Moderatore - Centro Bioetica

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Moderatore - Centro Bioetica
Bioetica e fase terminale della vita I
(eutanasia, accanimento terapeutico, cure palliative): elementi tecnico-scientifici
17 dicembre 2005
Prof. Giampaolo Donzelli
L’altra considerazione che faccio è che dobbiamo avere la chiara consapevolezza,
indipendentemente da ogni ispirazione personale, in chiave morale, intellettuale e politica che per
alcune tematiche nessuno ha ancora una risposta accettabile come unica e vera. E’ particolare che
intelligenze formalmente impostate come le vostre abbiano avuto delle sollecitazioni diverse l’una
dall’altra – ne sono certo. E sono certo anche che animi diversi e sensibili, a volte in maniera così
raffinata, come i nostri, rispondano a queste sollecitazioni emozionali in maniera diversa, come le
foglie dello stesso albero al soffiare del vento si muovono in maniera diversa. Questa diversità fa sì
che questi incontri diventino poi la ricchezza culturale dei temi, non la risposta ai problemi, anche
se in ordine generale la bioetica alcune risposte può in certi modi ed in alcuni casi avanzarle. In
questa tematica, visto che i momenti più importanti dell’esperienza fisica e mentale di un uomo
siano la sua nascita e la sua morte, che queste parentesi riuniscano in una sintesi perfetta la vita, la
donna ha un momento in più (e credo di non essere smentito), che è centrale tra questi due e la fa
unica, indispensabile, speciale nella storia dell’umanità, vale a dire quando dà la vita ad una nuova
vita. In questi casi, la problematica diventa allora ancora più ampia e, come in una stupenda
immagine di Picasso, molte tematiche che riguardano il neonato non possono essere scindibili dalle
tematiche che riguardano anche la donna da cui è nato. Allora direi che la bioetica ha un impatto
veramente drammatico, rispetto al fatto che tecnologie sempre più sofisticate e avanzate hanno
anticipato di molto, io credo, anche le riflessioni sull’uso proprio di queste tecnologie, ossia se siano
o meno al servizio della vita della persona. Quindi c’è stata un’anticipazione del progresso
scientifico e tecnologico rispetto ai dovuti e necessari momenti di riflessione. Io credo anche che la
bioetica in certi momenti dovrebbe accettare il fatto di dover solamente pensare prima di parlare.
Vuole dare, in questo caso, risposte stringenti rispetto al nascere, a quel periodo particolare che è un
tutt’uno tra l’essere nell’utero materno e il nascere nel momento immediatamente successivo. Cerca
ovviamente di dare delle tracce normative rispetto a quello che è giusto e a quello che per gli
Anglosassoni è il which is the best interest, qual è il miglior interesse, anche se la parola tradotta in
italiano suggerisce una sorta di vantaggio di un componente rispetto all’altro. In questo caso,
l’interest è veramente che cosa è giusto per quella persona, cosa è giusto per il figlio dell’uomo in
quanto tale. Allora è tra le mani, non perché è così piccolino, ma è proprio anche e solo tra le mani,
tra esseri adulti. E allora cito questa frase di Heidegger: “E’ inquietante che non siamo ancora
capaci di raggiungere un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra
epoca e che non siamo affatto preparati a questo radicale cambiamento del mondo”. Potrebbe averla
scritta ieri, ma invece Heidegger la scriveva perché intravedeva le nuvole nere del nazismo. Credo
che sia bene anche qui ricordare che viene considerato l’inizio della bioetica proprio il Codice di
Norimberga. Questo per richiamare non tanto aspetti tragici e drammatici, ma quanto per significare
quanto sia assolutamente necessario che, accanto a tematiche analizzate anche nei termini
positivistici più rigorosi e corretti, ci sia anche un qualcosa che ha a che fare con la dimensione
propria del sentire l’uomo, del sentire le emozioni dell’uomo, del percepirci come esseri che vivono
emozioni dell’uomo e trovare poi in questo una cultura unificante le varie tendenze. Un altro
filosofo, un anticipatore religiosamente laico e laicamente religioso, come è stato Ernesto Balducci,
citava queste frasi che riferì al Congresso Internazionale di medicina perinatale al quale lo invitai a
parlare dell’errore in medicina perinatale. Correva l’anno 1994 e lui allora parlava delle
“suggestioni della sirena storica che canta del nascere e del morire”. Le richiamava dicendo che è
tempo che lo scienziato si interroghi se la neutralità che rivendica non sia in molti casi la maschera
di una dipendenza che imprime silenziosamente i suoi imperativi anche all’intelligenza
formalmente fedele alle proprie regole interne. Diceva a quell’epoca: “toglietevi i vostri camici
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bianchi e venite tra la gente se volete capire il dolore, la sofferenza, la gioia, la morte della gente”.
