Bastaaa! - azionedizioni.it

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Cristiano Censi
Bastaaa!
Esiste Dio?
Voglio morire!
Per andare a cercarlo.
Ma tanto lo so che non lo troverò.
Mai.
AZIONEdizioni
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Prologo in terra
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Esiste Dio?
Voglio morire!
Per andare a cercarLo.
Ma tanto lo so che non Lo troverò.
Mai.
Perché è
Inavvicinabile,
Inconoscibile,
Incomprensibile.
Oltre al fatto che,
Dicono,
Sia
Onnipotente,
Onnipresente,
Onnisciente.
Ma ugualmente
Inavvicinabile,
Inconoscibile,
Incomprensibile.
Ma allora a che cazzo serve?
A che cazzo è servito
Averlo inventato?
Per spiegare il mondo?
E spiegare noi che siamo venuti al mondo?
In questo mondo qui?
Che avrebbe fatto Lui, tanto tempo fa,
Per farci vivere?
Per farci vivere in questo mondo qui?
Ma io sono stanco di vivere.
Sono stanco di vivere
In questo
Mondo
Qui.
Sono stanco di guardare, osservare e domandarmi.
Sono stanco di pensare e di cercare
Delle risposte.
E allora che ci sto a fare
Qui,
In questo mondo qui?
Sì, d’accordo ci sono le aquile, le cascate, gli orsi bianchi,
Ci sono le tigri, gli oranghi, il lago di Braies,
Ci sono le balene, i panda, le foreste pluviali…
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Ma c’è anche l’uomo,
Cazzo,
Un corpo estraneo,
In un mondo magnifico.
Un corpo estraneo pericoloso.
Una bomba a orologeria
Che sta distruggendo tutto
Ciò che di bello è venuto fuori miracolosamente.
E non perché qualcuno l’ha creato.
Se qualcuno
(Onnisciente)
Avesse creato questo mondo
Non ci avrebbe messo l’uomo.
Ovviamente.
Se qualcuno avesse saputo che l’uomo
Sarebbe diventato così
Non l’avrebbe creato, no?
Sì, d’accordo
Ha mandato il Diluvio.
Ma allora cosa aspetta a mandarne un altro?
Ben più consistente.
O una vampata di fuoco come ha fatto
Con Sodoma e Gomorra.
Ma cazzo,
Deve sempre distruggere civiltà
Che non funzionano!?
Che non funzionano per colpa dell’uomo,
Che ha fatto Lui!
Ma non si diceva che fosse Onnisciente?
No, non l’ha fatto Lui
Perché Lui non esiste.
E questa è la prova.
Se Lui ci fosse non avrebbe inventato l’uomo,
Ma avrebbe lasciato i dinosauri.
Ma diciamo la verità:
L’uomo è venuto fuori dall’evoluzione,
Un errore dell’evoluzione,
Perché è per causa di quest’uomo
Che il mondo sta andando alla deriva,
Anzi, sta diventando una fogna.
È per causa della sua intelligenza,
La consapevolezza,
La coscienza,
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La conoscenza del bene e del male
Come scrissero i poeti…
Ma una consapevolezza non abbastanza consapevole.
Non preveggente.
Visto come stavano andando le cose
Poteva fermare tutto,
Cambiare.
Ma ormai c’era il denaro di mezzo!
È l’uomo che sta devastando questa terra
Unica.
E si sta espandendo
Come un’ eczema
Terrificante,
Al punto che fra un po’ di anni
(io non ci sarò più)
Sarà solo una merda
Puzzolente
Mefitica,
Altro che la bomba atomica!
Poveri piccoli bambini che nascono adesso senza saperlo,
Poveri giovani
Adolescenti,
Ragazzi
Che studiate per poter rimediare a tutto quello
Che noi stronzi vi abbiamo preparato.
Ma Lui non era Onnisciente?
Non l’aveva previsto?
Uccidiamo le balene a scopo di ricerca
Scientifica.
Vaffanculo!
La loro ricerca riguarda come cucinare la carne di balena
Di modo che risulti più appetibile.
Quindi soldi.
Non possiamo smettere
Col petrolio, perché ci sarebbe la
Depressione, la disoccupazione
Vaffanculo!
Non lo vogliono le sette sorelle!
Poveri ragazzi
Che studiate per rimediare
Per capire, per guarire.
Ma questo cancro non si guarisce,
Lo sapete, vero?
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Questo cancro l’abbiamo cominciato noi
(anche prima di me)
È una specie malata che l’ha prodotto
E lo sta divulgando.
Un cancro che si chiama
Imbecillità.
L’ha diffuso,
Ha insozzato questo mondo miracolosamente così bello.
Che ormai sta diventando una fogna.
Per questo non l’ha fatto Lui
Perché l’avrebbe saputo
Che sarebbe diventato
Così.
Non era Onnisciente?
Basta!
Voglio morire! Voglio andarmene.
Voglio un dottore che mi faccia morire.
Dolcemente.
Ma è vietato dalla legge e dalla
Deontologia.
Mamma mia!
E poi è impedito
Anche dall’istinto di
Sopravvivenza.
Che pazienza
Bisogna avere per vivere,
Ragazzi!
In questo mondo
Venuto fuori un giorno
Così!
Chissà perché!
Chissà perché!
A che scopo?
Per arrivare all’Uomo?
A quest’Uomo qui?
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Tanto per cominciare.
Ho alcune cose da dire a chi, eventualmente, si prendesse la
briga di leggermi: qualche amico, amica, o qualche allievo, allieva o amico, amica di qualche allievo, allieva o semplicemente qualche curioso, qualche speleologo dell’essere umano, e dei
suoi meandri. Non so perché mi è entrata in testa questa fissazione. So che ho delle cose da dire, da trasmettere il più presto
possibile. Perché (diciamo la verità) ho paura di non fare in
tempo. Ovvero di morire. O di un ictus che mi renda scemo. Si
muore così improvvisamente, cosi inaspettatamente, oggi. O
che mi passi la voglia di scrivere. Perché è tutto così assurdo.
Senza senso. Non vedo la necessità, né di scrivere né di vivere.
Che di mettere al mondo, of course. Oggi si muore o si diventa
deficienti come niente. Anche anni fa era così. Ma oggi si è in
molti di più, e quindi ci sono più morti e deficienti che persone
assennate. E quelli che sono vivi e capaci di intendere e di volere sono spaesati, confusi, senza saperlo. A me piacerebbe
un’Umanità in grado veramente di intendere e di volere. E di
capire come sarebbe bello se ci parlassimo e ci conoscessimo e
ci considerassimo una specie intelligente. Unica. Ma ormai ne
dubito. Per cui (salvo ripensamenti) sto scrivendo per amici,
amici di amici, curiosi, speleologi e qualcun altro che per caso
apra queste pagine e le trovi di suo gusto. Perché dovrebbe
trovarle di suo gusto non lo so. Le trovo io. Per ora. E mi sfogo. Ci trovo gusto a scriverle. Quanto mi basta per pensare che
anche qualcun altro o qualcun'altra ci provi gusto a leggerle.
Tempo fa scrissi un libro sull’attore. L’attore in teatro, in cinema, in tv; l’attore nella vita di tutti i giorni, nella commedia
umana in cui tutti i giorni in cui affrontiamo delle scene, dei
monologhi, degli scontri, scene d’amore, di gelosia, solitudini in
cui immaginiamo (quindi recitiamo) soliloqui o rapporti con
fantasmi. In questi casi non c’è il copione, dobbiamo inventare,
improvvisare. L’autore siamo noi stessi. Voglio ricordarmi di
queste recite in cui mi sono trovato dentro senza saperlo, ultimamente. Una ragazza che lesse questo mio primo libro mi disse che le ho cambiato la vita!
- In peggio?
- No! Anzi!
Ridendo. E mi guardò con un’occhiata che non dimenticherò.
Ma allora vado avanti! È bello cambiare, no? Secondo me.
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Non sto cercando di tirare fuori una autobiografia. Solo le cose
che mi sembrano più importanti (secondo me) o divertenti o
stimolanti (per me) o drammatiche, in cui l’attore umano che
rappresentavo (e che rappresento) era estremamente sollecitato. Così potrebbe esserlo anche il lettore. Spero.
Dovrei affidarmi a un metodo, seguendo una specie di linea che
corra parallela alla mia vita; almeno da quando ho cominciato a
ricordare o a prendere coscienza di quello che mi stava capitando attorno e a rifletterci su. Ho cominciato presto a riflettere. E a guardarmi attorno cercando motivi di riflessione.
Ho capito subito che la mia famiglia era strana, diversa, rispetto alle altre famiglie dei miei coetanei. Mia madre era una ballerina, o danzatrice, come lei voleva essere chiamata. Era famosa, una solista, danzava da sola, su musiche strane o su poesie di Marinetti. Presente l’autore, che la portava di qua e di
là, nelle sue scorribande rivoluzionarie o, diciamolo pure, intellettuali. Hanno scritto libri su di lui. Ma anche su di lei. È citata
in molte enciclopedie dello spettacolo. E intanto lei era, diciamolo pure, una ragazza/madre, come si dice. Di me. Dunque io
ero il figlio di un padre che non ho mai conosciuto. Già questo
era interessante per uno che entra nel mondo, no? E già questo
è probabile che mi abbia creato dei problemi: di comunicazione, di sicurezza, di rapporto con gli altri, con la scuola, con le
donne, col sesso. Può darsi che non c’entri per niente, e che io
abbia avuto dei problemi con la scuola, col sesso, con le donne,
indipendentemente da mia madre. Poi c’erano i nonni, musicisti
tutti e due. Fichissimi!
Se io torno indietro col registratore della mia vita, situato nella
mia testa, non so da quale parte, piccolo, infinitamente piccolo,
ma molto funzionale, le prime cose che mi vengono in mente
sono immagini di sesso. Non che io facessi sesso già a cinque
anni, ma c’ero dentro, mi capitavano fatti, situazioni in cui il
sesso era in primo piano. Era l’argomento principale, dei miei
discorsi coi compagni e delle mie fantasie. Al punto che non mi
interessavo di altro. Anche quando ho cominciato le elementari,
lo studio, l’apprendimento, l’aritmetica, la storia, e “tutte le
belle balle varie”, come diceva un mio amico dell’epoca delle
contestazioni giovanili, (si chiamava Secondo, Secondo De Giorgi) (mamma mia che ricordo improvviso in questo momento: le
belle discussioni politiche di molti anni fa) (bei tempi!), dicevo
che mi interessava tutto ciò che riguardava il sesso. Di tutto il
resto non mi poteva fregare di meno. Tant’è che non ho ricordi
di tutto il resto. Da bambino. Almeno per ora. Poi può darsi che
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continuando queste pagine si risvegli tutto. Anche quello che
ero prima di nascere! (Nulla si crea nulla si distrugge, no?)
Ecco, una caratteristica di questo libro (libro!? mamma mia!),
ma più che altro del suo autore (autore? mamma mia!) è che
non riesco a seguire il filo dei miei ragionamenti più di tanto.
Mi distraggo. È più forte di me. Parto per le tangenti, come si
dice. Questo mi succede anche con la gente. A volte non mi ricordo dove ho cominciato, da dove vengo e dove voglio andare. Scrivendo è più semplice. Torno indietro a leggere e capisco
e riprendo il filo.
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Bambinate
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Il porcellone.
Cinque amici, 2 uomini e 3 donne, a cena, in un ristorante,
come spesso succede nei films di Woody Allen.
-
Non è possibile! Alla sua età! Ma quanti anni aveva?
Ma quattro, cinque… penso.
È pazzesco!
Lo so. Però a lui piaceva un mondo.
E poi che tipo di soddisfazioni ne ricavava? A quell’età non
ci sono ancora pulsioni sessuali.
A quell’età un bambino non sa nemmeno cosa sia il sesso.
Eppure lui lo faceva spesso. Che vi devo dire?
Faceva sesso!?
No. Faceva questo gioco con Amalia.
Lo faceva tutte le volte che la ragazza stirava!
Come come?
Cioè, lui sapeva quando la ragazza stava per stirare, no?
E come faceva a saperlo?
Non era scemo.
Non è scemo.
Lo sapeva perché vedeva la montagna di biancheria messa
sul tavolo della cucina, e poi vedeva la ragazza…
Che prendeva il ferro da stiro, lo appoggiava sul tavolo, infilava la spina del cordone nella presa a terra e si metteva a
stirare tranquillamente.
E allora?
Allora lui entrava in cucina zitto zitto, strisciando per terra
senza farsi vedere…
Ma come faceva?
Avanzava strisciando per terra senza far rumore e si dirigeva
verso il tavolo dove la ragazza stava stirando.
Come i marines. Sai?
La ragazza non poteva vederlo perché non era molto alta, e
davanti a lei c’era la montagna di biancheria.
Poi era sempre un po’ distratta, pensava ad altro, che ne so.
E lui che faceva?
Guardate com’è curioso di sapere!
No, perché era un genio.
E’ un genio.
Cioè?
Arrivato sotto il tavolo, si sdraiava sulla schiena, e si metteva a guardare le gambe della ragazza, di sòlito nude, e…
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-
Da dire che poi lei era sempre senza mutandine.
Chi?
Amalia, quando stirava.
Perché?
E che ne so, sarà un abitudine di campagna. Quando stirano
non portano le mutandine.
Sarà per il caldo. Quando si stira…
Poi era estate.
E difatti queste cose avvenivano d’estate.
E lui lo sapeva, non è mica scemo.
Sapeva che d’estate la ragazza stirava con le gambe nude,
mentre d’inverno invece stirava coi pantaloni.
Vabbè, e allora?
Finché un giorno si rese conto, sdraiato sulla schiena…
Sotto il tavolo…
Sotto il tavolo… si rese conto che poteva avvicinarsi alla ragazza ancora di più…
Perché lui fin dove arrivava?
A lui bastava di arrivare sotto il tavolo, si metteva sulla
schiena e le guardava le gambe, che ne so, fino alle cosce,
fin dove arrivava la sottoveste…
Ah, perché lei stirava in sottoveste?
Ma allora anche tu la potevi vedere?
Ma io…
Ma lui a quell’ora era sempre in ufficio.
E quella volta?
Cosa quella volta?
Dico Pucci.
Quella volta si rese conto…
Però sono tremendi i bambini quando vogliono.
È tremendo lui!
Si rese conto?
Si rese conto che poteva avvicinarsi fino ai piedi di Amalia…
E guardare in mezzo alle gambe di Amalia…
Fin su… dove lui ha il pisellino… ha detto.
Ma tu come fai a sapere tutte queste cose?
Perché me l’ha dette lui… tutto contento.
Perché lui non sapeva che era una cosa che non si fa?
Lui? Anzi!
E allora?
E allora proprio per questo, scusa…
E fu lì che si accorse che Amalia non aveva il pisellino!
Te l’ha detto lui?
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- Certo.
- Non aveva le mutandine e vedeva che non aveva il pisello e
vedeva che in mezzo alle gambe della ragazza c’era solo un
grande ciuffo di peli…
- Cosa sono i bambini!
- Cos’è lui!
- Bè?
- Così un giorno gli venne voglia, a lui, gli venne voglia di infilare una mano in mezzo alle gambe di Amalia… “per arrivare
a toccarle il pelo”, mi disse.
- Perché poi ti raccontava tutto?
- No, raccontò tutto quando venne sorpreso… quel giorno.
- Ah, perché venne sorpreso?
- Per forza. Le mise una mano sulla…
- Patata!
- E cosa successe?
- Successe che la ragazza si mise a urlare, tutta spaventata…
“oddio mio, che c’è? cosa c’è?” Perché credeva che ci fosse
una bestia che le saliva su per le gambe…
- Oddio!
- E così ha lasciato cadere il ferro sul tavolo, e ha fatto un salto indietro, e si è chinata per guardare cosa stava succedendo sotto, e cos’era che la stava toccando…
- “Mamma mia cos’è? Una bestia!? Un ragno? Cosa c’è?” gridò.
- E così si accorse che era lui, il bambino… che la toccava e a
questo punto si mise a ridere…
- Amalia?
- Il bambino… rideva, sdraiato per terra sotto il tavolo.
- Come un ragno capovolto. Con le gambine che annaspavano.
- E con i suoi occhi innocenti che la guardavano…
- Guardavano la fregna… mica scemo.
- E Amalia?
- “Ma che fai Pucci? Non si fanno queste cose! Ma da quando
sei lì sotto? Vieni fuori e vai di là… lasciami lavorare… Ma cosa facevi lì sotto?”
- Ovviamente il bambino non le rispose, solo rideva, rideva
perché la cosa che era successa l’aveva divertito, lo stava
divertendo e così rideva mentre si alzava uscendo da sotto il
tavolo e correndo via, di là nella sua camera, dove continuò a ridere per un bel po’, lo si sentiva che rideva…
- Incredibile.
- Ma è successo altre volte?
- Oeu! Era tutta estate che lui….
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-
Ma non potevate…
Mi sa che ad Amalia non dispiacesse la cosa.
No, si è messa a gridare “Pucci smettila, vieni fuori di lì”…
Sì, quel giorno, perché l’ha toccata e non poteva ignorare…
Si era innamorato di Amalia.
Si è innamorato della passera di Amalia.
Cominciava bene.
Poi un giorno abbiamo cambiato la posizione del tavolo in
modo che Amalia quando stirava vedeva subito chi entrava
in cucina, anche strisciando.
Ma lo fa ancora adesso?
Bè adesso no, adesso ha sedici anni, se no sarebbe un maniaco.
Può darsi che da anziano lo diventi.
Da anziano sono cazzi suoi. Ma adesso…
Comunque tuo figlio è proprio un maialone.
È un porcellone.
Bè, si va via, ragazzi…?
Venite a casa mia a bere qualcosa?
No, domani mattina mi devo alzare presto.
E così tutti si alzano con gran fracasso di sedie e si avviano
verso l’ ingresso e verso i soprabiti parlottando fra di loro, due
per due, sottovoce, cercando di non farsi sentire. Ognuno aveva dei problemi che non poteva tirar fuori in mezzo agli altri.
-
Le hai parlato?
Si.
E che ti ha detto?
Te lo telefono più tardi.
Ricordatene.
E tutti si sparpagliano qua e là verso le macchine parcheggiate
in posti differenti. Com’è divertente la vita vista attraverso
l’occhio cinematografico di registi intelligenti e acuti, e com’è
mediocre la vita vissuta, assimilata, ripensata, rimasticata,
giorno dopo giorno, nelle nostre mura domestiche, nei nostri
affari quotidiani, nel tran tran di abitudini cristallizzate. Come
vorrei vivere in tanti film diversi, divertenti, intelligenti, acuti,
al punto da poter riscrivere la sceneggiatura e/o rigirare certe
scene e poter predisporre alla fine la propria morte. Poter girare la propria morte come fosse un film, mentre invece si tratta
della nostra fine (the end) veramente. Fico!
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Il capanno degli attrezzi. (Racconto)
In campagna un giorno gli successe una cosa. Andava spesso
in campagna perché ci abitava la sua balia. Aveva la balia perché la mamma viaggiava molto e quindi dovette affidarlo a una
giovane puerpera, che lo allattasse. Per cui aveva una balia,
che frequentò per molti anni, e aveva un fratello di latte con
tutti i parenti relativi. I primi tempi ci andava tutte le estati,
perché era piccolo e poteva starci almeno tutti i tre mesi di vacanza. Lui era in quel momento della vita di un ragazzino che
sa che fra uomo e donna si fanno certe cose, di cui non si può
parlare perché non sta bene, però si fanno, eccome! In campagna c’è il vantaggio che se ne parla di più, soprattutto fra ragazzi, e lui voleva questo. Per esempio il sesso! Cos’è il sesso?
E perché si fa? Che senso ha? E quando si comincia a farlo? E
che si prova? E perché non si può farlo vedere che si fa? Un
giorno venne a sapere che al giorno d’oggi si comincia a farlo
anche a quattordici anni. Ma cosa? E poi cos’è la gelosia, e perché si arriva a uccidere per gelosia? Finché una volta, in campagna…
Dunque c’era un capanno degli attrezzi di legno e paglia che
serviva per metterci anche le angurie, e c’era una zona nel capanno per i contadini che ci andavano a pisolare di pomeriggio,
perché era una zona fresca e di pomeriggio d’estate in campagna da quelle parti faceva molto caldo. Così succedeva che ogni tanto lui, da ragazzino, ci andava a pisolare e si addormentava. Quando un giorno sentì un rumore in avvicinamento, un
rumore di gente che parlottava e si avvicinava al capanno. Erano un gruppo di ragazze sui diciotto, vent’anni, un gruppo di
amiche, che solitamente venivano nel capanno a raccontarsi le
loro storie e a cinguettare del più e del meno, fra cui anche di
quelle cose! Lui se ne rese conto perché le vide attraverso uno
spiraglio del legno, riconobbe le voci e fece finta di dormire.
-
Ma è già occupato!
E chi è?
Il cittadino!
Pucci!
Bè fa niente, entriamo lo stesso, tanto dorme!”.
Ma il tono di voce delle ragazze era cambiato. C’ era un che di
divertimento e di presa in giro. Lui, che non era scemo, fece lo
gnorri (direbbe il Collodi). Loro parlavano e intanto ridacchiavano. Si capiva però che lo stavano guardando. Per vedere co-
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me avrebbe reagito. Gli batteva il cuore. Era una situazione
strana. Nuova. Ed eccitante.
Sicché ci fu questa invasione femminile nel capanno, entrarono
tutte, quattro, cinque, mentre lui era sulla paglia che fingeva di
dormire. Le ragazze cominciarono a cinguettare e a ridere e ad
alludere a lui addormentato; era assurdo che dormisse con tutto quel chiasso, quindi fingeva, e loro lo sapevano che fingeva,
e giù a ridere ancora di più. Quando a un certo punto una delle
ragazze, una biondina, la più carina (la riconobbe dalla voce), e
lui sapeva che era anche la più puttanella, perché si diceva che
l’avevano vista in mezzo al granoturco, seminuda, con un ragazzo, che facevano delle cose… quelle cose che lui ancora non
capiva, ma non vedeva l’ ora di cominciare a capire.
Allora questa biondina, che si chiamava Rosy, prende un telone, che c’era lì in un angolo, e se lo stende sopra a mò di coperta, lo stende sopra di lei e sopra di lui, che, a questo punto
viene nascosto completamente. Lui era sotto il telone, respirava a stento, ma la cosa gli piaceva. Finché sente una mano di
Rosy, mentre parlava con le amiche e le amiche ridevano, sente una mano di Rosy che gli prende una sua mano, di Pucci
(prima la cerca e poi la trova) e se la mette sulla fica! Ormai
lui conosceva la parola, sapeva il significato e sapeva che apparteneva a quel mistero ecc… Gli appoggia la mano sulla fica e
la lascia lì, sulla fica, cioè sulle mutandine dove sotto ci sta la
fica. “E adesso?” pensa.
Perché a quel tempo le donne non portavano ancora i pantaloni, ma le sottane, per cui bastava alzare una sottana e c’era la
mutandina. Con sotto la fica. Intanto le ragazze continuavano a
ciangottare e a ridere e a sghignazzare, perché forse avevano
capito cosa stava succedendo sotto il telone.
Lui non sapeva che fare! “Adesso che faccio?” pensava, con la
sua manina (era ancora un pischello) appoggiata sulla fica di
Rosy, cioè sulla mutandina di Rosy, lì dove Rosy aveva la fica.
L’aveva già vista la fica, in un altro momento. Quindi sapeva
che le donne non hanno il pisello, ma hanno questo ciuffo di
peli proprio lì, che deve nascondere qualcosa questo ciuffo, perché altrimenti non si spiegherebbe questa smania che hanno gli
uomini per la fica. “Adesso che faccio?” si domandava. Gli sembrava di capire che lo stavano prendendo per scemo. Quando
parlavano con lui nella vita, più o meno si arrangiavano con
l’italiano, ma adesso parlavano in dialetto stretto, ed era come
un’altra lingua, però qualcosa gli arrivava, riusciva a capire.
Fatto sta che la Rosy gli riprende la mano che stava sulla sua
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fica, e comincia a muoverla su e giù, su e giù, continuando a
parlare del più e del meno con le amiche… Lui non capiva se
doveva fare qualcosa lui, se lei lo stava incitando a fare lui
questo movimento, per conto suo, senza che fosse lei a muovergli la mano, o se doveva stare tranquillo e fermo, così come
stava, e lasciare che facesse tutto lei. Ogni tanto lei si fermava
e parlava, e poi riprendeva, su e giù, su e giù. Era una specie
di sfregamento sulle mutandine, proprio lì, dove si uniscono le
gambe. Le ragazze parlavano del più e del meno, ma secondo
lui sapevano benissimo cosa stava succedendo e cosa faceva la
Rosy. E ridacchiavano e alludevano in dialetto, cosicché lui, che
era un cittadino e parlava italiano, non capiva esattamente di
che parlassero. A un certo punto ci fu proprio uno sghignazzo
forte, in dialetto, ma lui niente. “Forse sto facendo la figura del
coglione!” pensava, ma non sapeva come reagire, cosa dovesse
fare.
L’ultimo gesto di Rosi fu molto chiaro. Era come se volesse dire: “bè, ti decidi?” E allora lui, col cuore che gli batteva forte
forte, cominciò a muovere la mano come faceva lei e sentì che
lei ebbe come un rantolo, un respiro sonoro, e prendendogli la
mano la introdusse sotto le mutandine. Lui non sapeva, non
capiva, ma si rese conto certo che doveva fare qualcosa, ma
non sapeva cosa. Lei gli prese la mano, anzi questa volta un dito e fece in modo di introdurlo dentro una specie di fessura che
sentì che c’era, sotto le mutandine, tutta bagnata. “Le ho fatto
del male?” pensò… “sta sanguinando?” Ma da come si comportava Rosy sembrava che le facesse piacere, e allora continuò
da solo e cominciò a muovere il dito in quella specie di fessura
calda e bagnata, finché lei, sempre guidandogli il dito, lo mise
in un punto che sapeva lei, e che voleva evidentemente che lui
la toccasse lì. Cosa che lui fece in modo molto ingenuo, inesperto, ma a lei bastava evidentemente perché a un certo punto,
senza smettere di parlare, emise un grido soffocato, seguito da
un applauso di tutte. Allora lei con un gesto preciso, autoritario, staccò la mano del ragazzino e la mise da parte. Fu come
se gliela volesse restituire.
Lui stette immobile per capire cosa sarebbe successo dopo. E
successe che, parlando sempre in dialetto naturalmente, le ragazze si mossero, si alzarono, mentre lui era sempre sotto il
telone. Ebbe l’impressione che un’altra ragazza volesse prendere il posto di Rosy vicino a lui, ma ci fu un grido generale di
tutte: “nooo!”. Poi a poco a poco, sempre ridacchiando e parlando in dialetto, cominciarono a uscire dal capanno. Sentiva
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che qualcuna era già fuori. Qualcuna lo salutò “Ciao Pucci”.
Qualcuna disse anche “Bravo Pucci!”. Lui non rispose naturalmente, fece finta di nien- te, di continuare a dormire. Che poteva fare?
(Tempo dopo, quando capì cos’era successo quel giorno in
campagna, si disse “che cretino, che idiota, che scemo!” Ma
non lo raccontò a nessuno. Che figura ci avrebbe fatto? Però in
fondo gli sembrava che si era comportato bene. Non poteva fare diversamente. Era solo un bambino.)
Intanto le ragazze si allontanarono tutte ridendo e sghignazzando. Le sentì ridere e ciangottare per un po’, e poi silenzio, il
silenzio della campagna. Rotto dai suoni della campagna: oche,
galline, cavalli, scrofe, buoi, vacche, cicale, uccelli… E lontano,
sempre più lontano, delle risate. Di ragazze, gli sembrava di
capire.
Aprì gli occhi. Si alzò anche lui, e si rese conto che era successo qualcosa che apparteneva a quella zona della vita che ancora non sapeva, ma che voleva assolutamente gli fosse rivelata.
Ma con chi parlare? Cosa dire? E se avesse incontrato qualcuna
delle ragazze (le aveva riconosciute tutte dalle voci), che fare?
Fatto sta che il giorno dopo alla stessa ora lui tornò nel capanno, facendo finta ancora di dormire…
Ma quel giorno non si fece vivo nessuno. Poi dovette ripartire
per la città. Erano finite le vacanze. Doveva tornare a Milano,
a casa sua, dove c’era la mamma, i nonni, la donna di servizio,
che avevano cambiato, che ora veniva a ore, non dormiva più
in casa loro. Chissà perché?
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Giochi proibiti.
A questo punto si rende conto di trovarsi in un momento della
sua vita in cui non pensa ad altro. È come se si trovasse dentro
un sogno, un sogno del passato, in cui si lascia trasportare, e
gli si aprono altre immagini. Era in campagna. Ancora in campagna. Le cose più interessanti, da bambino, gli capitavano in
campagna.
Era un bambino già più grande di quella volta del capanno. Un
ragazzino, insomma. E si trova a chiedersi se questa volta avrebbe preso qualche iniziativa in una situazione come quella
riguardo a Rosy. Ma non ci crede. Forse gli successe quella volta proprio perché era più piccolo. Ragazzino ma ancora bambino. Questa volta cominciava a capire, a entrare nel mistero del
sesso. D’estate andava sempre in campagna perché ci stava la
sua balia che lo aveva allattato i primi anni della sua vita. E poi
conosceva tutti e tutti lo conoscevano.
Dunque, questa volta successe questo. Gli sembra quasi (si
rende conto di usare un termine ‘contadino’), gli sembra quasi
di smuovere i ricordi come un aratro che smuove la terra. Perché gli vengono in mente tanti altri episodi, tutti riguardanti il
sesso, e tutti collocati in campagna, e si rendo conto adesso
che in campagna il sesso è all’ordine del giorno. E lo si fa, lo si
gode, lo si considera, lo si attiva più di quanto si pensi, è un’
attività naturale, non ci sono problemi, difficoltà, turbe, complessi.
La faccenda del coito fra maschio e femmina appartiene a un’
esperienza che è quasi quotidiana in campagna. I bambini, anche piccolissimi assistono ai rapporti fra animali quasi tutti i
giorni. Lui stesso che andava ancora dalla balia a tre, quattro
anni, anzi a volte viveva da lei, ricorda che vedeva maiali che
montavano le scrofe, cavalli le cavalle, tori le vacche, e poi caproni, cani, gatti, tutto alla luce del sole, sull’aia.
E ricorda che il problema (ma più che altro era una curiosità)
toccava tutti i bambini. Ricorda quella volta che li scoprirono in
una stalla dove si eravamo ritirati, bambini e bambine, per fare
delle esperienze, per giocare. Ricorda che si eravamo rinchiusi
in una stalla dove sùbito una bambina gli tirò giù i pantaloncini
e si mise a toccare il pisellino, che, ricorda, divenne subito ritto, e lei continuò a maneggiarlo per un po’, con grande curiosità da parte di entrambi e da parte degli altri presenti che consideravano il fatto come qualcosa di molto interessante. Insomma eravamo tutti seri, c’era poco da ridere. Finché si aprì
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la porta della stalla ed entrarono i grandi che si erano messi in
allarme naturalmente, vedendoli entrare in una stalla e chiudere la porta. Ma non ci fu niente di grave. Semplicemente qualche parola per sottolineare che certe cose non si fanno. Tutto
lì. Naturalmente non c’era niente di meglio per acuire la curiosità e riprovarci ancora in luoghi più appartati.
Ed è quello che successe a lui e a una bambina. Perché la domanda fondamentale era: perché lo si fa? o cosa si prova? quale vantaggio o piacere? E perché tutti i grandi gli danno tanta
importanza?
Dunque: quello che ricordo soprattutto era la serietà, la scientificità dell’azione fra me e la bambina. Cioè ricordo questa
bambina (naturalmente non ricordo la faccia, chi fosse, una parente della balia, la figlia di un’amica…) con cui certamente
stavamo affrontando la questione del rapporto sessuale che
vedevamo ogni giorno e che si supponeva facessero anche gli
uomini e le donne e, come succede a tutti i bambini, senza
nessun tipo di morbosità (o forse c’era?) volevamo provarci anche noi. Sto parlando di bambini di sei, sette anni. Stavamo
giocando ai grandi. E così siamo andati in un campo di mais (il
campo di mais è veramente un luogo dove può succedere di
tutto ed è difficile trovare la gente che ci si nasconde). Siamo
andati in questo campo di mais, abbiamo scelto un luogo piuttosto lontano dalle cascine, insomma dalla gente adulta, ci
siamo spogliati tranquillamente, io mi sono tolto le braghette,
e la camicia, lei si è tolta semplicemente le mutandine, abbiamo messo le braghette e la camicia sulla terra, lei si è messa
in posizione (come facesse a saperlo non me lo ero chiesto allora, ma non era difficile in campagna, per lo meno fino a trenta, quarant’anni fa, dormire nella stessa stanza coi genitori e
quindi assistere ai loro rapporti sessuali), si è messa in posizione, sdraiata sulle mie braghette e sulla mia camicia, io la
guardavo, e non ricordo cosa mi successe, cioè se ebbi un’ erezione subito o a poco a poco, so solamente che anch’ io presi la
posizione canonica, mi sdraiai sopra di lei e, credo, mimammo
il coito, lo mimammo, col mio culetto che faceva su e giù, su e
giù, sopra di lei. Fatto sta che a un certo punto (ecco questo
me lo ricordo proprio, perché è la summa di tanti possibili messaggi più o meno subliminali arrivati al bambino negli anni precedenti) a un certo punto la bambina gridò (lo scrivo in italiano, in verità fu in dialetto bergamasco) gridò “no, basta, basta,
Pucci, sta entrando!”. E io con grande cavalleria (!) lo estrassi,
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o per lo meno smisi di mimare. Quindi riassumendo: 1) io avevo avuto una specie di erezione; 2) stavamo mimando ma ci
si avvicinava molto alla verità; 3) mi venne spontaneo trovare
la strada giusta; 4) lei sapeva quello che si poteva e quello
che non si doveva fare, e io accettavo le regole di una morale
comune; 5) certamente non c’era di mezzo un piacere fisico,
ma un piacere mentale, di scoperta, di conoscenza, ecc… insomma la curiosità; 6) non c’era in noi morbosità, non c’era
eccessivo senso del proibito, si conoscevano perfettamente i
confini di ciò che si faceva e si poteva fare; 7) ci rivestimmo
come niente fosse e tornammo a casa, in cascina. Dicemmo
qualcosa? Non lo so, non ricordo. Ma eravamo soddisfatti, tutt’
e due. Mi domando: chissà quella bambina se si ricorda adesso
di quell’ episodio? Forse me ne ricordo io che sono notoriamente un porcellone. Comunque com’è bella la vita quando si è
bambini/ragazzini e non si è ancora “moralizzati”. Poi io purtroppo fui messo dai gesuiti. I quali cambiarono la mia vita. O
contribuirono a trasformarla. Ma va bene così.
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Ricordi e riflessioni 1
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Rotaie.
Non ho neanche chiamato la mamma. Era un fatto troppo grosso. E poi non avrei fatto a tempo a farglielo vedere. L’ immagine sarebbe cambiata. E lei era andata in bagno. Davanti a me
stava verificandosi qualcosa di incredibile, che non mi è più uscito di mente. Stava verificandosi proprio in quel momento e
solo in quel momento. Cinque secondi dopo non l’avrei più visto, tanto meno mia madre. Né sarebbe mai più capitato.
Io ero solo nello scompartimento e il mio treno stava entrando
in stazione lentamente. Si sentiva il rumore delle ruote sugli
scambi. Io ero affacciato al finestrino aperto. Davanti a me, in
senso contrario, stava passando una locomotiva. Piuttosto velocemente. E aveva creato un po’ di turbolenza, tanto che avevo fatto un mezzo passo indietro. Qualche pulviscolo comunque
mi era entrato in un occhio. Ma quello che appariva in quel
momento davanti al mio sguardo era talmente unico nella mia
vita, straordinario, e io ero piccolo, mi pare cinque, sei anni,
che pur sentendo il fastidio dei pulviscoli, mi sono messo a fissarlo con la bocca aperta e il cuore che batteva.
È stato come se una macchina fotografica che avevo in testa
avesse scattato un’istantanea che non sarebbe mai più sparita.
Davanti a me, davanti al finestrino del mio vagone del mio treno che stava entrando lentamente in stazione, per cui già ci
stavamo preparando a scendere, davanti a me, per pochi secondi, perché poi non l’avrei più visto, pur sapendo che il fatto
sarebbe andato avanti per qualche minuto anche senza la mia
presenza, davanti a me, sulla rotaia, anzi, su una delle due rotaie, dov’era appena passata la locomotiva di prima, sulla rotaia più vicina a me, c’era un gatto diviso in due, letteralmente, una parte verso l’esterno e una parte verso le traversine.
Devo spiegare perché l’immagine è di quelle che fanno parte di
quell’archivio che abbiamo in testa e che resta con noi per tutta la vita e che adesso che mi torna in mente (non so perché),
sono certo contribuisca a creare la nostra entità, i nostri pensieri, la forma della nostra mente, della nostra identità.
Non so per quale motivo il gatto in questione si sia trovato da
quelle parti in quel momento, non so per quale motivo quel
gatto, che in altre situazioni avrebbe usato la sua agilità, la sua
prontezza di riflessi per evitare quell’incidente, unico nella mia
vita, non so per qual motivo io, che amo i gatti come poche
persone al mondo, credo, mi sia trovato in quel momento in
quel posto… Ho provato uno strappo al cuore e una fatica a re-
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spirare regolarmente. Anche questo fa parte dell’ archivio di cui
ho parlato. Ma viene fuori adesso, mentre lo scrivo. Non mi è
mai capitato di ripensarci negli anni precedenti.
Dunque: la peculiarità non sta nel fatto che davanti a me ho
visto due tronconi inerti del corpo di un animale (questo forse
m’era già capitato), ma che ho visto due tronconi che si muovevano, ognuno per conto suo, e ho visto lo sguardo
dell’animale come se non si fosse ancora reso conto di che cosa
gli era successo e di come gli era successo, ho visto i suoi occhi guardare verso le interiora che gli stavano uscendo dalla
parte tagliata in due dalla locomotiva appena passata. E in
quello sguardo c’era stupore, dolore, evidentemente, e il senso
di un episodio definitivo. A un certo punto (questione di frazioni di secondo) si rese conto anche del mio treno e mi lanciò
un’occhiata (frazioni di secondo) in cui ho visto la sua anima.
Giuro. La sua o le sue domande. Tutt’e due i tronconi si muovevano, come per continuare in quello che stava facendo il suo
corpo che prima era una cosa sola. Prima stava attraversando
quel binario, ed era diretto chissà dove, senza accorgersi della
locomotiva, tra il rumore, il clamore, i suoni, gli altoparlanti, il
fragore, i passi, le voci… La parte anteriore si muoveva ancora
come portata avanti dalle zampe anteriori in cui c’era ancora
un attimo di energia, mentre la parte inferiore si era già stesa
per terra e le gambe si muovevano nell’ aria, sgambettando.
Ovviamente questo frammento di vita sarà durato due, tre secondi e poi il vuoto, il nulla, l’ inesistente, l’ immobilità avrebbero preso il sopravvento e i due pezzetti di gatto sarebbero
esistiti ancora in quanto rifiuti organici di un meccanismo in cui
la pioggia, il venti, le turbolenze, forse anche gli spazzini pagati per tenere decente la stazione avrebbero messo la parola fine su quella piccola storia. Che dentro di me continuò ad esistere per molto tempo ancora, come un fatto di vita, di morte,
cui pensare ogni tanto, rifletterci.
E resiste ancora, tanto che ho voglia di parlarne, mentre racconto altri episodi della mia vita. Altri episodi con altri contenuti. Che c’entra il gatto affettato della stazione di Genova? Che
sto facendo? Di che sto parlando? Di vita, di morte, di sesso?
Risposta: di vita, di morte, di sesso. Di vita insomma.
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Svolte.
Nella mia vita ci sono state alcune svolte, importanti, due o
tre. Per ora. Momenti, illuminazioni che mi hanno fatto cambiare il modo di procedere o me l’hanno arricchito. La prima svolta
non si può neanche dire una svolta. Si tratta solo di una presa
di coscienza. Che comunque ha influito sul mio ritmo. La consapevolezza di “essere”. Non so come mi sia successo. Non càpita tutti i giorni e non càpita a tutti, penso. Uno sta guidando
un autobus, con trenta, quaranta passeggeri dietro, e ha l’ illuminazione: “ma che sto facendo? e perché faccio questo? io
chi sono?” Uno sta tagliando una fettina di vitello, e ha davanti
due, tre clienti che aspettano, e improvvisamente si domanda:
“ma che sto facendo? dove mi trovo? chi sono io?” Uno sta dipingendo un quadro astratto… “ma perché faccio il pittore? e
poi perché sono un astrattista!?” Non credo. La gente vive, fa
le sue cose e basta. E a me che è successo?
