pagina 1 - Fausto Biloslavo
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ANNO XII NUMERO 223 - PAG 3 EDITORIALI Basta che sia un dittatore Oliver Stone ottiene il “sì” da Ahmadinejad per l’ennesimo film anti Usa B ravo, bene, complimenti. Così Oliver Stone dimostra al mondo di essere un regista palluto e impegnato. Uno che odia gli Stati Uniti con tutte le sue forze – perché hanno combattuto la guerra del Vietnam, perché hanno complottato per uccidere John Fitzgerald Kennedy, perché Nixon era psicopatico – e quindi applica il ragionamento tribale: i nemici dei miei nemici sono miei amici. Vanno osannati, e celebrati con un film. Quattro anni fa era toccato a Fidel Castro, con un’intervista in ginocchio che più in ginocchio non si poteva. Il lìder maximo aveva diritto di veto, peraltro superfluo vista la compiacenza delle domande: non una parola sui diritti umani, sui campi di lavoro per omosessuali, sui cittadini prigionieri del presunto paradiso (dotato di ospedali pulitissimi ed efficienti, garantisce il compare Michael Moore). Ora tocca al presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Dopo un lungo corteggiamento ha accettato l’indecente proposta di Oliver Stone, che intende girare un documentario su di lui. Già immaginiamo le scene madri: Ahmadinejad che inveisce contro lo stato di Israele, che nega l’Olocausto e i suoi sei milioni di vittime, che celebra l’Iran come un luogo dove le donne sono finalmente libere, che rivendica il diritto al- l’arsenale nucleare. Tra un proclama e l’altro, qualche madrassa e qualche moschea, qualche quartiere moderno di Teheran, qualche deserto con capretta per intenerire lo spettatore, qualche bambino intento a giocare per strada, un po’ di artigianato locale, e uno sguardo ai fasti del passato, quando l’Iran si chiamava Persia. La cecità – per non dire altro – di Oliver Stone si accoppia alla furbizia di Ahmadinejad, che qualche mese fa disse di no al progetto. Disse di no perché gli erano piaciuti pochissimo gli antichi persiani di “Alexander”, nonostante le buone intenzioni del regista di “Platoon”. Disse di no perché Oliver Stone è pur sempre cittadino americano, anche se dice peste e corna di Bush. Disse di no perché l’industria del cinema è il Grande Satana che corrompe la meglio gioventù musulmana (il presidente iraniano, che di secondo mestiere fa come tutti il critico cinematografico, ebbe da ridire anche su “300”: i guerrieri persiani erano troppo truccati e ingioiellati, oltre che dipinti come belve assetate di sangue). Prima di partire per gli Stati Uniti – dove non gli faranno visitare Ground Zero – ha cambiato idea. Deve aver pensato che mille trattative diplomatiche non valgono un film di Oliver Stone. L’euro sostenibile Perché il sistema produttivo italiano non deve temere il cambio a 1,4 col dollaro L’ euro a 1,4 con il dollaro suscita inevitabilmente l’interrogativo sulla sua sostenibilità per l’economia europea e per quella italiana. Il dollaro non è solo la moneta americana, è anche la valuta in cui si fa il prezzo del petrolio e di altre materie prime. Al dollaro sono agganciate le valute di paesi come la Cina che hanno un cambio artificiale per aiutare l’export. Un cambio troppo alto appare insostenibile, con salari monetari rigidi verso il basso, sinché essi non vengono deprezzati in termini reali all’inflazione. A causa dell’euro alto e della concorrenza dei paesi emergenti, i salari negli ultimi anni sono saliti poco. Ora perciò il cambio di 1,4 appare sostenibile, a parità d’impiego di lavoro, laddove prima non lo era. La pressione dell’import dai paesi emergenti ha spinto le nostre imprese di settori ad alta intensità di lavoro a spostarsi a processi e prodotti ad alta intensità di capitale