E quando cercava di dare delle risposte anche in termini bioetici, citava i minatori dell’Amiata e
diceva: “sicuramente c’è la possibilità di coniugare le formidabili verità, i formidabili dati, le
formidabili scoperte della medicina e della tecnologia con la saggezza che per generazioni e
generazioni è parte fondante del sentire dell’umanità”. Lui sfidava allora il mondo scientifico a
coniugarsi col mondo spirituale ed intellettuale per cercare una strada comune. Io credo che questa
potrebbe essere una vera soluzione per abbattere gli steccati. Io qui vi propongo anche l’aspetto
suggestivo della bioetica nella medicina perinatale e vi dirò poi perché. Si tratta del fatto che il
telescopio spaziale Hubble poco tempo fa, in California, dopo anni di ricerche nello spazio, è
riuscito a catturare l’immagine della prima stella, riportata sulla rivista scientifica 'New Scientist',
con l’infrarosso. C’erano 20.000 manciate di diamanti in questo velluto nero e l’infrarosso è riuscito
a catturare l’immagine, farla sua, fotografarla, immagazzinarla, inviarla sulla terra e farla nascere
come la prima stella mai nata, milioni di anni prima del Big Bang. Questa immagine è rotonda,
affascinante, con un nucleo centrale, esattamente come è rotonda, affascinante, con un nucleo
centrale la cellula della donna quando viene fecondata da una parte infinitamente piccola dell’uomo,
ma così potente, così prepotente da dare vita. Allora adesso ve la faccio vedere questa nostra
medicina. Io non credo che esista nessun campo della medicina che ci immetta
contemporaneamente in questa condizione così piena di salute, un momento dell’uomo così pieno di
intensa salute quando dà la vita ad un altro uomo e, insieme, così ricca di fragilità e di limite.
Adesso si ragiona sia con la mente sia col cuore, perché la bioetica per me è questa. Se si lascia una
parte e si adopera solo l’altra, si commette l’errore di analizzare dati e percentuali. Se si parte solo
dall’altra, si vivono le suggestioni delle emozioni, quelle che Balducci chiama “suggestioni della
sirena che canta del nascere e del morire”. Per restare nelle suggestioni, una cosa che poi sconvolge
anche alcuni aspetti della medicina, comparsa due numeri fa sulla rivista 'Nature'. Una ricercatrice
californiana (che peraltro abbiamo invitato a far parte del Comitato Scientifico del Congresso
Mondiale di medicina perinatale del 2007 a Firenze e a tenere la lettura di apertura magistrale nel
salone dei Cinquecento) ha scoperto che, durante la vita fetale, cellule totipotenti fetali in caso di
ipossia, ischemia e di ictus materno, dal circolo fetale vanno nel circolo materno e vanno a cercare
di riparare le cellule neuronali lese, di riattivare neurotrasmettitori, rimielinizzare zone colpite. È il
feto che aiuta la madre. Ci sono cose più semplici, ma anche importanti, come la tecnologia oggi, ad
esempio, che è riuscita ad avere una chiave mai posseduta dall’uomo. Leonardo l’aveva fatto, ma su
dissezione e l’aveva disegnata perfettamente, con strutture e connessioni; poi, solo una ventina
d’anni fa, la chiave è arrivata, si è aperta la porta e si è visto che cosa fa il feto nella sua vita segreta,
nella stanza segreta della madre. Si è visto che si comporta grossomodo come dopo la nascita.