Era estate, ero in veranda a casa mia, e stavo scrivendo una
commedia. Faccio l’attore, ecco, e ogni tanto scrivo commedie,
come Molière (fortuna che ho un senso dell’umorismo). Allora,
ero in veranda e scrivevo una commedia, quando a un certo
punto mi è successo… (ma adesso è passato qualche anno e
non mi tornano in mente esattamente i particolari; però ricordo
la situazione, le immagini) a un certo punto mi sono proprio
domandato… e mi sono reso conto che mi stavo domandando
“ma che sto facendo?” “e perché?” “e io chi sono?”. Era chiaro
che non si trattava di Alzheimer. Mi sentivo in forma, stavo bene, ero cosciente di tutto. Potevo rispondere benissimo alle
domande di cui sopra: “sto scrivendo una commedia, perché ho
una mia compagnia e a ottobre debutto a Roma portandola poi
in tournée per tutta Italia; io sono il signor Tal Dei Tali, attore,
commediografo e regista teatrale. Ma le domande che mi stavo
facendo chiaramente volevano intendere altro. Mi sono reso
conto che mi trovavo come al di fuori o al di sopra della veranda in cui stavo scrivendo. Erano domande al di fuori o al di sopra del loro significato letterale. Domande del tipo: “ma che
cosa ci sto facendo io a questo mondo? perché sono nato?
com’è ‘sta storia che uno si ritrova vivo, in un certo mondo, in
una certa società, con una certa professione? figlio di certe
persone? chi mi ha mai detto niente? qual è lo scopo? lo scopo
di questa vita in genere che mi ritrovo fra le mani e lo scopo
mio, personale? che voglio fare? quali sono i miei ideali? e perché dovrei avere degli ideali?”
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Dall’ esperienza pratica che in qualche modo mi ero fatto prima
di farmi quelle domande potevo rispondere semplicemente: lo
scopo? trovare il sistema di sopravvivere, fare soldi, una famiglia, dei figli, avere una casa e versare dei contributi per arrivare a una pensione, ecc…! In questa società in genere si fa
così.
Cosa importante: ho fatto le medie e il liceo classico presso i
gesuiti. Perché dai gesuiti? Perché mia madre era una donna
che voleva essere regolare, come ci si aspetta in una società
per bene, ligia ai doveri delle società per bene, e in quel momento i gesuiti erano un team di persone che si preoccupavano
di costruire individui adatti a questo tipo di società (come la
pensavano loro naturalmente; non so adesso.). Da notare che
mia madre era una ragazza/madre, per cui si poteva essere
portati a credere che fosse una outsider, se non addirittura una
ribelle. Neanche per idea. Ma com’è che la vita, o meglio, la
società ti porta a credere in certi valori e poi tu ti comporti in
un altro modo? Allora ci sono degli istinti diversi, delle esigenze
diverse, delle personalità in contrasto? Con la società e con se
stessi!? L’inconscio resta un mistero. Insomma ci sono dentro
delle sottopersonalità spesso in contrasto fra loro. La somma di
queste sottopersonalità è la nostra personalità. Fico.
Quando ero dai gesuiti naturalmente mi confessavo quasi tutti i
giorni e c’era l’obbligo della messa tutte le mattine, prima delle
lezioni, e c’era l’opzione della comunione, prima della quale ci
si doveva confessare, ovviamente. Confessare che cosa? I peccati. Quali peccati? Bugie, non avere obbedito ai genitori, aver
rubato qualche spiccio dalla borsa della mamma…. Ma la masturbazione era il peccato fondamentale. Perché? Io confessavo
questo pur sapendo che l’avrei fatto tranquillamente il più presto possibile. E allora? Forse i gesuiti mi sono serviti per formare questo mio atteggiamento mentale fatto di dubbi, domande,
cautela nel rispondere, precauzioni nel muovermi, un po’ di
scetticismo, e molto pragmatismo. Ma anche molta libertà. Molta libertà. Di essere, pensare, rispondere, considerare, affrontare, scrivere, parlare. E intuito nel decidere. Tutto e il contrario di tutto. Che però mi piace. (Non che questo lo insegnassero i gesuiti! Anzi. Però lo facevano indirettamente, in quanto
così ho reagito io ai loro insegnamenti.)
In questo momento mi vengono in mente dei particolari della
mia vita di giovane aspirante a non so che cosa. E qui li tiro
fuori. Dopo il liceo ho lavorato in un giornale di Milano come
apprendista redattore. Poi sono entrato all’Accademia di Brera,
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corso di scultura. Per tre anni. (Mi è servito enormemente anche se non ho continuato.) Poi un giorno, passando davanti a
un teatro con le fotografie del mimo francese Marcel Marceau,
sono rimasto folgorato. Ho voluto vedere lo spettacolo: notte
passata sveglio. Il giorno dopo mi iscrivevo a una scuola di
mimo. Ho fatto il mimo per più di un anno. Poi la scuola d’Arte
drammatica del Piccolo Teatro di Milano e poi l’attore di professione. Ho fatto di tutto: teatro, cinema, televisione, radio, pubblicità, poi è arrivata una seconda svolta, di cui parlerò dopo, e
ho fondato una scuola d’arte drammatica, e adesso che faccio?
Sto scrivendo… che dire? delle memorie? come Goldoni?
Mi viene in mente qui adesso di citare Goldoni, il nostro Carlo
Goldoni, e precisamente le sue Memorie, che sto leggendo in
questi giorni, libro divertentissimo, in cui si accorge (lui) come
spesso la vita ti dà e la vita ti toglie, ma vuole sottolineare come a volte quando ti toglie lo fa perché tu abbia un’ opportunità migliore. (Lui sembra crederci) Voglio riportare le sue parole
originali (non dimentichiamo che Goldoni viveva in una società
molto cattolica):“La Provvidenza si serve di differenti mezzi per
dispensare i suoi favori. Spesso si serve del malvagio per soccorrere l’onest’ uomo e noi dobbiamo benedire l’autore del beneficio e avere riconoscenza per chi fu l’ intermediario.” Ovviamente Goldoni era un uomo saggio, onesto e pio, mentre io
no, ma avrei voluto conoscerlo lo stesso. E vivere nella sua epoca. L’avrei frequentato. Doveva essere molto spiritoso. Mi fa
ridere solo l’idea di vederlo seduto a scrivere le sue commedie.
Poi io penso che il suo concetto di Provvidenza tendesse più
verso una specie di Giustizia Naturale, universale e forse casuale, perché la Natura, la Storia, alla fine, sono giuste (così
pensava lui). La Provvidenza, secondo Goldoni, è un’ Evoluzione che tende al meglio! Io non sono di quest’ avviso. Per me
l’Evoluzione non tende a un cazzo! Ma ho studiato dai gesuiti.
Per cui io sono diverso. Più sofferente. E più insofferente. Vattelapesca!
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Extrasistole.
Ascoltando il mio cuore, nel silenzio quasi totale delle tre di
notte, a letto, mi accorgo di alcune anomalie nel ritmo. Nel
complesso sembrerebbe regolare; però ogni tanto si avverte
un'accelerazione, come se a volte ci fosse un colpo in più. Poi
tutto sembra riprendere normalmente: tutumm, tutumm, tutumm. E ogni tanto tututumm tutututummm Le extrasistole?
Ma sono proprio queste anomalie che mi fanno pensare che la
mia macchina non è perfetta. E' più perfetta la mia automobile.
Quando è al minimo è un piacere ascoltarla. E' più perfetto un
robot; di quelli che si vedono alle catene di montaggio, nelle
fabbriche. Io non sono un robot, ma un essere umano. Un essere umano con alcune anomalie. Avete mai visto, in un bosco,
tutti gli alberi che lo compongono? Alberi anche della stessa
specie. Non ce n’è uno uguale all’altro. Qualcuno è una meraviglia a guardarlo. Qualche altro è pieno di bozzi, di protuberanze, di rami storti come braccia di streghe. Di notte uno potrebbe aver paura! E così siamo noi. Qualcuno, qualcuna, è una
meraviglia guardarlo/a. Qualcuno, qualcuna ci fa orrore, qualcuno, qualcuna non lo/a notiamo neppure.
Dunque io ho il cuore che batte strano. Ma sono proprio queste
anomalie che mi fanno pensare a ciò che sono: un essere umano con dei difetti. Se io fossi un uomo perfetto e perfettamente
funzionante, una macchina ben rodata e con tutte le cose a posto, certamente non ne sarei consapevole. Se non avessi queste anomalie non ci penserei di non averle! Insomma, se io
fossi un uomo perfetto, non mi renderei conto di essere perfetto. Mentre invece mi rendo conto di essere imperfetto
E così mi viene fatto di pensare che è proprio quando si hanno
delle difficoltà riguardo al nostro "essere uomini" che si ha coscienza del nostro "essere uomini". Cioè: sono i nostri difetti
che ci fanno pensare che siamo umani. Umani con dei difetti,
naturalmente. Ma chi non lo è? E la coscienza dei nostri problemi ci costringe alla coscienza del Tutto, e alla coscienza dell'Io, al bisogno di un 'Io' che sappia esistere, sappia di esistere, venire fuori e svilupparsi; di un 'Io' che sappia rimediare ai
suoi problemi. Di un ‘Dio’? Qualcuno, qualcuna, miliardi!
Io penso che il progresso dell'Umanità (in generale), e lo sviluppo dell'umanità (dentro di noi), dipendano proprio dalla nostra capacità di trovare delle soluzioni alle nostre imperfezioni.
E le nostre imperfezioni ci permettono di avere qualche idea
sulla perfezione. Sto parlando di idee, e non della Perfezione in
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sé. Che ovviamente non esiste. E non voglio neanche dire che
una volta capite le mie imperfezioni, io faccia di tutto per togliermele. A volte mi piacciono, mi stanno bene, mi stimolano!
L'unico guaio è che a volte ci si può non accorgere di avere
delle imperfezioni, e dei difetti. E ci si creda semplicemente...
perfetti.
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Adolescenza
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Il muro da rinfrescare.
Lui non ricorda come nacque il discorso. Probabilmente perché
qualcuno della sua famiglia, la nonna o la donna di servizio
(i primi anni avevano sempre una colf, non si chiamava così,
ma c’era nelle famiglie medie o addirittura piccolo/borghesi) si
erano accorte di quelle macchie accanto al letto in camera sua;
macchie biancastre, come di un liquido spruzzato sul muro,
proprio all’altezza del pisello del ragazzino. Lui non se ne rendeva conto, perché era stato un processo molto lento, continuativo, giorno dopo giorno, soprattutto la sera, prima di dormire, dopo i quindici anni. Non poteva resistere. E l’unico luogo
dove scaricare il frutto improvviso di questi suoi piaceri solitari,
era il muro accanto al letto. Allungando il pisello più che poteva
verso la parete tappezzata di un giallino polivalente. Forse i
primi giorni non era molto evidente perché i giallini si confondevano, ma dopo un po’ diventava un fatto che decisamente
dava nell’occhio. Anche perché cominciava a dare l’idea di una
crosta. La tappezzeria non era più liscia come un tempo.
Cos’era? Un tipo di muffa? Dall’altra parte del muro c’era una
cucina. Poteva esserci dell’umidità seccata, il frutto di una perdita. Oppure la colpa era del ragazzino. Molto più probabile.
Qualche rimedio, comunque, andava trovato. Parlarne con lui?
Con sua madre? Alla madre doveva essere arrivata qualche
soffiata. Del resto lei non entrava quasi mai in camera del figlio, e da quella parte del muro c’erano sempre libri, giornaletti, camicie che occultavano la vista di quella singolarità. La
donna di servizio invece aveva il dovere di sistemare la camera. Deve aver parlato con la nonna, e la nonna con la mamma.
Insomma un giorno la mamma lo prese da parte, era in cucina
a sistemare i piatti, e gli fece un lungo discorso, lunghissimo
(più tardi lui ci pensò e disse fra sé e sé “ammazza, come l’ha
presa alla larga!”). Fu un lungo discorso sulle abitudini dei maschi che, arrivati a una certa età, cominciano a toccarsi in mezzo alle gambe. I primi tempi non succede niente ma poi, a poco
a poco, si forma un liquido, che poi diventerà il seme da cui
nasceranno i bambini. Insomma, poveraccia, più che fargli provare vergogna di essere la causa di questi suoi voli pindarici
sulle seghe, povera donna, gli faceva pena che fosse costretta
ad affrontarli. D’altra parte un rimedio andava trovato.
Cominciò a riflettere: “ma come ho fatto?” Pazienza una volta
ogni tanto, ma qui si trattava del frutto di decine e decine di
episodi, di mesi di attività su quella povera tappezzeria. Ma
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non si era reso conto? Era un pazzo! Incosciente!? Del resto fin
da piccolo lui aveva manifestato delle tendenze a seguire senza
scrupoli certi impulsi che partivano dal suo pisello, centro del
mondo. La mamma lo chiamava il pisellino, anzi, il mio pisellino, proprio intendendolo in senso possessivo, il suo pisellino, il
pisellino di lei, in quanto apparteneva a lei e quindi lei poteva
farne quello che voleva. C’era molto “edipo” in tutto questo,
naturalmente. Tenendo conto che la sua famiglia era composta
dalla mamma, da lui e dai nonni. La mamma era una ragazza
madre, quindi lui non aveva padre, né lo conosceva, né lei
gliene aveva mai parlato. Ognuno aveva la sua camera, quella
di lei con un lettone grande in mezzo alla stanza e quella di lui
che aveva il letto accostato al muro e il muro era diventato
l’origine di un problema. O di un mistero. Da risolvere, perché
non poteva andare avanti così.
Poi c’erano i nonni, che costituivano l’elemento coreografico
della famigliola. Erano musicisti, pianisti, lei cantante, insegnante ecc… Lui pianista, insegnante di storia della musica al
conservatorio… Insomma, artisti!
Forse, riguardo alla storia del muro incrostato di sperma, c’era
qualche relazione col fatto che dai dieci ai sedici anni il ragazzo
aveva frequentato una scuola tenuta dai padri gesuiti, sua madre l’aveva messo dai gesuiti (per tirarlo su bene) e questo periodo è fondamentale nella formazione di un individuo. Sei anni
dai gesuiti e il futuro di un uomo è segnato: può venir fuori un
prete, un pederasta, oppure un ateo. In tutto questo, e contemporaneamente, può coesistere una sfrenata predisposizione
alla libidine.
Fatto sta che un giorno entrò in casa un imbianchino che diede
una tinta nuova alle pareti della camera del ragazzo (una rinfrescata, dissero), tolse la tappezzeria, rifece l’intonaco e ci
diede una tinta color avorio! Avorio sporco. Non si seppe mai
(però il ragazzo ci pensò) se c’era un’intenzione umoristica nella scelta del colore. Forse sì. All’imbianchino avranno detto
“trovi un colore molto vicino allo sperma”!
Era una famiglia molto spiritosa. La nonna, invecchiando, divenne pazza. Ma una pazza simpatica, divertente. La madre,
dopo la morte del nonno, la metteva in case di cura per anziani. Lei ci stava una settimana, poi se ne andava, scappava, e
non diceva neanche dove andava. Comunque, in una pensione
privata. Entrava, diceva “c’è una stanza?”, e se le andava bene
ci restava. Se no, ripartiva con la sua valigetta. E la madre doveva telefonare a tutte le pensioni di Nervi (Genova) per sape-
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re dov’ era andata a finire sua madre. Famiglia divertente, no?
Ma tornando al famoso Muro e alle abitudini del segaiolo, è
molto probabile che tutto cominciò anche prima (la tendenza
libidinosa), quand’ era più piccolo, bambino. Cominciò quando si
scoprì che lui aveva una certa sua predisposizione a trovarsi
immischiato in storie di sesso, a cercare di trovarsi immischiato, a cercare il momento giusto e il posto giusto. Lavoro difficile e faticoso. Che ha bisogno di pazienza. E concentrazione. E
fortuna.
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Gelosia.
È già difficile non essere gelosi della propria madre in una famiglia regolare. E unita. In genere la gelosia può nascere nell’
animo di un figlio, o di più figli, con la nascita di nuovi fratelli.
Si può avere paura che venga meno l’amore o la premura della
madre a vantaggio dei nuovi arrivi. O può scattare nei confronti
del padre quando l’amore fra i genitori è tanto e tale da far
temere che potrebbe diminuire l’attenzione della mamma nei
confronti del figlio o dei figli nati dai genitori suddetti. La gelosia può diventare maligna, quando non c’è più il padre, o non
c’è mai stato, e la madre è libera di scegliersi nuovi rapporti
sentimentali e/o sessuali.
È quello che è capitato a lui. Figlio di ragazza madre. La quale,
dovendo lavorare in giro per il mondo, avendo accettato la sorte di un figlio al di fuori del matrimonio, e avendo accettato di
farlo vivere, si è trovata costretta ad affidare questo bambino a
una balia esterna, che l’ha tenuto con sé per molti mesi all’ anno e ha mantenuto il rapporto col bambino, poi ragazzo, in seguito per molti anni. Era più che ovvio. In un mondo civile.
È quello che è capitato a lui. Sì, d’accordo, c’erano i nonni. Ma
innanzitutto anche loro non avevano tempo, poi erano artisti,
mezzi matti, una completamente matta, poi erano anche concertisti e quindi anche loro in giro per il mondo. Non c’erano altri parenti. Non c’era che la balia. Che lo nutriva, lo accudiva,
lo teneva per l’estate (tre, quattro mesi, in campagna). In inverno, perfino due anni di elementari il bambino li ha fatti dalla
balia, in campagna, nella bergamasca. Per cui, quando poi il
bambino comunque tornava in città, la sua lingua non era il milanese, tanto meno l’italiano, ma il bergamasco.
Allora, quando Pucci (così si chiamava il bambino) (cioè, in effetti aveva un altro nome, il nome di un santo, ovviamente, ma
siccome tutti lo chiamavano Pucci, e queste due sillabe erano
divertenti e facili e carine, il modo per chiamarlo e sgridarlo e
tenerlo sotto controllo era sempre Pucci), quando Pucci, dicevo, tornò a casa definitivamente, perché la famiglia trovò più
tempo da dedicargli e per occuparsi di lui, che era ormai sui
dodici/tredici anni, c’erano due persone che costituivano il centro dei suoi interessi sentimentali: la mamma e la balia.
La balia lui la vedeva sempre meno, a volte neppure d’estate.
Perché ormai c’era la mamma con cui spesso andava in vacanza. E adesso la mamma girava meno il mondo. Anzi, non lo girava più. Ecco: e qui cominciano i problemi. La mamma era
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una bella donna, poi era famosa, era ancora giovane, aveva
molti amici, ammiratori, era libera, vivace, intelligente, insomma ci siamo capiti!
Aveva un vecchio fidanzato, sui cinquant’anni, sposato, ricco,
che per un periodo la frequentò, ma lei era anche una donna
che non amava i legami fissi e le piaceva essere corteggiata.
Quindi, che successe? Che arrivò un giovane, un cantante, un
tenore, allievo della nonna, che si fece avanti. E fu qui che lui
(Pucci) si rese conto di cosa fosse l’amore, di come fosse imprevedibile, di che altezze, quali voragini, quanta sofferenza,
quale grazia e inutilità… Di bello, o forse solo di piacevole,
c’erano solo i ricordi della campagna. Belli, puri. Ma era ancora
così giovane. Solo che quando si è giovani si pensa che la vita
che si sta vivendo è la Vita. Invece la vita vera deve ancora
venire. Ed è imprevedibile. Spesso. Sempre. Fortunatamente.
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Elène.
Io le donne non le capisco. Per esempio questa Elène. Era francese, un’amica di mia madre, ma molto più giovane, che lei
aveva conosciuto non so dove e non so come. Tanto che mia
madre un giorno la invitò a casa nostra per un pò. Elène doveva stare a Milano per un certo lavoro, per un certo periodo. Il
tempo in cui stette a casa nostra. Dormiva da noi, mangiava da
noi, telefonava da noi. Usava il nostro bagno. Quando ne usciva, si trovava bagnato dappertutto, tanto che mia madre cominciò a lamentarsi di lei. Coi nonni. Ma fra un po’ di giorni se
ne sarebbe andata!
Non prima che succedesse qualcosa fra me e lei, che restò nella mia mente per parecchio tempo. E che riaffiora anche adesso
che di anni ne sono passati parecchi. Un giorno capitò che andarono tutti fuori, salvo io ed Elène. Io studiavo in camera mia,
lei fece qualche telefonata. Io avevo quindici, sedici anni, lei
ventitre, ventiquattro. Io ero un tipico ragazzino brufoloso, lei
una… oggi si direbbe appetibile ragazza di media statura, dico
appetibile nel senso che aveva un bel culo e due belle tette.
Dunque, dopo che Elène ebbe finito le sue telefonate, sentii
che andò in bagno, ci rimase una decina di minuti, poi uscì dal
bagno e si diresse verso camera mia. Bussò. Le porte avevano
la parte interna di vetro zigrinato, per cui si vedeva la sua figura molto riconoscibile. Alludo alle poppe.
Dissi “avanti” e avvertii un palpito al cuore, una specie di accelerazione. Non provavo niente per lei, era troppo adulta e lontana dalle mie mire. E poi non sapevo ancora cosa volesse dire
un rapporto “uomo/donna” nel senso di un approccio che prelude al sesso. O potrebbe preluderlo. Fatto sta che lei entrò
con grande impeto (mi ricordo) e sicurezza. La stanza fu invasa
da una figura femminile prorompente, e rumorosa, impetuosa.
Entrò un fatto! Non mi ricordo cosa dicesse di preciso, parlava
un italiano discreto, ma si mise a osservare dappertutto, commentare, domandare, stupirsi, alludere. Io ero seduto alla mia
scrivania e senza far vedere che la guardavo, non la perdevo di
vista e rispondevo alle sue domande con una certa precisione e
con un certo umorismo, ricordo, che la divertiva. E sembrava la
stimolasse ad aggiungerci del suo.
La cosa durò per una decina di minuti. Non mi stava disturbando o distraendo dai miei studi, anzi, mi teneva occupato e nello
stesso tempo sentivo un brivido di novità e di eccitazione e anche un po’ di imbarazzo. Ce dovevo fare? Che potevo fare? Che
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si aspettava da me? Perché era venuta in camera mia? Che voleva fare? Il dialogo era vivace. E non faticoso. Per il settanta
per cento parlava lei, per il venti io, per il dieci c’era silenzio.
Ma non pesante. Sopportabile. E comunque era lei che conduceva il gioco.
Alla fine si sdraiò sul mio letto con gran cigolio di molle. Era
una rete metallica con sopra un materasso e una coperta. Ed
era orientato verso di me. Cioè i cuscini erano sistemati verso
il muro e il letto si protendeva verso la mia scrivania, di modo
che io vedevo un corpo in prospettiva, tipo il Cristo del Mantegna. Solo che qui non si trattava di un Cristo ma di una donna
“appetibile” che si era sdraiata col capo sui miei cuscini e le
gambe verso di me. Dunque era ancora un’epoca in cui le donne generalmente portavano le gonne, e considerando la sua
(gonna), ricordo, era il periodo in cui si cominciavano a vedere
le minigonne. Ma qui c’era qualcosa in più: non solo Elène protendeva le gambe verso di me, ma la sua tendenza (decisamente frutto di volontà o di provocazione) era di muoverle continuamente e di stirarle e di aprirle, e di metterne una sull’altra
per poi riaprirle di nuovo, o addirittura, di alzare le ginocchia e
fare ondeggiare le gambe, una a destra e l’altra a sinistra, di
modo che io potessi (senza dubbio era questo il motivo) vedere
e non vedere, vedere e non vedere dove finivano le cosce e
cominciavano le mutandine di voile e tutto il resto, nel senso
che si intravedeva anche la macchia scura della fica.
A questo punto io non sapevo che fare. Se guardavo verso di
lei, verso il suo viso, l’occhio mi cadeva cinque centimetri sotto, dove vedevo la fica, appena velata, e siccome lei mi stava
guardando fissa (ovvio), era chiaro che si accorgeva dei miei
occhi ballerini, e non volevo questo, per cui alla fine cercavo di
guardare sulla mia scrivania dove c’erano i miei libri, ma lei mi
provocava continuamente ponendomi delle questioni che presupponevano che io la guardassi in faccia e io la guardavo in
faccia e l’occhio cadeva sempre cinque centimetri sotto. Era istintivo! E lei se ne accorgeva. Attenzione, non è che mi turbasse tutto questo, anzi mi eccitava, ma mi rendevo conto, anche dai suoi discorsi, che lei si aspettava da me qualche movimento (verso di lei?) mentre io continuavo a stare seduto alla
mia scrivania e lei continuava a giocare di gambe facendomi
vedere e non vedere, vedere e non vedere…
Alla fine successe che lei si alzò e venne verso di me. Mi ricordo
che in quel momento pensai alla famosa frase “se la montagna
non va a Maometto, allora è Maometto che va alla montagna”.
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Incredibili i giochi della mente! Bene. Venne verso di me, come
incuriosita da quello che stavo studiando, e mi si sedette accanto, sulla sedia, costringendomi a lasciarle un po’ di posto.
Insomma eravamo in due sulla sedia. E facendo finta di interessarsi ai miei libri intanto armeggiava con le mani. Nel senso
che mi metteva un braccio attorno al collo. Con l’altra mano mi
prendeva una delle mie, me la rovesciava, come per leggere i
segni e dicendo, in modo molto sessuale (o sembrava a me?)
“che belle mani che hai!”
In quel momento suonò il telefono. “E’ per me, disse, si alzò e
uscì dalla camera sussurrando un “aspettami” che non capivo.
Dovevo aspettare che cosa? Che tornasse? E io fermo? Non potevo muovermi? O dovevo andare sul letto? Tutto il mio cervello era sottosopra e in balìa di lei. Io stavo sempre seduto, addirittura senza essermi mosso sulla sedia, cioè sulla parte sinistra della sedia, avendo occupato lei la destra e avendomi detto “aspettami”. La sentivo parlare francese. Letteralmente mi
sembrava di essere ipnotizzato. Guardavo il muro davanti a
me. Il cervello si era bloccato. La sentii finire la conversazione
e me l’aspettavo da un momento all’ altro. Invece andò in bagno di nuovo, che fra l’altro era vicino al telefono. Io ebbi uno
scatto uscii come un fulmine dalla mia camera e mi precipitai
verso il gabinetto, silenzioso come una volpe. E davanti alla
porta mi chinai per vederla dal buco della serratura. Stava facendo la pipì. Non era la prima volta che facevo questa operazione, con tutte le donne giovani che passavano per casa, le
lavoranti di mia madre, una volta mia madre stessa. La vidi
che si alzava dal water, per un secondo vidi la sua fica scoperta
e poi subito coperta dalle mutandine di velo. Notai però che la
faccia (vedevo anche quella) era rivolta verso la serratura.
Subito scattai, mi staccai dalla porta e tornai velocissimo in
camera mia, rimettendomi a sedere. Il cuore batteva fortissimo. Entrò lei e mi disse con quel suo accento che in fondo mi
eccitava anche quello:
- Perché mi hai guardato da buco di serratura?
- Io?
- Sì, non mentire. Quando sono entrata in gabinetto ho guardato verso serratura e siccome davanti alla porta del bagno c’è
camera mia, che è aperta, ho visto che la serratura era libera, si vedeva dall’altra parte la luce. Poi improvvisamente
l’ho vista diventare scura. Eri tu che sei passato davanti e ti
sei fermato lì. Ho visto anche tuo occhio. Eh?
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- Ma…
- Ma, ma ,ma… Non puoi dire niente. Perché l’hai fatto? Ti
piaccio? Sei timido?
- Un po’.
- Ah, solo un po’?
- Molto. Ma…
- Hai già fatto l’amore?
- Io?
- Sì, tu. Chi, se no?
- No.
- Ma sai come si fa?
- No.
- E allora ti insegno, se vuoi… Vieni qui.
Si sentirono dei rumori in anticamera. Qualcuno stava entrando
(fortunatamente). Ero tutto sudato. E ansioso. Era mia madre.
- Ragazzi! Dove siete?
- Siamo qui.
E terminò così un’esperienza che restò nella mia mente per
molto tempo. E che riaffiora anche adesso che di anni ne sono
passati parecchi. Nei giorni successivi, anche se io lo desiderassi, non si presentarono più quelle coincidenze che avrebbero
permesso il secondo atto della commedia. Ma forse è stato meglio così. Anzi, ne sono convinto. Tutto quello che ci succede ci
serve, ne sono convinto. Non esiste un’ addestramento alla vita.
Se non vivendo. La vita è una scuola per vivere ha detto H. Laborit. E poi è bello se qualcosa non ci è chiaro, o non lo si capisce. Lo capiremo. Io non ero ancora pronto per un rapporto. Lo
vedremo in seguito il perché.
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Rumori notturni.
-
Ma questa non è la trasmissione che piaceva alla mamma?
Sì.
E dov’è stasera la mamma?
È andata fuori con degli amici, aveva… Cos’aveva?
Non so. Delle faccende di lavoro per il laboratorio.
Ah, sì.
E quando torna?
Non lo so. Mangiavano fuori. Non aspettarla. Mangia.
Pucci, quando era più piccolo, era molto sensibile nei contatti
con gli altri, ma soprattutto con la mamma… Aveva delle intuizioni che lui stesso non sapeva spiegare. Capiva che dietro certe parole, certe frasi, dietro certi suoni della voce si nascondeva un’altra verità. E questa capacità gli era rimasta. O forse lui
era diventato morboso. E fissato. Da quando non frequentava
più la balia. Con la balia era semplice. Tutto quello che lei diceva era chiaro, vero, lui ci credeva. Con la mamma c’erano
sempre delle oscurità. Non credeva in quello che lei diceva. Ne
aveva coscienza. Lui non avrebbe voluto. Una volta era diverso. Ma adesso era così.
Vide un pezzo della trasmissione, ma senza seguirla. Poi se ne
andò in camera sua a leggere. Ma non si mise a leggere. Si sedette al suo tavolino con davanti un libro, un libro di racconti.
Di Andersen. Un regalo della mamma. E si mise a pensare. Perché da un po’ di tempo era così triste? Stentava a respirare.
Era malato? Ma no, quando venne il dottore per l’influenza lo
trovò bene. Era solo influenzato. Ma era triste. Si era abituato
a chiedersi il perché di tutto. Perché era così triste? Si era abituato a rispondersi, o a cercare di farlo. Perché era sempre così
triste? Da quando era tornato dalla campagna. Il suo rapporto
con la mamma era cambiato, lo capiva. Lei era più distratta.
Prima era sempre con lui. Adesso non c’era mai. No, pensava,
diciamo la verità: prima non stava mai con lui, era sempre in
giro per il mondo. Da quando aveva smesso di ballare e aveva
aperto il laboratorio era cambiata. Frequentava tanta gente diversa: sarte, disegnatrici, uomini che lui non conosceva e non
si facevano conoscere, né la mamma si preoccupava di presentarglieli. Né a lui interessavano del resto. Ma cosa voleva? Cosa
pretendeva? La mamma doveva lavorare, non guadagnava più
come prima, e il suo lavoro presupponeva che conoscesse gente, clienti, ambienti… Si accorse che gli stava venendo sonno.
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Gli piaceva dormire perché così si dimenticava della realtà. Ma
non aveva voglia di dirlo ai nonni. Semplicemente lo gridò.
- Io vado a dormire. Ho sonno. Buona notte.
- Buona notte, Pucci. Hai tutto?
- Sì.
Non stavano pensando a lui. La televisione stava trasmettendo
una cosa divertente. Li sentiva ridere. Andò a letto. E per qualche minuto pensò alla sua vita. Come sarebbe stata? Cosa avrebbe fatto? Chi avrebbe incontrato? Si sarebbe sposato? Avrebbe avuto dei figli? Si rese conto che la sua faccia aveva
fatto una smorfia. Poi pensò a Gabriella. Ma anche Daniela gli
piaceva. Però Gabriella gli dava più soddisfazione. Gli telefonava spesso. Ogni tanto lui andava da lei e studiavano insieme.
Con Daniela non lo faceva mai. Però Daniela gli piaceva di più.
Ma gli sembrava che avesse un ragazzo. Si addormentò.
A un certo punto si svegliò perché avvertì dei rumori soffocati.
Il cuore gli batteva. Perché? Sarà la mamma, pensò. Liberò le
orecchie dal lenzuolo per sentire meglio. C’erano dei rumori ma
estremamente leggeri, come se qualcuno non volesse, ma proprio non volesse farsi sentire. Un ladro? Il cuore gli batteva.
Sentì la voce della mamma, la riconobbe, sussurrare delle frasi, impossibili da decifrare. Sentì dei passi molto molto leggeri,
come di qualcuno che non volesse, ma proprio non volesse che
si sentissero, ma sul parquet di legno era impossibile non farsi
sentire. C’era qualcuno con la mamma? La mamma non era sola di questo era certo. Non sapeva che fare. Andarle incontro
per salutarla. Ma se non era sola!? Ma con chi poteva essere?
Guardò l’orologio luminoso. Erano le tre e qualcosa.
Cazzo! Pensò. Cercò di capire se la mamma stava con una persona sola o se c’erano anche degli altri. Forse dovevano continuare a discutere. Ma non avvertì altro. Solo la mamma che
andava in gabinetto e poi usciva e tornava in camera. Poi silenzio. No. Ancora qualche bisbiglio. Quindi la mamma era con
una persona (un uomo o una donna?). Il cuore gli batteva fortissimo. Come sempre, quando si trovava in situazioni di paura
o di sgomento, il cuore gli si metteva a battere da togliergli il
respuiro. Cercò di non muoversi, di stare immobile, per ascoltare meglio. Ma non si sentiva niente. Niente di niente. A un
certo punto solo un brevissima risatina soffocata. Non della
mamma. Di un uomo!? Di questo era certo. Si sentì svenire.
Avvertì un vuoto dentro e il cervello che sembrava girasse a
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mille. Non aveva neanche la coscienza di quello che stava pensando. Solo, che fare? Come comportarsi? Ignorare e andare
avanti a dormire? Impossibile!
Adesso non pensava più in termini razionali. Si rendeva conto
che, come altre volte gli era successo, si affidava all’istinto, a
ciò che gli veniva voglia di fare senza chiedersi se fosse giusto.
Aspettò qualche minuto in modo che la situazione si stabilizzasse. Si immaginò cosa poteva succedere e quanto tempo ci
voleva perché succedesse, o cominciasse a succedere, poi si
alzò dal letto, si mise la giacca del pigiama che non si era infilato prima (i pantaloni del pigiama li aveva già indosso), s’infilò
le ciabatte, tirò un respiro e uscì dalla sua camera cercando di
non far rumore (non voleva che qualcuno si mettesse in guardia). Silenziosamente camminò lungo il corridoio (era di piastrelle per cui non era difficile non fare rumore), arrivò davanti
alla camera della mamma, accese una luce che serviva a illuminare quell’angolo del corridoio, allungò il braccio, strinse la
maniglia della porta della mamma e l’aprì di botto.
Fra l’ accensione della luce, l’apertura della porta e la visione
di ciò che stava accadendo nella stanza passò mezzo secondo.
Fu come una fotografia col flash. Vide il letto della madre, che
era di traverso, con sopra due persone: una era un uomo, giovane, che anche lui conosceva, l’aveva già visto altre volte, un
tenore che spesso veniva a casa e si esercitava a cantare con
la nonna, era sopra, proprio sopra il corpo nudo della mamma
e si stava muovendo nel modo classico che in fondo anche lui,
il ragazzino, poteva dire di aver capito come si fa. Anche la
mamma si stava muovendo come assecondandolo, e il ragazzino la sentì anche mugolare per un quarto di secondo. Poi successe che l’ uomo si alzò di colpo, precipitandosi dietro un armadio come per nascondersi, ma nella penombra il bambino
fece in tempo a vedere che non era del tutto nudo, aveva addosso una maglia, e fra le gambe, nude, queste sì, che si muovevano, notò il famoso pisello, ma più che un pisello sembrava
una zucchina, una grossa zucchina pallida che l’uomo cercava
di trattenere fra le mani. La mamma invece si alzò di colpo,
cercò una vestaglia, bisbigliando “Pucci… che c’è?”.
Ma Pucci ormai aveva fatto quello che voleva fare. Secondo lui
quello che doveva fare. Si ritirò, chiuse la porta dicendo “Niente, scusa!” e corse in camera sua, ciabattando senza preoccuparsi del rumore che faceva. Se i nonni sentivano, era un problema della mamma. Si chiuse in camera, si buttò sul letto e
aspettò con le orecchie tese.
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Ci furono dei rumori chiaramente affrettati, la porta d’ingresso
si aprì, altri bisbiglii, e si rinchiuse quasi subito. Poi il rumore
dell’ascensore che stava scendendo. Evidentemente era rimasto al piano. Passò qualche minuto, poi la mamma entrò nella
camera del ragazzo, si sedette su una poltrona in silenzio. Lui,
anni dopo, non si ricordò bene quello che successe. O per lo
meno si ricordò di vaghe scuse della mamma. Certamente gli
rimase impresso che a un certo punto, e allora non sapeva
spiegarselo, la mamma si mise a piangere.
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Era fascista!
Ero a Milano, prima ancora che io facessi l’attore, facevo l’ Accademia di Brera, la classe di Scultura, ed ero a caccia di donne da spogliare per disegnarle e farne delle statue, e ricordo
esattamente l’immagine di me e di lei (non so come l’ho conosciuta) che camminavamo sul sagrato del duomo, e si rideva, si
andava a braccetto, si saltellava fra i piccioni… (ah ecco, era
una ballerina della Scala). Forse l’ho conosciuta tramite mia
madre, che a quell’epoca aveva una scuola di ballo, anzi, tre.
Ebbene, si giocava, si scherzava, ci si stava innamorando probabilmente. Quando a un certo punto (e qui non mi ricordo l’occasione) saltò fuori un discorso sul fascismo! Cioè forse c’erano
le elezioni, e c’erano dei manifesti del Movimento Sociale Italiano.
-
Tu per chi voti?
Io?
Per chi voti?
(Pensiero) Oddio, che faccio? Se non le va bene per chi voto?
Per chi voti?
(Pensiero) Cazzo, mi piace, è bella, ha un corpo perfetto e un
profilo… un profilo che…
Boh, non ciò ancora pensato.
Non ci hai ancora pensato!?
Non è così semplice, oggi! Come fai a…?
È molto semplice, invece.
Sarà semplice per te.
È semplice per tutte le persone intelligenti che ci tengono
all’Italia.
(Pensiero) Ma questa è fascista! (E senza accorgermi mollai
la stretta del suo braccio. E dissi) Sì, però…
Non c’è però, non ci sono esitazioni…
E tu cosa voti?
(Lentamente) Emme, esse, i!
Cazzo.
Cazzo, sì. A me sa che tu sei un pappamolla di centro se non
peggio.
Boh! (Ormai camminavamo separati di almeno mezzo metro)
Non sei politicizzato?
No, non molto. Mi interessa poco.
E di che ti interessi?
Di scultura. Io…
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- Non è detto che la scultura non sia utile al popolo.
- È possibile, ma io per ora penso alla scultura in sé.
- Non esiste scultura in sé. Conosco gente in municipio. Sei
bravo?
- Beh, ho vinto già un premio alla Triennale.
- Ti faccio fare una statua per il municipio.
- Cazzo.
- Ti faccio diventare famosissimo. E io poso per te, se vuoi.
- Cazzo.
- Adesso ti lascio qui, ho lezione di ballo. Non credo che tu voglia star li a vedermi fare tutte quelle moine..
- E quelle piroette! (Risatina ebete,il classico sorriso di chi
vuole essere ben accetto a tutti)
- Appunto. Ciao. Telefonami.
- Certo.
- Ci vediamo. Domani sono libera tutto il giorno.
- Stupendo.
- E parliamo su chi devi votare.
- Va bene. (Altra risatina più nervosa questa volta)
- Ciao.
Mi allungò la bocca per un bacio. Io allungai la mia e un bacio
glielo diedi, più lungo del solito, dal momento che non avrei
fatto altro con lei, né l’ avrei più vista. Di questo ero sicuro.
Cominciava a nascere una specie di repulsione. Evidentemente,
anche se ero giovane, ed effettivamente non molto esperto sulla società, c’era qualcosa nel sangue che si ribellava istintivamente. Forse fu allora che scoprii un mio indirizzo politico. Ci
allontanammo e io non mi girai nemmeno un istante per vederla mentre si allontanava verso la Scala. Però ricordo che immaginai le sue gambe, anzi le caviglie (ce le aveva bellissime,
cazzo) che si muovevano camminando per la Galleria come una
indossatrice. Non le telefonai più naturalmente. Né lei si fece
viva. Ero io che dovevo chiamarla (era proprio fascista). Meglio
così. Avrei potuto inquinare il mio sangue rivedendo quelle caviglie e probabilmente il resto!
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Ricordi e riflessioni 2
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Debiti.
