Untitled - Barz and Hippo
Transcript
Untitled - Barz and Hippo
Per alcuni Le nevi del Kilimangiaro è un film le cui posizioni politiche sono “rigide” e “vecchio stile”. Per altri, è un ritrovato Guédiguian che riesce nella difficile magia di fare un film “necessario” e impegnato, privo di buonismi e di edulcorazioni della sua realistica visione sociale, eppure fresco e ottimista. scheda tecnica durata: 107 MINUTI nazionalità: FRANCIA anno: 2011 regia: ROBERT GUÉDIGUIAN soggetto: ispirato a LES PAUVRES GENS di VICTOR HUGO sceneggiatura: ROBERT GUÉDIGUIAN, JEAN-LOUIS MILESI fotografia: PIERRE MILON montaggio: BERNARD SASIA scenografia: MICHEL VANDESTIEN costumi: JULIETTE CHANAUD distribuzione: SACHER interpreti: ARIANE ASCARIDE (Marie-Claire), JEAN-PIERRE DARROUSSIN (Michel), GÉRARD MEYLAN (Raoul), MARYLINE CANTO (Denise), GRÉGOIRE LEPRINCE-RINGUET (Christophe), ANAÏS DEMOUSTIER (Flo), ADRIEN JOLIVET (Gilles), ROBINSON STÉVENIN (Il capo della polizia). Robert Guédiguian Figlio di una tedesca e di un operaio armeno che lavora nei docks di Marsiglia, Robert Guédiguian nasce il 3 dicembre 1953 nella città della costa francese, nel popolare quartiere dell'Estaque, un porticciolo circondato dalle fabbriche il cui volto ottocentesco fu reso celebre da Cézanne e dagli impressionisti, e che Guediguian definisce 'il quartiere più comunista di Marsiglia'. Il mondo che lo circonda da bambino e poi da adolescente gli resta nel cuore. Quasi tutti i suoi film sono infatti ambientati a Marsiglia e quasi tutti raccontano le storie degli operai del posto. E Guediguian ammette: "Quello è il mondo che mi emoziona, per cui lavoro. Quel mondo poi mi ha permesso di studiare all'università e quindi mi sono sempre sentito responsabile. Farò sempre film sugli oppressi, i poveri, i deboli, le vittime. Credo che questo sia il compito degli intellettuali e degli artisti". Robert Guédiguian studia all'università di Parigi durante gli anni Settanta e lì entra in contatto con il regista René Féret, con il quale scrive le sue prime sceneggiature cinematografiche. Dopo una fase di attvità politica che lo delude, inizia a collaborare con Féret per il film Fernand (1980). Nel 1980 esordisce alla regia con Dernier été, che viene presentato al Festival di Cannes. Come Marcel Pagnol, René Allio o René Féret prima di lui, àncora profondamente i suoi film in una realtà sociale che s'intreccia con la militanza politica. Le sue opere sono caratterizzate da un profondo legame con la realtà locale conosciuta fin da bambino. Come i suoi predecessori, si circonda di una équipe fedele che chiama per quasi tutti i suoi film. In questa troupe figura al primo posto sua moglie Ariane Ascaride, incontrata all'Università di Aix-en-Provence. Lui stesso si qualifica «cinéaste de quartier» e i suoi film mantengono una visibilità circoscritta e un carattere quasi riservato fino ad À la vie, à la mort! (1995), che lo fa uscire dall'ombra. Il primo grande successo arriva nel 1997 con Marius et Jeannette, che ottiene unanimi consensi da parte della critica internazionale. Il film è una favola realistica che narra una delicata storia d’amore, un tenero racconto che mescola commedia e melodramma fra immigrazione e degrado, ambientato ancora una volta tra i poveri che abitano l’Estaque. In questo come in altri casi, l'ambiente non è un semplice sfondo, ma diventa l’elemento propulsore della storia, che ad esso deve le sue caratteristiche di realismo, ma anche di asciuttezza antiretorica. Con il film, Ariane merita il César per la migliore interpretazione femminile. Dopo Il posto del cuore (1998), Guédiguian realizza nel 1999, A l'attaque e La ville est tranquille. Il primo racconta della lotta di un gruppo di operai contro la globalizzazione e contro l'invasione di una multinazionale, il secondo è un affresco della Marsiglia contemporanea con tante storie che si intrecciano per testimoniare che la città non è affatto tranquilla. Le due pellicole, pur prendendo spunto dalla stessa realtà sono molto diverse e lo stesso regista le commenta così: "Ne La ville est tranquille mostravo il mondo com'è, in A l'attaque mostro il mondo come vorrei che fosse. In alcuni momenti si devono fare film che chiariscono le cose e in altri si devono fare dei film per mostrare l'enorme complessità del mondo. L'importante è che un film sia esemplare, eccessivo nella via che sceglie". La ville est tranquille, uno dei suoi film migliori, è in effetti esemplare per la sua rappresentazione