Quindi, queste sono le scoperte scientifiche, che però che cosa immettono? Immettono le
conoscenze sempre più precise, ad esempio la relazione del feto durante la sua vita intrauterina,
quindi come soggetto attivo e capace di relazioni con la madre. In questo caso, come c’è scritto nel
Deuteronomio, il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano possente e braccio teso e ci guidò in
questo luogo, donandoci questa terra dove scorre latte e miele. Alcuni psicanalisti intravedono
proprio in questa immagine, archetipa junghiana, il latte e miele dell’allattamento materno, dove
non c’è solo nutrimento, ma c’è anche quel miele. Di recente ho scoperto che la donna che allatta va
meno incontro a cancro del seno, cancro dell’utero, osteoporosi, sindromi depressive. Allora, anche
in questo caso, è il neonato che allatta la mamma. Pensate cosa è successo di recente, circa nel
1995, a Bogotá. Ci fu un’epidemia – chiamiamola così – di parti prematuri e la nazione così povera
non fu in grado di sopperire con la richiesta di incubatrici. Allora a due pediatri venne in mente di
chiedere alla mamma, alla sorella della mamma e all’amica della mamma di tenere tra il seno il
bambino, quindi di funzionare da incubatrici e hanno salvato centinaia e centinaia di bambini
prematuri. Se li tenevano al petto continuamente, notte e giorno, per mesi. Questo fenomeno fu poi
preso poi dall’Unicef, portato nei Paesi occidentali e fatto vivere nelle terapie intensive. Si chiama
skin – to – skin therapy (terapia pelle a pelle) o kangaroo care (terapia canguro), nel senso che la
mamma tiene il bambino come il canguro nel ventre. In questo caso lo tiene accanto; quindi la
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mamma sta accanto al bambino in nutrizione parenterale, in fleboclisi, attaccato a volte al
respiratore, che può toccare pelle a pelle la madre. I dati pubblicati abbastanza di recente sul Journal
of Pediatrics, dimostrano che i bambini che vanno incontro a questo tipo di supporto, di contatto
fisico stanno meno tempo al ventilatore, hanno un fabbisogno di ossigeno inferiore agli altri
bambini, crescono meglio e vengono dimessi meglio. Pensate cosa ha fatto la pelle, di fronte a
quello che non era riuscita a fare per decenni tutta la tecnologia. Qual è il messaggio? Il messaggio
è che ci sono dei problem solving in bioetica e anche nella medicina, ma che i problem solving
hanno anche a che fare con le emotion resolving. Cioè, molte cose si trovano nel riprendere in mano
concetti elementari, risposte semplici che hanno a che fare col cercare di entrare anche con le
emozioni nei problemi. Proviamo ad analizzare il problema che più ci inquieta in questo momento
ed inquieta ovviamente anche aspetti della bioetica, cioè quei bambini che veramente si tengono
tranquillamente bene tra due mani, i cosiddetti mini baby. Sono i bambini con età gestazionale sotto
le 24 settimane, con un peso sotto i 600-400 grammi, quindi che non hanno compiuto metà del
tempo di età gestazionale, per i quali la legittima domanda è: che cosa sarà di lui? Lo chiedono
spessissimo un babbo o una mamma che hanno il bambino in terapia intensiva, perché vivono
soprattutto l’angoscia non tanto di doversi eventualmente fare carico di un problema così
importante, ma quanto che cosa sarà di lui o di lei quando noi non ci saremo più? In questo caso, la
risposta per queste tematiche, che ovviamente attengono anche al fatto che noi tutti abbiamo giurato
a Ippocrate “primum non nocere”, è che noi tutti siamo vincolati sicuramente da una prigionia, da
una tirannia di cui siamo consapevoli ed anche fieri, che è l’amore per i nostri pazienti. Attraverso
queste due tematiche, vi riporto un brano di una coppia di genitori, che mi hanno autorizzato a
leggerlo anche in altre sedi, di un bambino piccolissimo. I genitori avevano chiesto di interrompere
l’assistenza intensiva e noi non l’abbiamo interrotta. Non l’abbiamo interrotta anche perché il mio
Paese non prevede questo e quindi incorro in una violazione di una norma del Codice di Procedura
Penale, però questo è anche uno svicolare abbastanza facile rispetto invece alla domanda pressante.