o di qualità elevata, con lavoro molto qualificato. L’Italia è – tipicamente – una economia di trasformazione. L’euro alto perciò ci giova nell’acquisto dall’estero delle materie prime e dei semilavorati. E quindi se le esportazioni sono nell’area dell’euro o di altre monete forti, ciò ci dà un vantaggio competitivo netto. Se le nostre esportazioni sono verso l’area del dollaro o di valute agganciate al dollaro, il fatto di comprare le materie prime e i semilavorati in dollari, riduce di molto la necessità di rincarare i prezzi in dollari delle merci esportate. Inoltre, quando il dollaro è basso, tutte le vendite verso l’area del dollaro rincarano. E le nostre esportazioni nell’area del dollaro, nella misura in cui si confrontano con altre esportazioni, anch’esse provenienti da aree di cambio alto non subiscono uno svantaggio competitivo. L’euro alto, però, mette in difficoltà l’industria alimentare di massa quando opera con materie prime domestiche. Danneggia le imprese che giocando sul basso costo della manodopera locale, hanno decentrato in Cina non i semilavorati, ma prodotti finiti (se li reimportano in eurolandia senza presentarli come beni di gamma e prezzo europeo). Certo l’euro alto mette fuori mercato chi non s’aggiorna. Ma la Germania costruì la sua prosperità con il marco forte. Governati da Caruso Reintegrandolo Rifondazione rinnega di fatto la scelta non violenta F rancesco Caruso, parlamentare di Rifondazione comunista, si era autosospeso dal gruppo parlamentare per le critiche che avevano suscitato le sue frasi indecenti, nelle quali definiva assassini Marco Biagi e Tiziano Treu, rei, secondo lui, di aver creato il precariato nel lavoro con le loro leggi che invece puntavano ad accrescerne le tutele. Ora Rifondazione comunista ha deciso di reintegrarlo con tutti gli onori, il che equivale se non a condividere appieno almeno a considerare legittime quelle accuse farneticanti. Si tratta di un fatto gravissimo. L’aspetto più rilevante della stentata evoluzione dei neocomunisti era stata la scelta della non violenza, che con questa decisione viene profondamente contraddetta. La giustificazione a posteriori dell’assassinio di Marco Biagi, l’indicazione di un altro giuslavorista, l’ex ministro Treu, peraltro esponente della stessa maggioranza che si onora di avere tra i suoi membri Caruso, al ludibrio o peggio, sono considerate accettabili dal secondo gruppo parlamentare del- l’Unione. La ragione politica di questa decisione è abbastanza evidente: il gruppo dirigente di Rifondazione ha il terrore che l’opposizione dei movimenti estremisti lo obblighi ad abbandonare i posti di governo, e per evitarlo cede alle loro richieste e accetta a scatola chiusa le loro posizioni, comprese quelle più aberranti. Però accettare le richieste di chi protesta per l’ampliamento di una caserma americana o contesta l’accordo stipulato a luglio tra governo e parti sociali rappresenta una posizione politica estremista ma rispettabile. Accettare invece la violenza non solo verbale di Caruso e dei suoi disobbedienti è un cedimento morale, che contrasta con i più elementari principi di civiltà politica. La manovra codista e subalterna dei ministerialisti di Rifondazione, inoltre, è anche politicamente suicida. Se vedono che possono fare e dire qualunque cosa, i superestremisti lo faranno, e così alla fine Rifondazione perderà sia i posti di potere sia la residua influenza sui movimenti. Un bel capolavoro. IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 21 SETTEMBRE 2007 Così Musharraf si prepara alla resistenza contro Bin Laden AL QAIDA DICHIARA GUERRA AL PAKISTAN. IL GENERALE ANTICIPA IL VOTO PER RESTARE AL POTERE ASSIEME A BHUTTO Islamabad. Il Pakistan annuncia la data delle