È pazzesco, ma non riesco a stare dietro a questo gioco. Il gioco della vita, il meccanismo per cui a un certo punto sono nato,
sono cresciuto, ho studiato, ho avuto problemi, li ho risolti, non
li ho risolti, ho compensato con l’arte, ho creduto che tutto ormai sarebbe stato facile: vivere, per dio, e che ci vuole ormai?
E invece mi addormento la sera (con fatica) (con pillole) e mi
trovo in debito di qualcosa, con qualcuno, o con me stesso. In
pratica, mi sveglio al mattino con dei progetti, è ovvio, almeno
questo, so quello che devo fare durante la giornata, ho degli
appuntamenti con me, con gli altri, ho delle scadenze, delle attese, e mi ritrovo la sera che non ho fatto tutto, che non ho
capito niente o molto poco, e una parte di me che stimo, e da
cui mi aspetto molto, langue, sta morendo, sopravvivo. Maledetta la consapevolezza! È tutto qua, tutto dipende dal fatto
che so di vivere. Che ho mangiato anch’io la mela dell’albero
della conoscenza. Ah, ecco cos’è il peccato originale! La consapevolezza del bene e del male. Per questo ci si deve battezzare
(i cattolici). Perché tutti abbiamo questa tara. Il mio peccato
originale, la mia tara, la mia debolezza o insicurezza originale,
i miei sensi di colpa, l’eterno senso che c’è qualcuno che mi
guarda e a cui devo rispondere, anche se ormai sono uscito da
quel labirinto, è proprio questo: essere nato in un paese cattolico, anche se non lo sono più da anni. Preferisco questo comunque all’essere nato in Africa centrale o in India o in Iran.
Mi ritengo fortunato e mi ritengo fortunato di essere nato a Milano ed essere passato poi a Roma. Il resto dell’Italia, dove si
vive fra preti e camorra non lo conosco, fortunatamente. Ma mi
rendo conto di vivere in un paese cattolico, ne faccio parte. Anche se, in televisione, al telegiornale, appena appare il pàpa mi
alzo e me ne vado. Perché, oltre al pàpa, non sopporto tutta
quella folla che lo guarda con occhi estatici, come se si guardasse Dio! A cui non credo più da anni. Dopo aver passato un
bel periodo dai gesuiti. Dico per dire. Ma va bene così.
49
Curriculum vitae
Ma dopo i gesuiti che fare?
Bè, l’Università naturalmente.
E che scegliere? Dove andare?
Niente che mi attiri.
Niente che mi abbia affascinato.
Niente dentro di me che mi renda predisposto.
Sono stato abituato ad essere mantenuto.
Da mia madre. I soldi ce li ha.
No, qualcosa di artistico.
Scultura.
Per mia madre va tutto bene purché io sia soddisfatto.
Ma dove la trovate una madre così?
Ricordatevi che mio padre non ce l’ho.
Mai avuto.
E intanto i miei nonni sono morti.
Mio nonno di cuore.
Mia nonna pazza. Ricordate?
Bella famiglia.
In fondo sono stato bene.
Di famiglie ne ho conosciute di peggio.
Perché dico “in fondo”?
Potrei essere nato a Gaza, in Iran, in Siberia.
Va tutto bene.
Tenendo conto che il Caso ha voluto che nascessi in Italia.
Leonardo, Michelangelo, Raffaello,
Brunelleschi, Caravaggio, Antonello da Messina.
Poi c’è Firenze, Monteriggioni, le Dolomiti. Il lago di Braies.
Poi c’è Roma, dove abito, in un attico.
E vedo Monte Mario, il Gianìcolo, il Cupolone.
E mi lamento?
L’Uomo
È proprio
Incontentabile.
Allora Scultura, l’Attore, Scrittore…
Per mia madre va tutto bene. Mi mantiene.
Poi muore.
E allora sono cazzi!
Ma ce la faccio, troppo bravo, direi geniale.
Sono in Internet, pagine e pagine.
Su di me! Ma vi rendete conto?
www.cristianocensi.it
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Se pensate a Gaza.
O ai barconi che portano in Italia
I dannati del quarto mondo:
I rifiuti dello sviluppo sostenibile.
Poi il cuore mi fa cilecca: operazione.
Rinasco, rivivo, insegno teatro.
E mi viene voglia di donne. Scopare.
Ne ho quante ne voglio. Non ho che l’imbarazzo. Però
Non ne ho una mia, che mi stia al fianco,
Dorma in un’altra camera, ma so che c’è.
Non mi va di dormire con qualcuno nel mio letto!
Mi sveglio, mi sveglia, stento a dormire,
Parlo nel sonno.
Mi muovo. Scoreggio.
La valvola che mi hanno messo, di notte la si sente.
È un tapum tatapum che mi fa ricordare
Il tempo che passa
Bestiale, implacabile.
Ma poi mi lasciano.
Le donne.
Non voglio figli. Ecco, il problema.
La donna vuole un figlio, come minimo.
Se non due, tre, quattro…
Avere un asilo,
In casa,
Diventerei matto.
Così mi lasciano, e io resto solo.
E il tempo passa il tempo passa il tempo passa
Bestiale, implacabile.
Trovo una che mi dice (dolcemente)
Che mi reincarnerò. Questa è la legge
E io la ritroverò: noi non moriamo mai.
Ma io non le credo.
Credo che tutto sia momentaneo
Si nasce e si muore, non c’è la vita, c’è la morte.
C’è solo la morte che dètta legge.
Sui campi di battaglia, sulle strade, negli ospedali,
Negli ospizi, oppure fuori, sulle panchine
Nei parchi, negli angoli
delle città violente.
Nei paesi della camorra,
Sotto i treni,
Sotto i ponti,
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Sotto le siringhe.
Ieri una ragazza mi ha sorriso e teso la mano.
Perché? dico.
Grazie
per quello che ci hai detto.
Per quello che hai scritto, mi ha cambiato la vita.
Forse era meglio prima, dico.
No di certo, mi dice e se ne va
Lanciandomi un’ ultima occhiata.
Cazzo, ma non faccio che cambiare la vita degli altri?
Ma non ci credo non ci credo
E odio l’uomo, la donna,
Odio quest’umanità così imbecille.
Potremmo vivere molto meglio.
Non capiamo, non vediamo
E non sappiamo parlare, comunicare,
O comunichiamo solo stupidaggini,
E non facciamo che stupidaggini.
E abbiamo tutto.
Avremmo tutto.
Sarebbe bello.
Eppure anch’io mi lamento.
Come tutti.
Ci lamentiamo e non facciamo un cazzo!
E votiamo
delle teste di cazzo.
Ma questo è quello che passa il convento!
L’Uomo.
Che errore
della natura!
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Numeri.
A un certo punto, mentre sto scrivendo e meditando, mi scopro
(oh, consapevolezza!) a guardare per un po' l'orologio digitale
sopra il mio tavolo. E' un tipo di orologio in cui si vedono i numeri dei secondi che procedono man mano che li guardi: 37,
38, 39, 40.... Il numero delle ore segna le 7, quello dei minuti
33. In un angolino appare un PM, che significa "pomeriggio".
Per cui sono le 7 di sera, 33 minuti e... 45 secondi, 46, 47...
Chissà da quanti milioni di secondi io sto vivendo! Ho letto da
qualche parte che ogni secondo che passa vengono al mondo
un certo numero, che non ricordo, di bambini. Il globo si riempie spaventosamente. E ogni secondo che passa io mi avvicino
al momento in cui non mi sarà più possibile guardare un orologio digitale; anzi, nessun tipo di orologio. Ma la cosa non mi
preoccupa più di tanto, almeno per ora, almeno oggi. Anzi, mi
rendo conto di un leggero sorriso sulle mie labbra. Quante cazzate ho commesso e quante ne commetterò nei prossimi secondi, minuti, ore, mesi, anni (ammettendo che...).
Poi ho letto su un libro che fra qualche miliardo di anni (cinque,
sei) il sole si sarà esaurito, e quindi anche la terra sarà un pianeta morto. Ma allora a che pro tutto questo (amori, guerre)?
Be' (mi rispondo), abbiamo ancora qualche miliardo di anni per
capire, no?
I secondi non la smettono di camminare: 22, 23, 24... Anche il
numero dei minuti adesso è cambiato. Chissà quanti bambini in
più ci sono adesso a questo mondo! Io credo che il guaio sta
proprio nei numeri, nell'invenzione dei numeri, nell'aver scoperto che la realtà può essere "numerizzata". Perché se ogni
numero progressivo io lo collego al fatto che mi avvicina a
qualcosa o mi allontana da qualcosa, questi numeri diventano
uno stillicidio. Tutto dipende da questo qualcosa, cui mi sto avvicinando, o da cui mi sto allontanando: la morte, un amore,
uno scopo, una somma di denaro... Il che significa dolore, ansia, solitudine, angoscia, disperazione, felicità.
Se si potesse entrare in quest'ottica: che i numeri non appartengono a nessuna progressione, ma sono semplicemente dei
battiti del cuore dell'universo; delle pulsazioni dell' energia che
ci fa vivere!
Cioè: se io ascolto il battito di un pendolo, lo collego al tempo
che passa, e sto male. Ma se io ascolto il tic tac di un metronomo, che mi sta indicando un tempo musicale, semplicemente
mi rendo conto di un tic tac che mi arriva alle orecchie, e che
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non è collegato a nessun'altra associazione di idee che mi possa spaventare. Sto solo studiando la musica!
Se io ascolto il battito del mio cuore non lo collego al tempo
che passa, ma semplicemente al mio organismo che vive, che
si dà da fare per vivere. Il guaio nasce se io penso che ho a disposizione 'un certo numero' di battiti del cuore, e allora posso
star male. "Un certo numero"! Siamo sempre lì!
Adesso sono le 7, 40 minuti e 15 secondi, 16, 17... Chissà che
giorno è? Sembrava ieri che studiavo per la maturità. Ed ebbi
un orgasmo durante il compito di greco. Non certo per il piacere che mi procurava il tradurre, ma per la tensione di tradurre
nel tempo stabilito. Credo di essere stato l’unico nella storia
dell’essere umano.
Quanti anni sono passati? Quanti me ne restano? Cinque miliardi? Sei miliardi? E poi il sole si esaurirà. E la vita sulla terra
non sarà più possibile. Bè, ti resta ancora un bel po' di tempo
per le tue cazzate, o uomo!
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Un miracolo? un angelo?
Ero seduto in terrazza, su una sedia a sdraio, ad occhi chiusi, e
pensavo ai fatti miei. Come mai non sono ancora sposato, che
significa sposarsi, chi dovrebbe essere la persona giusta, perché non faccio che cambiare donne? E poi i fatti altrui: la natura violata, il mare inquinato, perché la Borsa crolla, perché
l’inflazione, perché la verdura e la frutta, dal produttore al consumatore, aumentano del mille per cento, perché il signore che
abita davanti a me, stesso piano, si sta facendo mettere delle
inferriate alle finestre, perché il 40 per cento dei ragazzi consuma cocaina (statistiche), perché piazza San Pietro, quando
parla il pàpa, è sempre affollata di gente illuminata e piangente, perché ritorna il nazismo, perché tutti questi stupri, perché
il bullismo, la malasanità, la camorra istituzionalizzata nonostante le retate, perché tanti perché?
Improvvisamente ho avvertito un profumo intensissimo di fiori.
Apro gli occhi per vedere come mai e da dove potesse venire
quel profumo inspiegabile: io non ho fiori profumati, ho solo
piante sempreverdi. Mi alzo, curioso, e controllo le terrazze vicine: ce ne sono solo due squallidissime, e le altre sono lontane, troppo lontane, decisamente. Guardo un po' fra le mie
piante se, per qualche ragione misteriosa, sia spuntato un fiore
profumato, ma non vedo niente di diverso dal solito. Do' un'occhiata per aria se per caso ci sia un angelo che si è perso! O
che è venuto a trovarmi (o è stato mandato!). Penso “che strana esperienza”! Mi viene voglia di scriverne.
E' durato qualche secondo, forse un minuto. Il profumo. Poi è
scomparso. O non lo sento più. Sento solo il solito puzzo di
benzina, che saliva dalla strada, ma l’odore di benzina è ancora
piacevole. C’è dell’ altro in giro per il mondo. Il monossido di
carbonio, il biossido di carbonio, insomma il carbonio e poi il
monossido di azoto, il biossido di azoto, insomma l’azoto. E poi
c’è una puzza di fogna dalle mie parti ogni tanto. Dicono che si
sente da noi quando cambia il vento, quando arriva il ponentino, il dolce, fresco ponentino, dolce parola, reminiscenza di
passate stagioni. Insomma sta arrivando e stagnando su di me,
su di noi, ora, il profumo della città. Il profumo di fiori di prima
è scomparso. O forse me ne sono dimenticato e ho cominciato
a pensare ad altro. Forse a ripensare alle domande di prima.
Come mai non sono ancora sposato, che significa sposarsi, chi
dovrebbe essere la persona giusta, perché non faccio che cambiare donne? O meglio: nel coagulo di pensieri che mi occupava
la mente, evidentemente, c’era qualcosa che mi voleva tormentare e non l’avevo risolto, o sciolto. Per cui sono stato subito
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riafferrato: perché la Borsa crolla, perché l’ inflazione, perché
la verdura e la frutta, dal produttore al consumatore, aumentano del mille per cento… Rientro in casa (dalla terrazza) e mi
metto al computer. Mi ricordo l’ intensità di quel profumo, ce
l’ho nella testa. Mi verrebbe voglia di tornare fuori, ma so già
che non tornerà più. È stato un miracolo.
Morale della favola: quando vivi qualche esperienza insolita e
gradevole per i sensi, non distrarti con pensieri correlati, ma
vìvila fino in fondo, se mai cerca di svilupparla, usa la fantasia,
il ricordo rimane in testa, ùsalo, non rifletterci, ma ùsalo, rivivi
il ricordo. E’ stato un miracolo, un angelo che si è perso, continua… Può darsi che non torni più. Soprattutto se consideri ogni
esperienza che ti capita come un’occasione per scrivere un
pezzo. Meglio l’ esperienza del profumo, e tutto quello che concerne, che queste righe che parlano di un’esperienza. Torniamo
fuori. Ma ora c’è solo il puzzo della città. Mi sta bene.
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57
Poesie 1
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Che ci faccio io qui?
Sono triste
(ma non me ne rendo conto)
davanti alla tv che trasmette
di tutto, ma
(soprattutto)
stupri e rapine e violenza
vera o simulata
o raccontata
che non si capisce
bene
la differenza
ed episodi di scandali politici
(gli stessi)
e la gente che si ribella e che uccide
e poi scappa e altra gente
che si difende
e che uccide e rapina
e altra gente che uccide chi scappa
e che uccide chi ha ucciso chi si difende
e poi gente che rapina
e poi gente che investe
e poi scappa
e poi gente che fa discorsi (gli stessi)
e ruba e si difende
e accusa e minaccia
e poi gente che si droga
e si uccide
e ogni tanto la pubblicità delle nuove
macchine
e pannolini
e biscotti
e poi gente che inquina
e vende droga
e accusa e si difende
e uccide e si uccide
e fa discorsi (sempre gli stessi)
o ruba e inquina
e intanto macchine e pannolini
e poi films sulla gente che si droga
e uccide
e fa discorsi (sempre gli stessi)
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e ruba
e inquina
e si difende
sono triste davanti alla tv
che trasmette delle cose che
a me
non
interessano
un cazzo
non so che stanno facendo e
non so di che cosa parlano e
non so perché lo fanno
e che ci faccio io qui?
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Pomeriggio d’estate.
Pomeriggio d’estate in campagna.
Lontane colline grigiazzurrine.
Una moto lanciata
alla massima velocità
lungo un viale
alberato
in campagna.
Il rumore profondo
potente
(quattro cilindri?)
penetrante.
Davanti tutto libero.
Stupendo.
Più avanti,
oltre una curva,
c'è un gatto
che attraversa la strada, flemmatico,
non ha fretta, ovviamente,
è solo un gatto.
E non guarda né a destra né a sinistra,
come fanno i bambini ben educati.
Ma un gatto non è ben educato.
Un gatto è un felino educato
da madre natura, se no
non sarebbe sopravvissuto fino ad oggi.
Però adesso c’è qualcosa che non va.
Per esempio, tanto per dire, la velocità.
Un gatto che attraversa una strada
è stato educato dalla natura
circa la flemma,
non riguardo alla velocità
dei mezzi umani.
Il motore si è evoluto troppo in fretta
e ormai è troppo tardi per un gatto.
Così, il nostro cammina placidamente
incontro al suo destino, e al destino
del nostro motociclista (naturalmente)
che lo vede solo all'ultimo momento.
Ahimè!
Così, un piccolo animale di
pochi centimetri (trenta?) che
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attraversa l'asfalto placidamente
può decidere il destino di una famiglia
o magari più famiglie
più il motociclista.
Che cerca naturalmente di evitarlo
così
frena e
scivola sull'asfalto
e va a sbattere contro un albero del viale.
Cioè in effetti
chi va a sbattere è solo l'uomo
in quanto la moto riesce
non so come
a evitare
l’albero e a proseguire
la sua corsa (incredibile!),
rimbalzando più volte sull'asfalto
su cui lascia una striscia come l'unghia
di un mostro preistorico finché
si arèna più avanti (placata)
con le ruote che girano che girano...
Dell'uomo c'è poco da fare o da dire.
E' lì,
fermo,
spezzato,
a causa di un gatto!
Be' anche di una moto
e di una curva,
e di una folle velocità (circa i duecento
hanno detto i periti.)
Mentre tutti gli altri uomini mangiavano,
e bevevano al fresco,
oppure (anche)
si stavano facendo una pennichella.
E del gatto?
Niente. Non si è saputo niente.
Nei documenti neppure si fa cenno.
Forse cinque minuti dopo era tranquillo
a leccarsi da qualche altra parte
all'ombra di un albero come tanti
in un'estate come tante
su questa terra.
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Battaglie!
Ci sono dei momenti in cui vorrei
fermarmi a prendere un po' di fiato.
Sedermi
un istante
soltanto.
Sentire il mio cuore che batte
irregolare
e cercare
se mai
di tranquillizzarlo
un po’.
Che io sia
già sul punto di
arrendermi?
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Qualcuno?
A volte guardo il cielo, le stelle e m'inabisso
nell’universo (o in quello che vedo)
e penso allo spazio e al tempo
e agli anni luce
e all' impossibilità
di andare oltre e di raggiungere qualcosa
(Qualcuno?)
che non sia di questi paraggi, cioè a dire
questo ‘piccolo’
angolo
di cielo
che è alla nostra portata. Ma il resto?
Del cosmo?
Le stelle? Le galassie
le nebulose gli ammassi? Anni luce
da me, da noi, a miliardi.
Io mi smarrisco e mi commuovo e mi domando
come dove quando e perché
(soprattutto)
tutto questo.
E penso ad Einstein (ovviamente).
Come ha potuto,
lui
e dove ha trovato
il tempo, la voglia, lo stìmolo e le idee?
E allora mi domando come e quando
riuscirò io a capirne qualcosa.
Per cui molto probabilmente morirò
senza sapere nulla, se non
in piccola parte,
una piccola parte che sarà entrata
dentro la mia mente
inconsciamente.
E inconsciamente io vivo tenendo conto
di queste leggi o di queste nozioni,
che ho imparato, o meglio,
assimilato.
Come quando si usa un computer,
senza sapere un cazzo di come funziona!
Ma il mondo non è mica un computer!
(O lo è?)
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E se anche si capisse qualcosa,
non si può,
obbiettivamente non si può
arrivare a Colui che l’ha formulato,
perché è ma-te-ma-ti-ca-men-te impossibile
arrivare
al Tutto.
Non è vero?
Salvo la Fede, ma quella chi ce l’ha?
E come fa a venirti con le cose che vedi e che senti?
Così
“fra questa immensità
s’annega il pensier mio”. Oh, questo sì.
Senza naturalmente concludere
che “il naufragar m'è dolce in questo mare”.
Anzi.
Io mi torturo mi dilanio
e m’ incazzo.
Dio mio, allontana da me questo calice!
Ma a Lui che gliene frega?
Ha altro da fare.
O niente!?
Tanto tutto è stato fatto.
E sta andando in malora.
Ma Lui non lo sapeva?
Che saremmo arrivati a questo punto!
Ma la cazzata maggiore (o peggiore)
Che trovo, mi ritrovo,
resta il fatto
che da qui non è più possibile uscire.
65
Animali
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Savana.
Sto guardando un documentario in cui un leone sta lottando
con un altro maschio per la leadership su un gruppo di leonesse nel Serengheti. I due si affrontano con una violenza che mi
lascia sbalordito. C'è una cattiveria (?), un'aggressività, una
voglia (sembrerebbe) di fare del male, di ferire, di uccidere.
“Raramente lo fanno”, dice una voce, “però a volte succede”,
dice sempre la voce, e intanto continuo ad essere ipnotizzato
da tanta ferocia.
Si può parlare, qui, di cattiveria? È giusto usare l'espressione
fare del male? No, certamente. La cattiveria e il concetto di
male sono solo "cosa nostra". Però mi sembra che i due ce la
mettano proprio tutta per... farsi del male. Se non altro per
spaventare l'avversario, facendogli capire chi è il più forte.
Possibile che per convincere (e per essere convinti) non ci sia
niente di meglio del dolore? Dolore fisico per gli animali. Dolore
anche intimo per l’essere umano. Possibile che per capire (veramente, nel profondo) occorre soffrire? Questo anche per gli
animali? Ma andiamo avanti. I due si aggrediscono con una
continuità e una tenacia che mi lasciano a bocca aperta. Qualche attimo di tregua, ogni tanto (pochi secondi), e poi via, l'uno sull'altro, a mordersi, artigliarsi, graffiarsi. E per che cosa?
Per il possesso di una leonessa, e per la leadership sopra un
branco. Insomma per avere l' opportunità di scopare quanto si
vuole, e più degli altri! Perché è di questo che si tratta, no? E
per trasmettere, così, alle generazioni future i propri geni. Insomma, per entrare nella Storia. È per questo che si fa l'amore? Noi tutti? Ed è per questo che si vuole essere dei protagonisti? Noi tutti?
Mi colpiscono gli occhi delle due bestie. Soprattutto gli occhi
del leone più anziano. Perché pare che uno dei due sia più anziano, e che sia il leader del branco, almeno fino a quel momento. Fino a che il leone più giovane non ha stabilito che era
arrivato il momento di intervenire per la nuova leadership. La
voce fuori campo mi indica chi sia il più anziano e chi il più giovane. Dal colore della criniera, dall'atteggiamento generale del
corpo. Mi fa pena la disperazione del più vecchio, e insieme la
sua ostinazione a voler restare... il re. Ma sembra lottare contro l'impossibile.
Sono anch'io con gli occhi sbarrati, e la bocca spalancata a seguire la lotta. E mi colpiscono gli occhi delle bestie: soprattutto
gli occhi del leone più anziano. C'è come una disperazione den-
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tro, come la coscienza, insomma la consapevolezza di... Un
momento: è possibile usare questa parola riguardo a un leone?
Eppure mi sembra che in questo caso si possa. C'è una specie
di coscienza della fine imminente, la coscienza di una minore
prestanza nei confronti dell'altro, il quale a sua volta sembra
intuire la propria superiorità. Uno è sempre più sicuro di sé, più
disinvolto. L’altro è più alterato, più ansioso.
Onestamente, devo dire, mi attira di più la bestia più anziana.
Lo guardo con più interesse. Mi fa pena. Mentre l’altro mi è più
antipatico (c’è qualcosa di personale?). Gli scontri avvengono
con un certo ritmo incessante. I due si avventano l'uno contro
l' altro cercando di farsi del male, non c'è dubbio, ma anche si
difendono, ci sanno fare, tutt’e due. Sembrerebbe che la forza
e l'astuzia e la determinazione ci siano in tutt'e due. Alla pari.
Eppure l'occhio di quello più anziano (che ormai riesco a individuare sempre meglio, anche perché la voce fuori campo me lo
indica continuamente), l'occhio è diverso, più stralunato. È come se gli occhi del leone più anziano facessero prevedere come
andrà a finire. Per il resto sembrerebbero bravi tutt'e due, e
tutt'e due degni di essere dei leader.
Alla fine c’è una sorpresa. Il più anziano, senza che io abbia
potuto rendermi conto di un momento di cedimento, o di defaillance, il più anziano si allontana di corsa, e l'altro lo insegue
fino a un certo punto, come se volesse essere sicuro di aver
chiarito la sua nuova posizione. La macchina da presa li inquadra tutt’e due per un po’. Miracoli della tecnologia o abilità dell'operatore. Finché il leone sconfitto (sconfitto?) esce di scena,
e sparisce dietro un dosso. Esce dal territorio in cui prima lui
era il re. Mi fa pena, mi fa molta pena. Ma io sono un uomo
emotivo e sentimentale. Del resto anche lui forse un tempo avrà fatto così nei confronti di qualche altro leone più debole e
anziano e ormai prossimo alla pensione.
Ma adesso comincia il momento terrificante per me, che mi introduce nei meandri di pensieri fastidiosi. E mi porta alla constatazione di meccanismi che appartengono alla natura, che si
potrebbero giudicare crudeli, ma che sono naturali; di meccanismi che appartengono al mondo animale. Quindi, in qualche
modo, anche noi esseri umani dobbiamo fare i conti con essi?
In qualche modo questi meccanismi sono dentro di noi? (La
cronaca lo confermerebbe) Perché il vincitore adesso prende
possesso del suo regno conquistato dopo la lotta, e si intuisce
che sta cercando qualcosa, o qualcuno. Si guarda attorno, caracolla, cerca, cerca. Ma non si tratta di una leonessa. Le leo-
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nesse sono nei paraggi. Lui le vede, ma sembrerebbe ignorarle.
Sta cercando qualcos’altro. Ed ecco che in un angolo ora si vedono tre piccoli leoncini, teneri dolcissimi, che sembrano dei
gattoni, con le faccine e gli occhioni e i baffoni e le zampone,
tenerissimi e dolcissimi come si vedono nelle fotografie pubblicitarie. Ed ecco che il leone li vede, si precipita su di loro e ne
addenta uno, lo fa a pezzi. Letteralmente. Lo addenta, lo butta
per aria, lo butta per terra, mette una zampa sopra il corpicino
ormai inerte e lo strappa, si vedono i pezzi buttati di qua e di
là.
Gli altri leoncini intanto sono scappati. Ma dove possono andare? La savana non offre molti nascondigli per loro, e poi non
hanno l’intelligenza di nascondersi. Semplicemente scappano.
Il leone li insegue, ne addenta un altro, lo sbrana in due secondi, lo fa a pezzi. Il terzo scappa, scappa, disperato, il leone
lo insegue, l' altro si volta, non ha scampo, non gli resta che
tentare di opporre... resistenza! Incredibile! Da una parte c'è il
leoncino, grande poco più di un gatto, dall'altra una massa di
violenza scatenata, grande come un toro. E si erge, il piccolino,
in un atteggiamento di ribellione a quest'atto così innaturale,
sembrerebbe, per noi umani, o almeno per me, sentimentale
del cazzo!
Si erge, il leoncino, sulle due zampe posteriori, e spalanca i
suoi arti anteriori, tira fuori gli unghielli, si vede la faccina che
si arriccia in un tentativo di espressione minacciosa, si sente
perfino una specie di soffio, che termina in miagolio lacerato,
che certamente non può incutere paura al nuovo re della savana. Il quale, ovviamente, non fa una piega, si butta in avanti,
addenta il leoncino, gli stritola la faccina, proprio così, spalanca
le fauci e le richiude con dentro la testolina del leoncino, poi lo
sbatte per aria, e lo butta per terra, ormai ridotto a uno straccio...
No, non uno straccio! Almeno ancora per qualche secondo c'è
un po' di vita in quel corpicino, perché dopo che il leone l'ha
buttato per terra, e per un attimo lo sta a considerare, si vede
ancora, nel corpicino, un guizzo, un guizzo della coda, e di una
zampina, come per un ultimo saluto alla savana, in cui ha avuto la ventura di passarci qualche giornata. Io resto immobile,
allibito, col magone. Con le lacrime agli occhi! Giuro!
Ma io sono un uomo emotivo e sentimentale. Che coglione! La
natura è questa. La vita è questa. Il leone non ha fatto altro
che seguire un suo istinto, che lo porta a compiere dei gesti, e
ad avere dei comportamenti, che gli permettano di trasmettere
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i suoi geni alla posterità. Se non faceva così, la leonessa (che
evidentemente gli piaceva! era amore?) avrebbe continuato ad
allattare i suoi piccoli chissà fino a quando, sarebbe andata in
estro chissà quando, e il leone chissà quando avrebbe avuto
l'opportunità di ingravidarla! E in un ambiente dove la vita è
così precaria e la sopravvivenza così difficile, è meglio accelerare le cose. No?
E infatti dopo qualche giorno, dice la voce (e le immagini), la
madre dei piccoli uccisi è già in calore e il leone può cominciare
a corteggiarla, a montarla, a soddisfare le sue voglie. Che sono
legate al suo bisogno istintivo di trasmettere i suoi geni, e solo
i suoi, e non quelli di altri. Chi se ne frega dei geni altrui! Sono
i geni del leone vittorioso che sono importanti e che valgono.
La vita dei leoni sulla terra dipende solo da lui.
Mi viene voglia di riprendere il concetto appena espresso, la
frase congegnata in un certo modo poco fa. Ho scritto dell’ ultimo guizzo della zampina dell’ ultimo leoncino sbranato, come
per un ultimo saluto alla savana, in cui ha avuto la ventura di
passarci qualche giornata. È questa la vita? Per un ateo come
me? Un certo periodo più o meno lungo, a seconda delle circostanze che il caso ti ha assegnato, in cui ognuno di noi ha la
ventura di passare qualche giorno, o qualche anno, su questa
terra? I pezzi di leoncini sparsi qua e la sul terreno mi davano
l’idea che per loro era fatta. Non c’erano più. Ci sono stati,
hanno goduto delle carezze della mamma, si sono sgranchiti le
gambe e le zampine per qualche giorno. Hanno visto la savana,
le nuvole, gli alberi, gli altri animali, e basta. Stop. Finito. Non
credo proprio che gli sia rimasta la coscienza di quanto è successo. Per noi esseri umani dovrebbe essere diverso? Perché?
Per via di qualche etto in più di materia grigia che ci ha permesso di arrivare alla consapevolezza? E solo per questo qualcuno sostiene che questa consapevolezza resta anche dopo? O
può restare addirittura per l’eternità? Speriamo proprio di no.
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Bobo.
A un certo punto ho visto Bobo che si era bloccato, immobile,
in un angolo alla fine del prato, prima del dirupo, a fissare
qualcosa fra l'erba che vedeva solo lui. Non l'avevo mai visto
così fermo. Sembrava imbalsamato, con una zampa anteriore
leggermente sollevata dal suolo. Sembrava addirittura che non
respirasse. Con gli occhi fissi, senza battere le palpebre, a
scrutare il suolo davanti a lui. Cosa fissasse non lo potevo neppure immaginare, perché non c'era niente, non vedevo niente
che potesse interessarlo. A un certo punto lo scatto, velocissimo, col muso in avanti, il naso che fiutava freneticamente e
rumorosamente, le zampe anteriori che grattavano la terra
spargendo piccole zolle di qua e di là, finché ha sollevato il muso con in bocca qualcosa che si dibatteva, un corpicino di sei,
sette centimetri che si contorceva per liberarsi. Poi l'ha lasciato
cadere come se quei contorcimenti in bocca gli dessero fastidio. Il corpicino liberato tentò uno scatto per fuggire, ma il muso del cane l'aveva subito ripreso, addentandolo un'altra volta.
E il corpicino questa volta si era bloccato. Immobile, fra i denti.
Bobo l'ha lasciato cadere di nuovo. Intanto io mi ero avvicinato. Era una talpina, una piccola talpa di sei sette centimetri,
non di più. Con un musino da topo e le due zampine anteriori
munite di unghioni. Restò ferma per qualche secondo, così come Bobo era immobile a guardarla. Poi tentò di nuovo uno
scatto per fuggire verso un buco li vicino, ma Bobo, con una
velocità mai vista in lui, le fu sopra, addentandola ancora.
Questa volta muovendo le mascelle. Masticando. È stato allora
che ho sentito un crack crack, come quando si mangia una patatina fritta, crack, crack. E qui Bobo non sapeva più che fare.
È rimasto col topino in bocca per qualche secondo. Poi l'ha risputato per terra. Ci si aspettava, io e Bobo, che scattasse di
nuovo. Era proprio il muoversi del corpicino che lo eccitava. La
talpina dette un ultimo segnale di vita con una delle zampine
che si mosse quasi impercettibilmente. E Bobo di nuovo la prese in bocca. Un altro crack. Questa volta più evidente. E ancora
la risputò nell'erba. Io la guardavo, guardavo quel corpicino,
impotente. Impotente anch'io. Come se assistessi a qualcosa di
naturale in cui non potevo, non dovevo intervenire. Qualche
secondo in cui speravo in un altro scatto verso il suo buco e la
salvezza. Ma quei crack erano stati troppo significativi. La talpina ora era immobile, nell'erba, a pancina in su, con le zampine per aria, ferme. E Bobo che la guardava senza sapere che
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fare. Io pensavo che la mangiasse, la stritolasse, la masticasse. Forse un gatto l'avrebbe fatto. Ma Bobo no. La guardò per
qualche secondo, la fiutò, le dette una smusata per muoverla.
E qui, finalmente, si accorse di me. Mi lanciò uno sguardo privo
di interesse e se ne andò, trotterellando per il prato, in cerca di
altri intrattenimenti. Non era sua intenzione mangiarla. Ma allora perché ucciderla? Aveva cibo migliore, evidentemente, più
appetibile, ben confezionato, conservato, colorato a dovere. Mi
sono avvicinato alla talpina, l'ho toccata con la punta della
scarpa. Niente, immobile, morta. Allora sono andato nel capanno degli attrezzi, ho preso una vanga, sono tornato dove c'era
il corpicino, l'ho sollevato con la punta dell'attrezzo, l'ho portato oltre il prato dove cominciava il dirupo, e l'ho buttato giù,
nella macchia mediterranea. E sono cominciati i pensieri astratti, a vorticare, intrecciarsi nella mente: la natura, l'istinto, la
morte, i cani amici dell' uomo, i gatti, di cui sono amico, i topi,
le talpe, la fatica di costruirsi le tane, la fatica di venire al
mondo (era un cucciolo senza dubbio), le prede, i predatori, i
crack, crack, crack... la vita.
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Gatti.
Avevo cinque gatti. Io amo i gatti. Erano due cucciolate nate
nella stessa notte da due gatte diverse (of course). Tutto è
successo nella casa di Silvana, che aveva un giardino chiuso in
modo molto poco severo, e quindi aperto a chiunque sapesse
fare un saltino oltre il muro di cinta. Per le gatte rifugiarsi nel
giardino e quindi nella casa di Silvana era una sciocchezza. Così com’è stato partorirvi. All’inizio erano otto. Poi uno è morto
subito. Poi è successo che Silvana, danzatrice, un’allieva di mia
madre, dovette partire per una tournée, e le rincresceva lasciare i gattini all’aperto, e soprattutto in copertura di antibiotici,
tutti! Così andai a prenderli e li misi in casa mia, occupandomi
di loro in tutti i sensi. Quando Silvana tornò glieli riportai, ma
le madri non ne vollero sapere. E salvo due, che comunque
sparirono subito nel quartiere, del resto molto ben disposto
verso i gatti, gli altri cinque li riportai indietro io e li rimisi da
me. E ci stettero vent’anni, vent’anni bellissimi. Per me e credo
anche per loro. Salvo uno, Dash, che se ne andò prima. Gli altri
si chiamavano: Guerrino, Kira, Bostik e Fogna. Il perché di
questi nomi così particolari, e il significato, lo dirò dopo. Per
concludere questo paragrafo, dirò anche che Silvana era una
mia compagna con cui ho vissuto sei anni. Vissuto insieme, uno
dei miei rapporti più lunghi. Dopo Isabella, che è venuta prima
di Silvana. Non so perché nessuno dei due ha funzionato oltre il
fatidico settimo anno. Non so se è colpa mia, o colpa loro, o
colpa del rapporto uomo-donna che dopo un po’ si usura, comunque. Mah! Sono perplesso. Perché dopo di loro ho avuto altre relazioni, belle, sincere. Cioè, salvo una volta che ho fatto
una cazzata, per il resto della mia vita sentimentale ho cercato
la verità, la costruzione, la comunicazione, lo stare insieme anche in silenzio, standoci bene. Ma non ho mai superato i due,
tre anni. Sono perplesso.
Ma torniamo ai miei gatti. È a loro che dedico questo capitoletto. Ho vissuto con loro una ventina d’anni. Sì. Sono morti tutti
di vecchiaia. Salvo Dash, di tumore. Guerrino, è stato il primo
degli ultimi quattro. Il primo dei ventenni. Ha cominciato col rifiutare il cibo, improvvisamente. Non mangiava più, deperiva a
vista d’occhio. Voleva morire? Era stanco di vivere? Aveva capito che era arrivata la fine? “È possibile” disse il medico. “In
questo caso ci sono dei problemi perché la denutrizione porta a
dei processi interni degenerativi che creano delle complicazioni
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ulteriori e irreversibili”. Risultato? Soppressione. Consigliata
dal medico… per non farlo soffrire troppo.
E ora parliamo di Kira, una gatta. (Ma insomma qui non faccio
che parlare di gatti? Sì, 1) perché li adoro; 2) perché frequentandoli (per 20 anni) hanno contribuito alla formazione del mio
carattere; 3) perché arrivati a vent’anni anni (gli ultimi quattro) mi sono morti tutti nel giro di qualche mese e queste “partenze” hanno determinato una svolta nella mia vita, un’altra
(fino ad ora).
Mi sento in dovere di riportare qui di seguito uno… (come chiamarlo?) uno sfogo, che ho scritto qualche giorno dopo la sua
“andata via”. Mi sono sentito in dovere di dedicare a Kira queste pagine, che ora voglio riportare qui perché sento che appartengono strettamente alla mia vita. E non voglio che restino
sparse dentro un computer senza una collocazione che merita.
Almeno appartengono a un libro, quale che sia l’ evoluzione di
questo libro. La stessa cosa successe con Marika, che voleva
che io le scrivessi un racconto ispirato a lei. Le ho detto “aspetta, lo inserisco in un libro.” Così almeno non si perde per strada.
74
Kira
E ora parliamo della morte di un gatto. Anzi, di una gatta. O
meglio, delle sofferenze di una gatta, anche se da lei probabilmente non avvertite coscientemente, ma certamente vissute
come fastidi, che cominciavano ad ostacolare i suoi giorni e le
notti. In quanto la vita di quindici giorni prima era molto meglio certamente. Se n’era resa conto? Immagino di no. Immagino che quindici giorni prima, quando stava ancora bene, non
si rendesse conto di stare bene. Insomma non si rendesse conto di… essere. Solo da quando cominciarono questi disturbi,
probabilmente cominciò a chiedersi “ma che mi sta succedendo?”. E quindi penso che si aprissero dei varchi di consapevolezza. Credo. Mi sembrava di vederlo nei suoi occhi che mi
guardavano, come per chiedermi: “la vita è questa?” Riflessione: allora non ti rendi conto di vivere, di esistere, se non attraverso dei problemi di vita e di esistenza? Bisogna passare
attraverso il disagio di vivere per avere la coscienza di vivere?
Non è possibile avere la coscienza di vivere attraverso il piacere di vivere?
Lo sapevo, quando ho cominciato a scrivere le prime righe di
queste riflessioni sulla morte di una gatta, che la mia mente si
sarebbe accesa in modo imprevedibile, e i pensieri avrebbero
cominciato a defluire in infiniti rigagnoli. Ho sempre contato su
queste capacità della mente. Capacità non tanto del pensiero
astratto, ma della mente che sta scrivendo. Importanza dello
scrivere! Non ci si immagina quante cose vengono fuori dalla
nostra mente quando ci impegniamo nella scrittura. È come se
esplorassimo zone “nostre” ma ancora sconosciute. Il peso specifico della mia mente non sta tanto in quello che penso, ma in
quello che riesco a scrivere.
Dunque: tutto è cominciato quindici giorni fa quando mi sono
reso conto di due problemi riguardanti la gatta. 1) Cosa stranissima per lei: cominciava a rifiutare il cibo. Mentre gli altri
due si buttavano a capofitto sulle loro porzioni, dopo averle per
altro pretese ad alta voce, la gatta di cui sto parlando (si chiama Kira) (si chiamava Kira) (si chiama Kira), annusava il piattino e poi si allontanava. Dopo avermi guardato in faccia. Cosa
voleva farmi capire? Voleva farmi capire? O siamo noi che diamo dei significati a ogni gesto, a ogni sguardo di un animale
che conquista la nostra attenzione, ma soprattutto i nostri sentimenti? 2) Ho cominciato a osservarla con maggiore attenzione. E mi sembrava di notare che le sue gambe posteriori
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non si muovessero come al solito. Era come se fossero un po’
rattrappite. Però si muoveva. Come mi vedeva cercava di avvicinarsi a me con questa camminata innaturale. Poi la cosa peggiorò. E anche la fame sembrava non ritornare. Siccome sei
mesi prima mi morì un altro gatto dopo un episodio quasi analogo, decisi di portare Kira da un mio veterinario di fiducia.