Dice la madre: «A me la scienza ha distrutto la vita. Quando rivedo i filmini che ha girato mio
marito a Gabriele quando era piccolissimo, penso a tutte le mie speranze.» Dice il padre: «Però in
quel momento non vivevamo l’essere i genitori del bambino, perché era nelle mani dei medici. La
nostra parola non contava niente.». «Prima piangeva, ma non si sentiva (ha la sonda endotracheale,
per cui il bambino fa dei gesti, ma non riesce ovviamente a piangere, perché ha tutte le corde vocali
impegnate dalla sonda endotracheale) ed abbiamo provato un gran senso di gioia perché ci
sembrava vivo. Però questo senso di gioia è diventato disperazione, perché lui ha pianto
perennemente e piangerà perennemente. Cosa hanno fatto? Hanno dato la vita ad un pianto!» Il
padre: «Insomma, ha un quarto di cervello, gli è rimasto un quarto di cervello. Le capacità di avere
una relazione con l’ambiente e con ciò che lo circonda non ci sono assolutamente. È come un
bambino vegetale, solo che, al posto di essere lì immobile, ha questo comportamento violento e
aggressivo, fatto di urla e torsioni, di movimenti spastici.» La madre: «Con un bambino così non è
essere madre, perché non esiste un rapporto, non esiste niente. Dentro c’è questo grandissimo
conflitto, non riesci ad accettarlo per quello che è, non riesci ad accettare che lui viva la sua vita in
agonia.» Il padre: «C’è stato un momento in cui ci sembrava che non ce la facesse. In quei
momenti, sarà disumano, ma io mi sentivo alleggerito, mi sentivo bene.» Concludono tutti e due:
«Quando una cura intensiva si vuole fare a tutti i costi, si vuole a tutti i costi che un bambino
rimanga handicappato e poi muoia.» Difatti, Gabriele è morto dopo un mese. Ovviamente tutto
questo è drammatico e non è su questa spinta drammatica che vanno fatte le riflessioni, però le
emozioni vanno tenute di conto. In questo caso, ad esempio, che cosa hanno fatto? Hanno dato la
vita ad un pianto. Non l’abbiamo data noi la vita ad un pianto, perché noi medici non abbiamo dato
la vita. Qui c’è un chiaro meccanismo proiettivo della madre, che dice avete generato un pianto. Mi
dispiace, ma il figlio è tuo, non mio. Io non ho generato quel pianto; io ho cercato di far sì che non
avvenisse quel pianto. Però la mamma ha detto: «Smettete, vi prego, perché ne farete un pianto che
piangerà e poi morirà.» E chiede drammaticamente questo. Questa è una delle tematiche più
stringenti, più coinvolgenti oggi del mondo della neonatologia, quella proprio delle scelte
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assistenziali di neonati che è l’area più difficile, più critica della pratica pediatrica. Quindi si è
posta, anche in ambito neonatologico, la limitazione delle cure, fermo restando che in questo caso
va bene la decisione etica sul bilancio tra benefici e svantaggi, which is the best interest, ma va
tenuto conto che qui c’è una sola persona che non può esprimere qual è il suo interest, cioè il
neonato. In questo caso, la responsabilità del pensare sociale, politico, morale, etico di un Paese e
soprattutto degli attori che si trovano direttamente a vivere questo, cioè la classe medica, diventa
ancora più significativa. Ricordo che noi stiamo parlando di cure confortevoli in quei casi in cui