contestate elezioni presidenziali e, con un tempismo perfetto, salta fuori l’ennesimo messaggio di Osama bin Laden che dichiara guerra a Pervez Musharraf. Il presidente e capo delle Forze armate punta a essere rieletto per un secondo mandato il 6 ottobre, ma l’opposizione e la Corte suprema vorrebbero impedirglielo. Il rischio è che Musharraf, con il tacito appoggio americano, sia pronto a sciogliere il Parlamento e, come ultima arma, perfino a imporre la legge marziale, se non ce la facesse a restare al potere. Prendendo spunto dal sesto anniversario dell’11 settembre, al Qaida sta diffondendo sul web proclami minacciosi, parte di una strategia mediatica destabilizzante. Nelle ultime ore è apparso un lungo video di Ayman al Zawahiri, il numero due della rete del terrore, che dichiara guerra a mezzo mondo cominciando dal Darfur, dove “i mujaheddin devono attaccare le truppe dell’Onu”, in vista della missione umanitaria nella regione sudanese. Al Zawahiri si appella anche alle cellule islamiste del nord Africa invitandole a “ripulire il Maghreb dai figli di Francia e Spagna”. Il “dottore”, come viene soprannominato per il suo passato di medico in Egitto, sostiene che i guerrieri santi dell’islam abbiano già vinto in Iraq e Afghanistan, ma al Qaida sembra più forte nella realtà virtuale che sul terreno. I tre messaggi di questo mese, fanno notare gli analisti, non sembravano nascondere alcun segnale in codice per nuovi e clamorosi attentati, ma soltanto un’accentuata campagna propagandistica. Al Zawahiri annuncia anche il nuovo messaggio di Bin Laden, solo audio, reso noto alcune ore dopo. Lo stesso numero due di al Qaida aveva spiegato che quella di Osama sarebbe stata una dichiarazione di guerra al regime pachistano per l’attacco alla Moschea rossa di Islamabad, la roccaforte dei fondamentalisti presa d’assalto dai corpi speciali pachistani lo scorso luglio. Al Zawahiri cita Abdul Rashid Ghazi, il predicatore filotalebano ucciso negli scontri per il controllo del luogo di culto. “Fate in modo che l’esercito sappia che l’assassinio di Ghazi e dei suoi studenti, la distruzione della Moschea rossa e di due madrasse ha macchiato il nome delle forze armate di una vergogna che può essere lavata soltanto con la rappresaglia contro gli assassini”. Le prime indiscrezioni sul nuovo messaggio di Osama bin Laden hanno più tardi trovato conferma. Il capo di al Qaida, riferendosi direttamente a Musharraf, sostiene che “l’assalto alla Moschea rossa dimostra la sua lealtà, sottomissione e collaborazione con gli americani contro i musulmani”. Lo sceicco invita gli adepti della guerra santa “alla rappresaglia” e “a ribellarsi contro il leader apostata”. Quella di eliminare Musharraf, come era accaduto con Sadat, è una vecchia idea dei capi di al Qaida, che sognano un golpe islamico per controllare gli arsenali nucleari del paese. Il pre- sidente pachistano, pur nel mezzo della più grave crisi politica negli ultimi otto anni al potere, non molla e va avanti per la sua strada. Ieri la commissione elettorale ha annunciato che il Parlamento e le assemblee provinciali voteranno per il nuovo mandato presidenziale il 6 ottobre. Musharraf ha fatto sapere che abbandonerà la divisa, se verrà rieletto a capo dello stato, entro la data di insediamento. In Parlamento, per ora, i numeri ci sono, ma l’opposizione ha promesso battaglia. Lo Jamaat e islami, partito religioso filotalebani, ostile al presidente per la sua alleanza con gli Stati Uniti, ha già presentato un esposto alla Corte suprema, sostenendo che Musharraf non può candidarsi al secondo mandato con ancora addosso i gradi di capo di stato maggiore. Altri esposti denunciano il fatto, con qualche ragione costituzionale, che il mandato