della crisi ideologica della sinistra francese e della progressiva estremizzazione di una destra che va recuperando popolarità: temi che, pur nascendo da un contesto locale, indirizzano il film verso una leggibilità assai più ampia e internazionale. Nel 2002, Guédiguian dirige Marie-Jo et ses deux amours, pu essendo una storia privata e romantica, il regista lo definisce il più politico dei suoi film, perché mostra uno stato di cose in cui alla caduta di certi ideali si contrappone una forma di resistenza. Nel 2004 abbandona temporaneamente il proletariato marsigliese per raccontare gli ultimi mesi di vita del presidente Mitterrand (interpretato da M. Bouquet) in Le passeggiate al Campo di Marte. Nel 2008 torna a Marsiglia, ma per un incursione nel thriller che sembra avvicinarlo per un attimo a Clouzot e Chabrol: con il film Lady Jane racconta la storia di tre criminali che negli anni Settanta avevano condotto furti e rapine fino all'uccisione di un gioielliere: cessata l’ “attività”, i tre non si incontrano più finché il figlio di una di loro non viene rapito. Il film, passato al festival di Berlino, non trova distribuzione in Italia. Poche copie vengono invece proiettate, grazie alla Sacher Film di Nanni Moretti, del successivo L'armée du crime, una rilettura “scottante” di un passato storico che mette in evidenza le gravissime responsabilità del Governo di Vichy. Contemporaneamente prosegue la sua attività di produttore con la Agat Films & Cie di cui è socio e che realizza documentari e fiction per la televisione francese. La parola ai protagonisti Intervista a Robert Guédiguian e Ariane Ascaride Per realizzare il film lei si è ispirato ad un poema di Hugo, ma in che modo ci ha lavorato? Si può forse dire che il film rappresenti I miserabili moderni? Nel 2005 mi capitò di rileggere il poema e il suo finale è assolutamente struggente. Ho subito pensato che sarebbe stata una fine stupenda per un film, e dovevo solo trovare un percorso contemporaneo per giungere a questo finale. Il poema di Hugo è una storia di miserabili: io sono partito dalla sua conclusione. Come era già successo con L’ultima estate e con Marius e Jeannette, volevo fare il punto della situazione, nel quartiere dove sono nato, l’Estaque, e con la “povera gente” che vive lì; il film vuole essere la descrizione della “povera gente” di oggi. Secondo lei, in una società ormai contrassegnata dall'egoismo, una vicenda del genere è verosimile? Certo, è verosimile anche se raro. Ma il cinema esiste non per raccontare la norma quanto piuttosto le eccezioni, gli esempi. Cosa si può fare, secondo lei, per far cambiare mentalità ai tanti che ragionano come Raoul, l'amico del protagonista? La sua è una mentalità forcaiola, tutta tesa alla vendetta. Penso che si possa far cambiare idea a queste persone proprio attraverso il comportamento, attraverso azioni concrete: è quello che fanno Michel e Marie-Claire. I discorsi non bastano. Nei suoi film c'è spesso un rovesciamento di ruoli tra vittime e carnefici. Anche qui, non sappiamo bene chi sia il vero colpevole. E' forse la società, più che gli individui? Il film giudica la società, certo: è la sua condizione sociale che ha costretto Christophe a compiere l'aggressione. Con questo non lo giustifico, ovviamente, ma, così come i due protagonisti, lo comprendo. Il film lavora proprio su quella che dovrebbe essere la riconciliazione tra tutti i miserabili, per ricostruire quella che io chiamo coscienza di classe. Nel film è interessante l'aspetto del confronto generazionale. Secondo lei, le nuove generazioni sono davvero così disilluse e poco combattive? Spesso è così, anche se spesso non vuol dire sempre; questo succede da quando è fallita la grande alternativa comunista. La gioventù moderna è una gioventù senza proposte; ma non possiamo incolparla per questo, in quanto non viene prospettata ad essa alcuna soluzione. Io penso che sia urgentissimo, oggi, riformulare una proposta alternativa alla società esistente, e penso che quella del comunismo sia in realtà un'idea nuova: più che reinventarla, bisognerebbe inventarla. Per la prima volta nella storia i nostri figli rischiano di vivere peggio di noi. Tutte le conquiste sociali sono state ottenute attraverso dure lotte, ma oggi sono state messe nuovamente in discussione. È arrivato il momento di passare all’attacco, e di proporre delle alternative. Spero in una riconciliazione tra la nostra e la nuova generazione. Il filo si è rotto, ma