veramente vi è la necessità di considerare se l’uomo stia raggiungendo i livelli di tentativi di
onnipotenza. Mi riferisco ai bambini del peso di 400 grammi, di età gestazionale inferiore alle 22
settimane, dove l’immaturità ci porta di fatto a doverli ventilare, ma l’immaturità della retina e degli
alveoli polmonari li porta inevitabilmente alla retinopatia, cioè alla cecità, e alla broncodisplasia,
cioè alla dipendenza da ossigeno. Sono bambini che muoiono generalmente a non più di un anno di
vita dalla dimissione. In questo caso, il trattamento confortevole, il supporto vitale ovviamente è la
ventilazione ed è stato presa in considerazione, in alcuni Paesi, anche la limitazione del trattamento
e l’astensione dal trattamento. Come già citato dal Prof. Gigli, l’Olanda ha legiferato proprio in tal
senso. In questo caso, vedete come la Federazione Nazionale dei Pediatri di Neonatologia francese
incominci una nomenclatura sulla cessazione del trattamento, sull’arresto della vita, anche se non
prende posizione,. Infatti, mentre l’Olanda prende posizione con leggi, la Francia non la prende, ma
di fatto è questa la prassi nelle neonatologie francesi. L’arresto del trattamento viene ampiamente
praticato e ammesso nei congressi. Il fatto stesso che ne esista una nomenclatura sta a significare
che viene comunque presa in considerazione in ambito classificativo. Ma l’ambito classificativo
scritto presuppone un classificazione mentale. Il discorso, in questo caso, è proprio della spinta sul
figlio dell’uomo rispetto all’avanzamento tecnologico che pone in essere la valutazione. Se,
dall’altra parte di quello strumento per la ventilazione assistita sempre più sofisticata (la
ventilazione liquida, la ventilazione oscillatoria, l’ECMO, ecc.), effettivamente ci sia un
presupposto di soggetto da un punto di vista biologico tale da potere davvero ricevere beneficio
dalla cura medica. Perché qui, prima ancora del valutare sull’agire, io credo che la riflessione vada
fatta proprio chiedendosi: ma chi sto curando, un battito cardiaco, un movimento respiratorio o un
movimento attivo (secondo il vecchio concetto dell’OMS per cui il prodotto del concepimento è
vivo quando ha battiti cardiaci fetali, qualche piccolo movimento e qualche piccolo atto
respiratorio)? Però credo che questo di per sé non ci autorizzi ad accettare sempre e comunque l’atto
assistenziale terapeutico. In questo caso Levin, che è uno dei padri della neonatologia, oggi dice che
dobbiamo aumentare le nostre conoscenze per i bambini vivi che assistiamo, piuttosto che fare i
guinness. Ogni tanto si legge sui giornali: Neonato di 322 grammi riesce a vivere! A parte che i 322
grammi non dicono molto, perché a me interessa l’età gestazionale, perché è l’età gestazionale che
mi dà il livello, mentre il peso non mi dice niente. Questa, come altre manifestazioni meno frequenti
nell’adulto, ha creato un’aspettativa per la popolazione per cui siamo diventati “dio”, nel vero senso
della parola (neonati di 400 grammi oppure gravidanze plurime con 4 feti, come venne fuori
all’ospedale clinico di Perugia). Quando poi le cose non vanno bene la gente dice: ma come? E
allora bisogna spiegare che la medicina è un’altra cosa e che l’aneddoto non ha alcun significato.