“Dottore, ci risiamo? - glichiesi - È la vecchiaia che si ripropone
come per l’altro gatto?”
Quanti pensieri, quante occasioni di meditazione su quella morte così emblematica. La morte di Guerrino dico. Si era chiaramente lasciato morire, stanco di vivere, pur avendo vissuto una
vita piacevole, credo. Non gli era mancato niente. Forse i coglioni? Che decisi di fargli togliere quando cominciava l’età dello sviluppo? (Come per gli altri che feci sterilizzare!) Quanti
pensieri in merito, quante riflessioni sulla procreazione, quante
analogie con la mia vita e sull’idea che ho sempre avuto della
rottura di coglioni che comportano i coglioni! Pur se ci permettono di provare qualche istante di piacere. Ma che rottura di
coglioni! Come àlterano la concezione del mondo, degli altri,
l’importanza delle cose.
- Dottore, ci risiamo? Si sta ripresentando la detestata soglia?
- E’ possibile, comunque controlliamo, facciamo delle analisi.
Ma vediamo se l’ appetito è proprio sparito.
E aprì una scatoletta per lui miracolosa che avrebbe risvegliato
l’appetito di un gatto già sepolto sotto terra. E Kira si buttò
sulla scatoletta mangiando a quattro palmenti.
- Cazzo! – pensai - è proprio bravo!
- L’appetito c’è! - disse il dottore. - Vediamo un po’ in questi
giorni. Gli dia questo cibo. E mi sappia dire che succede.
Che successe alla mia gatta? Che il cibo appetitoso della scatoletta miracolosa lo vomitò qualche ora dopo. Allora la chiusi in
bagno per la notte, fornita di tutto punto, acqua, cassetta con
la sabbietta, una copertina a livello terra perché si accucciasse
con facilità (non riusciva più a saltare), facendo in modo che gli
altri gatti non potessero disturbarla. Il mattino successivo trovai Kira circondata da vomiti vari, cacatine, pisciatine, e la cassetta integra perché non riusciva a saltarci dentro. Ma comunque ancora viva! E osservandola camminare notai che era paralizzata la parte posteriore. Se la trascinava dietro come un
pacco. Le gambe di dietro non si muovevano più. Eppure cercava di venirmi incontro e… la cosa che mi colpì e mi commosse e mi procurò un groppo in gola che sento sta tornando anche adesso, cominciò a fare le fusa… Era ancora due metri lon-
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tana da me, arrancava per avvicinarsi a me e già sentivo il suo
frrr frrr frrr potente inequivocabile, espressivo.
Continuò con le fusa durante tutto il viaggio dentro la sua gabbietta. Si guardava attorno, curiosa come sempre, guardava il
traffico, sentiva i rumori, cercava di capirne la provenienza. Io
le parlavo dolcemente, lei mi guardava, coi suoi occhioni, sempre stupiti, bellissimi, e sempre, in continuazione non la smetteva col suo frrr frrr frrr.
- Sta paralizzandosi in tutta la parte posteriore, compresi gli
organi interni: gli intestini, la vescica. Non riesce più a controllarli - disse lo specialista.
- E allora? - gli chiesi io.
Il dottore le fece un’iniezione di anestetico. Lei si addormentò
subito. Il dottore la portò nel retro. Poi tornò con un’ espressione molto molto giusta per la situazione. Mi resi conto di
quanto fosse esperto in questi casi. Io me ne andai con un magone profondo. Lasciai la gabbietta con Kira addormentata, ci
avrebbe pensato lui a tutto. Misi in moto la macchina ed entrai
nel traffico stupido, degenerato di un pomeriggio banalissimo.
Riflettendo.
Per esempio. Sapete cosa mi manca soprattutto adesso e cosa
mi risveglia pensieri paralleli? Mi manca il suo frrr frrr frrr, che
sentivo, comunque, anche quando si trascinava cercando di
venire verso di me, mi manca il suo frrr frrr che le usciva in
qualsiasi momento, quando si sentiva a suo agio o stava per
mangiare, o qualcuno l’accarezzava, non solo io, chiunque.
Perché in fondo ci stava bene su questa terra, le andava bene
la sua vita che comunque stava procedendo e che io decisi di
concludere con un’ iniezione. Anzi, due. Una dose di anestetico
e una dose letale. Come in America, ai condannati a morte.
Almeno fino a un certo punto della storia degli Stati Uniti.
Non sento la responsabilità dell’uccisione di un animale, del resto mangio anche bistecche, costate, fegato, cosce di pollo, pesci… anche se con parsimonia. Non sento il peso di una coscienza che si sente in colpa. Sento però, fortemente, profondamente, dolorosamente la responsabilità di aver bloccato, distrutto, annientato, soppresso, oltre a una vita che per altro
non sarebbe più stata come prima, non sarebbe più stata felice, accudita, coccolata, ma piena di difficoltà e certamente di
malesseri, se non di dolori (questo lo dico per giustificarmi?),
penso di aver bloccato per sempre, tolto da questo mondo quel
frrr frrr frrr, che era solo suo, che era una manifestazione di
benessere, era una comunicazione non voglio dire d’amore, ma
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forse voglio dire proprio questo: una comunicazione d’ amore
che solo un essere che non sa (non è cosciente) di cosa sia
l’ amore è in grado di dare. E l’idea che una creatura viva che
sa esprimere dei sentimenti, se non altro di benessere, non
parlo d’amore (oh quanto vorrei poter dire che è di questo che
si tratta!), l’idea di essere stato costretto da una mia decisione
che riteneva di compiere un gesto di affetto, o di dignità (“non
facciamola morire in una maniera così indegna”, dissi al dottore, che del resto era d’accordo con me).
Mi manca questo frrr frrr, perché ho bruciato, annichilito questo frrr frrr in un momento in cui sento che questo mondo avrebbe tanto bisogno di un tipo di comunicazioni del genere.
Non sto parlando di amore. Sto parlando di comunicazione. Addio piccola Kira! Il tuo frrr frrr, unico nella mia vita e in questo
mondo, non c’è più.
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Gatti 2.
Allora dopo la partenza di Kira mi erano rimasti due gatti: Bostik e Fogna. Un maschio e una femmina. Tutt’e due sui vent’
anni. Per un gatto vent’ anni è una specie di record. Equivalgono a centodieci, centovent’anni di un essere umano. E difatti
nel giro di tre mesi se ne sono andati tutt’e due. Solito modo:
completo rifiuto del cibo, disturbi della deambulazione, tendenza a dormire sempre, ogni tanto degli spasmi evidentemente
nervosi, come se fossero percorsi da una sorta di corrente, fino
a che… uno l’ho trovato stecchito quando sono tornato a casa
dopo una lezione… e l’altra, una mattina (a distanza di quindici
giorni), sotto un tavolo. È qui che mi sono rimaste nella memoria delle immagini di cui devo parlare. Immagini che non solo
mi tornano frequentemente nella mente, ma che, non so per
quale desiderio masochistico, a volte cerco di richiamare io
stesso, coscientemente: mi fermo, mi siedo, le cerco e mi
commuovo. Sempre. Immagini che appartengono a tutta quella
congerie di situazioni, sentimenti, riflessioni che hanno contribuito alla svolta di cui parlavo. Per cui sono cambiato; non sono più come prima.
In fondo sono “esseri” che per me sono stati importanti, anche
per quello che mi hanno dato andandosene. Allora se dovessi
dire cosa mi ha colpito di più circa la loro dipartita, cosa mi è
rimasto di più nella memoria non sono stati dei ricordi sentimentali… (a parte il frrrr frrrr di Kira, indimenticabile, lo porterò con me fino alla mia morte, credo, spero) è stata la consapevolezza potente della rigidità di un corpo morto, di un corpo
quando è morto da qualche ora. E la posizione del corpo, innaturale, come se prima dell’ultimo respiro ci fosse stato un tremito, un’altra di quelle scosse nervose, che non ha dato loro il
tempo di riposizionarsi in maniera più naturale. E poi gli occhi,
semiaperti, ma velati, senza più nessun brillio, come due bottoni di vetro. (Allora è così che si muore? Non come al cinema
che ti fanno vedere un volto che a poco a poco si rilassa fino a
che lo sguardo si fissa nel vuoto.) E poi il fatto di dover prendere i miei gatti con le mani guantate, con dei guanti di gomma, tipo usa e getta, mentre prima li accarezzavo amorevolmente, e avvertire la sensazione che non stavo sollevando un
animale, ma un pezzo di legno con appiccicata/incollata una
pelliccia finta. Tutto questo perché li avevo trovati dopo qualche ora. Se li avessi scoperti prima, certamente sarebbero stati
più morbidi… E poi il fatto di doverli sistemare (ormai gli ultimi
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due li accomuno, ma in effetti gli ultimi due mi sono morti con
una settimana di differenza l’uno dall’ altra) il fatto di doverli
poi sistemare in scatole di cartone, trovate lipperlì, tipo scatole
per le scarpe, che avevo messo da parte per ogni evenienza, il
fatto di doverli sistemare in queste scatole, con una certa fatica per farli entrare, perché ormai erano rigidi, stecchiti, per cui
ho dovuto spingerli dentro, sia l’uno che l’ altra, introdurli con
un certo sforzo, adattarli alla scatola, piegare gli arti soprattutto, con la sensazione di fargli del male, quasi si rompessero. E
poi portarli dal veterinario che si sarebbe occupato dell’ incenerimento. E viaggiare in macchina per un po’ con queste scatole
(tutte le volte), sapendo che nel loro interno c’erano dei corpi
che ho seguito per anni, nei giochi, nelle malattie, nella ricerca
del cibo che preferivano, nei disastri che combinavano, nel patèma che provavo (stringimento alla bocca dello stomaco, cuore che batteva) quando scoprivo uno di loro, in bilico su un
cornicione, all’ottavo piano, che guardava giù per strada come
se niente fosse, che avevo paura di chiamarli, perché magari
nel girarsi per venire da me, scivolavano sul cornicione e finivano di sotto… Questo mi ha reso sensibile a tante cose, e mi
fa pensare “ma perché tutto questo?”. Perché tutto questo per
dei gatti? Perché per la morte di due gatti? Perché la morte?
(Ma forse non mi spiego bene). Cioè, domanda: la morte di un
gatto, o di più gatti, può creare un dolore, o una sospensione
della coscienza al punto da pensare a uno sconvolgimento che
può cambiare la vita?... Ecco. Sì. È questo. E allora?
“Ma dico (voce di un benpensante) allora con la morte di una
persona, di un parente, di un figlio che sarebbe successo?” Rispondo: è possibile che un fatto del genere mi sconvolga, non
lo metto in dubbio.
Ma: 1) Non ho figli. 2) Per ora nella mia vita e nella mia famiglia non mi è capitato di assistere a una cosa del genere e di
rimanere sconvolto. 3) Mio nonno è morto di cuore quand’ era
al mare, in vacanza; ricordo il viaggio di notte per andare da
lui; ricordo l’ impressione del suo corpo rigido sul letto e della
faccia senza espressione. Ricordo che per qualche giorno rimasi
colpito dal primo contatto con la morte, ma non mi ricordo che
cosa provai, ero un ragazzo. 4) Mia nonna morì pazza; invecchiando era diventata matta, veramente, ma una matta simpatica, faceva ridere tutti; mia madre la ricoverò in case di cura
da cui scappava regolarmente, andando a finire in pensioni varie in cui mia madre era costretta ad andare per recuperarla.
Quando morì io facevo già l’ attore ed ero in tournée. Per mia
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madre credo che fu una liberazione. Io ebbi solo un rimpianto…
di quando era più giovane e suonava il piano straordinariamente bene. Non ebbi il senso del distacco. 5) Mia madre morì di
Alzheimer. Dovetti ricoverarla io in una casa di cura da dove
non scappò mai, fortunatamente, perché non si rendeva conto
nemmeno di vivere, e non sapeva dov’era, dove si trovava!
Quando morì, io stavo affrontando proprio in quei giorni l’ esperienza dell’ anestesia totale: l’ operazione durò sette ore,
perché erano avvenute delle complicazioni, e quindi a mia madre ci pensarono quelli della casa di cura. 6) Mio padre non lo
conobbi. Né ebbi mai la smania di conoscerlo. Anche se a volte
mia madre tentò di affrontare l’argomento. Io glissavo. Parlavo
subito d’altro. Comportamento interessante, anche se per me,
probabilmente, fu causa di alcune stranezze psicologiche, e di
qualche problema di vita, di cui è possibile che parli più tardi.
7) Amo i gatti. Adoro i gatti. Ho sempre avuto gatti. Come vedo un gatto da qualche parte, per strada, in una casa, devo
guardarlo in faccia, per un po’. Se c’è la reincarnazione è possibile che io sia stato un gatto.
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Tesoro, come stai?
Adesso (non so perché) mi torna in mente (dio, questa mente!)
un’altra immagine di Fogna (l’ultimo gatto) prima che io uscissi
per andare a fare una lezione dalla quale sarei tornato che lui
non c’era più, ovvero c’era, ma in un’altra dimensione. Perché
metto qui questo ricordo? Potevo metterlo prima! Ma mi va di
metterlo qui, perché mi è venuto in mente adesso, e voglio seguire il processo irrazionale ed emozionale e imprevedibile che
costituisce l’ossatura di queste pagine.
Prima di uscire ho voluto vedere come stava Fogna (poi vi dirò
il perché gli ho dato questo nome; vi dirò il perché dei nomi di
tutti i miei gatti) e così sono andato a cercarlo e l’ho trovato
immobile, in un angolo della terrazza, tutto stirato, allungato,
col muso in avanti, appoggiato alle zampe anteriori, tanto che
ho pensato “ecco, è morto!”. E ho guardato la pancia se si
muoveva, e mi sembrava che non si muovesse più, però, a un
certo punto, come se si fosse reso conto che ero lì che lo stavo
guardando, lui ha girato per un attimo il muso verso di me, pochi millimetri, lanciandomi un’ occhiata (che non gli ho mai visto) come per dirmi “che c’è? che cazzo vuoi? vattene pure dove devi andare che tanto qui adesso sono cazzi miei!” Giuro,
l’idea che mi ha dato era questa. E così l’ho lasciato solo.
Quando sono tornato tre ore dopo era stecchito. Cioè di cartone. Ma non dimenticherò mai quell’ occhiata, per tutta la vita
che mi resta.
Comunque, qui ero solo triste. Non mi facevo domande. È morto nella regola. Tutt’al più, se proprio ho qualcosa da obbiettare: si nasce, si vive, si muore. E allora? Pazienza per un gatto
(un gatto che arriva a vent’anni). È servito a rendere più divertente la mia vita. Ma io? Milioni di persone che, chiaramente,
sono venute a questo mondo solo per faticare ed arrivare a sera e a mettere al mondo altri milioni di creature analoghe? Forse è per questo che sono stato lasciato da tante donne che volevano un figlio da me! L’hanno capito subito. Eppure ho avuto
una vita felice, piena, interessante. Ma nessuno mi convincerà
a scommettere sulla mia prole. Ho visto e vedo tanta miseria in
giro, tanta fatica, tante umiliazioni, tanta disperazione, tanta
imbecillità, tanta criminalità. Si può benissimo fare a meno di
sperimentare o rischiare. Se non si sa quello che si perde, non
si sa neppure quello che si potrebbe vincere. Ma chi se ne frega!
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Gnu. E altro.
Per esempio recentemente ho visto un documentario sugli gnu.
Che vivono in gruppo, a migliaia, a milioni. E le femmine partoriscono tutte nello stesso tempo: decine, centinaia di migliaia
di femmine gnu che si accovacciano sull’erba della savana e
con una semplicità sbalorditiva, in pochi minuti partoriscono. E
questi pupazzetti di neonati che saltellano, inciampano, cascano, si rialzano, tentano di correre dietro alla madre che intanto
si è già alzata e comincia ad allontanarsi dal luogo del parto
perché tutt’attorno ci sono leoni, leonesse, giaguari, iene, leopardi, che sono in attesa proprio di questo momento (dev’ essere tenero un piccolo gnu, è tutto appetibile, si sgranocchiano
anche le ossa, gli ossicini!). E da questo momento comincia la
carneficina: tutti i predatori cui accennavo cominciano la scelta, l’assalto, la difesa del boccone da altri predatori, che se ne
fregano delle madri, a loro interessano i piccoli neonati. Alle
madri ci pensano i coccodrilli! Dunque, molti vengono mangiati,
molti si salvano fra le gambe della madre che scappa nel gruppo. O Fortuna! E io mi domandavo: ma perché quelli vengono
mangiati e quegli altri riescono a scappare e a sopravvivere?
Ecco, perché! Per ricominciare il ciclo? E’ questo il grande meccanismo del Caso? Ma questo succede anche fra noi esseri umani, no!?
Ricordo quel pilota in Germania che stava facendo delle esercitazioni col suo aereo; a un certo punto l’aereo perde quota,
non ce la fa a risalire, il pilota si getta col paracadute e l’aereo
si abbatte su una cascina, in mezzo alla campagna. Attorno c’è
solo campagna, per chilometri e chilometri, nessuna altra abitazione per chilometri e chilometri e l’aereo finisce proprio su
quella cascina e la distrugge. Dentro c’è solo un figlio dei contadini che sta studiando, sta studiando perché non vuol fare
più il contadino, mentre tutta la famiglia è in campagna a lavorare. Così il ragazzo muore dentro la cascina distrutta. Ecco:
perché? Sempre il Caso? Ricordo perfino la faccia della giornalista televisiva che riferiva l’episodio. Ricordo anche l’ immagine di un grosso albero a Roma che durante un temporale si è
spezzato ed è caduto su un bambino che passava di lì, in quel
preciso momento, e l’ha ucciso. Il Caso! Dunque noi dipendiamo solo da quello? È una specie di roulette. O da un Dio che
premedita tutto questo? No, non ci credo. E allora?
Poi è di questi giorni un altro incidente aereo: un Cessna, ricordo il nome, che trasportava un medico di Roma che era an-
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dato a prendere il fegato di un giovane morto in un incidente a
Messina. Questo fegato doveva servire per un trapianto a un
moribondo che così se la sarebbe cavata. Ebbene il Cessna ebbe un problema, esplose in volo, e tutto andò in vacca! Ecco,
perché?
Era un’azione di grande umanità e grande bontà. Come mai c’è
stato qualcosa che l’ha mandato in vacca? E le centinaia di migliaia di morti per lo Tzunami? E gli stupri e gli assassini in Bosnia? E le fiamme che distruggono una zona florida dell’ Australia con centinaia di morti? E le migliaia di vittime in Africa
centrale a causa delle guerre etniche? Guerre che non finiscono
mai! Ma allora non si tratta di chiederci se c’è un Dio, ma piuttosto se c’è un Diavolo! Che si diverte con questi episodi. È per
questo che il Pàpa dalla sua finestra continua a dire “preghiamo per i malati, per i sofferenti, per le vittime!”? Perché c’è
una lotta fra un Dio che vorrebbe la pace, la bontà, l’amicizia
fra i popoli, il benessere e un Diavolo che vuole il contrario? Un
Diavolo strapotente, insomma. E Onnisciente, Onnipresente.
Più di Dio!?
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Dinosauri!
Ma non poteva restare tutto come prima? Non sto parlando di
qualche migliaio di anni fa, di prima dell’impero romano. C’ erano i greci, gli etruschi, i cinesi. Non c’erano molte comodità
ma c’erano delle civiltà ancora oggi memorabili. Sto parlando
di cento milioni di anni fa. All’ epoca dei dinosauri, per esempio. Fantastico, no? Natura incontaminata. Nessuno che vuole
trasformarla. O sfruttarla. O migliorarla. E quindi inquinarla.
Che meraviglia! Anche se non c’è nessuno che l’apprezzerebbe.
Non c’è nessuno perché solo l’uomo è in grado di apprezzarla.
Purtroppo. Questa Natura. È la cosa in sé che mi entusiasma.
Un mondo meraviglioso in mano ai dinosauri. E a tanti altri animaletti più o meno giganteschi. Invece ecco quella famosa
meteora del cazzo! E poi questa meteora non poteva imbattersi
in qualche altro pianeta, fra i miliardi di pianeti di questo Universo? Anche uno vicino a noi, sulla luna, andava benissimo.
Un pianeta senza vita. Avrebbe semplicemente creato un buco,
una voragine, un cratere in più, uno dei tanti, senza iniziare
quel processo distruttivo, qui da noi, che avrebbe rivoluzionato
l’ atmosfera terrestre, cancellato i dinosauri e tanti altri animali
simpatici (!) e dato spazio ai primi mammiferi da cui saremmo
venuti fuori noi. Che ppalle!
Non so perché io sia affascinato dall’epoca dei dinosauri. Lo
trovo un periodo fantastico. Molto ben equipaggiato, mi sarebbe piaciuto viverci! (Del resto anche al giorno d’oggi si sopravvive in mezzo a mille pericoli. Ma siamo equipaggiati.) Sembra
una favola e invece è la verità! Ma se i dinosauri non si fossero
estinti certamente non saremmo venuti fuori noi! Ecco, appunto, ma chi se ne frega. Mamma mia, mi pare di sentire i preti, i
religiosi, il pàpa, i musulmani, tutte le persone pie, tutti quelli
che vanno a messa la domenica, tutti i politici che approfittano
dell’elettorato papalino, le beghine, tutti quelli che credono in
un dio, anzi, scusate, in un Dio Creatore e Signore, ecc… Mi pare di sentirli scandalizzarsi da queste mie espressioni. E invece
è venuto fuori l’homo sapiens, che adesso ci pensa lui a rovinare tutto e a distruggere altri animali bellissimi. Non so dove l’
ho letto, ma so di un certo mammifero (non ricordo ma l’ho visto) di cui sembra che non siano rimasti che 23 esemplari! Al
mondo. Il dodo non ce l’ha fatta. Né il lupo di Tasmania. Ho visto un filmato di questo. Mi sono venute le lacrime agli occhi.
Ora sarà la volta dell’orso bianco, delle tigri, degli oranghi…
A proposito: secondo la Bibbia è stato Dio a creare l’ universo,
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i pesci, gli uccelli, i dinosauri… la notte, il giorno. Che è successo, in effetti? Che l’evoluzione è arrivata fino ai dinosauri, e
poi? Che Lui si è accorto che con questi animaloni, non sarebbe
mai venuto fuori l’homo sapiens, per cui cosa poteva fare? Non
poteva mandare dei fulmini come faceva Giove? O come ha fatto per Sodoma e Gomorra! Fu così che Gli venne in mente la
famosa meteora del cazzo, che ha preparato il terreno a colui
che ci avrebbe dato un’idea delle Sue sembianze, dato che
siamo fatti a Sua immagine e somiglianza, no? Quindi noi siamo come Lui. L’idea che noi siamo stati creati a immagine e
somiglianza di Dio, mi ha sempre poco convinto, anche da
bambino…
- Mamma, solo gli uomini sono a immagine e somiglianza di
Dio! Tu no. Tu sei stata creata da una costola di Adamo…
- Che c’entro io? Se mai Eva.
- Vabbè, comunque voi donne siete esseri di seconda categoria.
- Grazie.
- Dio non ha creato subito Eva. Ha creato prima Adamo.
- Ma questo lo dice la Bibbia.
- La Bibbia è la base di tutta la Fede Cattolica.
- Cosa vuoi fare? Il prete, da grande?
- Senti, ma cioè, Dio allora è come me, col pisellino, ecc…
Quindi anche lui fa pipì, cacca, ecc…?
- Ma che ti viene in mente? Dio non ha bisogno di queste cose,
Lui è puro spirito.
- Allora non ce l’ha il pisellino?
- Ma certamente no.
(Comunque mi ricordo che avevo messo mamma in difficoltà;
era imbarazzata nel rispondermi. Lo capivo subito quando
mamma era imbarazzata e non sapeva cosa dirmi.)
- Però c’è stato un pàpa che ha detto che Dio è anche donna.
Dio è uomo e donna. Come si dice? Ermafrodato?
- Ermafrodito.
- Eh, c’è un Pàpa che ha detto che Dio è Ermafrodito.
- Sì. Credo fosse Papa Luciani.
- È una bestemmia, no?
- Non lo so. È possibile.
- E infatti quel papa l’hanno fatto subito fuori.
- Senti, smettila e vai a fare i compiti.
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- Ma il compito che devo fare è proprio questo: che riguarda la
creazione dell’uomo e della donna secondo la Bibbia.
- E allora racconta com’è andata secondo la Bibbia. Leggi la
Bibbia e scrivi quello che dice la Bibbia, e non farti buttar
fuori dalla scuola, che già pago un mare di soldi per tenerti lì
dentro.
- Ma perché devo andare a scuola dai gesuiti? Ci sono le scuole pubbliche che non costano niente.
- Senti, hai cominciato lì e finisci lì. Non voglio che tu cambi
insegnanti, compagni, ecc…
Il discorso è sempre questo, o si crede nell’evoluzione o si crede in Dio. Ma se si credesse in Dio che ha fatto tutto, come si
spiegano i dinosauri? Non li ha creati Lui anche quelli? E Lui
non lo sapeva come sarebbero diventati? Non è Onnisciente?
Non poteva evitare subito i dinosauri? Avrebbe risparmiato un
sacco di tempo e un sacco di animali da estinguere. Oppure c’è
l’uno e l’altro: creazione della vita da parte di un Dio e poi
l’ evoluzione che è andata avanti per conto suo. Ma allora Lui
non poteva controllare l’evoluzione delle specie? Come gli è
sfuggita l’evoluzione al punto da arrivare ai dinosauri che non
possono coesistere con gli uomini? Per cui è nato il bisogno di
sopprimerli, se voleva creare un essere a Sua immagine e somiglianza. Non accetto risposte tipo “non possiamo sapere
quello che c’è nella mente di Dio!”
Ma, altra domanda: che bisogno c’era di creare un essere a
Sua immagine e somiglianza? Non gli bastava quello che c’era
già? Era un mondo straordinario. Coi dinosauri, d’accordo, ma
che creature meravigliose erano i dinosauri! Aveva bisogno di
un essere che, con la sua mente (consapevole), riconoscesse la
grandezza del creato? E quindi del suo Creatore? A questo tipo
di Dio si pensava?
Un essere che ha bisogno del riconoscimento altrui, che ha bisogno di vantarsi con qualcuno, che riconosca il valore del creato? È questo il tipo di Dio a cui si pensa? Io avrei bisogno di
un altro tipo di Dio. O di Spirito se vogliamo pensare a qualcosa di extra umano. È già grande l’idea del creato, dell’universo,
l’ idea di questa immensità, del macrocosmo e del microcosmo,
che non lo vediamo ma è incomparabile. Questa idea del Tutto
ha già in sé il senso del Divino. Ecco, se io parlo del Divino, so
cosa voglio dire. Non mi interessa e non ho bisogno di una Divinità (di una Persona ben precisata)(non dimentichiamo che
saremmo a sua immagine!).
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Qui c’è già qualcosa che ricorda la deità, quindi di un essere a
somiglianza dell’ uomo, che come ha scoperto la consapevolezza ha voluto, dovuto, cercare delle risposte e le ha trovate creando delle entità a immagine e somiglianza dell’ uomo. O addirittura, come secoli, o millenni fa, le ha trovate creando delle
entità (credendoci e pregandole) a immagine e somiglianza di
animali, di stelle, del sole, della luna, di elementi vari.
Ma andiamo avanti: dicevamo della meteora che ha estinto i
dinosauri. Per cui le estinzioni di animali ad opera dell’ uomo
non sono cattive, le ha fatte anche Dio. “Possiamo farle anche
noi” potrebbe aver detto l’homo sapiens sapiens et cretinus. Ma
io non credo proprio che esista questo Dio, così come viene
presentato dai suoi seguaci. A miliardi. Come non credo che esista il Dio presentato da Maometto (anche qui miliardi) con le
sue regole, le sue leggi, le sue tavole come l’altro. Padronissimo di crederci chi ci crede, purché qualcuno non mi costringa a
vivere in uno stato religioso.
A meno che un giorno, esasperato da queste mie proposizioni,
Qualcuno (in quanto Dio) non si faccia vivo su di me con una
saetta, una folgore a ciel sereno che mi carbonizzi. E allora dovrei essere portato a credere che c’è! Ma io non più. E non sono portato a credere a una ipotesi.
Altra cosa ancora: ci sarebbe il problema del libero arbitrio.
L’uomo può scegliere e decidere di se stesso. Ma non può scegliere certamente il suo destino. Ricordo il terremoto di qualche anno fa in cui crollò una scuola: morti e feriti fra i bambini
e gli insegnanti. Proprio oggi c’è stata la notizia del soffitto di
un’altra scuola che è crollato sulla testa dei bambini che erano
in aula: morti e feriti, immagini di madri disperate, immagini di
madri e padri che urlano contro il governo (tutti ladri, mascalzoni!), che urlano contro un prete che non sa cosa dire… Da un
punto di vista religioso, o mistico, o di analisi del mistero divino, e degli accadimenti che tirano in ballo Dio, viene spontanea
la domanda: Perché? A che pro? Anche i preti non sanno che
dire. Sono prove da superare (per gli adulti). “Mentre i bambini
ormai saranno certamente in Paradiso.” Ecco, io non capisco
perché dovrei credere in un Dio che lascia che avvengano tutte
queste cose. Quindi, diciamo piuttosto che siamo in una guerra
continua. Se uno ha bisogno di Dio, non è di questo tipo di Dio.
Quindi, del libero arbitrio non sappiamo che farne. Tanto succede tutto quel che deve succedere e chi s’è visto s’è visto.
Quindi, è un gioco in cui possiamo aspettarci di tutto. E non
serve cercare di mettere in atto la nostra volontà. Non serve la
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volontà. Affidiamoci al caso, o preghiamo Dio, questo sì, che
sia misericordioso con noi, e ci doni una vita lunga, in cui decida Lui quello che ci deve succedere. E sia con noi misericordioso, perché a volte qualcuno di candido, innocente, puro, buono, religioso, corretto e con le idee chiare sul suo futuro, ci lascia le penne, magari per strada, sulle strisce, senza sapere il
perché, e un assassino stupratore tira avanti in Argentina per
decenni senza che nessuno riesca a fare almeno giustizia.
Ma torniamo al discorso della creazione del mondo e dell’ uomo. A un certo punto si è nati. E adesso? “Rien va plus”, il gioco è fatto, non si può più tornare indietro. Ci si può meditare
sopra, ci si può divertire, o si può fare come il giapponese, o
come Van Gogh. E tanti altri. Che vita incerta! Magari bella per
qualcuno. Ma poi la vecchiaia (la detestata soglia), le malattie,
la morte. Per qualcuno l’ immortalità! Per qualcuno altro una
panchina al parco, dove stanotte (dal telegiornale di questa
mattina) un gruppo di balordi ha dato fuoco a un barbone. Così, per divertimento! (Ci si può divertire anche, come ho detto
qui sopra!) E allora? Io mi sono anche divertito, ho riso, goduto, ho vinto molte battaglie, in Internet si parla di me!!! Finora
ho evitato l’assalto di balordi, non ho potuto evitare di avere la
casa rapinata, questo no. Ambisco a una vecchiaia serena. E
poi? Non vedo perché ci dovrebbe essere un’altra vita dopo la
morte. Non c’è nessuno che finora mi abbia convinto del contrario. Nonostante alcune teorie. E alcune testimonianze riportate da altri, e alcune supposizioni molto fantasiose. E allora è
solo su questa vita che dobbiamo contare, questa vita che comincia quando nasciamo e finisce quando si muore… Non c’è
altro. Poi stop, finito, come diceva quello all’ inizio. Ti ricordi?
Anche se tu non la pensi così.
Cioè tu la pensi come se, quando si muore, si entra subito in
un altro corpo, oppure si aspetta un po’ finché qualcuno o noi
stessi decidiamo di entrare in un altro corpo. Ma allora… i casi
sono due: o siamo un certo numero di anime e queste entrano
ed escono nei secoli, oppure ci deve essere un momento in cui
un essere (umano) nasce per la prima volta, vergine, senza
ancora esperienze, altrimenti non si comprende come la specie
umana fosse all’inizio di qualche migliaio o al massimo milione
di persone per arrivare a 7 miliardi, 8 miliardi oggi o fra qualche anno!!?? Allora cosa succede? Che chi entra in questo
mondo ci rimane per sempre e ogni tanto cambia corpo, e intanto via via ci sono dei nuovi ingressi che una volta che sono
entrati ci restano per sempre, ecc…!? Mah. Per me si entra e si
esce e tutto finisce qua.
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Piuttosto la cosa che non mi va giù, che non riesco a sopportare, è che non possiamo andarcene quando vogliamo noi, quando ci siamo stufati, quando lo desideriamo. Il fatto è che questa vita, organicamente, chimicamente, psicologicamente, è
strutturata in modo che dentro la vita stessa c’è, insita e prepotente, la controindicazione (il vaccino?) alla morte. Anche
quando l’apparato non funziona più, quando i pezzi cadono,
corrosi dalle malattie, bloccati dal colesterolo o dall’artrosi, c’è
sempre una mano che si aggrappa alla sponda del letto, e una
voce interna, flebile, che sibila “no, no, no, non ancora, aspettate, non voglio!” Bisognerebbe fare come il giapponese di cui
sopra. Ma chi ha questo coraggio, questa serenità, questa superiorità? A volte mi piacerebbe fare come lui, ma… non ho gli
occhi a mandorla, ahimè! E la Natura ha lavorato bene nel costruire l’ uomo. L’’ha costruito già vaccinato, coi suoi anticorpi,
con le sue leggi naturali e biologiche antisuicidio. Difficile superarle. Qualcuno ci riesce e va contro natura, ma si tratta di
qualcuno che è riuscito a uscire dal gioco e dalle sue leggi. Follia, dicono. È saltato qualche circuito. Di dentro. Gli anticorpi
non funzionano più.
(Mi colpisce in questo periodo i tanti casi di esseri umani che
prima uccidono la famiglia (In genere sono uomini che uccidono tutti i presenti, moglie, figli, genitori, suoceri, e poi si suicidano. Oppure di folli che entrano nelle scuole, o in istituti vari
e fanno dei massacri, e poi si ammazzano.) Ovviamente mi
fanno pensare. Che sta succedendo? Come mai? Perché? Che
succede al genere umano?)
Una cosa è certa. Anzi molte cose sono certe: non è detto che i
migliori siano premiati. Non è detto che i buoni abbiano la meglio. Non è detto che chi fa il bene finisca bene. Non è detto
che il mondo sia dei giusti. Non è detto che i giusti siano ripagati. E non è detto che i furbi o i disonesti siano castigati. Non
è detto che chi fa il male finisca male e chi fa il bene finisca
bene. Non è detto che più si va avanti più si capisce. Non è
detto che alla fine ci sia un premio per chi si è comportato con
giustizia e onestà e saggezza e bontà. O per lo meno non lo
sappiamo di certo. Mai! Non è detto che chi fa il male finisca
automaticamente nella Geenna. E chi fa il bene finisca in Paradiso. E l’innocenza vada in Paradiso. Questo lo sostengono i
preti per dire qualcosa e il Pàpa per giustificare la Bosnia (gli
stupri etnici) e i bambini uccisi sotto il crollo della scuola, e i
300.000 morti dell’ ultimo tzunami e i milioni di morti nelle
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guerre etniche in Africa. Così come non è detto che uno che
perda tutto il suo patrimonio al Casinó sia uno sfigato. E’ tutto,
è tutto in mano al Caso. Il Caso è la règola del grande Gioco. O
chiamiamolo Dio, se vogliamo. Se non vogliamo uscire dal seminato. Se vogliamo rasserenare chi ci circonda, chi si prende
cura di noi, chi si preoccupa della nostra salute, presente e futura. Un’infermiera una volta mi disse:
-
Lei ha dei figli, signor C.?”
No
Come mai?
È semplice, non li voglio, non mi interessano.
Mamma mia, che egoista!
Volevo dirle che a me sembrava egoismo piuttosto il farli, ma
lasciai perdere per non turbare con discorsi inopportuni chi si
prendeva cura di me per il presente e per il futuro. In fondo è
così semplice: sorridere al prete che ci viene in casa per benedirla, non bestemmiare, che può turbare i puri di spirito. Ecco,
caso mai se passo davanti a una chiesa non mi faccio il segno
di croce come vedo fare spesso. Ma io sono una persona molto
distratta, si sa.
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Amore (o sesso?)
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Amore e morte.
Ho capito. Sto parlando della vita e della morte. Ma essendo la
vita un fatto corrente, che vedi tutti i giorni, non ci fai più caso, anche se in effetti sarebbe una cosa incredibile, da meditarci ogni secondo, da pensarci ogni momento. Per cercare di
capirla. Per vivere meglio. Già che ci siamo. Solo che la morte
fa più effetto. Anche perché ti colpisce di più. La morte che ti
circonda, naturalmente. La morte di chi conosci, di chi ami, di
chi odi, di chi ti da lavoro, di chi incontri ogni giorno… la morte
di chi è stato ammazzato, di chi ha avuto un incidente, di chi è
caduto da un balcone, da un soppalco, di chi non aveva da mangiare, di chi si è ammazzato… la morte di chi è morto in seguito
ad atti di terrorismo, di pulizia etnica, di guerre civili, di fenomeni naturali eccezionali… La morte. Come la fine di un rapporto d’amore. Almeno per uno dei due, se è per uno dei due che è
finito.
La morte è un problema. Chiaramente. Però la si capisce, la si
deve capire. È così, fa parte della natura, se no non potrebbe
esserci la vita, quindi fa parte della vita, ma ti riesce più difficile accettarla. Perché è più definitiva. È indiscutibile. Spesso
viene quando meno te l’ aspetti. E tutte le volte che la incontri
ti fa paura. La morte degli altri. La tua morte, ovviamente, non
è un problema. Sei morto, e pace all’anima tua, se ci credi. Però ti fa paura lo stesso. Perché non ci va di morire.
E il sesso? È quel meccanismo (ricco di episodi, sentimenti, urgenze, difficoltà) che permette il formarsi e il perpetuarsi della
vita. Ma spesso si vive senza pensarci che si sta vivendo, e così
si perde un sacco di particolari interessanti e indicativi. Bisognerebbe, quando ci si sveglia al mattino, tutte le volte pensarci un po’ su: che mi sta succedendo? Sto vivendo? Oibò! Ma
è molto probabile che non ci venga mai in mente di farlo. Ci si
alza, spesso si dice: che palle! E ci si butta nella giornata pensando ai guai che ci possono capitare. Poi si torna a casa. Si
mangia, si guarda la televisione, e si va a dormire spesso dicendo: che palle! Quindi è inutile parlare di vita e di morte come due antitesi. Parliamo di sesso e di morte. Di amore e di
morte. Lo dice anche il poeta.
93
Prime donne.
Il mio primo ricordo d’amore mi porta a Liliana. Ricordo i batticuori, quando la vedevo attraverso i vetri di un appartamento
di fronte al mio, al piano di sotto, nello stesso cortile. Io avevo
la scrivania davanti alla finestra, dove studiavo, ma i miei occhi
erano solo attenti se per caso apparisse. E quando appariva lei
guardava fuori davanti a sé, non verso di me, non verso il mio
piano, non poteva farlo, sarebbe stato troppo sfacciato. Una
volta però vidi che, prima di sparire, un’occhiata verso la mia
finestra la lanciò. Mi lanciò un’occhiata! Quindi sapeva che c’ero!
Ovviamente non ricordo i particolari, minuto per minuto, secondo per secondo, ma mi resta impresso per sempre lo stato
d’animo, il batticuore, il senso della vita come se fosse meravigliosa e insieme drammatica, come se quella ragazza fosse il
viatico per l’ eternità. La morte non esisteva. Dalla mattina alla
sera non pensavo che a lei. Stavo ore a guardare la sua finestra per vedere se appariva. Se poi mi lanciava un’occhiata per
vedere se c’ero, potevo morire di felicità. Io credo che siano
quelli i momenti nella vita in cui si benedice chi ci ha messo al
mondo. Troppo belli. Del resto quello era il periodo in cui mi
comunicavo e confessavo.
Le avevo regalato un libro. Mi aveva scritto una letterina di ringraziamento. In cui mi diceva con una scrittura carina carina:
“Grazie, ma perché?” Aveva ragione. Perché le avevo regalato
un libro? Io lo sapevo. E perché non gliel’ho detto? Avevamo
quindici anni. Poi cambiai casa.