dobbiamo ricucirlo. A questo proposito è significativa la domanda che alla fine Michel si pone: che cosa avrebbe pensato la persona che eravamo a vent’anni di quello che siamo diventati oggi? E’ una domanda che io, Ariane e gli altri della truppa ci siamo sempre posti. Io sono sempre andato avanti chiedendomi cosa avrei pensato, quando avevo vent’anni, della persona che sono diventato. E a vent’anni ero, come potete immaginare, un ragazzo eccessivo, ribelle. Direi persino che mi sono sempre sforzato di comportarmi in un modo che potesse piacere al ragazzo di allora, come se quel ventenne di un tempo fosse per me una specie di grillo parlante, la voce della mia coscienza. Ariane Ascaride, quanto c'è di lei nel suo personaggio? Io sono un'attrice, il personaggio non sono io, anche se mi piacerebbe somigliarle. Mi è piaciuto interpretarla perché credo ci siano molte donne come lei, donne che accompagnano le persone che hanno accanto in tempi difficili, che sostengono e riuniscono, facendo in modo che le cose vadano avanti. Sono eroine anonime, noi le incrociamo senza farci caso, ma io credo che la maggior parte delle donne sia così; specie quelle dei ceti popolari. A me piace interpretare questi personaggi, che non fanno parte della fantasia collettiva ma in cui ci si possa facilmente riconoscere. Personaggi del genere si possono forse definire alieni, in una società sempre più cinica... Il cinismo per me è la morte. Lo considero una fuga rispetto all'azione, un ripiego; indubbiamente esiste, ma non lo capisco e lo rifiuto. Il film è fortemente politico, e mostra quelli che sono problemi senza soluzione. La soluzione sembra essere l'azione, come quella dei due protagonisti, che forse può cambiare le cose. Il senso è questo? Robert Guédiguian: Quello di Michel e Marie-Claire è un gesto esemplare, certo non la soluzione dei problemi, ma forse l'inizio di una possibilità di soluzione. La soluzione a mio avviso arriva con la riunione di una classe forte, e in essa vedo i diversi personaggi del film: Christophe con i due protagonisti, questi ultimi con Raoul e Denise, con i figli, ecc. Tutti insieme rappresentano la classe operaia, intesa in un senso moderno: se questa unione funzionasse sarebbe possibile creare una contro-società, che garantirebbe più felicità a tutti. Da trent’anni a questa parte le classi sociali sono più confuse. Ci sono adesso molti più proletari che in passato, ma non sanno di esserlo e non si riuniscono insieme per difendere i loro interessi. C’è una grande “atomizzazione”, frammentazione: ognuno è solo, si sta sempre meno con gli altri. E’ anche per questo che i figli di Michel e Marie-Claire non capiscono le scelte dei genitori. Pur essendo più giovani, non vogliono mettere a repentaglio la loro vita tranquilla, diciamo che hanno perso la “capacità di indignarsi”, perché non hanno una coscienza di classe che li supporti. Ariane Ascaride: Una volta si parlava di controcultura, e ora, da 30 anni, questo termine sembra sparito. Eppure, la controcultura esiste ancora, basterebbe sulla brace e subito la fiamma si riaccenderebbe. I protagonisti in realtà si sentono i "nuovi borghesi", non riescono neanche più a definire la propria classe. Secondo lei una nuova unità di classe dovrebbe riguardare anche questi soggetti? Robert Guédiguian: Sì, perché la classe operaia in senso stretto oggi si è ridotta; è un concetto che bisognerebbe ridefinire parlando dell'insieme dei lavoratori poveri. Non soltanto quelli con la tuta blu che vanno in fabbrica, quindi, ma anche quelli precari o sottopagati che lavorano negli uffici. Molti dialoghi sembrano liberi, quasi che non ci fosse una sceneggiatura strutturata. È stata data una particolare libertà agli attori? Ariane Ascaride: In realtà il film è al contrario molto scritto, c'era una sceneggiatura ben strutturata, ed è proprio questo il bello: restituire, sullo schermo, quella sensazione di libertà, come se si trattasse di un'improvvisazione. Come giudica la madre di Christophe, che ha praticamente abbandonato i figli? C'è anche per lei uno sguardo comprensivo, visto che in fondo si è trovata a vivere una vita che non voleva? Certo. Noi volevamo raccontare i miserabili di oggi, e attraverso alcuni personaggi secondari raccontare anche la miseria del mondo: questa miseria riguarda anche le donne. Certo che provo comprensione per quella ragazza, in fondo quei tre figli le sono stati imposti e le è stato negato di vivere la sua vita. Credo comunque