dato statistico nel NT: il verbo «aghiàzo» (santificare) ricorre 25 volte; il sostantivo
«aghiasmòs» (santificazione, consacrazione) è presente 10 volte (tipicamente paolino; mai nei Vangeli); l’aggettivo «àghios» (santo) ricorre ben 230 volte! Invece «aghiòtes» (santità) è presente solo
in 2 Cor 1,12 e Eb 12,10; mentre «aghiosýne» (santità, santificazione) si trova in Rm 1,4; 2 Cor 7,1;
1 Ts 3,13.
3
J. DE VAULX, «Santo», in X. LEON-DUFOUR, Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Casale Monferrato 19765
(ristampa 1982), coll. 1144-1145. “L’idea di «santità» - scrive Odasso - si trova presente in tutte le religioni, anche se
con accentuazioni e prospettive diverse. Nel mondo semitico, e in particolare in quello cananeo, la santità esprime, anzitutto e fondamentalmente, la nozione di una misteriosa potenza che è connessa con il mondo divino ed è anche inerente a particolari persone, istituzioni ed oggetti. Da questa potenza scaturisce, come secondo elemento caratterizzante,
il concetto di separazione: ciò che è santo deve essere separato dal profano perché possa conservare la propria specificità e, al tempo stesso, perché il profano non sia investito dalla pericolosa energia del santo. La santità appare dunque
come un valore estremamente complesso che implica le nozioni di "sacro" e di "purità" e si trova connesso specialmente con il mondo del culto. Israele, pur avendo assunto la terminologia cananea relativa alla santità, ha operato una
profonda reinterpretazione di questa concezione, così che i termini "santo", "santità", "santificare" (tutti derivati dalla
radice semitica qdš ) sono divenuti tra i più caratteristici e significativi della rivelazione biblica” (cfr. voce «Santità»,
curata da G. ODASSO, in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA [a cura di], Nuovo Dizionario di Teologia
Biblica, Paoline, Milano 1988, 1419-1427).
4
Per maggiori dettagli, cfr. H.- P. MÜLLER, « qdš SANTO », in E. JENNI – C. WESTERMANN, Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, 2, Marietti, Casale Monferrato 1982, coll. 530-549.
2
I mille volti di agápe e di qôdeš
Una premessa
A proposito di agápe, prima di procedere, è importante avere delle idee chiare: agápe non è un
carisma!
Alcuni anni fa, l’allora padre Vanhoye – docente al Pontificio Istituto Biblico per tanti anni e rettore dello stesso Istituto, oggi cardinale – ha scritto questa illuminante riflessione : “Talvolta si dice
che il più grande carisma è la carità; dire questo è un errore, anche se càpita che alcuni vescovi lo
dicano. Infatti, che cos’è un carisma, teologicamente? È un dono certamente prezioso, un dono di
Dio, quindi va rispettato – e Paolo esprime rispetto per il carisma –, ma si tratta di un dono particolare, dato a certi cristiani e non ad altri, un dono utile alla persona, utile alla comunità (dipende:
Paolo ritiene che parlare in lingue non sia utile alla comunità, ma che sia utile soltanto alla persona
stessa perché è un modo di pregare dato da Dio per il bene spirituale della persona stessa); altri carismi sono utili alla comunità: la profezia, dice Paolo, è molto utile alla comunità, all’assemblea, e
naturalmente carismi come il dono di fare guarigioni sono molto utili ad altre persone, e così via…
Ma sono doni particolari, non indispensabili a ciascuno. Questo è il concetto di carisma, in
teologia. A questo proposito, San Tommaso parla di «gratia gratis data», cioè di una grazia speciale gratuita. Il carattere specifico del carisma è che esso non è necessario a ciascuno. Invece, la carità, l’amore, sono indispensabili alla vita spirituale di ogni cristiano. San Paolo dice infatti che
un cristiano può avere tutti i carismi che vuole, ma che se non ha la carità non è cristiano. Quindi
dire che la carità è il carisma più grande, non è corretto. La carità è il dono più grande, questo è
vero, ma non è un carisma” 5.