E ci fu Paola. Non ricordo come cominciò. A un certo punto
camminavamo tenendoci per mano. Bè, un progresso! Delle
bellissime passeggiate in un parco, a Milano. Muti. Oppure si
parlava, si parlava. Non ricordo assolutamente di che cosa si
parlasse. Di che cosa si parla a sedici anni? Ma si stava insieme
delle ore. Poi venne l’ estate, le vacanze, e ognuno se n’andò
per conto suo, con la famiglia (si faceva così!)(le famiglie per
bene), qualche lettera, e poi più niente. Al ritorno in città evidentemente era successo qualcosa per cui nessuno dei due
sentì il bisogno di farsi vivo. Oh, gioventù! Oh, quindici anni!
E il sesso? Era un discorso riservato all’autogestione, naturalmente. Mi ricordo una volta, con un mio amichetto, Gianni, che
ci toccammo fino a farci venire a vicenda. Non ho idea se lo facemmo altre volte. Forse sì. Una volta mi ricordo che di fronte
alle mie pressioni, lo sentivo imbarazzato, poco coinvolto. Poi
mi disse che aveva appena fatto la comunione. Non ricordo al-
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tro se non che, comunque, ci tirammo giù le braghette e ci toccammo lo stesso. Quattordici anni!? Quindici? Mah.
Credo che fossimo ossessionati dal problema “peccato”. Aleggiava nell’aria, in ogni gesto, in ogni parola, anche se non se ne
parlava. Però vinse, come sempre, credo (non eravamo santi!),
vinse la forza della pulsione animale, sessuale, il piacere che
evidentemente cominciavamo a provare. (Chi ne fu l’artefice?
Dio? La Natura? L’Evoluzione? Provano piacere anche gli animali? E lo stupro dove si colloca? C’è un piacere anche mentale
oltre che giù, da quelle parti!?)
Certamente mi ricordo lo stupore di quando vidi il mio seme
per la prima volta. Ero solo. Pensavo di avere una malattia. Ne
parlai con altri ragazzi che si misero a ridere. E mi rassicurarono. Mi spiegarono il mistero del seme. Mamma taceva.
Il problema, vero, profondo, che condizionò tutta la mia vita, il
mio carattere, il mio atteggiamento nei confronti dell’altro sesso, ma non solo di quello, il mio atteggiamento nei confronti
del mondo, degli altri, di un Dio, dei miei sentimenti, anche
quando a un certo punto lo risolsi… nacque la prima volta che
ebbi un rapporto con una donna. O meglio tentai di averlo. Che
sbaglio! Ma perché dico così? Non fu uno sbaglio perché mi è
servito. Tutto serve, vittorie, sconfitte… Tutto.
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Bordello e Anna.
Si era deciso, fra amici, ragazzi, più o meno tutti della stessa
età, di andare in una casa di appuntamenti privata. Le case
d’appuntamento le avevano chiuse ma ce n’erano ancora, ci
sono sempre state, bastava conoscerle.
Uno di noi, uno dei "grandi" ne conosceva una. Finalmente avremmo scopato! Mamma mia! Qualcuno per la prima volta.
Io, per esempio. Ricordo ancora il batticuore quando ci trovammo davanti a una porticina in una strada buia che venne
aperta dopo un confabulare misterioso fra il nostro amico più
grande e il viso di una donna che si era affacciata. Finché ci fecero entrare. Non ricordo l’ingresso, ero troppo emozionato.
Ho qualche vago ricordo della sala. A un certo punto mi sentii
solo, là dentro. I miei amici non c’erano più. Non tanto perché
erano già saliti, quanto perché non avvertivo più la loro presenza. C’ero solo io. E le puttane. Che mi guardavano, mostravano le lingue, i seni, qualcuna faceva intravedere il sesso; e
parlavano, parlavano, e ci guardavano; qualcuna guardava
proprio me. Aspettava che io mi decidessi? Sembrava che aspettasse solo me. Le piacevo? Mio dio! Mio dio!... Chissà la
mia pressione del sangue. Mi guardava con interesse una puttana! Mi pareva al di là dell’interesse pecuniario. Ero sempre
un essere di fantasia. Già immaginavo come in un film: una
puttana che si innamora di me.
E così mi decisi, e scelsi una moretta, carina, salimmo, entrammo in camera, mi disse “spogliati!”. In effetti mi spogliò
lei, dato che ero imbranato, paralizzato, cioè mi abbassò lei i
pantaloni, le mutande, mi prese il sesso in mano, mi portò al
lavandino, mi trascinò, letteralmente, tirando il mio sesso come
fosse un guinzaglio e io dietro che venivo trascinato con i pantaloni e le mutande ai piedi (mi vedevo, c’erano specchi, roba
da film, sì, ma comico) e lo lavò. Poi si sdraiò sul letto, aprì le
gambe e mi disse “sbrigati, che non ci sei solo tu che vuole
scoparmi!”. La guardai come un cretino, per qualche secondo,
interminabile, senza far niente, in mezzo alla stanza, con i pantaloni e le mutande sempre ai piedi, e il sesso fuori, piccolo,
pendulo, come mai lo era stato fino a quel momento. Non ricordo altro. Dio, quante cose la mia mente ha rimosso! Ricordo
solo che dopo qualche secondo, non sto parlando di minuti, ma
di secondi, mi ritrovai nel salone giù da basso, con la moretta
che mi prendeva ancora in giro.
Cambiai amici, cambiai gruppo. O meglio, rimasi solo. Non fre-
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quentai più nessuno per un bel po’. L’arte mi fece compagnia
per un bel po’. Suonavo il piano, mi insegnava mia nonna, finché arrivai a Brera, studiavo scultura. Disegnavo corpi nudi, di
donne, di uomini. Il centro della mia attenzione era il sesso.
Ogni disegno era organizzato in modo che l’ attenzione dello
spettatore finisse lì.
Tentai altre volte di fare l'amore, non più con puttane, naturalmente, tentai altre volte, tentai, m’innamorai, s’ innamorarono di me. Ma il verbo giusto per questi approcci è… tentare.
Si tentava. Poi incontrai Anna, che capì tutto (mi amava?), e
mi introdusse, poco per volta (settimane, mesi?) dentro di lei,
e dentro i misteri, le meraviglie, gli orrori, le stravaganze, le
infinite variazioni, le curiosità, le morbosità del sesso. Dio mio,
il sesso!
Mi ricordo che la prima volta che stetti con Anna, per paura di
fare cilecca ancora una volta, mi spogliai (parzialmente), lei si
spogliò (totalmente), e io mi feci prendere da una crisi (inventata), una crisi di nervi, tremavo, balbettavo, “che cos'hai? che
ti succede?” (madonna che attore!) Le confessai (inventai) che
avevo fatto l'amore con una donna che era morta sotto di me
durante l'atto! E questa cosa mi aveva inibito! Ragazzi che fantasia! Che invenzione! E che sofferenze! Ma dovevo farlo, no?
Ero un uomo!
Però funzionò. E lei si prese cura di me. "Io ti salverò", mi disse. (Si rendeva conto di citare Hitchcock!?) Comunque mi salvò. Un giorno, eravamo insieme, nudi, a letto, mi disse:
-
Bè adesso tocca a te, fai qualcosa tu.
In che senso?
Datti da fare… ti rendi conto di come stai adesso?
E come sto?
Sei dentro di me.
Cazzo!
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Anna ed Elisabeth.
Ok. Allora Anna riuscì a salvarmi. Non sèppe mai naturalmente
che quella volta, la prima volta, io avevo recitato. E quindi non
sèppe mai che avevo inventato una storia pensando che mi sarebbe stata utile. E infatti funzionò. E stètti con lei. Periodo
piacevole e di soddisfazione. In tutti i sensi. Soprattutto per
uno che aveva rischiato lo strizzacervelli. Ma che ne era uscito
(dal rischio) tramite la sua innata bravura d’attore. E di creativo. Di attore creativo. Forse è lì che mi venne la voglia di fare
l’attore. Una scuola di recitazione ritengo che sia utilissima anche per vivere. Si impara a crescere, a creare! Vivere creando!
Forse la qualità più essenziale per divertirsi vivendo.
Poi successe che quando finì la storia con Anna (tutti gli amori
finiscono!) mi resi conto che io dipendevo da lei al 98 per cento; era lei che mi aveva introdotto nel mondo della coppia e del
sesso soprattutto. Ricordo che io dicevo “fare all’amore” e lei
mi correggeva “fare l’ amore”, si dice; “una volta che siamo lì
si può sempre fare all’amore” dicevo, e lei “si può sempre fare
l’amore”; una bella differenza! Bè, quando finì comunque con
Anna, mi resi conto che ora avevo paura delle altre, non ero sicuro di aver risolto il problema. Lo avevo risolto con Anna!
Così quando conobbi Elisabeth, un’ inglesina niente male, che
mi era capitata fra le mani (il Caso!), e nelle cui mani ero capitato io, curiosa di tutto quello che c’era di bello in Italia, sbarrai gli occhi, ebbi un attimo di pànico, ma poi evidentemente
c’era troppo sangue italico in me (i miei avi?) e così ne approfittai, come fa un vero italico: “ci penso io”, “ti accompagno
io”, “ok!” disse. Ma quando si andò a letto (quasi subito, si
trattava di una bella inglesina venuta in Italy per scopi vari! e
io in quel momento incarnavo uno dei suoi scopi!) mi prese di
nuovo il panico (oddio, non ce la faccio!) e allora ritirai fuori la
storia che usai con Anna.
- Senti… ho un problema.
- Un problema? Che vuol dire? Un problema è una cosa di matematica. Che c’entra la matematica con lo scopare?
- Oh, cazzo!
- Non vuoi scopare?
- Sì.
- E allora, dai… facciamolo. Mi piaci tanto. Ti spoglio io? Vuoi
che facciamo delle cose prima? Vuoi pompino? A me piace fare pompino.
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-
Senti, Elisabeth.
Dimmi, amore.
Io, un po’ di tempo fa… ho fatto l’amore con una ragazza e….
Bene, non sono mica golosa io.
Gelosa… si dice gelosa.
Gelosa, ok.
E questa ragazza al momento di venire…
Non vuoi che io gridi quando vengo? A me piace gridare. Hai
dei vicini rompicoglioni?
Questa ragazza è morta. (Finalmente una pausa)
Prego?
Questa ragazza è morta. Non so perché. Era malata di cuore
e forse io ciò dato dentro troppo e lei…
È morta proprio?
Sì.
E cosa vuoi dire adesso? È questo problema di matematica?
Hai paura che stessa cosa…?
Ho sempre quell’immagine, quel momento in cui…
Io sto benissimo di cuore, sai.
Sì, però io…
Hai problema con me?
Sì.
Ma poi cos’è successo? Come hai fatto? Non so, la polizia…
Hai chiamato… è venuta?
Ho detto quello che era successo. Poi è venuto un dottore…
Cioè, si era preoccupata della polizia! (Cosa sono gli inglesi!?
Tutti Sherlock Holmes?). Ma io subito le dissi che mi faceva
male parlarne, e mi feci venire anche un po’ di lacrime agli occhi. E allora lei fu molto dolce, mi carezzò, mi coccolò, fece
quello che voleva fare e tutto si risolse seduta stante. Insomma,
non ebbi bisogno di settimane o mesi! Poi, a poco a poco, non
ebbi più bisogno di inventare niente di orrorifico, perché le cose cominciarono a prendere una piega normale.
Una delle sue caratteristiche, di Elisabeth, era che, quando si
‘scopava’ (era lei che usava questa parola, in italiano, evidentemente la eccitava, così come spesso usava la parola ‘cazzo’!)
allora, quando si scopava, lei parlava sempre, sussurrava o gridava (in inglese). Così io potevo seguire tutto il suo processo
di avvicinamento all’ orgasmo. Per me andava benissimo. Mi
faceva sentire molto soddisfatto di me. Solo che era sempre in
inglese. Mi sarebbe piaciuto capire che cosa stava dicendo, seguirla anche nei contenuti. Ma non conoscevo l’inglese e lei non
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sapeva farlo in italiano, non ne era capace. Un giorno che tentò, in italiano, io quasi mi misi a ridere (e anche lei) e così non
successe niente! Che coglione. Io. Comunque bei giorni, non li
dimentico.
E quando Elisabeth dovette tornare in Inghilterra (peccato, si
stava bene, mi sembrava di essere un grande amatore, di livello internazionale, facevo l’amore con un’ inglese! Forse allora,
nella mia vita, ci sarebbe stata anche una filippina, una cinese… come James Bond!), ci lasciammo con dolore, io promisi di
andare a trovarla, lei mi avrebbe presentato all’ ambiente londinese, io le dissi ok, lei partì, io le mandai a Londra un mio
copione da far leggere, lei mi rispose che era piaciuto molto,
ma poi non se ne fece niente e cominciammo a scriverci sempre meno… Poi non più. Credo che Elisabeth, a Londra, non abbia perso tempo. D’ altra parte io non conosco l’inglese. (Però
l’avrei potuto studiare. Con Elisabeth!) Chissà adesso dov’ è? E
che fa? Mi manca. Oddio! Con lei, per la prima volta, mi venne
in mente di dirle “ti sposo!” Ma non lo feci, fortunatamente. Io
non ero il tipo per queste cose. Credo.
100
Elena.
Mi trovavo a Bologna, in tournée, ed ero in albergo, il mio solito albergo dove vado da anni, non so che ci facevo seduto nella
hall, a leggere “Il resto del Carlino” (che nome buffo!), forse
per vedere che film facevano da qualche parte, per passare la
giornata prima di andare in teatro… quando si apre la porta
d’ingresso dell’albergo, sento una ventata di freddo di neve che
entra, è inverno, Bologna è molto rigida d’inverno, io guardo
istintivamente verso la porta che si sta chiudendo automaticamente ed entra … entra con una valigia, e si dirige verso la reception!
-
Che ci fai qui?
Oh!
Che ci fai qui?
Sono… venuta a trovarti.
Ma dai!
Non ti va?
No, ma…
Sei qui con qualcun’altra? Disturbo?
Ma sei scema?
Se non ti va mi fermo a Bologna per un po’ e poi riparto.
Elena è stata un mio amoretto ai tempi del liceo. A Milano. Mano nella mano, qualche cinema, qualche passeggiata lungo i
navigli, qualche bacio, qualche lezione studiata insieme, qualche osteria nei quartieri degli artisti, a preludio di quello che
avrei fatto più tardi regolarmente (ma allora non lo sapevo),
niente di più. In quanto al resto tutt’e due avevamo evidentemente qualche problema per cui non si affrontava il discorso.
Poi ci siamo lasciati. Ma più che lasciati, la cosa si è spenta,
dopo una vacanza, ognuno con la sua famiglia, in cui ci si scriveva, ci si scriveva, finché non ci siamo scritti più. Non ci siamo neanche telefonati al ritorno. Era finita. Forse lei ha trovato
un altro, forse io. Non ricordo neppure. Ci siamo ritrovati anni
dopo, io facevo l’attore, lei è venuta a trovarmi in camerino,
sempre a Milano… come va? ma guarda un po’ chi si vede! chi
se lo immaginava!? che fai di bello? e tu? mi sono sposata! sei
sposata!? sì! E abbiamo parlato per un po’, poi siamo usciti insieme dal teatro, era sola, era venuta sola, e siamo andati a
mangiare in una trattoria, ma lei aveva già cenato, “noi attori
mangiamo dopo lo spettacolo”, così lei mi guardava mangiare…
101
-
Sono imbarazzato!
Perché?
Mangiare da solo, masticare mentre mi guardi.
Bevo un po’ di vino, così ti tengo compagnia, forse una
macedonia, ecco, una macedonia, ma dopo, quando mangi
la frutta.
Chi ha detto che mangio la frutta?
Insomma quando avrai finito.
Ma com’è che sei venuta sola?
Perché ho visto il tuo nome fra gli attori sulla locandina…
ero curiosa… non sapevo che facevi l’attore…
No, dico, perché sei venuta sola?
E con chi dovevo venire?
Che ne so? Con tuo marito…
No, mio marito aveva un impegno, fa l’avvocato.
Ma sai che non ti immaginavo moglie!
Perché?
Non lo so. Mi sembravi astratta.
(Lei ride) Che vuol dire astratta?
Il contrario di concreta. Non pensavo che tu… Ma hai dei
figli?
Sì. Ho una bambina.
Oh, Cristo! Ecco, vedi? Concreta: una famiglia, un marito,
una figlia.
Ma forse ero astratta in quel periodo, ma è stato un periodo
infantile. Ma com’è che è andato a finire poi?
Cosa?
Al liceo, quando si camminava mano per mano!?
Non mi ricordo. Cioè mi ricordo che forse io mi sono
comportato da stronzo.
Perché?
Ma perché non so com’è finito, ci si scriveva, ci si scriveva.
Sai che ho ancora le tue lettere?
Ma no? E perché le hai tenute?
Perché erano belle.
Forse perché ero innamorata!
E qui c’è una pausa, strana, imprevista, in cui i due si guardano senza parlare. Ora questi sono dei momenti bellissimi e importanti (consapevolezza!). Perché si tratta di capire quanto
tempo puoi guardare una persona di sesso diverso – o anche
dello stesso sesso – senza che si stabilisca una implicazione intima e piena di significati che non puoi ignorare. Di solito ci si
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può guardare, ci si guarda, due, tre secondi, e poi si deve trovare l’ occasione per staccare il contatto, se no… Ma se i secondi diventano cinque, sei, sette… eccazzo! Sta succedendo
qualcosa! Intanto era arrivato il momento della macedonia, per
cui era il caso di rompere quella magia che si era creata. Che
presupponeva comunque un cambiamento di rotta! Non si poteva ignorare quell’occhiata.
-
Tu le hai tenute?
Cosa?
Le mie lettere.
No.
Ah!
Sì, forse per un po’ di tempo, ma poi, non lo so… forse le
ho buttate, anche perché poi mi sono sposata.
- E adesso… tutto bene?
- Che vuoi dire?
La battuta era giustificata dalla lunga occhiata di prima: otto,
dieci secondi di fissità, come minimo. Sono i momenti più belli.
Che begli occhi, avevo pensato. Non me li ricordavo così belli!
Ma perché mi guarda così? Non è sposata?
- Il matrimonio, la famiglia, il lavoro… a proposito non mi hai
detto cosa fai?
- In che senso?
- Nella vita. Fai solo la mamma e la moglie?
- Lavoro nello studio di mio padre. Fa l’avvocato… e io sono
laureata in legge.
- Sei circondata di avvocati, insomma!
- Già.
- E perché non lavori nello studio di tuo marito?
- Perché sto meglio con mio padre… (pausa) Con mio marito
poi non andiamo più molto d’accordo. Dopo di qui dove vai?
- A casa mia… a dormire.
- No, dico dopo Milano.
- In tournée. Fra dieci giorni. Per almeno quattro mesi.
- Se vuoi ti vengo a trovare… quando sei vicino a Milano.
Non quella sera ma qualche giorno dopo fra me e Elena nacque
un amore importante. Che durò parecchio, tenendo conto di
quanto poco siano durati i miei amori. Come finì e perché finì
non lo so. Mi rendo conto adesso che spesso alla domanda su
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come è finito un amore, su come finisce un amore, e perché
finisce una amore, non so che dire. È come se io non mi rendessi conto che un amore sta per finire. È come se io mi rendessi conto a un certo punto che è finito. E quindi perché sia
finito, non so rispondere. Colpa mia? Colpa sua? Di chi è la colpa? Mi rendo conto che la mia tendenza è di non credere all’
amore eterno. Probabilmente penso che l’amore sia un periodo
in cui si ha bisogno della persona amata, ma poi si cambia, passano gli anni, i mesi, le stagioni, cambia l’ esterno, cambia l’interno, non si ha più bisogno di quella persona, delle sue parole,
delle sue attenzioni, anche noi non siamo più all’altezza delle
aspettative della tal persona… E il sesso? il sesso fa parte di
tutto questo. Un amore senza sesso secondo me non esiste. Fa
parte del gioco. Dunque l’amore è un gioco? Il sesso è un gioco? Si tratta di stabilire cosa intendo per gioco.
Quando vidi entrare Elena dalla porta dell’albergo a Bologna, fu
uno dei momenti più belli della nostra storia d’amore. Perché fu
una bella storia d’amore. Che durò finché doveva durare. Che
non era solo sesso, anche se il sesso c’entrava dappertutto,
appena si poteva. In quanto, in fondo, era un periodo in cui io
giravo l’Italia e lei mi raggiungeva qua e là, ma spesso ero solo, con la compagnia, in cui c’erano ragazze che mi piacevano e
a cui piacevo, ma non si fece mai niente, perché ero innamorato, e quindi l’amore non è solo sesso, c’è qualcos’ altro. Insomma: c’è sesso, in parte (per una certa percentuale), e c’è
qualcos’altro, un sentimento, un piacere di esistere, di respirare insieme, di fare delle cose insieme, di programmare, di stare
bene al buio, su una spiaggia, al sole, sotto la pioggia, senza
pensare al sesso (per un’altra percentuale). Dunque è un problema di percentualità. E questo è qualcosa che non si regola.
Se aumenta da una parte diminuisce dall’altra. E viceversa. Dipende tutto dagli ormoni, dai pensieri, dai bisogni sentimentali,
psicologici. È un equilibrio chimico, biochimico. E la chimica
obbedisce a certe leggi intoccabili. Cioè, se mangio più carciofi,
o proteine, o bevo alcool, è possibile che ci siano dei mutamenti ormonali per cui ho voglia di scopare di più e indiscriminatamente, mentre se mangio mozzarelle, bevo latte, e succhio
miele ho solo voglia di leggere libri! È così?
Poi salimmo in camera, io ed Elena, nella mia camera, che comunque era già una doppia, (di singole in quell’albergo non ce
n’erano) e ci fu almeno un dieci minuti di gioco, gioco che consisteva nel non volerlo fare subito per mantenere una certa
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classe, e non veder l’ora di farlo, nel cercare di tirarla per le
lunghe, e nel sedurci, toccandoci, spogliandoci in parte, con lei
che faceva finta di raccontare cosa le era successo durante il
viaggio, io che proprio non la seguivo (se uno mi avesse chiesto, ma di che sta parlando? non avrei saputo che dire), io che
la buttavo sul letto, su uno dei due letti, e lei che si buttava
giù dall’altra parte, scendeva e correva dietro una poltrona,
finché finalmente disse la frase di prammatica (in questi casi la
si sente anche al cinema): “scusa, posso andare un attimo in
bagno?” e sparisce in bagno, non si chiude dentro, ma lascia la
porta semiaperta, però in modo che io non possa vedere cosa
fa, mentre io non so cosa fare, per cui mi siedo sulla poltrona,
poi decido, mi tolgo i pantaloni, no, non è bello, mi sa proprio
di ragazzino che aspetta che lei si prepari, e lei arriva con ancora i calzini anche lei (questo nell’immaginazione di noi ragazzini) e si fa l’amore tutti e due coi calzini, no, così no, mi rimetto i pantaloni e faccio finta di telefonare, prendo il telefono
dell’albergo (i telefonini erano ancora rari, anzi mi ricordo che
era un periodo in cui noi, di una certa classe, di un certo stile,
sfottevamo quelli che usavano il telefonino, si pensava che lo
facessero per posa, ecc…) prendo il telefono dell’albergo e senza premere nessun bottone faccio finta di telefonare, dico: “ma
certo… bè, diglielo tu, io che c’ entro?”… io so solo una cosa,
che non mi piace questo suo atteggiamento…. anzi”… e andrei
avanti tranquillamente, pensando di parlare con qualcuno fino
al suo ingresso (nuda!?), quando sento nel telefono una voce
che dice… “Desidera qualcosa, signor C…?”. A questo punto entra lei (ancora vestita). Dico, al telefono “no, grazie, Emilio,
era solo che… stavo pensando… Ma non bisogna premere uno
per parlare con lei?” “Sì, se vuole fare una telefonata fuori, così è per ordinare al bar…” “Ah, grazie Emilio, no allora no… la
chiamo dopo.)” “Come vuole.” E metto giù. Lei mi sorride. Io
le sorrido. Com’è che in questi casi si è sempre finti? Sempre
sul chi vive! Oh, come vorrei che fra di noi ci fosse una semplicità di comunicazione, senza problemi, senza ansie, senza atteggiamenti. Io voglio solo fare l’amore…
- Ho una voglia pazza di fare l’amore! - dissi di botto.
- Anch’io!... è per questo che sono venuta qui!
Oh, cazzo, così si fa, così si parla, così ci si comporta. Lo pensai solo, ma quello fu certamente un momento in cui il nostro
sentimento si solidificò. Così facemmo un amore bellissimo,
lungo, sembrava che non dovesse finire mai, mi sentivo bene,
mi sentivo padrone del mondo, mi sentivo che avevo una don-
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na mia, che mi piaceva, che parlava bene (per noi attori è fondamentale!), intelligente, e che mi capiva, e mi amava, e potevo aspettare anche delle settimane prima di rivederla, era la
mia donna, avevo una mia donna, ero sicuro che non mi avrebbe tradito, era importante quella sicurezza? Bè, sì. Non ero solo in questa vita, ero accompagnato da una donna, una mia
donna, l’avrei pensata prima di addormentarmi, l’avrei pensata
quando ero a cena o a pranzo coi miei colleghi, l’avrei pensata
anche sul lavoro, in scena, mentre recitavo, ero dentro una nuvola, mentre ci si amava, ci si amava, senza frenesia, senza
bestialità, senza pensare di dover dimostrare niente, facevo l’
amore ma non pensavo al sesso, non pensavo che quello che si
faceva era sesso, potevamo anche smettere (ero in buona fede? mi sembrava), potevamo fermarci, uno dentro nell’altra,
dentro una nuvola, o dentro un lago, tiepido, limpido, senza
onde, o con piccole onde tranquille… quando mi resi conto dal
suo respiro che stava per venire. E lo disse: “sto per venire!”
O, Cristo, come si fa ad essere così? Si può essere meglio di
così? Una donna che ti dice così!? Era il massimo. La tenni in
sospeso per qualche minuto e poi mi lasciai andare, senza contegno, senza inibizioni, senza ritegno. Finché venne. Urlando,
come piace a me.
Il rapporto con lei durò parecchio, tenendo conto di quanto poco siano durati i miei amori. Come finì e perché finì? Non lo so.
A un certo punto finì. Il modo, le parole, i sentimenti, gli stati
d’animo, i comportamenti, il luogo, la verità, le bugie, niente…
Finì. E non ci vedemmo più. Pazzesco!
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Francesca.
Aveva vent’anni. Mi telefonò con la presentazione di un mio
amico regista. Voleva fare l’attrice. Era un periodo in cui la mia
scuola era cominciata da un pezzo. Non potevo inserirla in
qualche gruppo. Era troppo tardi. Così ci mettemmo d’accordo
su eventuali lezioni private, almeno per quest’anno.
- Sono piuttosto caro.
- Non importa. Vuol dire che vale.
Mi piacque la risposta. Ci incontrammo e cominciammo le lezioni private. Era piuttosto brava, intensa, sensibile, viveva i
personaggi dall’ interno. Certe scene a due doveva farle per
forza con me. Fu durante una scena a due, presa da un film, in
cui i due prima litigano e poi fanno la pace, abbracciandosi e
baciandosi teneramente, con le lacrime agli occhi (nel film), fu
durante questa scena che mi accorsi che lei stava vivendo la
scena veramente. Al momento del bacio mi baciò veramente. E
piangeva!
Era bella, come donna mi piaceva, me ne innamorai. Lei non
so. Ogni tanto, nelle pause, l’abbracciavo, ma io lo facevo come per darle coraggio nelle difficoltà di un’interpretazione che
aveva appena finito. Era la prima volta che mi innamoravo di
una allieva. Gli allievi privati facevano parte del discorso “lavoro occasionale”. Se doveva succedere qualcosa era in teatro,
sui set, in televisione. Come successe diverse volte. Ero molto
giovane, bravo, e piacevo!
Volevo manifestarle i miei sentimenti. Ma mi sarebbe dispiaciuto se si fosse risentita, e magari avesse smesso di venire. Ma
quando l’ abbracciavo, notavo che lei rispondeva all’abbraccio.
Non restava passiva. Ma forse dipendeva dall’intensità dell’ interpretazione! Così le scrissi una lettera in cui le dicevo, più o
meno, “Immaginiamo… no, immagina tu che io mi stia innamorando di te e tu lo capisca, ma io non te ne parlo, per timidezza
o altro… la prossima volta che ci vediamo come reagiresti?”.
Insomma poteva essere una specie di esercizio, un’ improvvisazione su tema. Gliela diedi finita la lezione e le dissi: “leggila
a casa”. E la salutai.
La mattina dopo suonano al portone, dabbasso. Rispondo: “Chi
è?” “una lettera per il signor…” Era un ragazzo che faceva il
servizio Pony Express col motorino. Lo feci salire, mi diede una
lettera e gli diedi una mancia. Era lei: diceva (astutamente)
“Anch’io! Anch’io! (due volte). Però non è giusto fare così. Io lo
direi subito. Se no sembra che tu abbia paura di una mia rea-
107
zione negativa. Io affronterei subito il problema, no? Se no poi
come si fa ad andare avanti?”.
Cazzo! Aveva centrato. Mi aveva beccato. Quando ci vedemmo
fu strano e bello. Faceva finta di niente, però mi guardava in
uno strano modo. Con gli occhi sorridenti, come per prendermi
in giro. Si ciondolava per la stanza, cioè, io ciondolavo. Finché
lei mi si avvicinò e mi disse:
- L’esercizio può cominciare?
- Certo.
- Allora….
- Allora? (Ma non lo dissi subito, aspettai un bel po’, perché
lei non si decideva ad andare avanti)
- Anch’io…
- Anch’io cosa?
- Quello che mi hai scritto.
- Cazzo! (Si mise a ridere. Io non risi ma mi stavo sciogliendo.)
- E allora?
- E allora facciamo la lezione e poi vedremo il da farsi.
- Ok.
Facemmo una lezione di recitazione, per bene, senza distrarci,
facendo delle cose che poi le sarebbero servite veramente. Io
avevo l’anima a mille! Come si può dire? Stavo sciogliendomi
dentro, mi squagliavo, avrei voluto gridarlo ai quattro venti…
Mi ama, mia ama, mi amaaaa!
Poi ci sedemmo su un divano… io mi sedetti su un divano e poco dopo lei mi raggiunse. Accanto a me. Ci fu un silenzio lungo.
Per niente imbarazzante. Non ci guardavamo neppure. Lei stava zitta. Aspettava che cominciassi io. Allora io mi alzo, vado a
prendere dei cuscinoni che c’erano un pò dappertutto e mi siedo davanti a lei guardandola negli occhi. Lei sorride.
Insomma, il più era stato fatto. Adesso c’era una vita davanti a
noi, insieme, così pensavo. C’era solo da affrontare le prime
parole… d’amore! Potevamo aspettare! Potevamo aspettare sera. Che sarebbe arrivata entro due o tre ore.
Ci guardiamo continuamente e sorridiamo. Questi sono i momenti più belli, ve lo dico io. Poi comincia a entrare in gioco la
seconda legge della termodinamica, che non risparmia nessuno, ve lo dico io. E comincia subito, con le prime parole, i primi
gesti, le prime azioni. Quindi ritengo che più tardi si dà inizio al
ballo e ai discorsi e alle azioni, più tardi si mette in moto questa legge. E possiamo preventivare del tempo comunque da vivere. Insieme. Almeno un po’ di tempo. Quindi godiamoci que-
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sti momenti di prologo. Le ore, i minuti in cui si capisce che sta
cominciando un amore! È unico! Non consideriamolo già cominciato!
La guardo, ci guardiamo. Mi piaceva. Pensavo al caso: poteva
non piacermi, poteva essere scema, poteva avere un difetto di
pronuncia (per me comico, irresistibile), poteva essere una cagna terribile con velleità inutili, poteva avere un seno enorme
(succede) invece l’aveva piccolo (adorabile), poteva essere piccola, grassa, poteva essere più alta di me, poteva avere una
voce fessa (sapete quelle voci mezze in falsetto, da farne subito la caricatura?), poteva fumare come una turca, poteva essere una fervente cattolica, poteva essere una fanatica del ballo,
per cui il sabato si doveva andare a ballare! Insomma niente di
tutto questo. Mi piaceva. E mi piace il suo modo di comportarsi, di agire in questo momento. Fantastica.
Quel giorno non lo facemmo, è ovvio. Sembrava di essere venuti a questo mondo in quel momento, già grandi, adulti, e conoscevamo per la prima volta non solo noi, ma il mondo stesso, un pianeta che c’era fuori, e dentro di noi, di cui non sapevamo nulla. Adamo ed Eva, ecco: mi sembrava di essere dentro
un Eden, che so adesso cosa significa, ma in quel momento
non sapevo quasi neppure dove mi trovavo, come mi chiamavo,
qual era il mio lavoro: questi sono i momenti più belli, ve lo dico io.
Le ore volavano. Non ricordo, giuro, non ricordo cosa si disse e
cosa si fece. Niente di quello che fa tutto il mondo in una situazione del genere. Situazione favorevole, perché eravamo soli,
io e lei, in una casa comoda e calda (d’inverno). Ci lasciammo
nel modo più semplice e senza troppe lagne. C’erano anni davanti a noi!
- Ci vediamo domani.
- Sì. Ti telefono stasera.
- Ti telefono io.
La sera mi telefonò, credo sul tardi, facendomi soffrire nell’ aspettare la sua chiamata. Ci facemmo una telefonata lunga e di
poche parole. Il resto erano sospiri e attese.
- Dio, come vorrei che fossi qui adesso.
- Anch’io.
- Dove sei?
- In camera mia.
- E che telefono usi?
- Ho una presa anche da me.
- Ma i tuoi ti possono sentire?
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-
Me ne accorgerei.
Gliel’hai detto?
Cosa?
Di noi due.
No. Sono fatti miei.
Non gliel’hai mai detto?
Cosa?
Quando avevi… hai avuto un amore?
Non ne ho mai avuti.
Occazzo.
Ti spiace?
Senti… Ma tu sei già stata con un uomo?
No.
Ommadonna!
Problemi?
No.
Durò tre mesi. Incredibile! Poi mi lasciò. Lei. Mi disse “è finita”.
Un anno dopo mi telefonò. Cenammo insieme, in trattoria. Le
chiesi come mai mi aveva lasciato, che le era successo, con
tutte quelle premesse così speciali !?
- È il mio carattere. Infatti sono in analisi. Ti ho lasciato prima
che mi lasciassi tu. Per me sarebbe stato terribile. Faccio
sempre così.
La prima frase che mi venne in mente ma che non dissi fu: “Ma
allora sei stronza!”
- No, sono pazza.
Mi aveva sentito? Ero io che avevo parlato ad alta voce? O era
una che sente i pensieri degli altri? Una paranormale. Continuammo a mangiare in silenzio. Lei mi guardava continuamente. Io no. Che intenzione aveva? Di rimetterci insieme? Avrei
detto di no. Non so. Credo. Finimmo di cenare. Io mangiai pochissimo, lei più di me, anche questo mi fece male. Quando uscimmo, sempre in silenzio, ci mettemmo a camminare. Io tenevo le mani in tasca, lei appoggiò la sua mano a un mio braccio. La infilò fra il braccio e il mio fianco. Come due fidanzati
qualsiasi che passeggiano dopo aver cenato insieme. Due fidanzati che avevano litigato. Lei ogni tanto mi guardava. Io
mai. Solo quando fui davanti al suo portone le dissi “ciao”, la
guardai un attimo e me ne andai subito, con le mani sempre in
tasca. Volevo morire.
Un giorno, anni dopo, le telefonai. Mi rispose la madre. Disse:
- Ma come sapeva che era tornata?
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- Non lo sapevo. Perché, era andata via?
- Si è sposata. Ha avuto un bambino ed ora è qui, combinazione, col bambino. Gliela passo.
- Pronto.
- Ah, mi infilo nel tempo al momento giusto.
- Ciao. Sì, ho avuto un figlio… un mese fa.
- Che si dice in questi casi? Congratulazioni!?
Sia la mia voce che la sua erano strane, irriconoscibili, false,
come di due robot. Non credo dicemmo altro, se non frasi di circostanza, ma un acuto osservatore avrebbe detto: qui c’è sotto
qualcosa! Anni dopo, cinque, sei, mi telefonò.
- Ciao. Sono Francesca.
- Oddio, Francesca, in questo momento sono in contatto con
almeno cinque Francesche. Chi di queste?
- Francesca B.
- Oddio (Battito del cuore frenetico).
- Stai bene?
- No.
- Mi spiace.
- Come mai?
- Cosa?
- Mi telefoni?
- Volevo sentirti.
- Ma io non ho voglia di parlare. E poi non sto bene.
- Sei malato?
- Non sto bene adesso, cazzo!
- Scusa.
- Come va il bambino?
- Ne ho due.
- Brava.
- Senti… ti scrivo una lettera?
- Noi siamo abituati a scriverci lettere, no?
- Ciao.
- Brava. Ciao.
E chiusi la comunicazione. Mi veniva voglia di vomitare. A volte
mi succede. Per fortuna la lettera arrivò il giorno dopo. Mi diceva che era un periodo che mi stava pensando. Che aveva una
gran voglia di vedermi, che io ero l’uomo più importante della
sua vita, che lei si riteneva una mia creatura, ecc… Chi fosse
passato dalle parti del mio appartamento avrebbe sentito il ringhio di una bestia feroce che sbatteva la testa contro il muro.
Come finì? Non finì. Aspetto ancora un cenno. Che successe?
Non lo so.
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Viviana.
Con Viviana fu divertente. Ero a Bologna (un’altra volta), città
per me ricca di suggerimenti, di esperienze, di odori, di sapori.
Ero arrivato, da attore professionista, questa volta per uno
spettacolo all’ Università di Bologna, uno spettacolo medioevale
ricostruito di tutto punto secondo documenti dell’ epoca. C’ era
bisogno di un bravo attore, con esperienza, che facesse la parte del protagonista e sono arrivato io. La fama mi aveva preceduto come attore duttile e pronto a esperimenti vari. Lo spettacolo era difficile, molto costruito, documentato. Erano presenti
alle prove alcuni insegnanti e soprattutto molte studentesse,
fra le quali, onestamente, spopolavo. Non ero bello, ma avevo
un certo non so che! E c’era questa Viviana che non faceva
parte del gruppo di lavoro, ma era sempre lì! Si diceva che avesse già fatto un film, perché era molto bella, e lei si dava un
po’ di arie. Però si metteva sempre vicino a me che ero un attore professionista ormai lanciato. Voleva vedere come si fa il
teatro, lei essendo “attrice di cinema”! e sperando - chissà! che la introducessi nel mondo di Roma. Fatto sta che un giorno
decidemmo di… Io decisi di fare il primo passo. Ah, lei era minorenne. Le dissi…
-
Che ne dici? Proviamo?
A fare che?
A metterci insieme.
(Risata imbarazzata, ma non antipatica)
Se non va, amici come prima. Puoi sempre restare alle prove.
Lei non disse niente. Ma certamente stava pensandoci. Oppure
stava cercando di non dare l’impressione di starci subito. Perché le piacevo, questo era indubbio. Mi guardava, mi guardava
(i famosi sguardi). Poi per un giorno non si fece vedere. Pazienza, è andata male. Ricomparve il giorno dopo, tutta sorridente.
-
Che è successo?
Niente.
Dimmi la verità. C’è un altro?
Sì. Almeno c’era.
E adesso?
Adesso non c’è più… Credo.
Che vuol dire credi?
112
-
Non si sa mai. È un pazzo.
Potrebbe uccidermi?
Anche.
Vabbè, allora una delle due. O non se ne fa niente…
O…?
O si fa di nascosto. Che è anche più bello. (Che marpione!)
No, di nascosto no.
Allora proviamo. Che dici!?
Forse.
Madonna, come sei indecisa.
Ma forse lo faccio apposta.
Apposta, perché?
Fa parte dei trucchi della donna.
Stupendo. Che fai stasera?
In che senso?
A cena.
Vado a casa.
Che pecccaaato! (Giocavo)
Perché?
Si poteva cenare insieme.
Se vuoi. Faccio una telefonata. Ma tu non vai con il gruppo?
Dico che ho da fare, ciò la mia ragazza che viene da Milano.
Perché? A Milano hai una ragazza?
Forse c’era.
E adesso?
Forse ho te.
Quanti forse in questa storia.
Hai cominciato tu.
Hai ragione. E allora aspettiamo domani e decidiamo per
sempre.
- Ok. Mi piace.
Bello, bello, bello! Ma non l’abbiamo fatto quella sera. Lei aveva le sue cose! Che ppalle la mia vita sessuale! Una volta perché lei non aveva le sue pillole, una volta perché lei ha le sue
cose. Che sia una scusa? Che si sia sempre trattato di una scusa? Che fàcciano così le donne? Per vedere come la prende
l’uomo!? Per vedere che tipo di uomo è quello che aspira a loro! Però mi sono divertito lo stesso. Abbiamo passeggiato, riso,
ci siamo conosciuti. Era molto simpatica e spiritosa. L’abbiamo
fatto due giorni dopo, che era domenica e non avevo le prove.