che lei sia molto infelice nel momento in cui li abbandona. Come mai, nonostante la durezza della storia raccontata, nel film c'è una fotografia così luminosa? Robert Guédiguian: Io in passato ho fatto film molto cupi, in cui la gente si suicida, si uccide a vicenda, e via dicendo: film senza speranza. In queste pellicole, la luce è più contrastata e ci sono tonalità più tendenti al blu; ma ho diretto anche film, definiamoli così, più incoraggianti, e questo fa parte di questa seconda categoria. Con una decisione a tavolino, per questo film abbiamo voluto un altro tipo di illuminazione, più solare. E' la luce della rivoluzione! Recensioni Michele Anselmi. Il Riformista Chi ha amato Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismàki non dovrebbe perdersi Le nevi del Kilimangiaro di Robert Guédiguian. Esce proprio oggi, distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti. Con toni diversi ma con identica passione, politica e umana insieme, per quella che Victor Hugo chiamava "Les pauvres gens" nel poema espressamente citato, il regista di Marius e Jeannette infila il suo cine-bisturi in un tema caro: il mondo operaio, tra coscienza di classe, ristrutturazioni capitalistiche e nuove forme di proletarizzazione. A qualcuno sembreranno argomenti "antiquati", e certo lo sono per il nostro cinema, dove non trovi un personaggio che lavora con le mani neanche a cercarlo col lanternino (l'ultimo è l'Elio Germano di La nostra vita). Ma altrove non è così. Nelle interviste il marsigliese Guédiguian si professa ultracomunista, vuole la rivoluzione, cita a ripetizione il socialismo umanitario di Jean Jaurès, invoca la nascita di una Quinta Internazionale, ricorda i suoi appelli contro la Costituzione europea. Un po' la versione transalpina del trozkista ICen Loach. Eppure sullo schermo i suoi personaggi prendono corpo e anima, sicché la polemica diuturna nei confronti della sinistra riformista e della Cgt "imborghesita" trova, nel racconto cinematografico, sfumature inattese, che piegano l'ideologia furente alle complessità del fattore umano. Basterebbe la scena d'apertura di Le nevi del Kilimangiaro, titolo che non rimanda a Hemingway e al film hollywoodiano bensì a una malinconica canzone di Pascal Danel in voga negli anni Sessanta. Michel, un portuale cinquantenne, barba bianca e voce dignitosa, legge venti nomi estratti a sorte da una scatola di cartone. C'è anche il suo. Non sarà l'azienda a decidere che se ne deve andare, bensì il caso. Giusto? Sbagliato? Il film ruota tutto attorno a questo dilemma, per parlarci d'altro. Ormai disoccupato, ma sposato felicemente con Claire e circondato dall'affetto di amici, figli e nipoti, Michel prova a reagire alla depressione costruendo gazebo e distribuendo pubblicità. Soffre, ma non lo dà a vedere. Finché una sera (...). «Liberté, Egualité, Fratemité» promette la Repubblica francese. Se le prime risultano in ribasso ovunque, la fratellanza affiora via via da questa storia, stampandosi sui volti di Michel e Claire, incarnati con densa partecipazione da Jean-Pierre Darroussin e Aliane Ascaride. Averli due attori così. Potremmo chiamarlo "Miracolo a Marsiglia", perché anche qui scatta una piccola catena della bontà, un gesto morale esemplare, un atto di toccante generosità. Che sia solidarietà umana o coscienza di classe poco importa, alla fine. Peccato che Guéduguian esageri con la musica, specie con quella canzone di Joe Cocker, Many Rivers to Cross, che non c'entra un fico secco col film. Marco Minniti. Movieplayer.it L'attuale crisi economica non avrà colpito la Francia così come ha fatto con Italia, Portogallo e Grecia, ma questo non significa che i nostri cugini d'oltralpe siano esenti da problemi sociali anche gravi. Ne sa qualcosa Michel, operaio iscritto al sindacato che si ritrova ad essere licenziato dopo anni di battaglie, avendo accettato di partecipare, alla pari con i suoi compagni, a un sorteggio per decretare chi avrebbe dovuto abbandonare la fabbrica. Ne sa qualcosa anche, e soprattutto, Christophe, collega ventiduenne di Michel anch'egli costretto a lasciare il lavoro, che vive la difficile condizione di dover badare ai suoi due fratellini dopo l'abbandono da parte dei genitori. Una volta venuta meno l'unica fonte di sostentamento per sé e per i due ragazzini, la strada di un atto criminale, per Christophe, è quasi obbligata (...). Venuto a conoscenza dell'identità del rapinatore, e una volta che questo è stato arrestato, Michel