Alla luce di Paolo: “Vi mostrerò una via migliore di tutte” 6
Siamo nella seconda parte della prima lettera ai Corinzi. Dopo
aver affrontato il tema delle divisioni e degli scandali nella prima
parte (i partiti nella Chiesa di Corinto, il caso di incesto, l’appello
ai tribunali pagani, la fornicazione), Paolo affronta la soluzione di
diversi problemi (matrimonio e verginità, le carni degli animali
sacrificati agli idoli, il buon ordine nelle assemblee [è in questo
contesto – 11,2-14,40 – che Paolo affronta il tema dei carismi]).
Nella terza parte tratterà della risurrezione dei morti (cap. 15).
Paolo, dunque, in 1 Cor 13,4-13 delinea il «volto» della Carità,
quasi personalizzandola tramite 15 verbi. La carità è il soggetto
dei verbi tutti attivi che esprimono relazione. Non dicono che
cosa fare o a chi farlo, ma come porsi di fonte all'altro. Vediamo
brevemente le singole espressioni 7; nel leggere il testo, proviamo
ad attualizzarlo, a farci interpellare, a scendere nel nostro intimo,
a valutare certe nostre reazioni, a delineare “i mille volti della carità”, appunto! Ricordiamo che il «fare» è sempre figlio dell’«essere»: “Chiamata di nuovo la folla,
diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui,
5
A. VANHOYE, Pietro e Paolo. Esercizi spirituali biblici, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1996, pp. 84-85.
1 Cor 12,31: zhlou/te de. ta. cari,smata ta. mei,zona kai. e;ti kaqV u`perbolh.n
o`do.n u`mi/n dei,knumiÅ
7
Ci serviamo, adattandolo, del contributo di Marisa Bisi, «Valorizzare i mezzi umani e di fede adeguati per sviluppare
la vita affettiva (1 Cor 13,4-13)», in Il Messaggio del Cuore di Gesù (Mensile dell’Apostolato della Preghiera), n. 3,
marzo 2009, pp. 30-35.
6
3
possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’ uomo a contaminarlo»” (Mc 7,14-16). Ed
ora analizziamo in dettaglio le singole espressioni dell’inno alla carità (1 Cor 13):
1. «La carità è paziente, è magnanime» [makroqumei - caritas patiens est - 13,4]. Pazienza e
magnanimità sono qualità di Dio «lento e grande nell'amore». L' agápe fa dell'uomo una persona
paziente, generosa, tollerante, disponibile verso tutti (cfr. 1 Ts 5,14) 8. L' agápe non contraccambia
il male ricevuto, ma rinuncia al proprio diritto.
2. «La carità è benevola» [crhsteu,etai h` avga,ph - benigna est caritas]. È un tratto di
Dio che si mostra benevolo verso tutti gli uomini (Rm 2,4) 9, verso i pagani (cfr. Rm 11,22) 10, verso
gli stessi credenti (cfr. Ef 2,7). L' agápe sospinge i cristiani ad indossare sentimenti di tenerezza, di
bontà (cfr. Col 3,12). In essa si mostra un tratto esteriore di signorilità e affabilità. È l'atteggiamento
di chi aiuta sorridendo, di chi previene con tatto e discrezione.
3. «La carità non è invidiosa» [ouv zhloi/ - non aemulatur]. L' agápe non si esprime nella gelosia, nella rivalità e nell'invidia. La gelosia è grettezza, è divisione, è fanatismo. L' agápe è magnanimità, comunione, collaborazione.
4. «La carità non si vanta» [ouv perpereu,etai - non agit perperam]: è schiva, riservata, ha
il senso della proporzione, è discreta e moderata, ha il senso della misura, la percezione del proprio
valore e del proprio limite.
5. «La carità non si gonfia di orgoglio» [ouv fusiou/tai - non inflatur]. Il gonfiarsi esprime
l'atteggiamento di chi vuole fare da sé e ambisce a riempire l'esistenza della propria presunta pienezza. Pieno di sé, domina e schiaccia gli altri. Chi ama veramente è umile e piccolo (cfr. Sal 123).
6. «La carità non manca di rispetto» [ouvk avschmonei/ - non est ambiziosa – 13,5]. La carità è rispettosa della dignità del prossimo, è attenta alla sensibilità dell'altro, è fine e delicata. Non
prevarica e sa camminare al passo dell'altro.