Dove? La ragazza era minorenne. Che fare? s’è deciso. Abbiamo fatto un programma. Io sarei tornato in albergo e avrei
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detto al portiere dell’albergo che sarebbero venute su da me
due ragazze per provare una scena. E dopo un po’ sarebbe arrivata lei dicendo che doveva venire un’altra ragazza. E così è
successo. Il portiere, che era abbastanza amico mio (insomma!), l’ha lasciata passare e lei è salita. Una volta dentro non
abbiamo aspettato neanche cinque minuti. Dieci minuti dopo
avevamo già fatto tutto. C’era solo da aspettare un po’ per
passare a una seconda botta! Era d’accordo anche lei. Anche al
termine botta. Si era nudi, lei fumava una sigaretta, quando
bussarono alla porta.
-
Signor C…
Chi è?
Sono Emilio, il portiere.
Emilio, che c’è?
Può farmi entrare un momento.
Che c’è?
Può aprire la porta, per favore? (Il tono non mi piaceva)
Vengo subito, Emilio.
Mi sono vestito in qualche modo e ho aperto la porta, mentre
lei andava in bagno coi suoi vestiti.
-
Che c’è?
Questa cosa non doveva farmela.
Quale cosa?
La sappiamo tutt’e due. Per favore non faccia il tonto. Se la
ragazza è minorenne io sono fregato.
Perché?
Perché c’è di mezzo la legge. Io non ho preso la carta d’identità alla signorina per fare un piacere a lei, però adesso
ho capito di cosa si trattava.
E di cosa..?
Adesso lei fa uscire la signorina, fa uscire subito la signorina,
se no sono costretto a denunciarla.
Ma Emilio!
Non aggiungo altro. E lo faccia il più presto possibile. La signorina deve uscire dalla sua stanza e dall’albergo. Chiaro?
Boh!
Lo sentimmo allontanarsi incazzato. In quanto borbottava qualcosa fra sé e sé. Ci vestimmo il più presto possibile, però divertiti, scendemmo le scale, passammo davanti ad Emilio, non
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lo guardammo neppure, e uscimmo nella Bologna intrisa di
pioggia. Un po’ mogi e tristi per il finale inatteso. Era la prima
volta. Era la nostra prima volta. Il giorno dopo cambiai albergo.
E lo facemmo la sera, fuori Bologna, in macchina. Non potevamo aspettare una settimana! Gli occhi di tutti e due sprizzavano.
Poi la portai a Milano. Vivevo a Milano con mia madre che l’ accolse, la presentò agli amici come una sua nipote. Ma a Milano
era molto difficile trovare lavoro per un’attrice. Così cercò un
impiego. In un ufficio. Glielo trovò mia madre, per arrotondare.
Un mese dopo lei si mise con quello dell’ufficio. E sparì. Ma la
vita è questa. Ero giovane. Ottimista, e piacevo alle donne! Ma
l’amore è questo, di cui sto parlando.
L’amore comincia, l’amore finisce, ne comincia un altro, poi finisce. Poi un altro. Che muore. Poi un altro. E poi si muore.
Amore e morte. È di questo che stiamo parlando, no?
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Dunque…
Dunque tutto quello che facciamo, pensiamo, costruiamo, distruggiamo e riaggiustiamo, progettiamo e sperimentiamo, una
volta che siamo entrati in questo mondo, è per continuare a restarci il più possibile e il meglio possibile, senza preoccuparci
troppo se quello che progettiamo a questo scopo ottiene effettivamente i risultati che abbiamo previsto, (o che non abbia
delle controindicazioni!). Starci bene, dunque, e riprodursi. A
volte senza preoccuparci troppo se c’è un futuro per chi è stato
riprodotto.
Direi che il bisogno di riprodursi (che è naturale, quindi istintivo) a volte è più pressante del bisogno di esistere. Quanta
gente mette al mondo figli senza preoccuparsi di come riuscirà
a mantenerli! E, fra l’altro, spesso, i più “prolifici” sono proprio
coloro che hanno maggiori problemi su come mantenerli.
Insomma c’è dentro, dentro l’uomo, dentro la donna, la spinta
a fare figli. Soprattutto la donna. Angelica, grande amore della
mia vita, con cui ho vissuto più di tre anni, mi ha lasciato, perché voleva dei figli. L’ha detto a una mia e sua amica quando
ha capito che io avevo dei dubbi su una nostra eventuale progenie. Se era il caso, in generale, e in questa civiltà, di progettare una progenie. Ovvero procreare creature che non te lo
chiedono in un mondo sempre più critico (eufemismo).
La fregatura nell’homo sapiens è che ha raggiunto la consapevolezza, sì, però ci sono delle cose che appartengono alla sua
struttura, alla sua natura, al suo dna, al suo inconscio, ai quali
non può opporsi consapevolmente. Per esempio: per le donne
(soprattutto) fare figli appartiene a un imperativo categorico
inconscio; e per l’essere umano comunque obbedire all’ istinto
di conservazione. Una volta che sei entrato in questo mondo
non puoi più uscirne. Salvo rari casi. In cui la tua mente è andata in tilt.
Fare figli. Bisogna essere in due. Ecco allora che si cerca un/a
partner che possa andarci bene, con cui andare d’accordo, con
cui pensare di andare d’accordo…
Ogni tanto mi torna alla mente il pensiero sul perché, nelle mie
scorribande sessual-sentimentali, non abbia mai pensato a cercare, corteggiare, fare sesso, stare insieme, vivere insieme,
viaggiare, programmare, ecc… senza che nella mia mente si
formasse l’idea del matrimonio. Forse perché mia madre non
si è sposata? Ma i miei nonni, con cui ho vissuto fino alla fine
(la fine loro) andavano d’accordo, si volevano bene, non si so-
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no mai lasciati. Oddio, ce ne sono di coppie del genere! Io no,
non ci credevo, non mi veniva in mente. Il mio atteggiamento è
sempre stato: “a un certo punto tutto finisce”. O come disse
Woody Allen, a proposito della seconda legge della termodinamica, “tanto, a lungo andare, tutto finisce in merda!”.
Ogni tanto si tira in ballo la parola amore. E se l’amore si dissolve dopo un po’ di anni (è possibile), allora lo si cerca altrove
(non possiamo farne a meno, fa parte dell’istinto) (o di una esigenza esistenziale, come vedremo dopo) e così cerchiamo un
altro amore o altro sesso, non tanto per fare figli ma per fare
sesso, dimenticando che all’inizio dei tempi era magari solo per
fare figli. (Ora è anche per essere certi di esistere: scópo, dunque esisto.)
E cos’è l’amore se non un’invenzione dell’uomo per dare una
parvenza di sentimento (quindi meno bestiale) alla spinta biologica della riproduzione? E alla conservazione della specie, ovviamente. Esistere, cioè conservarsi e riprodursi. Il bisogno di
riprodursi a volte è più pressante del bisogno di conservarsi.
Quanta gente si uccide per amore! O è solo bisogno di sesso? E
così uno si uccide perché la donna con cui scopava ora si rifiuta
(succede)? E non fare sesso, non essere amati, può voler dire
che non siamo nessuno, non valiamo niente?
Allora: l’uomo, una volta che è venuto a questo mondo, fa di
tutto per continuare a starci (è l’istinto, tutti gli animali ce
l’hanno), fa di tutto per fare figli (è sempre l’istinto), ma in
più, dal punto di vista esistenziale, l’uomo ha bisogno di dimostrare che esiste, altrimenti potrebbe anche dubitarne (Des
Cartes, per l’appunto). Ha bisogno che sia riconosciuta anche
dagli altri la sua esistenza, e quale migliore dimostrazione di
esistere che amare ed essere amato? Per cui, oltre alla famosa
espressione di Cartesio “penso dunque esisto”, che forse non è
sufficiente per l’essere umano (che spesso non sa di pensare),
potrebbe esserci “amo, dunque esisto”. Solo che per noi uomini, e donne, è necessario anche il correlativo “sono amato/a,
dunque esisto”. Allora sì che siamo tranquilli! Ma se questa dimostrazione fa difetto, se insomma non si è corrisposti… dio
mio, che tragedia! Per qualcuno tanto vale morire! Cioè l’amore
per non sentirsi soli. Che tragedia la solitudine! Che tragedia
non essere amati. Quanta gente si uccide per amore!
E il sesso? Questo invece è un’invenzione della natura! Per riprodursi. Poi a poco a poco abbiamo cominciato a sganciarlo
dall’ istinto riproduttivo e a considerarlo qualcosa di divertente
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di per sé. Così come è diventato divertente bere alcool, mangiare dolci o salami o altre prelibatezze, sganciandolo dalla necessità del nutrimento. L’invenzione creativa dell’uomo è stata
quella di accomunare sesso e amore. Un figlio è una assicurazione per l’eternità. Mio figlio avrà dei figli, i quali a loro volta
procreeranno, e così i miei geni vivranno per sempre. Come il
leone di prima, no? Che strano meccanismo! Un meccanismo
compensativo? Come per un attore gli applausi? Che bello quando ti applaudono. Ti da l’idea di esistere e di essere bravo. “Mi
applaudono, dunque esisto!” Ci sarebbe da rifletterci un po’ su.
Per un attore. E sul perché si è presi dalla smania di recitare.
Apparire. Quanta gente in ottobre si presenta nella mia scuola
per iscriversi ai corsi di recitazione! Anche persone adulte. Non
solo ragazzi. Ci sarebbe da rifletterci un po’ su.
118
Antonella e Giulia!
In principio fu che lui si accorse di questa che si chiamava Antonella. Carina. Magra. Uno scricciolino. Altezza comunque media, non era una nana, ecco. Due piccoli seni, appuntiti. Un culetto. E due occhi che perforavano l’aria. E che lo guardavano
continuamente. Lui non ci pensò due volte. Un gesto affettuoso, un abbraccio. Due o tre carezze nei punti giusti, tre o quattro occhiate allusive. Insomma, quattro o cinque giorni dopo,
lei era a casa di lui.
-
Allora?
Allora cosa?
Com’è che sei qui?
Mi hai detto tu di venire.
Ma una ragazza per bene ci pensa due volte prima di accettare l’invito di un uomo… adulto a casa sua!
- Ma io non sono una ragazza per bene.
- Questo mi fa piacere. Le ragazze per bene sono noiosissime.
- Appunto.
All’inizio era lui che doveva aprire i dialoghi. Lei stava piuttosto
zitta. Ma questo era il suo fascino.
-
Ce l’hai il ragazzo?
Sì.
E come mai sei qui e non sei con lui?
Tu che dici?
Si trovò spiazzato. L’unica era tacere e passare ai fatti. Si avvicinò a lei, avvicinò la bocca alla bocca di lei, lei non fece niente, nessuna mossa, le due bocche erano a cinque centimetri
l’una dall’altra, gli occhi, che erano più o meno alla stessa distanza, si fissavano, un po’ storcendosi in dentro, ovviamente,
tanto che lui, tendente all’umorismo, sorrise.
-
Hai gli occhi storti.
Anche tu.
Allora, che facciamo?
Non so. Tu che dici?
M’è venuta un’idea.
Cioè?
Guarda un po’.
119
La baciò. Lei non si ritrasse. Ma non fece neanche un gesto in
più. Lui cominciava a divertirsi. Tutto cominciò con la telefonata del mattino, telefonata di lei a lui, facendo finta di avere un
problema di voce. E lui le aveva detto…
-
Ci vediamo, oggi?
E come?
Mi vieni a trovare?
A casa tua?
E dove, se no?
E dove abiti?
In via….
A che ora?
Non so, verso le cinque.
Le cinque? Ok.
Ecco, appunto, lei aveva detto ok. E al bacio non si era ritratta.
Anche lei aveva sulla bocca un leggero risolino di divertimento
e gli occhi lo guardavano con curiosità. Per cui lui fece un passo avanti (metaforico) e cominciò a slacciarle la camicetta e il
golfino. Lei lo lasciò fare. Lui si rese conto che lei non aveva
reggiseno ma i due seni erano turgidi, quasi di marmo, aguzzi.
Cazzo! Si disse. Ma poi lo disse anche a voce alta.
-
Cazzo.
Che c’è?
Mi piaci da morire.
E questo cosa vuol dire?
Niente. Constatazione obbiettiva. Mi piaci da morire.
Le toccò un capezzolo con due dita, in modo tale che una parte
libera della mano, le sfiorava il seno. Lei ebbe un impercettibile
sussulto, ma lui se ne accorse. A questo punto non indugiò. La
prese per mano e la condusse nel soggiorno dove c’era un divano molto ampio e… adatto. Lei, nella parte alta era semispogliata, nel senso che la camicetta era aperta e in parte anche il
golfino; un seno, quello già trattato fuoriusciva. Dalla vita in
giù portava dei jeans. Comunque non si oppose al cambiamento di luogo. Lo seguì docile, condotta per mano. Lui la fece sedere, poi si occupò dei jeans, glieli slacciò (erano quelli coi bottoni) e poi cercò di tirarli giù. Lei lo aiutò tirando su il culetto.
Ogni gesto che faceva, lui pensava: “cazzo”! Poi fu la volta delle mutandine. Lei non diceva niente. Semplicemente aveva quel
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sorrisetto ironico che lo faceva impazzire. Quando fu nuda
completamente lui non andò oltre. Semplicemente si mise a
guardarla. Poi cominciò ad accarezzarla. Dappertutto.
Si dette il caso che nello stesso periodo lui ne conobbe un’ altra! Che si chiamava Giulia. Tutta un’altra cosa. Alta, ben formata, donna, culo, fianchi, seno, reggiseno, cosce, spalle, e si
dette il caso che anche questa (il Caso!) aveva occhi che perforavano l’aria e lo guardavano continuamente. Nello stesso periodo. Eccheccazzo!
Ci pensò, ci ripensò. Che fare? Quante volte nella vita di un
uomo, di una donna, si formula questa domanda. Quante volte
nella storia. Perfino Lenin si trovò nella necessità di chiederselo
e di studiare il caso. “Che fare?”
E quante volte nella vita di un uomo (e di una donna?) non ci si
pone neppure la domanda. Si agisce. Si trova il modo di stare
al gioco. Si troverà il gioco divertente e chi se ne frega delle
altre domande che nascono dall’interno, dal razionale e dall’ inconscio. Ecco. È quello che fece anche lui.
La battuta che lo conquistò e superò tutti gli scrupoli fu quella
in cui, avendo lui detto a un certo punto, e mentre le accarezzava col dorso di una mano il dorso della mano di lei: ho una
voglia matta di accarezzarti tutto il corpo. E perché non lo fai?
rispose lei. Eccheccazzo!
E così ebbe inizio il gioco con Giulia. E Antonella? Ma Antonella
era un’altra faccenda. Antonella era un’altra razza! Era come se
Antonella e Giulia, una fosse una gatta e l’altra fosse una lupa.
Due animali, due razze, due mondi, due comportamenti. Bella
scusa. Fatto sta!
Antonella, appena la chiamavi, appena avevi voglia, le telefonavi e lei correva. Antonella non si poneva il problema se lui ne
aveva delle altre. Non gliel’aveva mai chiesto. Ad Antonella lui
comprò un reggicalze di quelli di una volta, neri, e poi delle
calze trasparentissime, nere. E delle mutandine, nere, minuscole. E lei si spogliò e se le mise di fronte a lui, e poi le calze
e il reggicalze e quando lui si accorse che come si era messo il
reggicalze, poi non avrebbe più potuto togliersi le mutandine,
e glielo fece notare, lei si mise a ridere, si spogliò di nuovo e
ricominciò da capo: reggicalze, calze e poi mutandine. E poi
improvvisarono uno strep tease di lei, con musica adatta e lui
che la riprendeva col registratore. E poi sesso pazzesco! Con
Antonella ridevano, erano spiritosi, tutt’e due. Era un sesso
comico. Con Giulia era un sesso drammatico. Una volta lei
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pianse. Lui non seppe mai perché. Insomma, ne aveva due. Diverse. Opposte. E che pretendevano. Fu un tour de force. Per
almeno tre mesi. Finché Giulia si accorse di Antonella. Venne a
saperlo. Lui non seppe mai come. Era sempre stato molto attento. L’ipotesi più probabile, secondo lui, fu che Antonella, che
si era accorta di Giulia, sua amica, glielo disse, fece prima:
“sai, sono andata a letto con…”
Fatto sta che un giorno lui ricevette una lettera da Giulia. Che
cominciava con la parola “stronzo!”. E poi continuava accennando a un tentativo di suicidio subito scoperto dalla madre.
Lui le telefonò. Lei piangeva. Voglio vederti, le disse. Fissarono
un appuntamento, cui lei non venne. Si sentiva veramente uno
stronzo. Uno stronzo che continuò per un po’ con Antonella.
Per almeno un mese fece fatica a guardarsi allo specchio. Sembra assurdo ed eccessivo ma forse fu in quel frangente che
cominciò ad essere nauseato dalla vita. No, nauseato da questa
storia del sesso. Contro cui o per il quale non c’erano rimedi,
non c’erano difese. Irrimediabile. Per cui si può dire che era
anche nauseato dalla vita. Una vita di questo genere. A cui si
aggiungeva la tensione sociale, le ingiustizie di una società fallimentare, la miseria sempre più diffusa, sia quella economica
che dei cervelli, la comunicazione sempre più ridicola, la criminalità dilagante, il Vaticano sempre più presente, e Dio sempre
più lontano.
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Il giocattolo.
Il giocattolo si è rotto! Che peccato! E come tutti i giocattoli
che, una volta rotti, è difficile aggiustarli in modo da farli tornare come all'origine, anche questo è difficile da... ripristinare.
I giocattoli sono belli e stupiscono e incantano ed entusiasmano, quando sono nuovi. Poi, anche se si riesce ad aggiustarli
per bene, e a farli funzionare com'erano prima, resta la coscienza che si sono rotti. È questo soprattutto che li rende più
fragili. O, per lo meno, non ci si gioca più col divertimento iniziale. Non ci si fida più!
Ho questa consapevolezza: di aver avuto in mano un bel giocattolo che poi si è rotto. O che non diverte più come prima.
Che peccato! Il 5 febbraio, poco dopo il mio compleanno, mi
sono innamorato. Un’esplosione, improvvisa, devastante, travolgente. L’abbiamo paragonata al Big Bang, io e te, vero? Ci
siamo visti, quel giorno, per parlare di una cosa (ci siamo detti); abbiamo parlato, ci siamo conosciuti, abbiamo mangiato insieme, si è parlato, si è parlato, ci siamo guardati, ci guardavamo, ci guardavamo, dritti negli occhi, senza mai abbassarli,
come per non rompere il filo, la corrente, l’ onda magnetica; ci
siamo toccati, ci siamo sfiorati, le mani, le guance, i polsi.
Poi improvvisamente ci siamo abbracciati, da amici, da fratelli,
da compagni (ci siamo detti), da esseri umani che stanno bene
insieme, e che sentono il bisogno di stringersi (succede anche
fra persone dello stesso sesso). Ma poi a poco a poco l’ abbraccio si è prolungato; ti ho detto: “aspetta a mollare, aspetta a
scioglierti, aspetta, aspetta, continuiamo per un po’ così”... E
l’abbraccio è continuato per un po’. Non ricordo neanche per
quanto tempo. Anche dopo, quando ricordavamo l'episodio, non
riuscivamo a stabilire la durata di quell‘abbraccio. So solo (sappiamo solo) che alla fine della giornata, quando ci siamo lasciati veramente, ci siamo stupiti del tempo trascorso.
Erano le dieci, le dieci e mezza del mattino, più o meno, quando ci siamo incontrati, ed erano le undici, le undici e mezza,
più o meno, quando ci siamo lasciati; e ci sembrava che tutto
fosse durato pochi minuti!
La cosa è durata alcuni mesi. Al 5 di ogni mese festeggiavamo
il compimese. Anzi i primi giorni festeggiavamo perfino il compigiorno, come Alice nel paese delle meraviglie. E per alcuni
mesi (quattro, cinque) tutto era favoloso, incredibile, impagabile, imparagonabile. Ci lasciavamo bigliettini dappertutto: sul
letto, in gabinetto, in cucina, nelle pentole, fra i libri, sul cru-
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scotto della macchina, sul parabrezza delle rispettive macchine,
infilati nei tergicristalli, che lipperlì sembravano multe, e ci incazzavamo, lipperlì, per poi renderci conto, ognuno per conto
suo, che erano lettere d’amore.
Cosicché quando poi vedevamo una multa vera, anche allora ci
sembrava un gesto d’amore, della città, della vita, nei nostri
confronti, e ridevamo, ridevamo, e ci telefonavamo spessissimo, al mattino presto, prestissimo, quando ancora tutti dormivano. Ma noi no, e come potevamo dormire con quel carico in
corpo, nella mente, nell’anima, nel sesso? E ridevamo anche
delle nostre invenzioni erotiche, e delle posizioni, e dei nuovi
modi di procurarci piacere, e delle nuove tecniche, e degli ‘oggetti’ che usavamo per ottenere più piacere, degli ‘oggetti’ che
compravamo, che ho comprato (in un negozio di sanitari, inventando balle!), divertendoci poi nel metterli in pratica. E tutto era fantastico, incredibile, impagabile, imparagonabile.
Poi un giorno qualcosa ha cominciato a scricchiolare: l’abitudine? la certezza dell’amore dell’altro/a? per cui ci si stava crogiolando al sole? preoccupandosi solo del sole e non più dell’
altro/a? oppure nuovi bisogni, curiosità? Qualche elemento di
disturbo ha cominciato a intrufolarsi. Abbiamo cominciato a
guardare la televisione pensando ad altro; abbiamo cominciato
ad occuparci di nostri fatti personali, di nostri problemi, senza
sentire il bisogno di comunicarli all’altro/a; i bigliettini hanno
cominciato a diminuire, sparire; ci si avvicinava alle nostre automobili senza più la curiosità di scoprire se c’erano bigliettini
dell’altro/a; e se non c’erano non ci si dava molto peso; e se
c’erano multe cominciavamo di nuovo ad incazzarci.
Le telefonate cominciavano a diradare; gli appuntamenti al cinema, a teatro, non erano più abituali; il sesso non ci sconvolgeva più di tanto; e comunque non c’era più l’ energia, la rabbia, la voglia, l’ansimare, l’urgenza di svestirci il più presto possibile, strappandoci quasi i vestiti di dosso, gridando, ridendo,
senza preoccuparci dei vicini, anzi ridendo dei vicini che certamente sentivano. Non c’era più tutto questo. Che prima c’era.
E sono cominciate le prime discussioni, le pause, i silenzi, il
guardarsi come degli estranei, il cercare di capire dentro gli occhi che cosa stava succedendo dentro l’anima dell’altro/a. Solo
a me succedeva questo? Tu mi dicevi che era così. Che in te
non era cambiato niente. Eppure anche tu non mi scrivevi più,
e ti lamentavi di questo e di quello, e non volevi più farlo. Mentre prima...
Il sòlito giro vizioso? Che è colpa dell’uno/a se l’altra/o si com-
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porta in un certo modo? Per cui anche l’altro/a si sente in dovere (inconsciamente) di comportarsi in un certo modo? “Forse
sto raffreddandomi perché lo stai facendo tu!”. E via dicendo?
E sono cominciate a venire fuori le prime consapevolezze, e
l’esame della situazione, e la decisione di non vederci per un
po’. Che cazzata! Si dice sempre così. Per poi precipitarci l’uno
nelle braccia dell’altra, il giorno dopo, piangendo e confessando
“mi manchi, mi manchi, non ce la faccio!”. E facendo l’amore in
modo disperato, più disperato, come a compensare, o a dimostrare che non era vero, che non era finito niente, che tutto era
come prima.
Per poi ricominciare, dopo qualche giorno, le discussioni, le
pause, i silenzi, il guardarsi come degli estranei, il cercare di
capire dentro gli occhi che stava succedendo dentro l’anima
dell’altro/a. Solo a me succedeva tutto questo? Tu mi dicevi
così. Eppure anche tu non mi scrivevi più, e ti lamentavi di
questo e di quello, e non volevi più farlo. Mentre prima... Finché un giorno abbiamo capito: si era rotto il giocattolo. Che
peccato! No? Ma si era rotto! No? Si era rotto. Che peccato!
No?
Che disperazione! Che disperazione! Non tanto il decidere che
era ora di lasciarci, che era finito, che non ci saremmo più visti... quanto il dover riconoscere che i giocattoli ad usarli, si
rompono, che anche il nostro, che sembrava indistruttibile, si
era rotto, che i bei giochi durano poco, e che i giocattoli non
durano a lungo. Se non li sai conservare, si era detto. Ma non
sapevamo come fare a farlo, si era detto. E poi forse era troppo tardi. Il giocattolo si era rotto, si era rotto. Per sempre.
Che disperazione dover riconoscere che a un certo punto c’è bisogno di altri giochi, altri giocattoli, o forse di altri compagni di
gioco!... Che bambini capricciosi che siamo! Sempre. E la seconda legge della termodinamica non perdona. È valida per ogni tipo di attività.
125
Poesie 2
126
Grazie, Jorge Luis!
Nel silenzio della mia camera,
è notte,
mi sveglio,
accendo la luce per vedere l’ora (sono le quattro)
e do' un'occhiata
al mucchio di libri che sono sparsi
per terra, accanto al letto.
(Li ho rimescolati per un po' ieri sera,
ma poi ho spento la luce senza esprimermi
in alcuna preferenza particolare.)
Rispengo la luce, ma sono sveglio,
sveglissimo,
e prevedo ore di insonnia. È un’abitudine.
E allora torno ai miei libri
per terra,
riaccendo la luce
e ne scelgo uno.
Borges, per esempio,
così,
lo sfoglio veloce,
come fosse una Bibbia,
e mi fermo
a un certo punto, a caso,
e leggo:
“Il dono interminabile”.
(Riscrivo qui tutta la poesia. Tradotta dal signor Wilcock).
Un pittore mi promise un quadro.
Adesso, nel New England, so che è morto.
E ho sentito, come altre volte, la tristezza
di capire che siamo come in un sogno.
Ho pensato all'uomo, e al quadro perduti.
(Solo gli dei possono promettere,
perché sono immortali.)
Ho pensato anche al luogo prestabilito
che la tela ormai non occuperà.
Poi ho pensato: se la tela fosse lì,
diventerebbe, con il tempo, una cosa,
una cosa in più, una delle tante
vanità o abitudini della mia casa.
127
Adesso è illimitata, incessante,
capace di qualunque forma, e di qualunque
colore, e non legata a nessuno.
Essa esiste in qualche modo. Vivrà,
e crescerà come una musica e rimarrà
con me fino alla fine del mio tempo.
Grazie, Jorge Luis!
(Anche gli uomini allora possono promettere,
perché nella promessa c'è qualcosa di immortale.)
Questa poesia
è qualcosa che io cercherò di leggere
ogni sera,
o spesso,
o tutte le volte
che me ne ricorderò, e io spero
di ricordarmene ogni sera,
o spesso,
almeno finché questa poesia
non sia diventata
col tempo
una cosa in più,
una delle tante
cose della mia vita,
una cosa assimilata,
che fa parte di me,
insomma un’abitudine,
che conosco benissimo al punto da
potermi permettere anche di
non
ricordarmela
più...
Come hai ragione, Jorge Luis!
128
Allora Dio non esiste!
I dinosauri! Dio mio!
Ma ci pensate?
C'è stato un tempo
in cui
sulla terra
vagavano, trottavano, correvano,
strisciavano, volavano, nuotavano,
i dinosauri!
E l'uomo non c'era!
E allora mi viene da chiedere:
a che pro?
Chi poteva
godere di
queste meraviglie?
Che sia questa la prova che Dio non esiste?
Perché,
e per come,
e per chi,
avrebbe potuto
dovuto creare
tutte queste meraviglie del Creato?
129
Ancora Tv!
Ancora un attentato in Israele.
18 morti e 45 feriti.
Si è spento V.G.,
Premio Nobel,
per la pace nel mondo.
Due ragazzi di diciotto e vent'anni
trovati morti per overdose
a Voghera.
Altri due ragazzi suicidati
col gas di scarico
di una macchina
a Caltanissetta.
Fra due minuti nel telegiornale delle 20.
I particolari e le interviste
dal vivo.
Restate con noi.
Ford Excelsa.
La macchina più sicura
per una vita più tranquilla.
130
Oggi e domani!
Ce la faremo?
Quanta gente timida c'è in giro.
E indecisa, imbarazzata, spaurita, ansiosa e fragile.
Lo si vede dagli sguardi, dalle bocche, dai gesti, dai tic,
dagli atteggiamenti.
Lo si vede da come cammina, o come sta ferma, in piedi,
e aspetta l'autobus.
Lo si sente dalla voce, da quello che dice, da come lo dice.
E quanta gente
vuole darla a bere,
coi mezzi sorrisi, le smorfie, lo sguardo ironico,
la sigaretta, la battuta, il ciondolare
di qua e di là
come per dire "ci sto solo io!"
E quanti bimbi dipendono da questa gente!
E il mondo di domani che dipende
da questi bimbi.
Ce la faremo?
Ce la faranno?
131
Racconti
132
La valigia.
Ci sono due cose nella mia vita che mi ossessionano, due pensieri che occupano la mia mente e condizionano spesso i miei
comportamenti. Una è il concetto di caso, l'idea di un caso che
ci governa (non ci sono dubbi), eppure così difficile da definire.
Inafferrabile. Per esempio: tempo fa ho letto di un aereo militare, in Germania, che durante un volo di addestramento è
precipitato in aperta campagna su una casa colonica, distruggendola. Il pilota si è salvato col paracadute, ma nella casa c'era un ragazzo che stava studiando ed è rimasto ucciso sul colpo.
Allora: il pilota si è salvato, i familiari del ragazzo si sono salvati perché erano in campagna a lavorare, mentre il ragazzo,
che non voleva fare il contadino ma laurearsi, è rimasto in casa
a studiare e così è morto. L'ora era giusta perché i suoi familiari fossero nei campi. L'ora era giusta perché lui fosse al tavolino coi suoi libri. La traiettoria dell'aereo era giustissima per
centrare la casa colonica; poteva andare a sbattere venti metri
più a destra, o a sinistra, e il ragazzo si sarebbe salvato. Forse
sarebbe rimasto ucciso un maiale, o un paio di oche, ma sarebbe stato meno clamoroso il caso. Il caso! Ma è mai possibile
un caso così orientato? Così preciso e puntuale nella scelta dell'obbiettivo? Su miliardi di miliardi di traiettorie possibili lungo
il suo percorso, quell'aereo doveva proprio andare a finire su
quella casa e uccidere quel ragazzo? Il caso è cieco, si dice.
Eppure che mira, in questa occasione!
Che ci sia Qualcuno, da qualche parte, in questo mondo o in un
altro mondo - chissà - che fa esperimenti su questa strana creatura, diversa, molto diversa dagli altri animali della terra (eppure in qualche modo simile)? Non penso che il suddetto ragazzo ex contadino, si sia macchiato di tanti e tali peccati, da
dover essere eliminato! Ormai la pena di morte sta scomparendo nel contesto umano. E allora perché? Qualcuno mi sa dare
una risposta?
Oppure quel ragazzo che, facendo l'autostop, ha chiesto un
passaggio a una coppia di sposini che si sono fermati (carini!),
l'hanno fatto salire, e dieci minuti dopo morivano tutti in un incidente. Ci sono anche dei casi in cui, a proposito di un disastro
aereo, c'è qualcuno che racconta di aver perso quel tale aereo
proprio per un pelo! Se fosse arrivato puntuale non avrebbe
potuto raccontare più niente!
E quell’incendio in Australia? Che ha ucciso centinaia di esseri
umani e centinaia di migliaia di animali?
133
Mi ricordo quando ho comprato una roulette e ho cominciato a
farla girare per vedere quante volte uscivano il rosso e il nero,
quante volte di fila l’uno e l’altro, in che misura si alternavano
l’uno e l’altro, e se si potevano fissare delle leggi, o almeno
delle tendenze. Ebbene, dopo un certo numero di tiri (qualche
centinaio - segnavo tutto) mi resi conto che il rosso e il nero,
più o meno, si equivalevano. Non c’erano regole precise, ma
una tendenza, una specie di equilibrio nei risultati. Dunque il
caso ha un suo equilibrio? E un equilibrio può essere considerato il frutto di una legge? O determinarla?
E l’aereo in Germania? Gli aerei che colpiscono le case equivalgono agli aerei che si schiantano al suolo, in aperta campagna?
O forse esistono elfi, spiritelli maligni, coboldi, il demonio stesso, che si divertono a complicare la vita alle persone? O si tratta di sfiga? E c’è gente più sfigata di altra? Questo è un genere
di pensieri che spesso mi ossessiona; una delle due cose che
spesso mi ossessionano.
L’altra cosa che mi ossessiona è una specie di vizio assurdo,
una tentazione più forte di ogni mio controllo, e che mi fa provare dei brividi quasi vicini all’ orgasmo. Ed è il piacere di rubare degli oggetti, non visto: delle cose, dei vestiti, o dei generi alimentari. Una volta ho rubato un prosciutto intero in un ristorante; l’ho nascosto sotto l’impermeabile quando sono uscito, dopo aver pagato regolarmente il conto.
Vorrei sottolineare due aspetti del problema: innanzitutto non
lo faccio per bisogno, ma per il piacere di farlo; poi non lo faccio con un atteggiamento criminale, o vandalico; non mi viene
voglia di rubare il portafoglio dalla tasca di uno sconosciuto, o
di andare di notte a svaligiare una gioielleria. È solo quando mi
càpita, se mi càpita, se il caso mi presenta un’ opportunità.
Una volta ho visto una donna che, seduta su una panchina,
cercava qualcosa dentro la sua borsa; a un certo punto le è
scivolato il portafoglio per terra, senza che lei se ne accorgesse; poi si è alzata e se ne è andata. Io ho visto tutto. Ho lasciato che la donna si allontanasse, poi mi sono avvicinato alla
sua panchina, ho raccolto il portafoglio caduto, e mi sono allontanato anch’io dall’altra parte, col cuore che batteva forte forte. Ecco, è questo battito cardiaco accelerato, questo stringimento alla bocca dello stomaco che mi piace da impazzire. Non
lo so perché, né voglio cercare di saperlo. Lo faccio e basta.
Tutt’al più mi va di scriverne, ma senza trovare delle scuse, o
tentare di approfondire per capire chi sono, cosa voglio, perché
lo faccio, ecc...
134
Una strana ragazza.
Improvvisamente lui si trova davanti alla stazione. Il percorso
che doveva fare quel giorno non lo prevedeva, ma ci si è trovato. E, come spesso gli succede, cerca di approfittare di una situazione imprevista e/o rara, per raggiungere più scopi: due o
più piccioni con una fava, insomma. È domenica, le farmacie
sono quasi tutte chiuse, lui ha quasi finito una certa medicina,
e in stazione c’è sempre una farmacia di turno; tanto vale
comprarla lì. Poi si rende conto di non avere ancora preso il
giornale e in stazione c’è sempre un giornalaio aperto. Poi potrebbe approfittare per guardare gli orari dei treni per Venezia,
dove dovrebbe andare entro la fine del mese. Insomma: tre
piccioni con una fava! E così entra in stazione.
L’atmosfera di una stazione ferroviaria lo ha sempre affascinato: l’odore che si respira, fatto di ferro, di latrine, di lisoformio, di sudore, di olio di macchina, di cibi cotti, di caffè, di
giornali freschi di stampa, di plastica; i gesti delle persone, le
camminate, le facce della gente, una diversa dall’altra, ognuna
coi suoi problemi, le sue speranze, le sue necessità di partire,
tornare, accompagnare un’altra persona che parte, andare a
prendere una che arriva.
Una stazione, comunque, anche se ci càpiti per caso, fa venire
voglia di partire, andarsene non importa dove: uscire, andarsene. Quante volte gli è venuta questa voglia: prendere un treno qualsiasi, senza una mèta precisa, e scendere dopo un po’,
a una stazione qualunque, girare per le strade di una città o di
un paese sconosciuti, entrare in un bar, fare conoscenze fortuite, affrontare delle avventure impreviste, senza senso, senza
uno scopo preciso. Sfidare il caso!
A un certo punto vede una macchinetta per le fotocopie e si ricorda che deve fare la fotocopia di un documento che ha in tasca. Lo tira fuori, si avvicina alla macchinetta, ma è preceduto
da una ragazza che ha già appoggiato un suo foglio sul vetro.
La macchinetta però sembra non voler funzionare, non si mette
in moto. Interviene anche lui, le da una mano, ma la macchinetta non funziona proprio. Lui improvvisa una battuta divertente per sdrammatizzare la situazione, la ragazza sorride di
circostanza, ma intanto aggrotta la fronte e si morde il labbro
inferiore, con un'espressione molto infantile. Lui si ricorda che
da un’altra parte della stazione c’è un’altra fotocopiatrice e
propone alla ragazza di provare con quella. Lei accetta e si incamminano insieme, l’uno a fianco dell’altra.
135
Parlano del più e del meno. Gli sembra che la ragazza abbia
delle difficoltà non solo con le fotocopiatrici. Lui vorrebbe approfondire, e le fa qualche domanda più personale, ma lei non
ci sta, elude, cincischia. C’è qualcosa, però, nel tono della voce, nel comportamento generale, che farebbe pensare a un suo
desiderio (bisogno?) di sfogarsi. Forse si tratta solo di insistere. Con garbo, naturalmente.
Sono arrivati all’altra fotocopiatrice che funziona perfettamente. La ragazza fa la sua fotocopia, la mette in borsa, intanto lui
fa la sua, la controlla, sembra soddisfatto, però sta pensando
ad altro. I due ora si guardano con un sorriso imbarazzato. Non
c’è altro fra i due, almeno di espresso. Non ci sono altre parole,
se non di circostanza. Si salutano, si danno la mano. Lui crede
di vedere negli occhi di lei una nota di tristezza, addirittura un
desiderio (un’ implorazione?) di stare insieme ancora per un
po’. Però la timidezza di entrambi impedisce che il dialogo e le
azioni si sviluppino in questo senso. Sorridono, si salutano, ed
è tutto.
Lei se ne va verso il suo treno che sta per partire. Nella mente
di lui si affollano pensieri, sentimenti, folgorazioni, impulsi poco chiari e irrazionali. Il cuore gli batte forte. Ha come l’ impressione di vivere un istante fatale (il caso che mostra la sua
mano sempre così invisibile?). Si rende conto che lui non ha
una meta precisa, né per quel giorno, né per l’ indomani, e così
decide. Le corre dietro, fra la folla, l’ha persa di vista, però conosce la destinazione della ragazza, per cui sa quale treno deve prendere, raggiunge il binario, il treno sta per partire, si
sente un fischio, non la vede, sarà già salita, sale anche lui sul
primo vagone, le portiere si chiudono automaticamente, il treno si muove, è felice, qualcosa succederà.
In treno.
Lui sta camminando lungo i corridoi intasati di gente che ancora non ha trovato posto, o ancora non vuole sedersi. Avanza
rapidamente sollevando le gambe, i piedi, per scavalcare valigie, bambini, cani, e lancia occhiate all’interno degli scompartimenti, senza perdere di vista la gente nei corridoi. Passa da
un vagone all’altro, da un corridoio all’altro, da una classe
all’altra. Alcuni vagoni sono col corridoio centrale e i posti a
destra e a sinistra. Più difficili da controllare perché bisogna
guardare in faccia a tutti e poi girare la testa di qua e di là.
Arriva fino all’inizio del treno. Poi c’è la motrice. Ma lei non c’è.
136
O almeno lui non l’ha vista. Torna indietro, vagone per vagone,
scompartimento per scompartimento, forse questa volta la vede, seduta, a leggere il libro che aveva nella borsa. Niente, non
c'è. Ricomincia un terzo passaggio (forse era andata al gabinetto!), più lento, più determinato, più scrupoloso.
Niente. La ragazza sembra volatilizzata. Oppure ha preso un altro treno. Non ha detto la verità. Si è allarmata quando lui le
ha fatto qualche domanda in più. Si ricorda di quell'altra volta
in cui ha chiesto il numero di telefono a una ragazza, e quella
gliel'ha dato sbagliato! Lui l’ha chiamata e ha risposto una voce
d'uomo, sgradevole e indispettita: "Qui non ci sta nessuna Arianna!". E ha messo giù. Che stronza!
Decide di sedere da qualche parte, a riflettere, a raccogliere le
idee. Che fare? Che senso ha tutto questo? Dove sta andando?
Gli piace questa storia? Questo imprevisto? Dove può condurre? Non era lui quello che voleva prendere un treno senza motivo per evadere? Ma adesso c’era un motivo, e il motivo si è
dissolto, volatilizzato. E non riesce a sostituirlo con un “non
motivo”.