Anche se poi l’Accademia Canadese, che prevede l’eventuale sospensione delle cure, dice che non
deve assolutamente essere preso in considerazione l’interesse economico, l’interesse sociale,
l’interesse della famiglia, ma unicamente l’interesse del soggetto in cura, in questo caso del
neonato.
Anche noi pediatri abbiamo le macchine, anche noi possiamo aggredire la malattia, intervenire.
Abbiamo dovuto accettare le nostre sconfitte, le nostre tragedie, i nostri fallimenti, le nostre
assurdità, i nostri deliri. Ora c’è una riflessione più attenta e più matura, secondo me non compiuta,
e che necessita davvero l’aiuto di tutti, perché noi dovremmo fare uscire queste cose e parlarne alla
gente. Incontri come questo dovrebbero ascoltarli tutti quelli che ne hanno voglia, perché poi la
gente si trova a vivere queste situazioni quando va negli ospedali. E’ necessario quindi capire in che
problematiche grosse ci troviamo, in che angosce e bisogni. Evidentemente it’s our interest (è
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nostro interesse), non è solo interesse del paziente e della sua famiglia, anche se in questo caso, per
questo particolare tipo di bambino, forse l’idea che stiamo facendo accanimento terapeutico è
abbastanza vicina alla realtà e vi dimostrerò perché. Vi ricordo gli articoli del Codice Deontologico
sull’ostinazione in trattamenti senza un miglioramento. Si deve fornire al malato trattamenti capaci
di dare vita e salute. E allora ci possiamo chiedere per questi bambini (sto parlando dei neonati di
peso estremamente basso): ma forse stiamo facendo medicina sperimentale? Io ritengo proprio di sì,
perché non abbiamo alcuna indicazione che l’atto che compiamo comporti l’obbiettivo che ci
vogliamo dare. E’ sperimentale tutto quello che non è provato e in questo caso ci sono varie
modalità per provarlo, ma non in queste condizioni. Prendiamo in esempio questi pazienti, i
bambini di peso estremamente basso, con quella che in letteratura viene chiamata uncertain viability
(incerta vitalità), tra le 22 e le 24 settimane, quindi sotto le 25 settimane. L 25a settimana è la zona
al di sotto della quale finora è dimostrato che la sopravvivenza è impossibile, non si vive. Sopra le
24 settimane, ci sono aree incerte, ma in cui comunque qualche probabilità di sopravvivenza c’è.
Voi vi chiederete il perché adesso di tutti questi lavori. Perché quello che era un aborto alla
ventesima settimana oggi, grazie a condizioni socio-economiche migliori, può nascere vivo. Le
donne e la famiglia vivono in condizioni socioeconomiche migliori: ci si nutre meglio; l’assistenza
in gravidanza è migliore; le cure per patologia infettiva, per ritardi di crescita, per distacchi
improvvisi di placenta diventano gravidanze che esitano in un neonato vivo alla ventiduesima,
ventitreesima settimana. E allora comincia a esserci una statistica, una probabilità di valutazione di
studio per poter affermare qualcosa che incomincia ad essere accettabile sul piano generale. In
questo caso, è uno studio fatto in 276 punti nascita, tutti in Gran Bretagna, che ha preso in
considerazione neonati nati tra la ventiduesima e la ventiquattresima settimana. In questo caso, il
71% nasce morto. Del restante 19%, l’80% muore prima della dimissione, quindi muore in reparto.