è roso dai dubbi e dai sensi di colpa: specie dopo aver appreso della difficile condizione sociale del giovane, e delle motivazioni che lo hanno portato alla rapina. Il vecchio operaio, dopo aver denunciato il ragazzo, sente il bisogno di riparare compiendo un atto di quella che una volta era definita "solidarietà di classe": ma le persone a lui vicine, i suoi figli e i suoi amici, e soprattutto sua moglie, come accoglieranno questa decisione? Regista impegnato, che non ha mai fatto mistero delle sue tendenze politiche, Robert Guédiguian ha voluto, con questo Le nevi del Kilimangiaro, raccontare una storia di drammi quotidiani. Lo ha fatto prendendo lo spunto iniziale da un poema di Victor Hugo intitolato Les pauvres gents (La povera gente), prendendo l'atto di solidarietà narrato da quest'ultimo e ponendolo al centro di una vicenda contemporanea, incentrata sulle trasformazioni sociali intervenute negli ultimi decenni e sulla perdurante presenza nella società contemporanea di gravi ingiustizie. Intelligentemente, il riferimento alla poesia di Hugo viene posto dal regista immediatamente prima dei titoli di coda: quasi una rivelazione per lo spettatore che fosse a conoscenza dello scritto ma non dell'ispirazione, e che avesse ritrovato nella decisione finale dei due protagonisti una felice corrispondenza con quel poema di oltre un secolo fa, quasi a rimarcare che atti come quello lì descritto sono senza tempo. Il regista fa una riflessione sul concetto di classe sociale e su come questo si è trasformato nell'ultimo scorcio di secolo, sull'"imborghesimento" della generazione che aveva duramente lottato qualche decennio fa, sull'inevitabile conflitto generazionale con i lavoratori più giovani, privi di punti di riferimento ideologici ma spesso anche pratici; lo fa, tuttavia, in modo fresco e originale, senza l'enfasi "militante" che ci si sarebbe potuta aspettare da un film con queste tematiche. Le nevi del Kilimangiaro (nessuna parentela con l'omonimo film statunitense del 1952, se non nella canzone che dà il titolo a entrambi) è, sorprendentemente, un film leggero e solare. A parte la sequenza della rapina, messa in scena con notevole realismo e crudezza, il film scorre tra la descrizione dei rituali quotidiani dei due protagonisti, anche di quelli più minuti, con un placido adeguarsi ai nuovi ritmi di vita che contempla la riflessione sul passato, ma che non diventa mai passiva rassegnazione allo status quo. Al contrario, l'atteggiamento del regista sembra essere lo stesso del protagonista Michel (...). Lo stesso esempio che Michel e Claire (...) forniscono con la loro decisione finale, descritta con una semplicità e una tanto evidente schiettezza di intenti da diventare toccante. Una decisione che sembra suggerire una strada possibile a chi, come i figli della coppia, si è chiuso nella sua realtà autoreferenziale rinunciando a guardare oltre il proprio recinto, ma anche a chi, come l'amico Raoul, ha ceduto a una logica vendicativa e forcaiola, abdicando alla necessità di comprendere. Necessità che invece sembra più che mai animare gli intenti del regista, e che tocca anche i personaggi apparentemente più negativi, come la giovane madre di Christophe e dei due ragazzini; il tutto, mantenendo un tono ben lontano dal buonismo, ma improntato a una placida fiducia nel futuro, a quello che potrebbe forse essere definito ottimismo dell'intelligenza. Tono che si traduce anche nella fotografia solare, che ritrae il porto di Marsiglia e il quartiere di L'Estaque sempre bagnati dalla luce del sole, oltre che da un mare simbolo di condivisione ma anche di esclusione sociale, con le gru della fabbrica portuale in primo piano. Il riscatto dei miserabili moderni, sembra dirci Guédiguian, può iniziare forse proprio da qui, e da una semplice azione che si fa esempio per tutti. Gabriella Gallozzi. L’Unità «Aveva ragione Nanni quando diceva a D'Alema "di' qualcosa di sinistra". Ormai la differenza con le destre non si vede più. L'Unione europea è nata sui principi del capitalismo e di politiche neoliberiste introdotte dalla sinistra. Tutte le privatizzazioni sono partite da lì. Ed ora sono le banche a governarci». Robert Guédiguian, invece, da che parte stare l'ha sempre avuto ben chiaro, dimostrandolo col suo cinema da sempre legato alla militanza politica, iniziata per lui col Pcf. Come Ken Loach in Gran Bretagna, Guédiguian in Francia è stato il cantore della classe operaia (Marcus et Jeannette, La ville est