presidenziale scade il 15 novembre e che il capo dello stato dovrebbe essere eletto dal nuovo Parlamento, che verrà rinnovato nelle elezioni politiche previste a dicembre o gennaio. Il problema è che gli oppositori di Musharraf sono in rimonta e nel nuovo Parlamento il generale non avrebbe più i numeri per essere rieletto. Pochi amici, meno soluzioni La Corte suprema è guidata da Iftikhar Muhammad Chaudhry, il giudice che Musharraf aveva destituito proprio per evitare trappole in vista del secondo mandato. Chaudhry è tornato al suo posto a furor di popolo. La Lega musulmana di Nawaz Sharif ha minacciato di ritirare i suoi parlamentari per boicottare l’elezione del generale. Sharif è l’ex premier, deposto nel 1999 dal golpe di Musharraf, che la scorsa settimana ha cercato di rientrare in patria, ma è stato velocemente rispedito in esilio. La possibile alleata laica di Musharraf, l’ex premier Benazir Bhutto, a sua volta costretta all’esilio, ha annunciato il ritorno in patria il 18 ottobre. Ieri, però, ha messo le mani avanti di- chiarando che “se Musharraf non abbandonerà la divisa prima della rielezione, anche i parlamentari del Partito popolare potrebbero abbandonare il Parlamento”. Per il secondo mandato, il generale ha disperato bisogno almeno di una benevola astensione da parte dei seguaci della Bhutto, altrimenti la sua rielezione perderà di credibilità. Ad aggravare la situazione c’è poi la fronda interna allo stesso partito di Musharraf e nel voto segreto per la presidenza i franchi tiratori potrebbero fargli lo sgambetto. Il generale, però, ha ancora due mosse da fare. Può sciogliere il Parlamento puntando sulle politiche e su un accordo con la Bhutto, oppure imporre la legge marziale. Gli americani si oppongono alla soluzione autoritaria, ma hanno garantito pieno appoggio al presidente in cambio dell’impegno a intervenire seriamente nell’area tribale al confine fra Pakistan e Afghanistan dove i neotalebani e le cellule di al Qaida la fanno da padroni. In questi giorni si attende il rilascio di 240 soldati presi in ostaggio dai miliziani fondamentalisti in Waziristan senza sparare un colpo, come ha denunciato il generale pachistano Talat Masood. Attentati suicidi, attacchi, minacce ai venditori di video, cassette musicali e ai barbieri sono all’ordine del giorno, nella regione. I neotalebani hanno anche fatto ritrovare le teste di due donne accusate di prostituzione e punite secondo la loro sharia. Ma il problema vero di Musharraf è il crollo della sua popolarità, evidenziato dal sondaggio pubblicato in Pakistan l’11 settembre secondo il quale il gradimento per il presidente è sceso al 38 per cento, mentre l’apprezzamento per Osama bin Laden si attesta al 46. Un apprezzamento che però non riguarda le tecniche di combattimento qaidista, se è vero che il 75 per cento degli intervistati condanna la tattica degli attentati suicidi indiscriminati. Il 66 per cento, però, pensa che la guerra americana al terrorismo sia in realtà un attacco deliberato all’islam. Sarkozy prova a “scegliere l’immigrazione invece che subirla” Roma. Per la quarta volta in quattro anni il legislatore francese ha adottato una nuova legge sull’immigrazione. Il presidente, Nicolas Sarkozy, l’aveva detto in campagna elettorale: basta subire l’immigrazione, è il momento di sceglierla. E aveva giustificato il nuovo ministero senza complessi: chi vuole vivere in Francia deve conoscerne valori e lingua. Il ministro per l’Immigrazione e l’identità nazionale, Brice Hortefeux, l’ha seguito alla lettera. Ha presentato un progetto di legge che rafforza le restrizioni previste dalle leggi precedenti e introduce un elemento nuovo: l’esame del Dna, per controllare e disciplinare il ricongiungimento familiare. Una