Il restante che viene dimesso muore nel primo anno di vita e due soli di questi sono handicappati
gravissimi. In pratica, l’agire medico in questo caso si configura nel 98,8% di morte in vari
momenti e nell’1% di un paziente gravissimo (una tetraparesi grave) che generalmente morirà negli
anni successivi. Quindi questa è appunto quella categoria dove il nostro pensiero si fa drammatico e
ve lo propongo. L’altra strada dove le scienze perinatali si muovono è il neonato con malformazioni
incompatibili con la vita (cioè, la trisomia 13, la trisomia 18 e l’anencefalia), o il neonato affetto da
gravissima malattia a prognosi infausta (ad esempio, una patologia metabolica di cui si sa ormai
perfettamente il decorso clinico). Sono situazioni che vengono riferite “senza speranza”. In questo
caso, “senza speranza” non ci toglie dal vincolo di prestare cure, ma vengono anche definite “senza
scopo” e quindi è particolarmente difficile la decisione. Il neonato evoca in tutti noi una sorta di
tenerezza, un desiderio comunque di accudimento. Io non so se è vero che pensarsi con un neonato
cambia il modo di essere, secondo gli anglosassoni sì. Il neonato porta in sé l’intensità e l’induzione
al bene facere, cioè al fare bene più che in altre condizioni. In questo caso, che cosa significa
limitare le cure e chi lo fa? E’ stata fatta un’indagine, in Europa, rivolgendo domande ipotetiche
come: nel caso questo bambino con questa età gestazionale avesse questo problema (supponiamo
una lesione cerebrale gravissima, attaccato al respiratore, con forte compromissione delle
condizioni cliniche generali) ed avesse un arresto cardiaco, lo assisteresti o no? E’ stata fatta la
domanda sia a medici che a infermieri. L’Italia, la Spagna, la Germania e i Paesi dell’Est hanno
risposto che continuerebbero le cure intensive, ma non danno risposte a quadri emergenti
successivi. Invece la Finlandia e l’Olanda dichiarano apertamente che interrompono la ventilazione,
quindi arrestano qualsiasi cura e determinano la morte del paziente. L’indagine anticipava la legge
che poi c’è stata. Il consenso in questo caso è difficile. Pensate ad una rianimazione in sala parto, a
chi lo chiedo il consenso? Oppure sorge un grosso problema in terapia intensiva, a chi lo chiedo il
consenso? Secondo me, è un’ipocrisia tirare fuori i comitati etici. Per la medicina d’urgenza e per
l’area critica, il comitato etico non è che non funzioni: non esiste. In circostanze pesantissime con
caratteri di urgenza e problemi molto complessi, il genitore angosciato di un neonato severamente
malato deve metabolizzare informazioni molto complesse e deve prendere una decisione in favore
di quel bambino in un periodo di tempo brevissimo. Quindi la possibilità di una sorta di alleanza
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attraverso un consenso che conforti l’azione medica nell’area critica credo che non sia possibile,
intendendo l’area critica quella in cui si affronta un quadro acuto. In quella famosa ricerca di alcuni
neonatologi europei si è visto che tengono a limitare le cure i medici più anziani, con maggiore
esperienza che lavorano esclusivamente in terapia intensiva, che hanno lavorato anche nei servizi di
follow-up, cioè che hanno visto anche gli esiti a distanza del loro agire e che considerano meno
importante la religione nella loro vita (questo è sempre nel questionario di oltre 2.000 indagini fatte
in tutte le terapie intensive di Europa a medici e infermieri). Noi abbiamo a che fare con neonati che
andranno a morte in breve tempo e sono pazienti che vanno incontro a trattamento intensivo, ma
che in ogni caso siamo certi andranno incontro a patologie gravissime e si attende per questi una
sofferenza di vita molto estenuante.
Quanto ai parametri per intraprendere le cure di fine vita, vi dico non tanto un pensiero, ma i
pensieri che stanno girando intorno alla nostra area. Sono bambini con prognosi estremamente
severa, anche per quanto riguarda la sofferenza futura. Allora i limiti di questo trattamento avanzato
vanno posti onestamente con i genitori e l’informazione è estremamente importante. C’è da dire
che un terzo dei neonatologi europei intervistati ha detto che non augurerebbe il trattamento che sta
facendo al loro paziente al proprio figlio. Ricordo poi anche la voce di una persona intelligente e
umanamente vicina, Giovanni Paolo II, che nel 1980 disse: «Nell’imminenza di una morte
inevitabile, nonostante i mezzi usati, è lecito, in coscienza, prendere la decisione di rinunciare ai
trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza
interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di
angustiarsi quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo». In pratica, quando
sei certo di quello che avverrà forse puoi anche con una tua pace interiore prendere in
considerazione la possibilità di dare solo cure confortevoli.