7. «La carità non cerca il proprio interesse» [ouv zhtei/ ta. e`auth/j - non quaerit
quae sua sunt]. Questo atteggiamento ben esprime l'amore di Dio che è pura gratuità e disinteresse
ed è espresso da Cristo che non cercò di piacere a sé (cfr. Rm 15,3) 11. Un amore gratuito e disinteressato è amore universale che non fa preferenza di persona. Se ne ha, queste preferenze vanno verso gli umili (cfr. Rm 12,16) 12 e a coloro da cui non si può attendere il contraccambio.
8. «La carità non si adira» [ouv paroxu,netai - non inritatur]. La carità non è collerica,
acida, incontrollata, irritabile, irosa. È sostenuta dalla forza di Dio che opera nella debolezza.
8
“Vi esortiamo, fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con
tutti”.
9
“O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la
bontà di Dio ti spinge alla conversione?”.
10 “
Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti; bontà di Dio invece verso di
te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso”.
11
“Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti
sopra di me”.
12
“Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili.
Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi”.
4
9. «La carità non tiene conto del male ricevuto» [ouv logi,zetai to. kako,n - non
cogitat malum]. L'amore ha una memoria pulita da ricordi dannosi.
È l'atteggiamento proprio di Dio che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti (cfr. Mt 5,45). È l'amore di Gesù che in croce prega per i suoi crocifissori.
10-11. «La carità non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità» [ouv cai,rei evpi.
th/| avdiki,a|( sugcai,rei de. th/| avlhqei,a| - non gaudet super iniquitatem congaudet autem veritati – 13,6]. L' agápe soffre quando si compie ingiustizia e gioisce là dove
si fa la verità. La carità applaude al bene, al vero, al bello, al buono e benedice e si compiace.
12-15. «La carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» [pa,nta ste,gei(
pa,nta pisteu,ei( pa,nta evlpi,zei( pa,nta u`pome,nei - omnia suffert,
omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet - 13,7]. Gli ultimi quattro verbi che descrivono l' agápe
sono accompagnati da un «tutto». L'amore è una immensità che tutto avvolge e tutto sceglie con
coraggio:
 tutto scusa: non amplifica il male del fratello ma, consapevole della fragilità e debolezza,
l'accoglie nel suo cuore misericordioso e lo copre con il suo silenzio;
 tutto crede: l' agápe non perde mai la fiducia, è sempre orientata a dare molto credito al fratello, ancor prima di sapere che egli lo meriti;
 tutto spera: l' agápe spera incessantemente. Anche quando è davanti al male, attende. Questo perché crede nel dinamismo del seme dell’amore di Dio depositato nell'essere di ogni
uomo. Seme che può evolvere al di là di ogni speranza;
 tutto sopporta: l' agápe accetta ogni debolezza, ogni odio, ogni fallimento. È l'esperienza
stessa di Cristo, di Paolo, di tutti i veri amici di Dio. I Santi sanno che «la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi
non delude perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Vale la pena lasciarci impregnare dall'Amore per vivere
e operare Amore.
A questo punto il cuore di Paolo non può che concludere con: La carità non avrà mai fine!
(~H avga,ph ouvde,pote pi,ptei - Caritas numquam excidit [1 Cor 13,8]).
Tutto passa (profezie, dono delle lingue); solo tre cose rimangono: “la fede, la speranza e la carità;
ma di tutte più grande è la carità” 13. E poco dopo esorta: Ricercate la carità! (Diw,kete th.n
avga,phn - sectamini caritatem [1 Cor 14,1]) 14.
Adesso, a mo’ di meditatio ci domandiamo: che cosa dice il testo a me? Che cosa Dio mi vuol
dire, oggi? In che rapporto sta questa Parola con la mia vita? Che cosa in concreto Dio mi invita a
fare? Che cosa devo cambiare nella mia esistenza? Se fossi stato là, tra i Corinzi (con Gesù, con gli
Apostoli, con Paolo, ecc.), se fossi destinatario di una lettera così… Le divisioni dei Corinzi sono
forse lo specchio delle mie (delle nostre); lo stesso discorso vale per la scala dei valori; forse non è
in questione la glossolalia, ma probabilmente non sempre agápe sta al primo posto, ecc.