misura controversa, oggetto di un emendamento ad hoc presentato da Thierry Mariani, parlamentare d’origine abbruzzese, eletto in Provenza, amico di vecchia data di Sarkozy e già responsabile del settore immigrazione dell’Ump. L’Assemblea nazionale ha discusso la questione fino all’alba di ieri, quando a votare erano ri- masti soltanto 23 deputati. Ma per arrivare all’accordo finale ce n’è voluta. Non c’era solo l’opposizione di sinistra, col socialista Arnaud Montebourg insorto contro le “disposizioni umilianti”, mentre il comunista Jean-Pierre Brard si chiedeva: “Cosa sarebbe successo se alcuni di voi fossero stati deputati nel 1940?”, per essere zittito da Hortefeux: “Le suggerirei di non evocare in nome della sua famiglia politica alcuni periodi della storia patria”. C’era anche l’opposizione del premier, François Fillon, che ha stemperato l’impianto vessatorio dell’emendamento Thierry introducendo il test del Dna in deroga al Codice civile, ma in via sperimentale fino al 2010 e facoltativo e su espressa richiesta di chi chiede il ricongiungimento familiare, al fine di dimostrare il legame di filiazione con un parente residente in Francia. Inoltre, in caso di esito positivo e di visto concesso, lo stato dovrà rimborsare le spese sostenute per realizzare il test. E una commissione ad hoc valuterà ogni anno l’applicazione della legge. Quanto alla lingua, chi non la conosce dovrà frequentare un corso per poter aspirare a un visto, ma non avrà bisogno di superare un esame, come invece pretendono i tedeschi e gli olandesi. “I francesi – ha spiegato Mariani, venerdì scorso a Roma – fanno sempre le cose a metà”. La nuova legge prevede, inoltre, per l’aspirante immigrato condizioni di reddito perlomeno pari allo Smic (il Salario minimo intercategoriale garantito), e a un terzo in più per famiglie di sei o più persone. Abroga poi l’autorizzazione per ottenere un visto a tempo indeterminato per i familiari stranieri di francesi entrati regolarmente in Francia, mentre prescrive un Contratto di accoglienza e di integrazione per i genitori i cui figli avranno beneficiato del ricongiungimento. In compenso, gli stranieri residenti da oltre dieci anni avranno diritto a un permesso di residenza illimitato, anziché circoscritto a 10 anni. Quanto al diritto d’asilo, l’Ofpra, l’Ufficio di protezione dei ri- fugiati e degli apolidi, passerà dal Quai d’Orsay al nuovo ministero. E in caso di rifiuto del diritto d’asilo, lo straniero potrà presentare una richiesta di sospensiva al Tar, che verrà esaminata in 48 ore e avrà 15 giorni di tempo per ricorrere davanti alla Commissione dei rifugiati. Infine, altra misura controversa, la nuova legge autorizza il censimento delle origini etniche della popolazione, sinora bandito in nome dell’antirazzismo, e considerato invece uno strumento demografico indispensabile per studiare la discriminazione e l’integrazione. Le perplessità non sono soltanto del governo. “I principi etici che valgono per l’insieme della popolazione francese fanno parte dell’identità nazionale, e implicano la rinuncia a certe tecniche”, ha detto l’alto commissario alla Solidarietà, Martin Hirsch, contrario come Fadela Amara ai test sul Dna. In attesa del passaggio al Senato, anche il Monde parla di “scioccante rottura con lo spirito del diritto repubblicano”. UnD’Alemapiùragionevolesull’Irantorna(quasi)d’accordoconRice Sempre più in linea con Washington. Il ministro Massimo D’Alema ha ripreso a colloquiare con Condoleezza Rice, che sta cercando di inserire in agenda una missione in ItaFARNESINA lia (alla Farnesina si parla di novembre). I contatti non sono dovuti soltanto alla preparazione del summit autunnale sul medio oriente promosso da George W. Bush, nel quale D’Alema, divenuto