Chiudo questo argomento affrontando un altro aspetto che, secondo me, è bioetico. Ma credo che
non si possa scindere la bioetica dall’etica politica, perché i valori sono un’osmosi di serbatoio. Non
credo ci possa essere la bioetica scissa da valori fondamentali della società. Sono questi i tempi in
cui nascono e danno la vita gente di altri Paesi. Però questa gente non vede il suo sole, non vede la
sua luna. Molti di loro hanno i loro figli e i loro genitori nelle loro terre. Negli ultimi dati della
Regione Toscana, la percentuale di parti prematuri più elevata è a carico di donne che provengono
da Paesi extracomunitari. Questo ci deve fare riflettere molto, perché mentre Roma discute Segunto
brucia. Cioè, mentre noi discutiamo, di fatto nella vita di tutti i giorni succede questo,
evidentemente perché sei “extra”, non sei “intra”.
Un altro tema grossissimo è l’antinomia, la contraddizione: dove si dà la vita, in quel momento si
porta la morte. È il caso di alcuni Paesi del III° e del IV° mondo funestati da guerre, carestie,
continue situazioni destabilizzanti. Io credo che un atto così incredibilmente negante, l’uno con
l’altro, non ci sia nell’agire umano: lì si sta nascendo, lì si porta la morte. Ma come, umanità, tu
nasci e lì porti la morte? Non puoi. Ecco perché per un’ipotetica carta dei diritti del neonato una
volta chiesi che tutte le zone in cui si nasce vengano dichiarate zone franche, perché lì si nasce e
non si può portare morte.
Queste sono riflessioni, come un’altra che riguarda quello che dicevo all’inizio: il diritto del
neonato va di pari passo col diritto della donna da cui è nato e quindi della salute della donna.
Allora la donna ha un qualcosa in più, è centrale (dà la vita ad una nuova vita), è speciale, è
fondamentale e quindi penso che si debba assolutamente rispettare. Diceva Amnesty International:
“Don’t touch my sister!”. E allora, che qualsiasi donna, la nostra collega, la nostra moglie, la
nostra amica, sia veramente la nostra sorella. Vi voglio leggere questa cosa che ho trovato su
Internet l’altro giorno. A Nag Hammadi, nel nord dell’Egitto, circa 300 anni avanti Cristo, in un
papiro è stato decodificato dagli egittologi un 'Inno a Iside', che dice: «Perché io sono la prima e
l’ultima, io sono la venerata e la disprezzata, perché io sono la prostituta, io sono la santa, io sono la
sposa e la vergine, perché io sono la madre e la figlia, io sono le braccia di mia madre, io sono la
sterile, io sono la donna sposata e la nubile, io sono colei che dà la luce e colei che non ha mai
procreato, io sono la consolazione dei dolori del parto, io sono la donna, ma fu il mio uomo che mi
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creò. Rispettatemi sempre, perché io sono la scandalosa e la magnifica.» Quindi la cultura bioetica
sul neonato non può non tenere conto di una cultura generale bioetica al femminile. Io sono
convinto che proprio in questo momento a Parigi, a Sidney, a New York, al Cairo, a Baghdad sta
nascendo un bambino. Io credo che la forza delle nostre idee in qualsiasi situazione, la tensione in
tutti gli ambiti debba essere difesa per tutelare i diritti di questo momento: parte integrante della
nostra storia e del nostro essere uomini.
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