13
1 Cor 13,13: Nuni. de. me,nei pi,stij( evlpi,j( avga,ph( ta. tri,a tau/ta\
mei,zwn de. tou,twn h` avga,phÅ
14
Ricordiamo anche quanto scriveva Don Orione il 7 febbraio 1923: “La prima carità dobbiamo farla a noi stessi;
dobbiamo pregare di più, coltivare di più la pietà, l'umiltà, la dipendenza, la docilità di spirito, e lo spirito religioso. Vae
nobis, si fons devotionis in nobis siccatus fuerit! Guai a noi, noi perduti, se la sorgente della pietà e della umiltà si sarà inaridita in noi, o andrà inaridendosi!” (Lettere, I, 466).
5
Già nell’affrontare il problema della liceità o meno di mangiare carni di animali offerte agli idoli
(1 Cor 8,1-11), Paolo aveva colto l’occasione per parlare del rispetto della coscienza del fratello. La
carità era stato il principio conduttore dell’ argomentazione. Come si vede, Paolo ha in un certo senso preparato il terreno; agápe sta sempre all’orizzonte, è sempre il criterio che illumina e guida le
sue scelte. Anche la pedagogia paolina ci aiuta nell’attualizzazione del testo. Nella ricerca dei mille
volti della carità, c’è un aspetto interessante della personalità di Paolo che ci può aiutare tantissimo;
si tratta di vedere «come» egli accompagna la crescita della comunità 15. Tenendo presente le varie
questioni affrontate nella 1 Cor possiamo sottolineare quanto segue:
- Paolo è attento alle questioni dottrinali ed è attento a capire le difficoltà.
- Paolo cerca di capire la fonte del disagio, di creare le motivazioni, le premesse teologiche;
cerca di favorire la maturazione, di creare negli interlocutori una disponibilità relazionale.
- Paolo è un ottimo pedagogo che sorregge e si sforza di far maturare la comunità. Il caso dei
“carismi” (1 Cor 12-14) è quanto mai illuminante. Nell’uso incontrollato della glossolalia
scorgeva un duplice rischio:
1. a livello comunitario: competizione, fughe individualistiche, superstizione strisciante;
2. a livello teologico: valore, utilizzo, finalità dei carismi.
Come procede Paolo? Come argomenta?
 Primo momento: parla dell’origine e della destinazione dei carismi; lo scopo è quello
di ricondurre a unità la diversità delle funzioni. Paolo è preoccupato perché avverte che affermare se stessi in virtù del carisma può essere pericoloso! I membri
autosufficienti ripiegati su stessi sono un danno per la comunità.
 Secondo momento: dopo l’affermazione dell’unità, indica una gerarchia dei carismi
(da notare che il dono delle lingue viene nominato per ultimo!).
 Terzo momento: ora il terreno è pronto per l’esortazione: “Aspirate ai carismi più
grandi” (12,31).
 Quarto momento: solo dopo l’elogio della carità, è possibile comprendere i significati dei carismi e la loro funzione nella comunità. La sua preferenza è subito dichiarata: “Aspirate soprattutto alla profezia” (14,1). Non svaluta, però, la glossolalia, ma
precisa: “Chi parla in lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea”
(14,4).
Ed ora – continuando un po’ la meditatio – diamo uno sguardo alla nostra vita, personale e comunitaria. Alla luce della Parola di Dio e alla luce della figura di san Paolo:
1. Dopo aver meditato l’«inno alla carità», cosa penso che il Signore vuole da me in questo
momento della mia vita? Dove devo lavorare di più per una vita spirituale più intensa, profonda, gioiosa?
2. Quali sono gli aspetti della pedagogia di Paolo che trovo particolarmente interessanti? Quali sono più utili per l’armonia della mia comunità?
“La santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta” (Benedetto XVI)
Scrivendo ai fedeli della Chiesa Ambrosiana, nel 2010, il cardinale Dionigi Tettamanzi affermava che “la santità, per la grazia dello Spirito Santo, è l’ingresso nella vita di Dio. Questa è la verità
stupenda e commovente che siamo chiamati a vivere con timore e gioia. La santità di Dio è il suo
amore per l’umanità e per la sua storia, un amore che nulla e nessuno può mai stancare. È la luce in
cui non ci sono tenebre; è la comunione in cui tutti troviamo salvezza, riposo, conforto; è la vita,
15
Cfr. G. CIRIGNANO - F. MONTUSCHI, La personalità di Paolo. Un approccio psicologico alle lettere paoline
(Studi biblici 27), EDB, Bologna 1996, p. 93ss. (in particolare pp. 104-109).