più ragionevole su altri dossier, per esempio sull’Iran, è riuscito a ritagliarsi un ruolo di mediatore, pur restando ancora un po’ ambiguo sul coinvolgimento di Hamas. Lunedì Rice è stata ospite dell’ambasciata italiana a Washington, dove Giovanni Castellaneta ha ottenuto dal segretario la conferma della volontà di “portare avanti la causa dello stato palestinese”. Club italiano all’Onu. L’Italia presiederà la riunione di dicembre. Roma sarà l’attore principale di quella che l’ex ambasciatore aleth Armon muove i pezzi su una scacchiera, nello scantinato dell’orfanoB trofio Methuen. Davanti a lei il grasso e scontroso custode suda. Enorme nella sua canottiera, è uno che con i bambini rinchiusi lì dentro non parla, una specie di orco che si vanta di terrorizzare qualunque marmocchio. E anche adesso, infatti, tace maligno. Beth però non ha paura, tra lei e lui c’è la scacchiera, un universo rinchiuso nello spazio angusto di sessantaquattro case. Un universo dove Beth non è una bambina brutta, orfana, e innamorata dei sonniferi che le danno per tenerla buona. Lì, tra aperture, incroci e varianti Beth è un’altra persona, infinitamente vecchia, infinitamente potente, spietata come una regina strega delle fiabe. Anche perché la scacchiera non è di legno, non è materia, è uno spazio altro che si dilata infinito nella mente di questa ragazina di otto anni. Infatti il custode perde e perde. E dopo di lui perdono i ragazzi delle scuole superiori, i maestri, i grandi maestri, i campioni. Abbastanza perché questa gracile ragazzina del Kentucky, a cui la vita ha regalato solo una madre morta in un incidente, un’aspetto mediocre e la sua dose di maltrattamenti abbia la sua occasione di riscatto, il suo sogno americano in formato di pezzo regolamentare da torneo. E anche qualcosa di più, quello di essere l’unica donna capace di vincere in un mondo scacchistico governato da uomini. Di l’Onu, Francesco Paolo Fulci, ha definito la madre di tutte le battaglie, la riforma del Consiglio. Intanto, Marcello Spatafora, attuale rappresentante italiano a New York, si sta dimostrando un abile trasformatore dello storico “Coffee Club”, il ritrovo nel quale Fulci è riuscito a costruire alleanze per l’elezione dell’Italia al Consiglio, nel ’95, bissata da Spatafora: ha creato un gruppo nuovo e ambizioso, “Uniting for Consensus”, che ha ottenuto il significativo risultato di bloccare quasi tutte le proposte “non italiane”, stentando però a sviluppare un consenso attorno a una terza via: dietro la creazione di un seggio europeo si punterebbe soprattutto a bloccare le mire tedesche allo scanno permanente. Una lobby contro la pena di morte. A dicembre all’Onu si voterà la moratoria sulla pena di morte. La diplomazia dello Stivale si sta muovendo – conferma il portavoce del ministero degli Esteri, Giovanni Ferrara – per ottenere la cosponsorship di Russia e Sudafri- LIBRI Walter Tevis LA REGINA DEGLI SCACCHI 377 pp. Minimum Fax, euro 11,50 dimostrare che la crudele intelligenza che serve per dar matto non è appannaggio delle sinapsi dei maschi. Raccontata così, la trama di “La regina degli Scacchi” di Walter Tevis fa pensare a un romanzo, pur ben scritto, per infiocchettare in maniera insolita le aspirazioni del pubblico di un film americano di serie B. Tevis invece, uno degli scrittori più dimenticati da vivo, nonostante capolavori come “L’uomo che cadde sulla terra”, “Lo spaccone” e “Il colore dei soldi”, e rivalutatissimo da morto ci cuce attorno un ordito assassino. Uscire dall’orfanotrofio non aiuta ad essere normali. La necessità di vincere sempre, rende sempre più necessarie le pillole per dormire. Il fatto di vedere ciò che gli altri non vedono rende la vita aliena, distante, invivibile. Così