tranquille, solo per citare quelli più noti in Italia), del sindacato, delle loro trasformazioni, fino alle «sconfitte» dei nostri giorni e la perdita della coscienza sociale. Così, dopo una breve parentesi «storica» (Le voyage en Armenie e L'armée du crime, senza distribuzione da noi) il regista francese riparte da qui. Dalla sua Marsiglia, (...) uno squarcio di coscienza proprio sulla possibilità della «povera gente» di recuperare quella coscienza di classe ormai perduta. A partire da un interrogativo. Cosa fareste se nei panni di un operaio licenziato da poco, dopo tanti anni di lotte e di sindacato, vi trovaste ad essere rapinato con la famiglia proprio da uno di voi, uno dei vostri compagni del porto, ma di quella generazione dei giovani senza futuro? Perché ha fatto partire il film da qui? «E la prima volta nella storia che la generazione dei figli vivrà peggio di quella dei genitori. Sono loro, infatti, "i nuovi poveri". In questi tempi di crisi fanno di tutto per metterci gli unì contro gli altri. Chi ha un lavoro e chi non ce l'ha. Chi lavora a tempo pieno e chi è precario, immigrati e nativi. Nei trentanni passati i sindacati e la sinistra sono rimasti arroccati nelle loro posizioni senza formulare nuove proposte. Ecco, il ragazzo che compie la rapina per disperazione è lo spunto per cambiare il punto di vista. Lui, in realtà, che accusa il vecchio operaio di tutti gli errori del sindacato è un comunista senza saperlo. Che spontaneamente avanza vere proposte basate sull'egualitarismo, cose che la sinistra non osa più fare da vent'anni nonostante la crisi del capitalismo». Eppure, diversamente da quanto accade nel film, spesso è proprio la «povera gente» a spingere a destra Basta guardare alle periferie... «Ma anche questo è responsabilità della sinistra. Se si cominciasse a deprivatizzare, a nazionalizzare, a risolvere il dramma abitativo requisendo gli alloggi sfitti, a redistribuire la ricchezza, allora anche nelle periferie si tornerebbe a votare a sinistra. Se questo si chiama comunismo, ebbene c'è un grande bisogno di comunismo. C'è bisogno di una vera rivoluzione, come in parte sta avvenendo col movimento degli indignati. Parafrasando Jaurès mi viene da dire: un po' di indignazione allontana dalla rivoluzione, ma molta indignazione ci porta lì». Basta politica allora? «Al contrario la politica è alla base. II gesto morale compiuto dai due protagonisti nei confronti del loro aggressore è esattamente il punto di partenza per la politica. Si deve ricominciare a parlare tra noi per ritrovare la coscienza sociale che abbiamo perduto e che è l'unica strada per il futuro». Un tema che torna anche nel film «Miracolo a Le Havre» di Kaurismakl. Come a dire che la salvezza è nella solidarietà proletaria. «In questo clima di isolamento e solitudine è necessario che anche il cinema affronti questi temi. Lo vediamo anche nei Dardenne, Ken Loach e pure Moretti. Questo deve essere il ruolo degli intellettuali... Pensando ad una Quinta internazionale». Raffaele Meale. Cineclandestino Diciassettesimo lungometraggio diretto da Robert Guédiguian in trent’anni di carriera, Les neiges du Kilimandjaro – presentato nella sessantaquattresima edizione del Festival di Cannes all’interno della ricca selezione di Un certain regard – regala agli addetti ai lavori e agli spettatori della Croisette un regista che sembrava essersi oramai definitivamente arenato. Era infatti dai tempi del pur incompiuto La Ville est tranquille (2001) che il cinquantottenne cineasta transalpino non portava a termine un’opera in grado di destare un vero e proprio interesse (...). Non è certo un caso che, per imbastire la stratificata realtà sociale de Les neiges du Kilimandjaro, Guédiguian abbia deciso di ripartire dal luogo che conosce meglio: Marsiglia, sua città natale, è l’epicentro culturale e politico nel quale si agitano i protagonisti di questo dramma proletario, genere via via sempre più dimenticato dal cinema europeo. Marsiglia dunque, città portuale e operaia: e proprio un operaio portuale è Michel, sindacalista che decide (al momento di scremare la forza lavoro del porto) di inserire il suo nome insieme a quello di altri diciannove sfortunati. Un gesto politico forte, degno di una persona consapevole del proprio ruolo e della società in cui vive: eppure non abbastanza degno di considerazione per un suo giovane compagno che, a sua volta licenziato, decide di derubare Michel e la moglie dei soldi ricevuti in regalo alla