6
quella eterna e felice. Siate santi perché io sono santo, dice il Signore (Levitico 11,44). La sintesi
della vita di un cristiano, dunque, si dà in un’ esistenza santa” 16. “Santo, santo, santo è il Signore
degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”. Così proclamano i serafini attorno al trono
del Signore, nella descrizione della vocazione di Isaia (6,3). E potremmo continuare.
Ecco perché Paolo, può scrivere “ai santi che sono in Efeso” (Ef 1,1); “a tutti i santi in Cristo
Gesù che sono a Filippi” (Fil 1,1); “ai santi e fedeli fratelli in Cristo dimoranti in Colossi” (Col
1,1). Anche quelli di Corinto sono “chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo
invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Cor 1,2). La 2 Cor è indirizzata “alla Chiesa di
Dio che è in Corinto e a tutti i santi dell’intera Acaia” (1,1). Santi perché consacrati nel battesimo,
ma anche “per la loro esistenza giusta e per il loro impegno nell’obbedienza alla parola di Dio e di
Cristo. La Chiesa è una comunità consacrata al Signore, ma anche santificata dalla carità” 17. Dunque, “santi per vocazione” (klhtoi/j a`gi,oij - vocatis sanctis), come scrive Paolo ai Romani (1,7), perché chiamati a vivere immersi nell’amore di Dio e “per annunziare il vangelo di Dio” (Rom 1,1).
La stessa liturgia “acclama il Dio tre volte santo; proclama Cristo « solo santo »; festeggia i
santi. Parliamo pure dei santi vangeli, della settimana santa; e siamo chiamati a diventare santi. La
santità appare quindi una realtà complessa che concerne il mistero di Dio, ma anche il culto e la
morale; implica le nozioni di sacro e di puro, ma le supera. Sembra riservata a Dio, inaccessibile,
ma è costantemente attribuita a creature” 18.
Al tema della santità Benedetto XVI ha dedicato una
splendida riflessione nell’Udienza generale, a Piazza San
Pietro, il 13 aprile 2011. Per ben due anni, il Santo Padre
aveva presentato tante figure di santi e sante, a cominciare da Clemente Romano a Sant’Agostino, da Giovanni
Climaco ai Santi Cirilllo e Metodio, da Bernardo di Chiaravalle a Pietro Lombardo, richiamando figure forse dimenticate o addirittura ignorate 19, che hanno lasciato
scritti mirabili ed esempi di eccezionale santità. Fratelli e
sorelle – ha detto il Papa – “che con la loro fede, con la
loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante
generazioni, e lo sono anche per noi”. Perché? Perché essi “manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che
Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo «non vivo più io, ma
Cristo vive in me» (Gal 2,20)”. Ed allora, “al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità”.
Si chiede Benedetto XVI: “Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo?
Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo,
invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: «In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della
creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4). E parla di
noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero na16
D. TETTAMANZI, Santi per vocazione. Sull’esempio di San Carlo Borromeo. Lettera a tutti i fedeli della Chiesa
Ambrosiana. Anno pastorale 2010-2011, Centro Ambrosiano, 2010.
17
G. RAVASI, «La “santità”», in Famiglia Cristiana, 16/2008, p. 151.
18
J. DE VAULX, «Santo», in X. LEON-DUFOUR, Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Casale Monferrato 19765
(ristampa 1982), col. 1144.
19
Si pensi ad Ambrogio Autperto, Germano di Costantinopoli, Rabano Mauro, Sant’Oddone di Cluny, Ruperto di
Deutz, Ugo e Riccardo di San Vittore…
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scosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: «È piaciuto infatti
a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza» (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr
Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’ esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza
della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo,
nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti.
La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. È l’essere conformi a Gesù,
come afferma san Paolo: «Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29).
“Ma – continua ancora Benedetto XVI – rimane la questione: come possiamo percorrere la
strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il
tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. […] San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, conrisucitati, con-vivificati con Cristo”.