è per l’eroina che batte i campioni russi, che conquista le copertine dei giornali, che alla fine si trova anche degli spasimanti, nonostante l’aspetto sciatto. ca. Lo staff del ministro parla anche di un coinvolgimento delle ong e di personaggi della società civile verso un approccio definito “corale e consensuale”. Il ministro D’Alema e il premier Romano Prodi voleranno a New York per accertarsi che tutto vada per il meglio, oliando i meccanismi della neonata lobby promoratoria. Prodi parlerà all’Assemblea generale il 25 settembre dopo un estenuante lavorio di Palazzo Chigi: fino a ieri il premier sarebbe dovuto intervenire pure in Senato per presentare la Finanziaria, ma a New York l’entourage è riuscito ad anticipare l’intervento in Assemblea generale. Elicotteri e brochure. Una direttiva segretata dal ministero della Difesa ordina di definire il Mangusta mezzo da “esplorazione e scorta”. L’A-129 Mangusta è stato impiegato in Iraq e i militari italiani ne stanno facendo uso in Afghanistan. Dalla base di Herat gli elicotteri d’attacco del 5° reggimento Rigel, arrivati a giugno, sono intervenuti almeno Insomma il riscatto è solo un’altra faccia, altrettanto banalmente dolorosa dell’ingiustizia subita, del peccato originale che baca sin dall’inizio la mela dell’esistenza di ciascuno. Ma anche questo, in fondo, pur sommato alle molte pagine di critica che ormai accompagnano ogni testo di Tevis (questo in Italia era rimasto sin qui completamente inedito), non basterebbe a consigliare di mettere questo suo ultimo romanzone sul comodino. La differenza vera è nella qualità narrativa di un’autore sempre fuori posto, che fa vibrare la pagina di una nota amara, ma mai piagnona, sfruttando piccolissimi impercettibili dettagli. Che regala ai lettori un’eroina vittoriosa, che va oltre il gioco crudele che la riscatta, oltre alla tossicodipendenza educata da farmacia, oltre l’alcolismo. Un’eroina che però alla fine si trova sola su una panchina con davanti un vecchio e una scacchiera, come se l’esistenza fosse una ring composition, un carillon che può suonare solo le stesse note e nulla più. Tevis, nelle spoglie cartacee di Beth Armon non se ne lamenta, si limita a protendere di nuovo la mano verso i pezzi. Senza esitazione e senza false speranze. Alla domanda maligna, se esista un inferno a cui i più dotati tra noi sono condannati, uno scrittore americano, che indubbiamente faceva parte della categoria, vi dà la sua risposta. A ciglio asciutto ma con furente, sottilmente contenuto, dispetto. due volte contro i talebani. In ossequio alla direttiva delle alte sfere, sul sito dell’esercito viene riportata la dicitura elicottero “da esplorazione e scorta”. Accanto alla foto dell’elicottero resta però la sigla corretta, A-129 “Mangusta” – Cbt. Ai neofiti non evoca nulla, ma Cbt sta per “combat”. L’imposizione di blandire il vero nome del mezzo sta suscitando perplessità in ambienti militari. Alle fiere internazionali, sulle brochure del prodotto e sul sito di Finmeccanica, il Mangusta viene correttamente presentato come “elicottero da combattimento multi ruolo”. Sondaggi poco graditi. Non piace D’Alema il sondaggio di Ipr Marketing per Repubblica.it. Il suo indice di gradimento è diminuito del 4 per cento, quello del premier è stabile. Molti elettori cominciano a considerarlo poco coraggioso. Intanto è stato invitato ad aprire un summit della Lega araba e pare che Israele abbia ripreso a considerare “buoni” i rapporti con la nostra politica estera. DOMANI – Nord: velature e nubi alte in transito nel corso della giornata. Centro: sulla Sardegna nubi in aumento cielo sereno sulle restanti regioni. Sud: addensamenti possibili sulla Sicilia orientale, con qualche rovescio temporalesco.