Il treno ora corre per i campi. Lui si è seduto in uno scompartimento. Ci sono altre persone: gente anonima, poco interessante, due casalinghe che parlano del rincaro dei prezzi, un
impiegato che legge un giallo, un bambino rompicoglioni. Si
mette a guardare la campagna che scorre veloce. Ma non riesce a vedere niente. E’ stato preso in giro? Un’altra volta! O la
ragazza improvvisamente ha cambiato idea? O ha telefonato a
qualcuno e ha perso il treno? Oppure è tornata indietro per
cercare lui!? O è stato preso in giro dal Caso? Che gli ha suggerito degli stimoli per una storia impossibile! Che cosa può
venir fuori da tutto questo? Quali insegnamenti? Se no, che senso ha tutto questo?
A poco a poco sta entrando nel sentiero spinoso della sua vita,
dei suoi fallimenti, delle illusioni che ha alimentato inutilmente.
Ripensa al suo recente disastro sentimentale, alla stupidaggine
della sua ultima telefonata. Poteva stare zitto, no? E aspettare
che fosse stata lei a decidere. E invece ha voluto dimostrare
che era lui a condurre il gioco. Che coglione! Però ormai era
fatta. Non poteva più tornare indietro. Per una telefonata, anzi,
per una frase: “Ma tu cosa credi? Che io sia sempre disposto a
tutto?”. Quella frase, la frase di lei, ma soprattutto il tono gli
risuona nella testa come una musica ossessiva. E adesso che
fare? Scendere subito? Ma dove sta andando questo treno del
cazzo?
137
A poco a poco, come spesso gli succede da un po’ di tempo, il
pensiero si fa più generale, tocca orizzonti più ampi, esistenziali. Difficile uscire da un meccanismo che non siamo noi a
controllare. Ma allora chi lo controlla? Chi fa le leggi? Quel famoso equilibrio dei rossi e dei neri! Chi lo elabora? L’idea di un
Dio che pensa a questo cose lo ha abbandonato da tempo immemorabile. Tutto quello che succede, succede. "Andiamo avanti. Qualcos’ altro succederà!". Si lascia andare a un fatalismo che a volte lo rassicura. In fondo la sua vita non è da buttare via. Anzi. Ha dei progetti piuttosto interessanti. Nell’ analizzare questi suoi progetti piuttosto interessanti si addormenta, senza accorgersi, naturalmente. Difficile controllare il meccanismo del sonno.
Ancora in treno.
Lo sveglia il controllore che gli chiede il biglietto. Non ce l'ha.
Si giustifica dicendo che ha preso il treno per un pelo, ma è
pronto a pagare il dovuto. Lo scompartimento intanto s'è svuotato. C'è un giornale spiegazzato su un sedile e una settimana
enigmistica per terra. Sulla reticella dei bagagli a mano però
c'è una valigia, di plastica marrone. Una volta uscito il controllore, si alza e va in corridoio. È pieno di gente annoiata che è
uscita dagli scompartimenti per sgranchirsi le gambe, o per
fumare una sigaretta. Quasi istintivamente si rimette in moto
per un altro giro di perlustrazione.
Ma inutilmente. La ragazza su quel treno non c'è proprio. Torna
nel suo scompartimento, si siede, prende il giornale, legge i titoli, ma non c'è niente che lo colpisca. Eppure ce ne sarebbero
di notizie sconvolgenti! Non c’è niente che lo tocchi in qualche
modo. Rimette il giornale dov'era prima, guarda fuori del finestrino. Dove sta andando? A fare che? Qual è il senso? Perché
si trova su quel treno? Qualcosa di dentro gli dice che non è
stato solo per inseguire una ragazza. Per cui non c'è che da aspettare. Il caso sa il fatto suo. Basta avere fede. La legge degli equilibri naturali troverà una sistemazione anche per lui.
Lancia uno sguardo verso la valigia marrone. Di chi sarà? Si alza, torna in corridoio, guarda a destra, a sinistra. Tutti i presenti sono occupati a fumare, a guardare fuori dai finestrini, o
a ridere, a parlare fra di loro, o con altra gente negli scompartimenti. Dov'è il proprietario, o la proprietaria, della valigia? È
sceso, o è scesa e l'ha dimenticata? O è andato, o andata, in
gabinetto?
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Istintivamente si rimette in moto lungo il corridoio, arriva a un
gabinetto, posa la mano sulla maniglia che cede, la porta si apre, il gabinetto è libero. Torna indietro, arriva all'altro gabinetto, dalla parte opposta del vagone. Sta per allungare la mano, quando la porta si apre ed esce una donna che gli lancia
un'occhiata. Lui abbassa lo sguardo, non sa perché, ma appena
la donna gli volta le spalle la osserva curioso. La donna entra
nel primo scompartimento del corridoio. Dunque la valigia non
è sua. E allora? Torna nel suo scompartimento, a metà vagone. È sempre vuoto, con la valigia sulla reticella.
Il treno intanto sta rallentando, qualcuno si prepara a scendere, ma nessuno sembra preoccuparsi della valigia marrone. Il
treno si ferma, qualcuno scende, qualcuno sale, qualcuno passa davanti al suo scompartimento e passa oltre, qualcuno entra. Il cuore comincia battergli forte, sempre di più. Sta entrando in un processo che ben conosce. E al quale è difficile
opporsi. Non sta neanche a rifletterci troppo. Fra l'altro c'è pochissimo tempo. Prende la valigia dalla reticella, si precipita in
corridoio, lo percorre quasi di corsa, mentalmente si prepara a
un'eventuale giustificazione nel caso che qualcuno gli dicesse
"ma quella valigia è mia!". Una scusa, un errore: "che sbadato,
mi spiace!". Non gli sarebbe stato difficile. Ma nessuno lo ferma. Scende. Ora è sul marciapiede. Il controllore richiude lo
sportello. Un fischio. Il treno riparte.
In una stazione qualunque della vita.
Ora lui è lì, sul marciapiede di una stazione non ben definita,
solo, con una valigia in mano, non sa di chi. Cioè, ora è sua! Si
guarda attorno, vede poco lontano un cartello con su scritto
"sale d'aspetto". Vi si avvia, abbastanza velocemente. Il cuore
continua a battergli fortissimo. E si accorge che sta sorridendo,
si rende conto della sua bocca che si apre in un sorriso appena
percettibile.
Entra nella sala d'aspetto di seconda. È piena di gente. Benissimo. Così nessuno si occuperà di lui. Appoggia la valigia su
una poltroncina vuota e cerca di far scattare la serratura, l'unica serratura, centrale, proprio sotto il manico, ma la serratura
non si apre, è bloccata, però non gli sembra una serratura seria. Si ricorda di avere in tasca un temperino a più lame, fra cui
una specie di punteruolo. Lo tira fuori, estrae il punteruolo, lo
infila nella serratura, lo muove, lo gira, lo rigira, la serratura
scatta. È fatta! Ora viene il bello.
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Lentamente apre la valigia, come un giocatore di poker, che
non vuole sapere sùbito quali sono le sue carte. Appoggia la
parte superiore della valigia sullo schienale della poltroncina e
guarda dentro la valigia. Ci sono dei pacchi confezionati in modo molto approssimativo, ne sposta uno per vedere cosa c'è
sotto. Il pacco è pesante. Ne sposta un altro. Ora gli appare
uno strano meccanismo, una specie di orologio, come un timer,
con dei numeri che stanno scorrendo in senso contrario. Al
timer sono collegati dei fili. Il cuore gli torna a battere furiosamente, molto più di prima. E un sudore gelido gli bagna il
cuoio capelluto, e il torace. In pochi secondi è fradicio. Intuisce
qualcosa, si guarda attorno, nessuno si occupa di lui, come voleva, del resto. Un bambino si è messo a piangere da qualche
parte. Che fare? Che fare?
Però non fa a tempo a organizzare il suo pensiero. Ormai è
troppo tardi. Lancia un'altra occhiata al timer. Prima non aveva
fatto caso ai numeri, al loro valore effettivo, obbiettivo. Vedeva
solo che cambiavano in senso decrescente, e basta. Ora ci fa
caso. Meno sei, cinque, quattro, che fare?, due, uno...
La cronaca.
Un'esplosione fortissima si avvertì nella zona, subito seguita da
un botto più sordo, da un'altra parte, come un'eco lontana. La
stazione venne distrutta, letteralmente. I morti e i feriti furono
parecchi, ma potevano essere di più, si calcolò, se la bomba
fosse esplosa qualche minuto prima, perché era appena passato un treno carico di gente, che aveva sostato pochi secondi ed
era ripartito. Errore di calcolo? Treno in ritardo? Caso? Fortuna
per qualcuno, sfortuna per qualcun altro, come sempre, si
scrisse. È la vita! “Che cazzo di vita!” pensò uno, mentre leggeva sul giornale l’episodio.
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Ritiro spirituale.
Lo sveglia uno strano fruscio, leggero e incessante. Sembrerebbe venire da fuori. Come di pioggia. Di pioggia sul fogliame.
Essendo arrivato la sera precedente, ed essendo andato a dormire piuttosto tardi, non si era potuto fare un' immagine di
quello che si vedeva dalla sua camera. Aveva chiuso le persiane sul buio pesto. Si alza dal letto e ha un brivido di freddo.
Sotto le coperte c'era un bel calduccio. Va verso la finestra, la
spalanca, apre le persiane e gli appare un giardino. Un giardino
incolto. Ma non selvaggio. Un giardino abbandonato a se stesso: alberi diversi, cespugli, rami secchi per terra, lasciati marcire chissà da quanto sull'erba mai tagliata, e poi fiori, fiorellini, sparsi qua e là. Il tutto senza un' organizzazione. Ma l'impressione generale non è di squallore, anzi. C'è un grande senso di libertà, di natura allo stato brado, e per ciò godibilissima.
La vegetazione è a perdita d'occhio. Non si vede niente oltre il
giardino. Chissà quanto è grande.
E su tutta questa verzura sta piovendo. Una pioggia costante,
ma non violenta, anzi discreta, come una specie di benvenuto
agli ospiti della villa, un'atmosfera adeguata allo scopo per cui
erano venuti lì, la sera precedente, e per cui dovevano fermarsi
lì, per altri due giorni. Non poteva esserci il sole. Guai. Sarebbe
stato del tutto fuori luogo. Invece questa pioggia continua,
questo sottofondo discreto e naturale, questo ticchettio insistente, era tutto giustissimo. Induceva alla meditazione. Erano
venuti lì proprio per questo: meditare!
Richiude la finestra restando a guardare il giardino attraverso i
vetri. E comincia a pensare. O meglio, si lascia andare ai pensieri che gli vengono in mente. Perché era venuto lì? Era da un
po' di tempo che aveva dei problemi. Spirituali? Si dice così?
Problemi che riguardavano la sua esistenza, il perché di certe
cose, da dove veniamo, dove stiamo andando, ecc... Frequentando un liceo retto da gesuiti era ovvio che le domande su Dio
fossero in primo piano. E le domande sul Bene, sul Male, sul
Peccato, ecc...
Per cui, quando i padri decisero di invitare i ragazzi a un ritiro
spirituale in una loro villa in campagna, lui accettò subito. Non
tutti avevano accolto l'invito, ma lui sì, subito. Perché? Si sentiva portato a una vita religiosa? Sentiva una certa vocazione
dentro di sé? Verso una scelta spirituale? O addirittura voleva
diventare sacerdote? "Non so", si risponde. "Per ora sento solo
un grande bisogno di stare solo, in una camera come questa, e
141
davanti a un giardino come questo." Avverte dei rumori in corridoio. I padri sono già in movimento. Qualcuno bussa alla sua
porta. Va ad aprire. Un giovane gesuita gli sorride. "Fra mezz'ora giù in chiesa!" dice. "Va bene."
Si lava la faccia con un'acqua gelida che lo fa rabbrividire un'altra volta. Si veste rapidamente. È pronto a scendere. Si
rende conto che sono passati appena dieci minuti. Che fare?
Uscire in corridoio? Scendere prima? Andare in giardino per
qualche minuto? Si siede sull'unica sedia della camera, vicino
alla finestra, e riprende a guardare fuori. Dal punto in cui si
trova vede solo le cime degli alberi, e la pioggia, la pioggia insistente. Ha un altro brivido, ma non di freddo questa volta. È
una sensazione nuova. Si accorge che la bocca si sta muovendo
in una sorta di sorriso appena accennato. Si sente bene. È felice. Ha bisogno di questo, ora, di queste vacanze meditative. O
di questo pieno meditativo. Gli viene in mente che gli piacerebbe fare solo questo nella vita: meditare. E gli viene voglia di
piangere.
In chiesa ascolta la messa in silenzio, attento, concentrato,
coinvolto. A un certo punto, per curiosità, si mette a guardare
le facce degli altri ragazzi. Anche qualcun altro è molto attento
e concentrato, con gli occhi seri, delle rughe giovani sulla fronte, lo sguardo verso l'altare, ma oltre il sacerdote che sta officiando. Qualcun altro invece ha un'espressione strafottente,
come se si trovasse lì solo per giocare. Perché? A che pro? Che
senso ha? Prendere in giro i religiosi? Prendere in giro se stessi? C'è poco da divertirsi in questo posto.
La predica del sacerdote lascia il segno. Tocca certe corde già
sensibilizzate dai giorni precedenti. E non solo a lui, gli sembra. Vede molti occhi luccicanti, e sente molti nasi tirare su il
fluido interno. Il condizionamento dei gesuiti è così forte da influenzare i pensieri, o i bisogni spirituali dei ragazzi? No. Gli
sembra che i gesuiti non c'entrino per niente. Il mondo in cui
vive, i bisogni che prova, le emozioni, le domande che si pone,
le risposte che gli vengono in mente, tutto gli sembra così personale, così necessario, così particolarmente suo. Gli sembra
così logico porsi quel tipo di domande e cercare di rispondersi
così come sta cercando di fare. Anzi, gli sembra che le sue risposte siano più vaste di quelle che gli suggeriscono i preti.
L'Uomo è un essere meraviglioso, pensa. O meglio: l'uomo può
essere un essere meraviglioso. Ma che fare? Come fare? Da
dove cominciare?
Finita la messa si va a fare colazione. Poi cominciano gli eserci-
142
zi spirituali: discorsi tenuti da diversi padri, anche giovani. Non
si tratta di prediche, ma di riflessioni pubbliche, cui i ragazzi
devono partecipare. Poi esercitazioni, meditazioni, gruppi di lavoro, temi da sviluppare, libri da leggere e da commentare,
racconti di esperienze passate, idee personali. Spesso sono i
discorsi dei sacerdoti più giovani che lo toccano, perché più
abili, più vicini a lui, meno convenzionali, o dogmatici. Il dogma non lo convince. Lo tocca solo la passione che gli trabocca
dall'interno. Si accorge di avere sempre un groppo in gola. È
sempre commosso. Se non si controllasse, si metterebbe a
piangere ogni momento.
Cos'è questa vita? Perché siamo a questo mondo? Perché si
soffre così tanto e così spesso? Perché tante ingiustizie a questo mondo? Perché tante inquietudini? Tante disperazioni? Perché tanti nemici? Esterni e interni? Perché tante tentazioni che
ci distraggono dal cammino giusto? E qual è il cammino giusto?
E perché tante debolezze? E il sesso? E che senso ha il sesso?
E la donna per l'uomo? E l'uomo per la donna? E il piacere?
Perché tutti quei pensieri sulla donna? Su certi atti cosiddetti
"innominabili", eppure affascinanti, e piacevoli? Perché tanta
angoscia dopo una tentazione cui non si è saputo resistere?
Perché quella voglia continua e terribile di toccarsi? Sempre! E
perché la disperazione successiva? Se questa voglia c'è dentro
di noi, perché non si dovrebbe provare, o piuttosto, perché non
si dovrebbe cederle? Perché esiste il peccato? E se il peccato è
un'offesa verso Dio, perché Dio ha permesso che ci fosse? Anzi,
l'ha reso così attraente? Sì certo, per poter scegliere di non
commetterlo, ed essere così degni di Lui! Ma perché il peccato
è peccato? Perché il peccato è contro Dio? Cosa c'è di immorale
nel peccato? Cosa c'è di immorale o di terribile o di innominabile o di indecente o di perverso o di mostruoso in un semplice
piacere fisico, magari solitario, che non compromette l'integrità
di nessuno, e tocca solo la propria sfera privata? Perché Dio
dovrebbe offendersi se un ragazzo si tocca e prova piacere?
Perché Dio dovrebbe essere così meschino? O c'è dietro qualcos'altro? Un mistero per ora indecifrabile? E tutti questi non
sono che simboli di qualcos' altro? Di un altro livello in cui il
Bene e il Male sono ben altro?
Si succedono le prediche, le discussioni, le meditazioni, le letture pubbliche e private, i commenti. Si succedono i rituali. Ha
come l'impressione che i momenti più intensi, più commoventi,
non siano tanto quelli dedicati alle prediche o ai ragionamenti o
alle riflessioni, quanto quelli dedicati al rito, in cui nessuno
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parla, ma si assiste solo a un cerimoniale, si sente solo l'odore
dell'incenso, e le candele oscillano a un vento che non si sa bene da dove venga. Il vento di Dio? E pensando a Dio gli viene
in mente: "io l'amo!"
Poi viene l'ora di cena. Poi altri discorsi, altri riti, e poi a letto.
Dove il sonno lo prende subito e irresistibile. Per cui sprofonda
nell'oblio. Il mattino dopo gli sembra quasi di non aver sognato
neppure. Ora non piove più. "Non ce n'è più bisogno." Fuori è
sempre grigio. E incomincia la seconda giornata. Però ha come
l'impressione che fosse più bella la prima giornata, più coinvolgente. Anche le prediche si ripetono. Pensa che tutto questo
è normale. Il giorno prima tutti loro si affidavano ai padri, ai
responsabili spirituali. E stavano ad ascoltare, ansiosi di capire,
di apprendere. A poco a poco, e giustamente, si fa strada il
senso di responsabilità, la propria capacità di intendere e di volere e di decidere e di vivere. Ora forse c'è più insicurezza. E
tristezza. Si è più soli. Con se stessi. Dopo cena tutti in camera, in attesa di una visita personale. Il vecchio padre spirituale
dell'istituto contatterà personalmente e individualmente tutti i
ragazzi, uno per uno, uno dopo l'altro, in camera, per un colloquio.
L'attesa è strana. Non sa esattamente se questo incontro gli
faccia piacere o se lo turbi. Non ha idea di che cosa si tratti, di
che parleranno. Ha come l'impressione che forse sarebbe stato
meglio se tutto fosse rimasto nel vago. Ognuno avrebbe elaborato le sue meditazioni, avrebbe avuto le sue risposte personali, senza bisogno di questa specie di esame. O di test. È come
se questo incontro con un essere umano concreto banalizzasse
il suo eventuale incontro con... la Divinità.
Mentre la sua mente stava sviluppando le sue variazioni sul
tema, mentre gli sembrava che l'importante fosse (e forse lo
stava raggiungendo) un rapporto diretto con Dio, non tanto il
Dio uno e trino, rappresentato insieme al figlio e alla colomba,
quanto il Dio creatore, il Dio al disopra di tutto, il Dio Tutto, di
cui particolarmente avvertiva il bisogno, sente bussare. Apre la
porta e appare Padre Fossati, un anziano gesuita che lui conosce bene, e al quale si è confessato tante volte, in città. Il padre ha un sorriso aperto, sincero e disponibile. Almeno gli
sembra.
- Permesso?
- Avanti.
- Come va, figliolo?
144
-
Bene, padre.
A cosa stai pensando in queste ore?
A tante cose, padre, tantissime cose.
Sei contento di essere qui?
Molto, moltissimo, è tutto bellissimo.
Ad ogni domanda del religioso lui risponde ripetendo le frasi,
gli aggettivi, usando degli accrescitivi. Non sa rispondere in un
altro modo. Non sa spiegarsi in un altro modo. Si rende conto
di trovarsi a disagio. Accenna a un suo stato d' animo, in generale, ai sentimenti che prova, ma non sa parlarne, non sa spiegarli, non sa approfondirli. Non vuole? Sente un fastidio. E alla
domanda prevista, sì, prevista (ora si rende conto che se l'aspettava) fa il vago.
-
-
-
Ti sembra di avvertire in qualche modo una vocazione?
A che cosa, padre?
A una eventuale vita tutta dedicata al Signore.
Farmi gesuita?
Sì.
Non lo so. In questo momento non so rispondere. È tutto così
incredibile, strano, misterioso, difficile da spiegare. Dovrei
pensarci, dovrei lasciare depositare queste emozioni, queste
sensazioni, questa gioia anche, questo benessere e anche
questo dolore.
Dolore?
Sì. È come se provassi un dolore violento, una specie di disperazione. Non di essere qui, anzi. Ma perché sono qui? Perché provo certe emozioni? Sento anche un peso, un peso per
me e per gli altri.
In che senso gli altri? Intendi i tuoi compagni? No. Tutti gli altri, l'uomo.
Il peso di essere un uomo?
Il peso di essere un uomo così come sono io. Coi miei problemi, le mie ansie, i miei difetti, i miei peccati.
Quando dice “peccati” non intende la sua libidine, ma come una
macchia che lo avvolge, ma di cui non è responsabile. Capisce
cosa intendono quando dicono il peccato originale. Cioè il peccato di essere uomo! O lui almeno lo sente così. Anche più
complesso. La macchia della consapevolezza che ci introduce
nel mondo del bene e del male e che può creare delle tortuosità dentro di noi. Si sente a disagio.
145
-
Cosa intendi?
Sento che l’Uomo non è una conquista, ma…
È una possibilità. C’è tutto in lui per diventare…
Appunto, e io mi sento inadeguato. Non so se può funzionare
un uomo di fede, anzi un uomo di Dio, con questi problemi…
- Capisco. Allora pensaci ancora. Ci risentiamo in città, fra qualche giorno, quando vuoi, quando ti senti. Ne parliamo.
- Grazie, padre.
- Buona notte.
Quando il religioso esce, lui prova contemporaneamente due
sensazioni: una di liberazione, per uno scoglio superato, per
una sincerità ritrovata, con se stesso e con gli altri; ma insieme anche una tremenda angoscia. Non ci sarebbe stato più
nessuno cui affidarsi d'ora in avanti, nessuno che avrebbe potuto aiutarlo, aiutarlo a capire, a scegliere. Tutto, ora, sarebbe
dipeso solo da lui.
Il viaggio di ritorno è molto semplice. Nel senso che lui non si
accorge nemmeno del viaggio. Pensa ad altro. In effetti non si
accorge neppure di pensare, e quindi a che cosa stia pensando.
I ragazzi ora cantano, canzoncine del momento, stupide, ma
per riderne. Anche i religiosi ridono, e qualcuno canta insieme
ai ragazzi. C'è un senso di leggerezza, di superficialità. C'è anche il piacere di tornare dopo un'esperienza molto intensa.
Quando entra in casa è ormai sera e non c'è nessuno. Sua madre è fuori, forse a una riunione. I nonni sono in vacanza. Ci
vanno spesso. Solo il gatto lo accoglie, con un minimo miagolio
di saluto. Il rientro gli fa uno strano effetto. I problemi non sono appianati per niente, anzi. C'è solo una certezza. Lui ha bisogno di Dio. Ha bisogno di continuare un percorso che lo porti
a Dio. Ha bisogno di cercare un percorso che spesso lui perde
di vista, distratto dalle cose della vita, le necessità, o ciò che
lui pensa sia necessario.
Entra in camera sua. Fuori è già buio. Non accende la luce ma
si accosta alla finestra e guarda fuori. Non c'è un giardino incolto e meraviglioso sotto la pioggia, ma il palazzo di fronte, a
lui ben noto, oltre il cortile, con balconi, finestre, qualche finestra accesa. Soprappensiero, lancia delle occhiate indifferenti a
queste finestre. C'è gente che va e viene, ragazzi che studiano,
una coppia che sembra litigare. Quando si accorge di un' altra
finestra che si illumina. È una camera da letto, si vede un angolo del letto. Appare una donna avvolta da una vestaglia rosa.
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Ma chi è? Non l'ha mai vista prima. Eppure lui conosce tutti gli
abitanti del palazzo di fronte. Forse una nuova inquilina?
La osserva curioso. È giovane. Gli sembra carina. La donna entra ed esce dalla visuale. A un certo punto si toglie la vestaglia
e la butta sul letto. Resta nuda! Completamente nuda! La donna apre un armadio, prende un vestito e butta anche quello sul
letto, poi sparisce di nuovo. Una specie di vampa gli sale alla
testa. Il cuore si mette a battere fortissimo. Senza pensarci
due volte apre un cassetto e tira fuori un binocolo. Poi torna alla finestra e punta il binocolo verso la finestra di fronte. In modo da non farsi vedere. Poi si rende conto che dalla cucina forse si vede meglio e corre in cucina. Quasi scivola e cade per
terra. Si riprende, entra in cucina, senza accendere la luce, naturalmente e corre alla finestra. Punta il binocolo.
La donna riappare. È sempre nuda. Ora si vede meglio, è tutto
più evidente. Occupa tutto il campo visivo. Sembrerebbe distante tre, quattro metri. Non è molto alta. Ha i capelli raccolti
in un asciugamano bianco. E il pube nero. Evidentissimo, una
macchia nera, triangolare, sulla pelle bianchissima. Anzi, un
triangolo smussato ai lati, come dire? a destra e a sinistra, come se fosse stato regolato con le forbici, perché non si vedesse
il pelo uscire dalle mutandine, o dal costume da bagno.
Solo adesso lui si rende conto del seno, quasi invisibile, appena
pronunciato. Ma la sua attenzione è soprattutto su quella macchia nera triangolare che si muove per la stanza. Non è un corpo di donna che si muove, è una macchia nera triangolare, un
po' smussata a destra e a sinistra, che si muove per la stanza,
una macchia nera, sotto una pancia bianca, sotto un ombelico,
sopra due gambe che la portano in giro.
La donna sparisce di nuovo. Lui resta fermo, immobile, col binocolo puntato, col cuore che gli batte fortissimo, gli duole perfino, e il respiro affannoso. La donna riappare senza più l'asciugamano in testa. Ha i capelli scuri, corti, e in mano qualcosa di bianco. Sembrerebbe una maglietta. Infatti se la infila.
Per qualche attimo non le si vede la faccia, ma solo il seno,
piccolissimo, e il resto, la pancia, la macchia nera, le gambe.
Sparisce di nuovo. "Dio mio!"
Riappare quasi subito con in mano un altro indumento, nero,
questa volta. Lo stira con entrambe le mani, come per provarne la resistenza. Sono mutandine. "No, aspetta a mettertele, ti
prego!" E infatti la donna aspetta. Le butta sul letto e sparisce
di nuovo. L'ultima immagine è: lei di schiena, il suo sedere, le
natiche, la fessura fra le natiche.
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Lui non ce la fa più. La sua mano destra lascia il binocolo e scivola in basso sul suo sesso turgido, sotto i pantaloni, lo tocca,
attraverso la stoffa, sente un piacere bestiale che lo fa rabbrividire. Ma non gli basta. Tira giù la lampo ed estrae il sesso.
"Torna, dai, torna, ti prego!" E la donna riappare, con la sua
maglietta bianca, che ora le copre il seno, inesistente, ma che
comunque si intravede, si intravedono i capezzoli sotto la maglietta ("non ha bisogno di reggiseno", lui pensa), e la sua
macchia nera, triangolare, che vive, si muove, e ostenta la sua
esistenza, la sua importanza.
Ora lei prende le mutandine nere e se le infila. Ma è come se
questa nuova immagine di donna non più nuda completamente,
ma semisvestita, fosse ancora più seducente. Lui ora si sta
masturbando violentemente. Quasi non la guarda più. Il ritmo
della sua azione è forsennato. Come se volesse concludere prima che la donna si sia vestita completamente. E infatti lei è
ancora così, in slip e maglietta, quando lui viene. Con un urlo
che non riesce a trattenere. Un urlo che vuole essere di liberazione, di disperazione e di bestemmia.
La donna ora è vestita. Spegne la luce. E sembra che tutto si
spenga sul mondo. Le altre finestre accese, ora, è come se non
esistessero. Gli altri non esistono. Esiste solo quell' immagine
di donna, quel triangolo nero, ossessionante, che ha danzato in
una stanza illuminata, per tre minuti (quanto è durato?) forse
meno, quanto è bastato per fra crollare un' illusione. Ora lui
apre un armadietto. Prende uno straccio con cui torna alla finestra a pulire per terra. E un po' anche sul muro, sotto la finestra. Poi butta lo straccio, apre il frigorifero, prende del cibo e
si mette a mangiare da solo, guardando la parete davanti a sé,
senza pensieri. E senza drammi. Come vuoto, inerte, rilassato.
No, in effetti c'è un pensiero che gli si affaccia alla mente, ora,
anzi, più di uno, via via che passano i secondi, i minuti. E sono
pensieri così intensi che senza accorgersi si mette a parlare ad
alta voce: "ma chi è? da dove viene? non l'ho mai vista! come
faccio a conoscerla? io l'amo!" E prevede serate movimentate,
con lui sempre in cucina, la sera, e la mamma e i nonni, quando ci sono, che cominciano a chiedergli, stupiti: "ma che ci fai
sempre in cucina, la sera?"
148
Marika.
Tutto è cominciato alla mostra sui futuristi. C’erano molti amici
miei. Lei era amica di un’amica di un mio amico. Ci siamo conosciuti lì, ci siamo trovati simpatici, e davanti a un quadro di
Boccioni le ho tolto qualcosa che aveva sulla spalla. Una briciola, un pezzettino di qualcosa che aveva sulla spalla. Un gesto
naturale, spontaneo, come si fa fra due amici che si conoscono
da tempo. La cosa le piacque.
- Grazie!
- Prego.
Aveva un’espressione divertita e divertente, un po’ stupìta di
questa mia familiarità. Si spazzolò la spalla con una mano, come per togliere eventuali rimanenze, ma io la rassicurai.
- Non c’è più niente.
- E tu? Che fai? - mi chiese.
- Faccio il figlio di quella lì! – dissi indicando delle fotografie di
mia madre, che era stata un danzatrice futurista.
- Ah! – E mi guardò con un’espressione più interessata.
Poi cenammo insieme, da soli (stupendo!), e ci conoscemmo
meglio. Quelle situazioni sentimentali che esplodono improvvisamente e sembra tutto facile, tutto fluido, tutto spinto irresistibilmente dal vento dell’amore che preme. Come spesso succede al cinema. O nella pubblicità. Un dardo di Cupido ben piazzato! Insomma ci innamorammo reciprocamente, seduta stante. A volte succede. Ed è bellissimo. Lei faceva l’università: lettere con indirizzo spettacolo.
-
E tu che fai?
Ho fatto cose. Ora scrivo.
Bello. Cosa?
In questo momento racconti. Mi piace. Mi piace inventare
delle trame.
- Me li fai leggere?
- Certo.
Non vedevo l’ora. E così glieli feci avere per il giorno dopo. Le
piacquero moltissimo. Ero contento. A dire il vero ero proprio
felice. Non tanto perché le erano piaciuti i miei racconti, ma
149
perché mi ero innamorato. E mi pareva che fossi ricambiato.
Non mi succedeva da tempo. Un giorno avevo un forte mal di
testa.
-
Che hai?
Mal di testa.
Come mai?
Forse la pressione. Soffro di pressione alta.
Per fortuna che sono arrivata io nella tua vita. A curarti.
La frase mi colpì. Perché mi pose di fronte alla realtà. In effetti
lei era molto più giovane di me. La qual cosa, in un primo tempo, un po’ mi inibiva. Ma lei pareva non curarsene. Giocavamo
moltissimo. Anche in mezzo alla gente.
-
Mi scrivi un racconto su di me? - un giorno mi disse.
In che senso?
Un racconto con me protagonista.
Protagonista una donna col tuo nome?
No, protagonista proprio io, così come sono, per quello che
sono.
- Così come sei, per quello che sei!? - dissi quasi macchinalmente.
- Si.
Volevo dirle: “Ma così come sei e per quello che sei non sei adatta a un racconto. Che scrivo?”. Però le dissi:
- Vedi, io di solito, quando scrivo, prendo spunto dalla realtà.- Appunto, e io non sono reale?
- Si ma io, quando scrivo, ho bisogno di qualcosa di... come dire?... paradossale, o emblematico, di strano, ecco, per poterci poi lavorare su, se no di che parlo? Di due innamorati?
- E io non sono abbastanza strana? Per amare uno come te, bisogna essere piuttosto strani, non credi?
La sua faccia era bellissima, pura, ma non capiva le mie esigenze. Le sembrava tutto facile, semplice. Credeva anzi di farmi piacere e di compiere un gesto d’amore con la sua proposta.
Come se volesse, o come se cercasse l’ opportunità di entrare
nel mio mondo creativo, oltre che sentimentale. “Non lo so. Vedremo.” Dissi. E sorrisi. Senza aggiungere altro. Volevo lasciar
cadere il discorso. Il discorso però mi aveva toccato. Una storia
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su di lei. Una storia su ordinazione, praticamente. Riuscire a
farlo poteva avere dei vantaggi. Intanto non l’avevo mai fatto e
mi intrigava l’idea. Riuscire a farlo poteva essere una dimostrazione di scioltezza professionale conquistata, di una grande
disinvoltura creativa. Voleva dire riuscire a scrivere un racconto così come un tempo i pittori dipingevano dietro commissione. Poi poteva significare un motivo in più perché lei mi amasse! “Come sei bravo!” mi avrebbe detto. Pregustavo il momento. Immaginavo già il tono di voce, l’espressione degli occhi.
Pensavo che la sua approvazione sarebbe arrivata comunque, a
prescindere dal valore effettivo del pezzo.
Ma io sarei stato in grado di scriverlo? Questo mi tormentava
abbastanza. Non sapevo come cominciare, che cosa scrivere,
dove andare a sbattere. Avevo solo il titolo. E il personaggio
principale: Marika. Mancava la storia.
Poi c’era un altro fatto. Da quando mi ero innamorato non avevo più sentito il bisogno di scrivere. Non avevo altri stimoli,
interessi, al di fuori del mio amore per lei. Che cosa avrei potuto scrivere in proposito? Sulla bellezza dell’amore in generale?
Sulla felicità che stavo provando? Sulla fortuna della consapevolezza che ci permette a noi umani di gioire? Di solito scrivevo
cose serie, emblematiche, anche trucide. Ritenevo che l’arte
dovesse sottolineare la crudezza del vivere.
Ero innamorato, riamato, e appagato. Che volevo di più? Possibile che per scrivere qualcosa occorressero dei problemi personali su cui scrivere, o per cui scrivere? Creare, dunque, è una
forma di compensazione a delle deficienze dell’essere? Dante,
Petrarca, avrebbero scritto la Commedia o il Canzoniere, se
Beatrice e Laura avessero corrisposto al sentimento dei due
grandi?
Ma io, personalmente, cosa avrei preferito? Essere amato e felice e non sentire quindi il bisogno di scrivere niente di particolare? O infelice, perché non corrisposto, e riuscire a scrivere
delle cose importanti?
A volte mi veniva da pensare: “Ma vaffanculo l’arte! Preferisco essere un uomo felice con la mia donna e per la mia donna.” A volte
però mi veniva da pensare: “Ma la felicità, per me, non è anche riuscire a scrivere un buon racconto? E allora ben vengano le deficienze dell’anima! Ben venga un’ infelicità di fondo, ben vengano le
mie crisi esistenziali, se costituiscono il carburante all’esplosione
creativa: una sorta di orgasmo mentale!” Ma subito dopo: “Vaffanculo l’arte! Non c’è niente di più gratificante dell’ emozione che provo quando sento la sua voce alla segreteria telefonica che mi dice
151
amore mio!” Insomma era un periodo in cui vivevo fra questi conflitti. E non scrivevo niente. Anzi speravo che lei si fosse dimenticata della sua richiesta.
- Allora... me l’hai scritto un racconto su di me? – mi disse
qualche giorno dopo. Cazzo, non se n’era dimenticata!
- Ci sto pensando - feci.
- Molto bene. Non vedo l’ora dì leggerlo.
- Ed io di scriverlo.
- Favoloso! Però non fare lo stronzo!
- In che senso?
- Tràttami bene.
- E perché dovrei trattarti male?
- Ti conosco.
Chissà perché avevo risposto così? “Ed io di scriverlo!” Non era
vero. Volevo essere lontano mille miglia dal problema. Avrei
voluto che lei non me l’avesse mai chiesto. Il fastidio che mi nasceva dentro era anche dovuto al fatto che per scrivere su di
lei avrei dovuto parlare anche di me, e la cosa non mi entusiasmava. Che dire di me? Che dire di lei? Che dire di noi due?
Che ci amavamo perdutamente? Capirai che interesse poteva
stimolare nel lettore! Mi venne in mente di scrivere un racconto ironico, una presa in giro dell’ amore. Funziona sempre. Soprattutto fra gli infelici in amore. Ce ne sono tanti! Sorrisi dentro di me. L’idea mi piaceva. Potevo cominciare con un dialogo
tipo quelli che facevamo in quel periodo.
-
Ma tu mi ami veramente? - dice lei.
Oppure?
Oppure cosa?
Il tono presuppone un’alternativa - dico io.
Oppure mi stai prendendo per il culo?
E perché dovrei prenderti per il culo?
Perché sei uno stronzo.
Era un po’ di tempo che cominciavamo ad essere sboccati. Non
passava giorno in cui lei non mi dicesse “che stronzo che sei!”
Non capivo se veramente ero diventato uno stronzo, o se a poco a poco in amore si arriva a questo genere di epìteti per evoluzione naturale. E se la parolaccia è una forma di comunicazione fra due che trovano ormai superate le espressioni romantiche!
152
-
Senti, amore, si fa che la smettiamo di dirci parolacce!?
Perché?
Non mi piacciono.
Me le dici anche tu!
È vero, ma te le dico perché me le dici tu.
Mi guardava aggrottando gli occhi. Continuai...
- Si fa che tutte le volte che ti viene voglia di chiamarmi stronzo mi chiami amore?
Restò un attimo in silenzio, guardando il vuoto. Poi...
- Allora mi sa che dovrò chiamarti “amore” continuamente! - Che stronza!
Scrissi questo dialoghetto e glielo feci leggere. Non le piacque,
naturalmente. Le parlai del mio problema. Le accennai all’idea
di scrivere un racconto ironico.
- No, senti, dai, sul serio... Scrivimi un racconto serio.
- Amore, in un racconto serio devono succedere delle cose, dei
fatti strani, dei conflitti, qualcosa che va storto. Per poi raddrizzarsi improvvisamente, casualmente, o volontariamente,
attraverso un gesto umano. Ma ci deve essere un nodo drammatico che si deve sciogliere. Oppure non si riesce a sciogliere perché non si può andare contro certe forze contrarie della
natura, della natura dell’uomo. E allora resta il nodo, resta il
dramma, quasi a dimostrare che la vita è drammatica… mi
segui?
Mi guardava con gli occhi sbarrati. Non mi era chiaro se capiva
il mio discorso oppure no. Fatto sta che replicò:
- Sì, però sarebbe bello se tu riuscissi a scrivere un racconto
su di me! - Cazzo! Ma sei scema? Ti sto parlando di come nasce un racconto secondo me! - (Chissà perché esplosi in quel modo?)
- Non c’è bisogno che tu mi offenda! (Aveva ragione!) Ti sto
solo dicendo che se sei un artista potresti trovare il modo di
risolvere il problema, no? Inventa, non pescare nella realtà,
ma nella fantasia. Dovresti aver ne se sei un bravo scrittore!
No? -
153
Toccato sul vivo! Mi aveva sfidato. Adesso non potevo più tornare indietro. Pena la sua disistima, e probabilmente la fine
dell’amore. Oddio! Era un amore a cui tenevo. Non c’era dubbio. O no? Per la prima volta dall’ inizio del rapporto cominciavo a dubitarne! Come mai? Forse perché mi teneva troppo sotto pressione? Forse per via della differenza d’età?
Comunque dovevo cominciare a scrivere il mio racconto. Il suo
racconto. Se non altro per me stesso. Ma quale poteva essere il
soggetto? E i fatti? Cosa avrei potuto raccontare? Di come a un
certo punto abbiamo cominciato a prenderci a parolacce? Pur
amandoci. Ma che vuol dire? Che senso ha?
Cominciava a prendermi una specie di nausea. E invidiavo le
coppie regolari in cui i due protagonisti erano persone qualsiasi, che la domenica andavano a spasso o al cinema, senza altro
scopo se non quello di andare a spasso o al cinema, e di lasciar
vivere naturalmente il loro amore naturale. Mi ricordavo che
anche per noi una volta era così. L’importante era di stare insieme. E basta. Il resto era futilità. Poi cominciò la storia del
racconto da scrivere con lei protagonista.
Cominciavo a odiarla. Non solo, forse, non l’amavo più, ma la
odiavo. Forse. Mi costringeva a una sfida con me stesso che
non riuscivo più a reggere. Mi prendevano altri dubbi. Che forse non ero un bravo scrittore. Se lo fossi stato avrei affrontato
il problema con leggerezza, umorismo. Non so, alla Kundera.
Invece ero dentro un tunnel di cui non vedevo l’uscita.