Altra domanda: “Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il
pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. «Dio
è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm
5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il
prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l'aiuto della grazia, compiere con
le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'Eucaristia e alla
santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all'abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all'esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento
della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce
al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po' troppo
solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell'Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un
giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli «indicatori stradali» che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l'esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità
e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e
alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che
sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e
verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della
vita cristiana, dell'essere santi”.
E naturalmente non poteva mancare un pensiero del «suo» sant’Agostino, che, “commentando
il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dìlige
et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu
parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore;
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vi sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL
35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore”.
Verso la fine della catechesi, il Papa accenna anche a quella che potremmo definire «santità semplice», “cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità
della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia
del cristianesimo e il segno di dove sia la verità”. Di questi santi abbiamo avuto certamente degli
esempi nelle nostre famiglie; a me piace ricordare, in modo particolare e con profonda gratitudine,
alcune figure che ho incontrato negli anni passati in Albania. Gente semplice che, a motivo della
fede, ha trascorso tanti anni in carcere, gente che ha mantenuto viva la fede nei villaggi, perché i sacerdoti erano stati uccisi o in prigione o ai lavori forzati, gente che ha rischiato vita e carcere perché
si amministravano i battesimi di nascosto, perché si pregava di nascosto nelle famiglie… Quasi cinquanta anni sorretti e nutriti dal Pater, Ave, Gloria, Atto di dolore e Requiem aeternam! Tante storie
che dicono che cosa è veramente “la Chiesa” nella sua natura più profonda!
“Non abbiamo paura di tendere verso l’alto – concludeva Benedetto XVI –, verso le altezze di Dio;
non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla
sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo
amore”.
Alla luce della Parola e di Don Orione
Come tradurre tutto questo nell’oggi? Quali i “mille volti della carità e della santità”? Alla luce
di 1 Cor 13, è innegabile che la grande conversione nasce dal cuore; detto in altre parole: si tratta
dell’enorme sfida di uno dei grandi «malati» di oggi: la relazione! Occorre lavorare molto su questo
terreno, perché è saltato proprio l’«umano», sono saltati i «sentimenti», le «premure», le «attenzioni», la conoscenza reciproca, il dialogo, semplice, fatto di cose semplici; i rapporti sono diventati
freddi e spesso formali. E in tutto questo anche Dio è, per così dire, all’orizzonte. Domandiamoci:
tanti atti comuni di preghiera – pur doverosi – quanto hanno trasformato il nostro stare insieme? Sì,
sappiamo e diciamo che senza il Signore non si fa molto strada, ma quanto di questa affermazione è
«vita»? Non corriamo il rischio anche noi di essere dei «funzionari del sacro»?
La parabola del Buon Samaritano rimane l’icona principe, perché dice l’universalità dell’amore,
indipendentemente dalla razza e dalla religione. Ma tante altre pagine del vangelo sono fari luminosi per essere volti dell’amore e della santità. Pensiamo semplicemente agli incontri di Gesù con le
persone e in particolare con le donne: l’emorroissa (Mc 5,25-34); la Sirofenicia (Mc 7,24-30), la vedova di Naim (Lc 7,11-17); la donna peccatrice in casa di Simone il fariseo (Lc 7,36-50); la samaritana (Gv 4,4-42); la donna adultera (Gv 8,1-11). In ogni incontro c’è Gesù che si avvicina, entra in
dialogo, guarisce, infonde speranza… E che dire dell’«incontro degli incontri», quello degli occhi
di Gesù con quelli di Pietro, dopo il rinnegamento! (Lc 22,61-62).
Luca ci ricorda i tanti Lazzaro di oggi, non solo quelli che mancano del cibo materiale, ma anche quelli che hanno piaghe peggiori, come la solitudine, la depressione, la mancanza di affetto, la
dignità calpestata, senza che neppure «un cane» si fermi a «leccare» qualche ferita! (Lc 16,19-31).