festa del loro anniversario di nozze e messi da parte per affrontare una vacanza in Tanzania, premio e svago dopo decenni di duro e incessante lavoro (Marie-Claire, sua moglie, lavora come donna delle pulizie e di compagnia per alcune anziane sole in casa). Questa aggressione risveglia il codice civile e morale della coppia: la stabilità, lavorativa e affettiva, li aveva anno dopo anno addormentati, imborghesendoli al punto di desiderare un safari senza riuscire ad accorgersi che le vere bestie selvagge, pronte ad azzannare per la fame, si aggirano oramai intorno a noi, fanno parte del nostro quotidiano. Acuta riflessione politica sulla realtà della crisi capitalistica della contemporaneità, il bel lungometraggio di Guédiguian è una sincera e appassionata incursione in un mondo verso il quale il cinema non ha mai spostato troppo lo sguardo. Senza evitare alcune lungaggini nel racconto, e disperdendo di quando in quando la forza della propria invettiva per l’amore nutrito nei confronti dei personaggi che mette in scena, Guédiguian riesce comunque a portare a termine un film essenziale e doloroso, divertente e carico di una speranza e di un ottimismo perfino ottusi se confrontati alla miserabile realtà che sembra accerchiarci. I cantori di questo dramma corale socialista che prende spunto da Les pauvres gens di Victor Hugo sono proletari, magari arricchitisi nel corso del tempo ma ancora in grado, una volta scoperto il velo della loro cecità, di recuperare la coscienza politica: perché, come insegna un poster che campeggia nella sala comune del sindacato portuale, tout passe par la lutte. Figlio di uno spirito combattivo e mai troppo incline alla disperazione che riporta alla mente alcuni dei migliori istanti visivi della cinematografia di Ken Loach (Riff-Raff, Piovono pietre), Les neiges du Kilimandjaro è un film carico di speranza, impegnato in una battaglia che non è ancora, a detta del regista francese, persa. Ben assortito il cast, con una menzione speciale per la coppia protagonista (Jean-Pierre Darroussin e Ariane Ascaride) e per il rapinatore senza lavoro, un convincente Grégoire Leprince-Ringuet. Paolo Mereghetti. Corriere della Sera Ogni tanto Robert Guédiguian porta la sua macchina da presa a esplorare territori «lontani», sul parigino Campo di Marte (per la biografia di Mitterrand) o in Armenia (a recuperare le proprie radici) oppure indietro nel tempo (a ritrovare le gesta eroiche della Resistenza) ma evidentemente non può stare molto lontano dalla qui ed ora. Che per lui vogliono dire l’aria familiare del quartiere marsigliese dell’Estaque e i volti, altrettanto familiari, degli operai e dell’ambiente proletario con cui è cresciuto e che ha raccontato nei suoi film più celebri. Fa lo stesso anche con questa Le nevi del Kilimangiaro, dove il rimando non è al racconto di Hemingway o al film con Gregory Peck ma alla canzone di Pascal Danel (che pure qualche cosa di hemingwayano aveva), successo del 1966 e nostalgica colonna sonora di una coppia di lavoratori marsigliesi oltre la cinquantina: lei, Marie-Claire (l’«inevitabile» Arianne Ascaride), lavora a ore presso un’anziana signora; lui, Michel (l’altrettanto «inevitabile» Jean-Pierre Darrussin), è un operaio sindacalista (della Cgt, inutile specificarlo) che per onestà morale mette anche il suo nome insieme a quelli tra cui estrarre i venti licenziandi per una ristrutturazione. E naturalmente viene estratto. La coppia ha due figli, tre nipoti, un amico del cuore (Gérard Meylan, altro volto «inevitabile» nei film di Guédiguian) sposato con la sorella di Marie-Claire (Maryline Canto) e un futuro da prepensionato che dà qualche problema ma anche una bella carica di energia. Anche perché i figli, per festeggiare i loro trent’anni di matrimonio, hanno deciso di regalare ai due un viaggio in Tanzania e un po’ di soldi. Che però attirano due malintenzionati che una sera entrano in casa e li derubano (...). È solo a questo punto che il film prende il suo vero passo, quando la scoperta del colpevole costringe Michel a una doppia riflessione: sulla fine della solidarietà di classe (della propria classe) e sul valore delle parole d’ordine in cui ha creduto per tutta la vita. Il primo tema non è certo nuovo per il cinema francese. Sautet, Deray, Tavernier, Corneau hanno spesso raccontato il tramonto di una serie di valori legati a una classe o a una condizione sociale. La novità è che qui, per la prima volta (almeno che io ricordi), a essere «seppelliti» sono i valori e i ricordi della classe operaia. Cinema eminentemente borghese o piccolo borghese, quello francese ha raccontato con nostalgia e malinconia la filosofia quotidiana di chi vedeva le proprie radici e la propria cultura svaporare di fronte all’incalzare di nuove generazioni e di valori più aggressivi (Tre amici, le mogli e affettuosamente le altre, Garçon, Una domenica in campagna, Daddy Nostalgie). Oppure - ma non era molto diverso - il tramonto di un codice di comportamento (Flic Story, Codice d’onore). Qui Guédiguian trasferisce quel processo a una classe che, almeno al cinema, ne sembrava aliena e lo fa con una sofferenza e una consapevolezza che lasciano il segno. Questo cambio di scena va però di pari passo con un inaspettato terremoto morale, perché al di là delle «giustificazioni» materiali che hanno spinto l’ex operaio al furto (e che nella seconda parte del film saranno al centro delle azioni dei vari personaggi), Michel si sente cadere addosso anche i valori in cui ha creduto per tutta la vita e che hanno guidato le sue azioni. Le recriminazioni violente e antisindacali di Christophe non sono solo l’aggressiva forma che può prendere la rabbia giovanile; sono il colpo definitivo (o quasi) che il mondo d’oggi scarica addosso a chi crede ancora in Jean Jaurès e nella sua idea di socialismo umanitario. Come appunto fa Michel. Un doppio affondo, che Guédiguian racconta con due scene memorabili e tenerissime nello stesso tempo: quando Michel e Marie-Claire si interrogano, vedendo passare per strada delle coppie più giovani, sul loro imborghesimento e quando, sulla falsariga del poema di Victor Hugo Les pauvres gens, i due decidono un atto di solidarietà concreta e quotidiana, che non ha solo a che fare con le politica e il sindacalismo, ma con una visione dell’uomo più universale e profonda. Due scene commoventi e dolcissime, che da sole valgono la visione del film e che continuano a farci amare Guédiguian nonostante certe rigidità e certe nostalgie un po’ passatiste. Gianni Rondolino. La Stampa Il titolo di questo bel film di Robert Gédiguian non ha nulla a che vedere col racconto omonimo di Ernest Hemingway e meno che mai col film diretto da Henry King nel 1952. Le nevi del Kilimangiaro è invece il titolo di una canzone di Pascal Danel che si può ascoltare nel film (anche se il brano musicale più toccante, che si sente come sottofondo di tre o quattro sequenze, è di Maurice Ravel). Ma soprattutto esso costituisce un elemento drammaturgicamente importante a riguardo della struttura narrativa della storia. Si tratta, in altre parole, di un riferimento al regalo che ricevono Marcel e Marie Claire in occasione del trentesimo anniversario del loro matrimonio: un viaggio in Tanzania che, come si sa, è dominata dal monte Kilimangiaro. E questo regalo segna il punto di rottura tra la prima e la seconda parte di una situazione personale e collettiva che è alla base stessa della vicenda. La quale è molto semplice ma ricca di risvolti sociali e politici, come è sempre accaduto nei film di Guédiguian ambientati, come questo, a Marsiglia. Marcel è un operaio sindacalista che, insieme ad altri diciannove operai, viene licenziato; Marie Claire, sua moglie, fa la badante di una vecchia signora. Essi hanno un figlio, una figlia e tre nipoti, e vivono una vita tranquilla e serena, fino a quando due delinquenti, uno dei quali è un giovane operaio anch'egli licenziato, li derubano. È questo fatto grave e con gravi conseguenze a sconvolgere quella tranquillità, ma anche a mettere in crisi l'idea stessa che Marcel e i suoi amici sindacalisti avevano della classe operaia e di quella che si può chiamare la giustizia sociale. Sono passati molti anni dalle loro lotte sindacali e dai risultati positivi raggiunti e oggi le giovani generazioni sono ben lontane dal potere per usufruire di quei vantaggi. (...) Il quale [il film, ndr], nel suo sviluppo narrativo estremamente lineare come se si trattasse della semplice e persino banale rappresentazione di una realtà quotidiana priva di forti contrasti - riesce ad attirare l'attenzione e il coinvolgimento dello spettatore, grazie allo stile di Guédiguian, privo di ricerche formali raffinate o di elementi esplicitamente accattivanti. Anzi, è proprio grazie al suo modo di vedere, e di mostrare senza inutili intermediari estetici, la realtà di tutti i giorni e i comportamenti quotidiani dei singoli personaggi, che il suo film è uno dei suoi migliori.