In fondo, anche il l’usuraio Zaccheo era un povero “Lazzaro”, che sedeva ai piedi del denaro e della
sua ricchezza. È bastato un “scendi in fretta, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5), perché il capo dei pubblicani ricominciasse ad assaporare la vita e la gioia della salvezza! E poi ci sono
i tanti Bartimeo, collocati ai margini della società, zittiti se tentano di alzare la voce e di gridare solo «pietà!»; e invece i veri ciechi sono quelli che stanno accanto a Gesù, che si preoccupano solo di
“sgridarlo affinché tacesse”. Ma sarà l’emarginato a fare la professione di fede e a seguire Gesù
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lungo la strada! (Mc 10,46-52). I farisei di turno obietteranno sempre: “Siamo forse ciechi anche
noi?”. E Gesù continuerà a rispondere: “Se foste ciechi non avreste peccato. Ora invece dite: «Noi
vediamo». Il vostro peccato rimane” 20.
I mille volti della carità e della santità sono racchiusi, a mo’ di sintesi, nel giudizio finale di Matteo (25,31-46). È la pagina che non dovrebbe farci dormire, perché tutto si gioca su quel ritornello a
tamburo battente: “Ho avuto fame… ho avuto sete… ero forestiero… nudo… malato… carcerato…”. Niente titoli di studio, niente scatti di carriera, niente incarichi importanti, niente grandi realizzazioni, niente riconoscimenti nazionali o internazionali, niente medaglie, niente fama… Solo
“ho avuto fame”, ecc. Il passaporto per il regno ha bisogno di questi «visti», non di altri! Non è un
caso che, chiuso questo discorso, Matteo ci introduce negli eventi pasquali; è come se in questi eventi bisogna entrare ben preparati, col passaporto in regola, per accompagnare il Maestro nella sua
passione, per gioire della sua risurrezione e, infine, della grande promessa: “Ecco: io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
I mille volti della carità e della santità passano anche attraverso le scelte che possiamo rileggere
alla luce delle parabole del regno (Mt 13). Siamo il seme caduto lungo la via, in balia del Maligno?
Sul terreno roccioso, ma senza radici? Fra le spine, dove preoccupazioni e ricchezze soffocano la
parola? Oppure siamo caduti sul terreno buono, dove si manifesta la sproporzionata generosità di
Dio? 21. A ben pensarci, si tratta di un apparente fallimento: tre terreni su quattro non danno frutto,
ma il seminatore non si scoraggia e sparge a piene mani. È la logica di Dio. “La parabola del seminatore significa che il messaggio evangelico, nonostante insuccessi e ostacoli, porterà frutti abbondanti e che la sorte e i frutti del vangelo dipendono dalle disposizioni personali degli uditori” 22. Di
conseguenza: saremo grano o zizzania? Chicco di senapa o mania di grandezza e apparenza? Lievito che opera efficacemente nel nascondimento e nel silenzio o assetati di megafoni e di applausi?
Attenti o distratti quando il Signore ci dona un tesoro nascosto o una perla preziosa e ci invita a fare
delle scelte coraggiose? 23. Pesci buoni (giusti), destinati nelle sporte o pesci cattivi (malvagi), destinati ad essere buttati via?
Tra i mille volti della carità e della santità splende, come pochi, il nostro Santo Fondatore. Nel suo grande cuore hanno trovato posto anche i
«lebbrosi», persone «impure», quindi inavvicinabili, semplicemente da
evitare. Ha scritto Divo Barsotti: “Può meravigliare dapprima vedere
come Don Orione sia fedelissimo a Pio X e tuttavia sia amico di tutti coloro che erano stati in vario modo colpiti da questo Santo Pontefice, e la
meraviglia è ancora più grande quando constatiamo che questi uomini che
pur conoscono non solo la fedeltà, ma l’amore di Don Orione per il Papa,
avessero per il beato la più alta ammirazione, anzi lo venerassero e gli
portassero un vivissimo affetto” 24. E continua: “L’unità dell’esclusivismo
ecclesiale con la cattolicità dell’amore, è una nota essenziale della spiri20
Gv 9,40-41.
Mt 13,3-9; 18-23.
22
La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, nota a pag. 1058.
23
Davanti a un dono inaspettato e sorprendente, davanti alla lieta notizia del Regno, il convertito non dice «ho lasciato», ma «ho trovato»; non dice «ho venduto il campo», ma «ho trovato un tesoro». “Il vero discepolo non parla molto di
ciò che ha lasciato. Parla sempre di ciò che ha trovato […]. Sta qui la vera nota evangelica delle due parabole: la radicalità del distacco è semplicemente il risvolto di un’appartenenza che la precede; appena fatta la loro scoperta, il contadino e il gioielliere decidono di «appartenere» interamente al tesoro che hanno trovato. La misura del discepolo è l’ appartenenza, non il distacco. Si lascia tutto perché si è concentrati su altro” (B. MAGGIONI, Le parabole evangeliche,
Vita e Pensiero, Milano 1992, p. 105).
24
D. BARSOTTI, La spiritualità del Beato Luigi Orione, in «Messaggi di Don Orione», Quaderno 59, Roma-Tortona
1984, p. 30.
21
10
tualità di Don Orione. Il Papa di Don Orione è stato Pio X, e Don Orione è stato il santo di Pio X,
eppure Don Orione, che fa i voti nelle sue mani, è amico del Bonaiuti. Bonaiuti gli telefona, gli
scrive: “Anche il lebbroso spirituale – quegli che è nell’ostracismo – sapendo di quale carità primeggi il cuore del festeggiato, vuole essere, ultimo tra gli ultimi, presente, sulla soglia della casa
benedetta, a dire tutto l’impeto della sua devota riconoscenza e del suo ardente voto bene augurante” 25. Questo è il messaggio di auguri che Bonaiuti inviò a Don Orione per il suo onomastico e
compleanno il 20 giugno 1932. Sempre Bonaiuti: “Tu sei il buon samaritano. Lo sanno tutti; io lo so
meglio di ogni altro. […] Io… sono sempre assetato del tuo ricordo. Prega e ricordami” 26. “Anche
scomunicato, Bonaiuti mantiene rapporti di amicizia con Don Orione. E non solo Bonaiuti, ma Gallarati, Brizio Casciola… tutti coloro che sono in difficoltà con la Chiesa, sono in comunione con
lui” 27.
È bello ricordare, in questo contesto, quanto ha scritto Benedetto XVI nella sua prima enciclica:
“Il programma del cristiano - il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù - è « un
cuore che vede »” 28.
Conclusione
Ci piace concludere con le parole di Benedetto XVI, che si prestano per un’ottima sintesi: “La
carità è amore ricevuto e donato. Essa è « grazia » (cháris). La sua scaturigine è l'amore sorgivo
del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato e realizzato da
Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo » (Rm 5,5). Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità” 29.
Poco sopra abbiamo ricordato che Benedetto XVI, tra le cose essenziali della santità, “l’incontro
col Risorto la domenica”. Questo appuntamento, che per noi religiosi e religiose è quotidiano, è una
grande grazia che il Signore ci offre, senza alcun merito da parte nostra. L’evangelista Luca dice
che la donna che ha ritrovato la dracma perduta sente il bisogno di condividere la gioia con le amiche e le vicine di casa: “Rallegratevi con me” 30. Quando il cuore è pieno di gioia, sentiamo il bisogno di “esplodere”, di comunicare agli altri la nostra esperienza. La partecipazione all’eucaristia
dovrebbe inondare di gaudio la nostra vita; i nostri gesti e le nostre parole dovrebbero manifestare
che è successo “qualcosa di grande”. Da questa gioia profonda scaturisce anche la necessità “di farsi
missionari dell'evento che quel rito attualizza” 31. Ecco perché la «celebrazione eucaristica» deve
tradursi in «vita eucaristica». Anche questo – e soprattutto questo – è uno dei mille volti della carità e della santità.
25
Vedi AA. VV., Don Orione negli anni del Modernismo, Jaca Book («Già e non ancora», 386), Milano 2002, p. 336.
Ivi, 338.
27
D. BARSOTTI, La spiritualità del Beato Luigi Orione, in «Messaggi di Don Orione», Quaderno 59, Roma-Tortona
1984, p. 31. Ancora sul modernismo vedi: R. de MATTEI, «Don Orione negli anni del modernismo», in AA. VV., Don
Orione e il Novecento. Atti del Convegno di Studi (Roma, 1-3 marzo 2002), Rubbettino, Soneria Mannelli (CZ), 73-98.
28
Deus caritas est, 31 b.
29
Caritas in veritate, 5.
30
Lc 15,9.
31
GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Mane nobiscum Domine, 07 ottobre 2004, n. 24.
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