Un giorno mi venne voglia di lasciar perdere tutto e di dirglielo.
“Amore, per favore, lasciamo perdere questa storia del racconto. Non mi viene in mente niente. In fondo anche se non lo
scrivo tu mi vuoi bene lo stesso, vero?” Ma non glielo dissi. Stavo per dirglielo quando successe una cosa. Lei si rifiutò di fare
l’amore. Non esplicitamente, ma fu come se l’ avesse fatto. Di
fronte a un mio gesto che solitamente preludeva all’atto, lei si
ritrasse. Si trattava di una carezza… un certo tipo di carezza!
- No, ti prego.
- Che c’è?
- Mi fai il solletico.
Era la prima volta che reagiva in questo modo. Che voleva dire? L’inizio della fine? Oddio! Dentro di me si aprì una voragine. Ebbi l’impressione che il respiro si fermasse, e che anche il
cuore cessasse di battere. Mi alzai come se niente fosse e uscii
dalla stanza. Andai in gabinetto e mi guardai allo specchio. Gli
154
occhi erano spalancati. Due occhiaie scure evidenziavano
l’immagine di un pazzo. Che mi stava succedendo? Un pensiero
fulmineo mi attraversò la mente. Un pensiero pazzesco, esagerato, ma che comunque mi attraversò la mente. “lo l’ammazzo!
Il delitto perfetto. E poi ci scrivo una storia. La storia di uno
scrittore che non sa trovare un tracciato per un racconto sulla
sua donna!”. Un leggero sorriso mi increspò la bocca. “Tu sei
pazzo!” dissi all’immagine che avevo davanti a me. “Non lo farò
mai!” aggiunsi. Però l’idea m’era venuta. Mi accostai al water,
feci pipì e poi uscii dal bagno tornando da lei.
-
Usciamo? - dissi.
Sì.
Andiamo a un cinema?
Volentieri.
Lasciai scegliere a lei senza interferire, cosa che, invece, facevo di solito. Uscimmo a braccetto. Mi sentivo dell’amaro in bocca. E nel cuore.
- Mi sto innamorando di un’altra!
- Come?
- Mi sto innamorando di un’altra.
Il cuore mi batteva. La fissavo come mai avevo fatto. Non volevo perdere un secondo della sua reazione. Della sua espressione. Dovevo scriverci sopra un pezzo, per dio!
- E uno scherzo o dici sul serio?
- Dico sul serio.
Stavo recitando benissimo. “Ammazza che bravo attore!” pensavo. Eravamo in macchina. Guidava lei. Frenò. Si accostò al
marciapiede. Non disse niente. Si limitò a guardare il vuoto davanti a sé. Per tre, quattro minuti.
-
E allora? - fece.
Allora cosa?
Che vuoi fare? O che vuoi che faccia?
Non lo so. Sto analizzando la situazione.
Dopo un altro silenzio di qualche minuto, disse... “Puoi uscire
cortesemente dalla mia macchina?”
155
Uscii. Lei rimise in moto e si allontanò. Non la rividi più per un
po’ di tempo. Per molto tempo. Qualche mese. lo la cercavo, le
telefonavo, lasciavo messaggi alla segreteria, ma lei niente.
Scrissi il racconto. Col finale previsto dalla mia mente torbida.
Cioè che la storia del mio nuovo innamoramento era un’ invenzione. Per sconvolgere le acque, per far succedere qualcosa di
anormale alla storia. Insomma avevo violentato la realtà perché un racconto acquistasse in efficacia. Ma anche la violenza
sul reale era reale, no? Ero pur sempre uno scrittore realista!
Poi un giorno la rividi, per caso, e le raccontai tutto.
- Non era vero! - le dissi - Non era vero. Era per uscire dall’
ossessione in cui mi avevi costretto. Dovevo trovare assolutamente una via d’ uscita. E un finale che potesse sconvolgere la normalità.
- E l’hai trovato?
- Credo. Ti va di leggerlo, adesso? - le proposi.
Mi guardò sgranando gli occhi. Mi ricordai della mia faccia davanti allo specchio, quel giorno in cui rifiutò di fare l’amore. Lo
lesse. Poi disse…
- La prima cosa che mi viene in mente è di dirti che tu sei pazzo! Ma, a ripensarci bene, mi viene in mente di dirti un’altra
cosa.
- E cioè?
- Che sei uno stronzo. Come già ti ho detto altre volte.
E uscì dalla mia vita, per sempre.
- E allora? - Disse. Dopo aver finito di leggerlo.
- E allora finisce così. – dissi.
- Ma così finisce male! Non mi piace! - disse Marika. - Finisce
che ci lasciamo!
- Servirà per esorcizzare la realtà. Però il racconto l’ho finito e
ora ha un senso.
- Ma quale senso?
- Non lo so. Ma mi sembra amaro e verosimile.
- Non mi piace. Non siamo così. Tu non sei così.
- Non pensare a me. Pensa al personaggio. Pensa allo scrittore. Allo scrittore angosciato dal...
- È uno stronzo. Non si scherza così coi sentimenti.
“E allora non si scherza così neanche con l’arte!” mi venne da
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pensare. Ma non lo dissi. Non volevo rovinare tutto veramente
e per sempre. Però mi si ripresentò il dilemma. È meglio un bel
racconto, che resta nella storia, come Il cuore rivelatore di Poe, o La signora col cagnolino di Cechov, o un amore che dura
nella vita fino alla morte? Ma quale amore dura nella vita… fino
alla morte? Solo nei romanzi e nei racconti con l’happy end.
Non mi interessa questo tipo di racconti. Sono quelli che si leggono su Novella 2000. O che ne so? Sui fotoromanzi che leggono le shampiste. Uscì di casa e uscì dalla vita di lei, per sempre. E qui finisce il racconto. Lo lessi a Marika. “Non mi piace!”
disse subito. “Oddio!” pensai. “Però ti voglio bene lo stesso.
Stai tranquillo!” aggiunse.
Respirai. Mi buttò le braccia al collo e facemmo l’amore. (wow!)
Però mi sentivo lo stesso dell’amaro in bocca. E nel cuore. E
qui finisce il racconto. Lo lessi a Marika. “Non mi piace!” disse
subito. “Lo sapevo!” pensai. Lei si alzò e andò in cucina a bere
dell’acqua. “Che faccio? La seguo? L’ aspetto? Le sorrido?
L’ammazzo? Non faccio niente? Guardo il vuoto, come se stessi
pensando a chissacché?”. Quando tornò, mi sorrise, si sedette
vicino a me, la guardavo con aria ironico-interrogativa. Non
pensavo a niente. Aspettavo che succedesse qualcosa.
- Non è male, solo non mi piace il finale. - E come lo vorresti? - Non lo so. Non sono una scrittrice. Avevo capito. Non le interessavo più. Era finita. Tutto questo
per un racconto non riuscito. È terribile quando nel bagaglio di
cose (fisiche, mentali, caratteriali, creative) che fanno sì che
un uomo o una donna si innamori di qualcuno/a, entra in gioco
l’Arte. Se non vali un cazzo, pensavo, l’amore scema. L’errore
iniziale è stato farle leggere i miei racconti. A questo punto avevo alzato il livello di attese che lei aveva costruito su di me.
E qui finisce il racconto. Glielo diedi, lo lesse e le piacque. Ha
ha! Ci baciammo e facemmo l’amore. Dopo un mese, comunque, ci lasciammo. E qui finisce il racconto veramente.
157
Autostrada.
Era come se, non dico ogni giorno, ma almeno ogni settimana,
si cominciassero a notare dei cambiamenti. Certamente non fisici, non ancora fisici, era sempre un bambino di tre anni. I
cambiamenti fisici si notavano dopo un mese, quaranta giorni,
si notava già che di capelli ce n’erano di più, e magari più scuri, ci si accorgeva che le manine erano più grandi (più grandine), che l’occhio aveva una maggiore velocità di funzionamento… Ma quello che faceva più impressione erano i mutamenti
all’interno del cervello; i mutamenti nella trasformazione del
pensiero logico, la perspicacia nel capire, nel tirare le somme,
e nel cominciare a decidere da solo. Veniva spontaneo dire
“chissà da grande che sarà!”. “Un genio!” diceva il papà. La
mamma sorrideva stringendoselo al collo, senza aggiungere altro, come se per lei fosse già sufficiente quello che stava facendo per il momento.
Fu un’esplosione di meraviglia quando un giorno sentirono il
bambino gridare a raffica (spesso usava questa forma quando
voleva ottenere qualcosa): “voglio vedere papà guidare, voglio
vedere papà guidare, voglio vedere papà guidare!”. Ora il padre faceva il camionista, ed era sempre in viaggio su e giù per
l’Italia. Ma nessuno in famiglia era solito esprimersi circa il lavoro del padre non più che con quelle quattro parole necessarie
per sapere dei rientri o delle partenze. Nessuno aveva mai detto “papà fa questo, papà fa quest’altro.” Era Alfredino che aveva capito e maturato tutto. Da solo. Figuriamoci se al padre
non facesse piacere portare con sé Alfredino ormai grandicello
durante un viaggio di quelli brevi, di due o tre ore. “Sono troppe” diceva la mamma, “non le regge due o tre ore.” “Ormai è
grandicello, le regge benissimo.” “Sono troppe, lo conosco, finisce che si annoia.” “Voglio vedere papà guidare, voglio vedere papà guidare!”
- Perché non viene qui lei a trovarci?
- Perché non sta bene. La nonna si è ammalata. E quest’anno
non può venire a trovarci.
- Ma io ho le partite, siamo terzi e l’allenatore ci ha detto che
dobbiamo arrivare almeno secondi.
- E arriverete secondi. Vedrai.
- Ma se io non ci sono come facciamo ad arrivare secondi. Se io
non ci sono arriveremo quarti.
- Ma ci sono degli ottimi giocatori anche senza di te!
158
-
Grazie tante!
Prego.
L’allenatore ci ha detto…
E piantala con questo allenatore, Filippo!
Mamma, diglielo tu a papà che non posso…
Filippo, papà ha ragione, non possiamo non andare dalla nonna.
Ma andateci voi dalla nonna.
E tu che fai? Resti qui solo?
Sì, ho dieci anni e so cavarmela benissimo.
E cosa mangi? Solo roba in scatola?
Giù da Ambrosini ci hanno un sacco di roba già pronta.
Sì, tutta piena di burro e di unto.
Mamma, lasciami qui. Non può restare anche Lucia?
No, Lucia viene con noi, perché la nonna vuole vedere anche
Lucia.
Ma perché deve vederci tutti?
Perché la nonna non sta bene, è in una clinica a Roma, perché deve curarsi a Roma e non può venire a trovarci per le
feste, e vuole vederci.
Ma chi se ne frega delle feste!
Filippo, smettila di piagnucolare. Sei grande, non mi piace
sentirti piagnucolare.
E poi abbiamo deciso così. Domani mattina partiamo e andiamo dalla nonna.
Che tra l’altro ha un regalo da dare a te e a Lucia.
Ma come partiamo?
In macchina.
E allora non posso fare prima la partita domani, venite con la
macchina e subito dopo la partita partiamo.
No, partiamo domani mattina presto.
Ma papà.
Basta!
Marisa era una bellissima bambina di nove anni. E soffriva di
mal d’auto. I suoi non sapevano come rimediare. Medici, specialisti, omeopati. Niente da fare. Per andare in vacanza era un
problema. O sedativi a livello quasi di anestesia totale, o treno.
Oggi c’è un problema: sciopero dei treni e urgenza di portare la
bambina da uno specialista di un altro settore: pneumologo, un
genio, che si trova a 150 chilometri da Narni. E la visita è fissata per oggi. Per cui: un sedativo a livello anestesia totale e
partenza in macchina alle nove di domattina. In auto.
159
Allora oggi, sull’autostrada del sole, ci sono tre vetture, anzi,
due vetture e un camion che sono in viaggio. Sul camion c’è Alfredino che sta parlando col papà che è tutto contento di guidare col figlioletto alla sua destra, tutto contento di stare insieme
al papà che l’ha accontentato. “Voglio vedere papà guidare,
voglio vedere papà guidare!” Ed ecco che lo vede guidare addirittura sull’ autostrada del sole. Comunque c’è voluta salire anche mamma. Tutta la famiglia per un viaggio semplice, di due
ore e mezza. Merce: mobili antichi. Su un’altra vettura che sta
procedendo nel senso inverso, ma non è ancora arrivata ad incrociare il camion del papà di Alfredino, ci sono Filippo, la sorella Lucia e i genitori che stanno andando verso Roma. Combinazione a due, trecento metri dalla macchina della famiglia di
Filippo, sta procedendo nella stessa direzione la macchina della
famiglia di Marisa, con Marisa completamente addormentata.
Per ora non ha ancora avuto problemi di mal d’auto. Per forza.
È imbottita di pillole contro il mal d’auto. Ed è affetta da un
problema serio ai polmoni.
A un certo punto comincia a piovere. L’avevano detto in tv. Avete notato come sulle strade asfaltate quando piove ci sono
delle zone dell’asfalto più chiare e altre più scure, e avete notato come alcune sono più ruvide e altre più lisce? Bene, quando piove queste differenze si notano in maggiore o minore scivolosità. E oggi che la pioggia aumenta paurosamente d’ intensità, queste differenze diventano (possono diventare) micidiali.
Ha cominciato la macchina con Filippo a bordo, tutto imbronciato, che continuava a litigare col papà, col papà che non ne
poteva più, sia di Filippo che lo faceva incazzare, sia della
pioggia che stava aumentando paurosamente, fatto sta che a
un certo punto ha uno scatto e si gira per dare uno schiaffo al
ragazzino, che lo evita a modo suo, ma non può impedire che il
babbo si sbilanci, la macchina intanto è entrata in una zona
scivolosa per cui slitta (stava forse correndo un po’ troppo) addirittura fa un testa-coda che costringe la mamma a lanciare
un urlo, poi non so come e perché, evidentemente per un movimento sbagliato del gioco freno, folle, acceleratore, la macchina capotta mettendosi di traverso; in quel momento arriva
la macchina della famiglia di Marisa, con Marisa addormentata,
che centra letteralmente la macchina dove c’è Filippo: è un
cozzo di una violenza terrificante, per cui Filippo e la mamma e
il papà, che tutt’al più erano rimasti feriti e sconvolti per quanto era successo e stavano tentando di uscire in qualche modo
dall’abitacolo, si vedono piombare addosso una bomba metalli-
160
ca dirompente che rimette in moto tutto, tanto che le due vetture ormai incastrate si mettono a girare vorticosamente andando a finire sul guardrail: sul guardrail proprio vicino a dove
finisce il guardrail, che c’è una breve zona vuota per permettere ai mezzi della stradale di passare da una corsia all’altra. Fatto sta che proprio in quel momento arriva il camion del papà
di Alfredino che, per seguire i progetti del destino, scivola pure
lui, il pilota perde il controllo del veicolo che si infila nello spazio vuoto del guardarail e va sbattere contro le due macchine
già incastrate per conto loro contribuendo a creare un viluppo
di elementi eterogenei che non hanno niente in comune loro:
mobili antichi, macchine di differente origine e fabbricazione,
corpi umani diversi per sesso, età, condizione sociale e cultura.
Dopo tre minuti circa avveniva un’ esplosione che dava inizio a
un rogo tipo quelli che si vedono nei films d’azione. Dopo un’
ora circa, dopo l’intervento dei vigili del fuoco e della polizia
stradale, i quali riuscirono a domare le fiamme e a estrarre i
corpi, fu redatto un verbale in cui si diceva che tutti i partecipanti allo scontro erano morti. Al telegiornale delle tredici e
delle tredici e trenta si parlò di “strage sull’ autostrada del sole”, causa il maltempo, la velocità.
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Meccanismi.
Erano in casa di amici, al mare, d’estate, lui e Francesca, il suo
grande amore, il suo più grande amore, l’ amore più grande
della sua vita, colei che lui considerava l’amore più grande della sua vita, la donna che, dopo che finì tutto e si erano già lasciati, parlando di lei, lui diceva sempre “il mio più grande amore” o “l’amore più grande della mia vita!”, la persona per cui
pianse, soffrì, digiunò, vegliò notti intere a pensarla, a maledirla, mattine a disperarsi, e a sperare in un suo ritorno, a correre
al telefono col cuore che batteva all’impazzata, sperando fosse
lei, per mesi, o sedersi al computer tutte le mattine sperando
di vedere la sua sigla fra la posta arrivata…
Come posso dire tutto questo? Che senso ha? Ecco, ancora un
meccanismo! Il mio più grande amore! Che senso ha? So solo
io quanto mi sono rotto i coglioni con Francesca! Ci sono stati
dei momenti pazzeschi! Dei momenti in cui ci odiavamo, la
mandavo affanculo! Dio quanto l’ho odiata! Dio quanto mi ha
rotto i coglioni! Tanto lo so benissimo che ci saranno altre di
cui dirò “L’amore mio più grande!” E avanti così, per l’ eternità!? Speriamo di no. A un certo punto finirà questo gioco assurdo. Non dico l’amore, ma la vita.
Per esempio, come quella volta che erano in macchina, la macchina di lui, e guidava lei, e lei ha preso una curva strettissima
a sinistra, da sfiorare il marciapiede opposto, mentre non si
vedeva chi poteva sopraggiungere da quella parte. Poteva essere un disastro; anche perché lei correva sempre a tavoletta.
E lui le ha gridato "ma sei pazza!?". E lei si è offesa, per cui ha
frenato di colpo, e la macchina si è bloccata sulla corsia di sinistra, tanto che le macchine che venivano dall’altro senso erano
costrette a fare un giro per riprendere la loro marcia. Dopo aver strombazzato, naturalmente. Tutte.
Niente di grave, fortunatamente, ma lui si è incazzato come
una bestia! E così sono stati lì, fermi, per un po', immobili,
dentro la macchina, senza parlarsi, finché lei è scesa sbattendo
la portiera, dopo aver gridato “allora guida tu!”, e restando a
guardarlo da fuori, ferma, per vedere che cosa avrebbe fatto.
E lui, sempre restando in macchina, si è spostato dal suo sedile
a quello di guida, e solo allora lei è risalita, sedendosi sull’ altro sedile, sempre guardando avanti. Mai verso di lui. Mentre
lui, molto cautamente, si toglieva dalla corsia di sinistra per
162
tornare su quella di destra, quella “normale”, quella lecita,
quella, consigliabile.
Dio, come l'ho odiata, quella volta! Eppure l'ho amata! E se mi
chiedessero "chi è stato l'amore più grande della tua vita?", io
direi sempre e senza alcun dubbio... “Bè, Francesca!?”
Ma perché si ama una persona da morire, mentre un'altra al
massimo ci è simpatica? Non è solo questione di bellezza! Sì,
anche, naturalmente. Ma non è solo questione di bellezza o di
simpatia o di cultura o di intelligenza o di eleganza o di voce o
di odore o di profumi o di abitudini o di modo di fare l' amore...
Sì, c'è anche tutto questo, ma non è solo questo. Fatto sta che
adesso, per lui, lei è “il più grande amore di tutta la zua vita!”.
Ma cosa c’è di diverso fra lei e Laura, o Susanna, o Cristina, o
Milena, o Alessia? Tanto per citare le donne che gli sembravano
le donne della sua vita. Sì, Francesca è bella, indubbiamente (o
così gli sembrava), è intelligente, simpatica, e a letto era notevole. Ma anche se così fosse? La bellezza non dura, l’ intelligenza non arrapa, la simpatia è momentanea, e poi spesso è
legata al contesto in cui si vive. Gli vengono in mente piccole
situazioni che non ho neanche voglia di ricordare. Gli da fastidio perfino ricordare. Cazzate. Quante volte si sono scontrati,
per motivi banali, per cazzate. Dio mio com’ era antipatica in
certi momenti!...
Come quella volta che io volevo coprire un pezzo di terrazza
con una tenda e lei no, lei voleva il sole! Quanto s'è incazzata
perché io avevo già ordinato la tenda senza dirle niente! “Ma
Cristo, se vuoi il sole si apre la tenda! Non è mica obbligatorio
tenerla sempre chiusa! E se si vuole l’ ombra la si chiude! E se
si vuole il sole, la si apre!”. Macché! S’è incazzata.
Si ricorda che erano già spogliati. Bè, si sono rivestiti! E in
quanto a scopare, onestamente, la più brava forse era Laura!
Eppure, se pensa al grande amore della sua vita pensa a lei.
Perché?
Come quella volta che ho appeso dei quadri che piacevano a
me, li ho appeso dove mi sembrava giusto che ci stessero, in
una zona spoglia di oggetti, e quando tornai a casa, trovai i
quadri per terra e la parete spoglia come era prima. E quando
le chiesi perché, mi disse…
163
-
Tu ti comporti come se questa fosse casa tua.
E non è casa mia?
È casa nostra.
E la stai sistemando come se fosse casa tua.
Ma tu non ti sei mai preoccupata di sistemarla.
Perchè arrivavo sempre in ritardo. C’eri sempre tu che mi
precedevi.
- E non potevi dirmelo?
- Non avevo il coraggio e oggi l’ho trovato.
Allora, erano in casa di amici, al mare, d’estate, lui e Francesca, primo pomeriggio, nella loro camera, la pennichella, lui e
lei, nudi sul letto, senza molti stimoli particolari, fa caldo, si è
mangiato, bevuto, lui dormicchia, o pensa. Avevano litigato anche quella volta, non sa per quale motivo, probabilmente un’
altra cazzata. Nessuna pulsione sessuale. Anzi, noia. Lei faceva
le parole crociate, lui faceva finta di dormire. E pensava “che
palle questa donna!”. Era finita, via!
Improvvisamente un rumore giù in strada, qualcuno che gratta,
qualcosa che struscia, un rumore diverso dai sòliti, intraducibile. Lui apre gli occhi per capire, i due si guardano, lei arriccia
la fronte, un suo modo di concentrarsi, adorabile (perché poi
adorabile?). Il rumore sembra cessato. No, ricomincia, lei si alza dal letto, si accosta alla finestra, la finestra è
aperta ma le persiane accostate, quelle che si aprono e si
chiudono come ante di un armadio, con le fessure che guardano in basso, per cui si può vedere cosa succede per strada senza farsi accorgere da nessuno...
Lei si affaccia e guarda giù, non dice niente, muove la testa per
vedere meglio, non si capisce se vede qualcosa o se non vede
niente, ma intanto lui guarda lei, così nuda, protesa verso la
finestra aperta, in fuori, con la faccia accostata alla persiana, e
il culo proteso verso di lui, le natiche, un po' di peluria in mezzo alle natiche, anche un po’ umida, gli pare, umida di sudore,
di umori, cose del genere...
E gli scatta la voglia! Il meccanismo? Sente il brivido caratteristico (per lui) dell’ inizio di un’erezione, per cui si alza dal letto, si avvicina a lei, non gliene frega niente del rumore per
strada, ha voglia solo di penetrare dentro di lei, dal di dietro.
Si accosta, si appoggia a lei, e introduce il coso (così lo chiamava lei) già eretto fra le cosce della donna, solo fra le cosce,
per ora, in mezzo alla peluria (insomma non subito nella fica!),
sente la peluria che gli solletica la testa del coso, e intanto ap-
164
poggia anche il ventre sulle natiche di lei, ruotandolo per bene
come in una sorta di danza rituale. Sente la distinzione delle
due natiche, una a sinistra e una a destra. E in mezzo il coso!
La sensazione è molto gradevole, anche se c’è in testa un disturbo, una domanda, un fastidio “esistenziale”.
"Che fai?", dice lei. Che domanda del cazzo! Pensa lui. Non le
risponde, “tanto ha già capito” pensa lui. Tutta la parte comunque è già bagnata, di sudore, e di altro, per cui non ci sono
impedimenti di sorta, poi lei ora sorride, anzi si inarca ancora
di più per riceverlo meglio, e finalmente lui entra dentro di lei.
Mai stato così facile. Sente l'umido, quel suo umido così accogliente, così diverso da quello delle altre. Così denso e fluido,
così... suo!
Ma che dico? Tutti gli umori delle donne sono uguali! Chi più,
chi meno. Anzi forse quello di Valentina era più… fluido. Quello
sì. Più fluido di altre. E abbondante. Però l’amore della sua vita
era Francesca.
Poi le appoggia la mano sinistra sulla schiena, mentre la destra
le passa davanti, le scivola lungo il fianco e arriva alla pancia,
davanti, le accarezza la pancia, e poi scende, arriva al clitoride,
lo individua, lo apre per bene con le dita, glielo accarezza, lo
sfiora, lei si muove, si muovono tutt’e due, si strusciano l’uno
contro l’altra, in una sorta di lambada, lei mugola, si lamenta…
Forse è il suo modo di mugolare che mi piace tanto? e mi fa
impazzire, tanto da amarla così tanto? così tanto? ma scherziamo!? Elisabeth mugolava di più! e in inglese!
Lui si muove lentamente, molto lentamente, dentro e fuori,
lentamente, molto lentamente, perché è troppo bello, e “potrei
‘venire’ subito” pensa, “se mi lascio andare”. E così continua a
toccarla, a toccarla, lei mugola, si lamenta, “cosa c’è?", le dico,
"amore, cosa c’è?, stai male?", finché lei apre la bocca e cominciano a uscire delle frasi sconnesse, dei gridolini (Forse il
suo modo di emettere quei gridolini? Ma anche Susanna faceva
così, forse anche di più. Per non parlare di Elisabeth.). I lamenti ora sono sempre più profondi.
“Amore, cosa c’è? stai soffrendo? c’è qualcosa che non va? vuoi
che chiami un dottore? soffri molto? soffri molto? dimmi che
soffri molto! vero che soffri?... vero che soffri?... (Quasi gridando) Vero che soffri molto?”
165
E poi l’urlo, l’urlo, che non si preoccupa di niente e di nessuno,
"sì, urla, amore mio! urla, urla!". (Quante volte passate a discutere: “ma sentono i vicini!” “ma chi se ne frega, la vita è
nostra!”). Chissenefrega se qualcuno sente, nelle altre stanze,
gli amici, i nuovi ospiti. Finché anche lui allora viene, per cui
esce con uno scatto, bagnandole il sedere, il didietro delle cosce…
- Oddio mio!
- Sì. Proprio così.
E tutto torna come prima. Si torna a letto. Ci si rimette a leggere, a fare le parole crociate, a dormicchiare, a pensare, a riflettere…
-
Ma che era?
Cosa?
Quel rumore.
Un bambino.
Come scocciano i bambini, di pomeriggio.
Giocava. I bambini giocano.
Lui sospira. Si gira dall’altra parte. “Che palle!... Perché l’ho
fatto?” Si pente di averlo fatto. “Tanto è finita con questa. È finita. Il Grande Amore è finito.” E ripensa a qualche minuto prima, quando nel bel mezzo della loro performance, lui, a un certo punto, si stava immaginando di fare l’amore con una che
aveva visto in spiaggia, il giorno prima. Lui le aveva lanciato
un’ occhiata. E anche lei gli aveva lanciato un’occhiata. E gli
viene una specie di nausea.
166
Notte estiva.
Estate. Notte. Fa molto caldo. Afa. Si sente decisamente l’aria
calda che c’è fuori. Fuori di me. Fuori il mio corpo nudo. Sento
il mio corpo immerso in un’atmosfera più calda del mio calore
personale. Sento i rivoli di sudore che colano lungo la pelle e
finiscono sul lenzuolo. Dunque il mio calore personale sarà sui
36, 36 gradi e mezzo, forse addirittura 37, per cui la temperatura esterna sarà almeno sui 38! Non so cosa togliermi ancora
di dosso. Non ho più niente da togliermi. Potrei andare in bagno e farmi una doccia. L’acqua che c’è nei tubi è certamente
più fresca dell’ aria esterna. Ma non ho voglia di alzarmi. Sono
pigro. Respiro con affanno.
Le finestre sono aperte. Apertissime. Ogni tanto entrano dei refoli d’aria più fresca, piacevolissimi. Dalla terrazza. All’ ultimo
piano. Tanto per chiarire tempo e spazio. Il caldo e i refoli mi
impediscono di addormentarmi. Sento il rumore di un’ automobile lontana e subito dopo l’ esplosione di una motocicletta lanciata a folle velocità che si allontana. Penso al vento sulla faccia del motociclista. Bello! Ma subito dopo penso che sarà un
vento caldo. E poi c’è il casco. E il pericolo di un incidente causato anche dal cervello in ebollizione. Meglio qui, in camera
mia, spaparanzato sul materasso ormai umido, ma almeno non
faccio fatiche. E poi ogni tanto c’è un refolo.
Ora è silenzio. No. Una televisione è stata accesa da qualche
parte. Appena percepibile. Qualcuno che non riesce a dormire.
Viene voglia anche a me di fare la stessa cosa. Che ci sarà? Un
vecchio film degli anni trenta, documentari scientifici da rompersi le palle, filmetti pornografici, ma tanto sono pornografici
per modo di dire, non si vede un cazzo. E poi non ho voglia di
alzarmi. Quando sopra di me, sopra la mia camera, sento un
rumorino, come se a qualcuno fosse caduto qualcosa per terra.
È un rumorino che mi riguarda, non è un rumore della città di
notte. È un rumore sopra casa mia, e sopra casa mia non c’è
nessuno, non c’è niente, c’è una terrazza condominiale che a
quest’ora dovrebbe essere deserta. Un rumore preciso, consistente, anche se indecifrabile. È caduto qualcosa per terra per
colpa di un refolo? O c’è qualcuno? Qualcuno del condominio
che è salito a ritirare i panni stesi? Dovrei sentirlo ancora. O
sentirla. Dovrei sentire i suoi passi, tranquilli, che vanno avanti
e indietro per la terrazza, mentre sta staccando i panni e li deposita, che ne so? in un secchione di plastica. E invece non
sento altro. C’è stato solo quel rumore secco, un minuto fa.
167
Sono immobile, con le orecchie tese, in attesa di altri indizi. Mi
viene in mente un episodio di tempo addietro, quando hanno
rubato in un appartamento vicino al mio, ma sono scappati
perché è suonato l’allarme. Tanto che anch’io ho messo un allarme.
Però adesso, se c’è qualcuno che entra nel mio appartamento,
non c’è l’allarme, l’allarme è spento. Lo accendo solo quando
esco. E allora? Il cervello è una macchinetta in azione, rapidissima, che sta pensando, congetturando, cercando soluzioni a
eventuali problemi. Ora sento tutti i rumorini tipici di un appartamento pieno di mobili di legno che reagisce al venticello, alle
variazioni di calore, ai movimenti di fantasmi che potrebbero
esistere e divertirsi quando sanno che vivo solo e sono un fifone. Incredibile, ho paura di qualche intrusione notturna criminosa e penso a delle cazzate!
Ho una fifa boia! Sono terrorizzato. Non pensavo di essere così.
Pensavo di essere più freddo, preparato a tutto. E pronto a reagire. È tutta la vita che predico ai miei allievi di essere sempre pronti a tutto. Che la vita è fatta di imprevisti e l’attore
dev’essere pronto ad ogni imprevisto. E così anche un essere
umano. Gli animali lo sono. Però l’essere umano deve esserlo
di più. È più intelligente. Ma è anche un essere consapevole e
io ora sono consapevole che ho paura, che sono indifeso e che
potrei morire. Oggi si muore con una facilità estrema e il mondo è pieno di criminali.
Penso a tutto questo stando immobile. Immobile, respirando
appena. Però il mio cuore batte, batte, fa un baccano della madonna! Altro rumorino, che proviene sempre di sopra, ma ora è
più preciso, decifrabile. Il rumore di qualcuno che cammina sui
tegoli. C’è una parte di tetto sopra di me che confina con la
terrazza condominiale. E questa parte è tutta coperta di tegole.
Tegole che sono mobili, una incastrata sull’altra, nell’ altra.
Come sui tetti tradizionali, in Italia. Se uno ci cammina sopra,
oltre al fatto che si possono rompere, c’è anche il fatto che si
produce un rumore particolare, molto evidente, che si sente
perfino quando ci cammina sopra un gatto. Figurarsi se lo fa
una persona. Ed è esattamente il rumore che sto sentendo adesso! E sento il mio cuore che ora batte fortissimo. Ma che
mette in moto anche una parte del cervello organizzato alla difesa. Penso: c’è qualcuno di sopra! Che faccio? Non credo che
si tratti di uno che sta giocando a fare il ladro notturno. Questo è un ladro notturno e io sono solo con tutte le finestre e le
porte aperte. All’ultimo piano. E nudo.
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Che faccio? Chiamo la polizia? Quello può calarsi giù ed entrare
quando vuole. E poi sentirebbe la mia voce e invece di scappare, anzi, si affretterebbe. Tanto la polizia impiega sempre dieci
minuti, un quarto d’ora e in un quarto d’ora può succedere di
tutto. I rumeni, gli albanesi sono coraggiosi. I negri! Che gli
frega a loro della polizia? Vanno in galera per dieci giorni. Ma
intanto mi hanno già derubato. E ammazzato. Immagino la
scena. Io che dico: “non ho niente di valore! non ho niente,
sono disoccupato”. “Non fare stupido… non ti facio niente, dimi
solo… dami solo quelo che hai… “ e mi minaccia con una pistola…. Magari è un giocattolo… ma che ne so io?... Mi viene in
mente che ho visto al cinema che la gente in queste condizioni
prende una mazza da baseball… e io ce n’ho una di quando ero
dai gesuiti che giocavo a baseball. Ma dove sarà? Mi viene in
mente dove può essere. L’ho tirata fuori qualche giorno fa per
rimestare la biancheria senza bagnarmi le mani. Mi alzo, mi
faccio coraggio, mi è passata la pigrizia, faccio pianissimo, a
piedi nudi, vado in bagno, eccola lì! La mazza... La prendo,
cercando di non fare rumore. Esco dal bagno. E adesso? Chi ha
il coraggio di usarla? Magari quello è armato. Anzi se mi vede
con questa cosa, magari spara subito… A questo punto mentre
mi aggiro per casa, in silenzio, entro nel soggiorno, vedo
un’ombra che si staglia sulla porta-finestra aperta, un’ombra
che si staglia sul cielo notturno grigio-scuro, lui non mi vede
perché io sono dentro al buio, ma io sì, lo vedo… È a due passi
da me… lui non sa che fare… forse ha più paura lui… ma a questo punto ho l’esatta sensazione che non posso programmare
niente e chi decide è il mio istinto… Mi rendo conto che il mio
cervello razionale, la parte razionale del mio cervello è come
ottusa. Sto entrando in una fase in cui chi prevale è l’istinto.
L’irrazionale. Non ragiono, respiro velocissimo, anche se non
vorrei, vorrei essere lucido, il cuore batte fortissimo, e non
posso farci niente, sono quasi soffocato, ho persino un senso di
nausea, e paura, terrore, paura di essere uno di quelli di cui
parlano il giorno dopo in televisione.. “un uomo trovato morto
nel suo appartamento svaligiato!”.. Il ladro, che non mi vede,
sta entrando dalla porta finestra, circospetto, in mano non mi
sembra che abbia una pistola, è piuttosto magro, più piccolo di
me, e la testa in avanti come per vedere meglio, come un uccellaccio rapace che sta esplorando un territorio che non conosce. Mi rendo conto che è questione di frammenti di secondo. E
che sono avvantaggiato. Io lo vedo. Bene. Prendo posizione,
sollevo la mazza, e la scateno verso la sua testa, con tutta la
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forza che posso, urlando, mi metto ad urlare, non ci pensavo…
“Ah, stronzo… prendi questo e anche questo e anche questo…
stronzo!.. stronzo!.. stronzo!.. E ad ogni stronzo un colpo in testa… E lo stronzo cade a terra, ai miei piedi… senza dire niente,
fare niente… un fagotto informe a terra, ai miei piedi… In quel
preciso momento sento un altro rèfolo d’aria fresca sulla faccia
accaldata, sudata, rossa, la sento rossa, il classico sangue alla
testa. E adesso? Per qualche secondo (dieci, quindici?) resto
completamente passivo, inerte, immobile. Non penso a niente.
La mente neutra, come se non fosse successo niente, o come
se stessi sognando e passando da un’ immagina all’altra, senza
partecipare.
Poi, a poco a poco, un altro rèfolo mi sveglia. E qui mi pare di
uscire da un sogno, o meglio da un incubo. Cerco di guardarmi
attorno, di mettere a fuoco la situazione, di connettere ciò che
ho in testa come immagini o ricordi, e ciò che vedo: e ciò che
mi appare coincide perfettamente. Sono nel mio soggiorno, di
fronte alla porta/finestra, e per terra intravedo la macchia di
un corpo accartocciato. Allora è vero! È tutto vero! Rapidamente (incredibile la velocità del cervello) cerco di esaminare i problemi. Che faccio? Telefono? Denuncio alla polizia? Spiego cos’
è successo? Ci sono gli elementi per un’autodifesa? Un’ autodifesa tale da giustificare un uccisione? Ma poi è morto costui?
E chi controlla? Che faccio? È a testa in giù. Lo rigiro? Chi ha il
coraggio? E allora? Mi ricordo di aver letto che l’ autodifesa deve essere proporzionata alle circostanze. Che non si può creare
delle situazioni di difesa tali in cui un ladro può farsi del male.
Se si crea una difesa tale per cui un ladro può farsi del male allora è dolo. E se muore ci si avvicina all’assassinio colposo. Allora che faccio? E poi è morto? Oppure gli ho leso il cervello e
questo resta scemo tutta la vita? Ed è colpa mia! Non mi sono
accorto che mi sono seduto a riflettere e con un piede sto sfiorando una gamba dell’ individuo. Che faccio? Controllo se è
morto? E se questo si sveglia di colpo? Non ho ancora capito se
ha una pistola. Potrei cercargliela addosso. Intanto dovrei accendere tutte le luci. Così è troppo buio. Non si vede un cazzo.
Mi rendo conto che sto usando un gergo scurrile dentro di me.
Mi rendo conto come si possono dire le parolacce anche in silenzio. In certe situazioni. Come questa che non riesco a sbrogliare. È morto? Accendo le luci. Mi vedono da fuori? Qualcuno
mi ha visto? Guardo il cadavere, vedo gli occhi. Sono semichiusi, senza vita. È proprio morto? Controllo il collo, le pulsazioni
del collo, come ho visto che fanno nei film. Non mi sembra ce
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ne siano. C’è anche il metodo di mettergli una carta velina sulla bocca per controllare il fiato. La velina resta immobile. C’è
anche la prova se sente male se gli faccio del male. Come posso fargli del male? Vado in bagno, prendo una lametta, torno,
taglio la carne di una spalla. Non esce nemmeno il sangue. È
morto! Sono un assassino. Che faccio? Ho ucciso un uomo. Devo dichiararlo? E affrontare interrogatori, spiegare, ma spiegare cosa? Non mi sento in colpa. Mi sento solo liberato… e potente. Devo solo trovare il modo di farlo sparire. Da solo. Senza l’aiuto di nessuno.
E ho cominciato ad analizzare il da farsi. Avrei dovuto fornirmi
di attrezzi per tagliare, segare, di sacchi di plastica tipo condominio per portare di sera tardi i pezzi in zone diverse della
città, col rischio di… No. Forse è meglio denunciare il fatto. Legittima difesa. Ma lui non attentava alla mia vita bensì ai miei
beni… Eccesso di difesa… Comunque vengo schedato… Adesso
dobbiamo stare attenti di non fare del male ai criminali… Non è
colpa loro… Sto cazzo! E Vaffanculo! La città è piena di cassonetti! Il problema è solo il puzzo. È estate. E non posso farmi
aiutare da nessuno. Proprio nessuno. E tutt’intero non posso
trasportarlo. Non siamo in America che si va di dietro nel garage e si fa tutto nel garage. Voglio dire lo si mette nel bagagliaio della Chrysler e poi ci si libera in una discarica vicina.
Non è difficile vivere in America! Cioè: non è difficile ammazzare in America!
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Ricordi e riflessioni 3
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Zoccolette si nasce.
Salgo in ascensore con due bambini. Sui sei, sette anni, un
bambino e una bambina. "A che piano vai?" mi fa la bambina,
già un po' puttanella (lo sguardo, il tono di voce). "All'ultimo!"
rispondo. "E quando va via la luce come fai?" dice ancora la
bambina che evidentemente vuole continuare a provocarmi.
"Eh, sono cazzi!" rispondo. La bambina si mette a ridere come
una matta, mentre il bambino fa solo una smorfia. Già fregato?
Condizionato? Non si fa! Non si dice! Non si ride di cose sporche! Non si parla con gli estranei!
Ci salutiamo. Li rincontro tre giorni dopo per strada. Mi guardano, mi riconoscono, lui mi guarda di traverso, lei mi sorride,
la puttanella! "Ciao!" le faccio. "E così - mi fa lei - quando va
via la luce...?". "Sono cazzi!" dico io. E lei esplode nella risata
che già conoscevo. Era quello che si aspettava da me. Come
una fiaba divertente che viene voglia di risentire un'altra volta.
Mentre il bambino faceva la solita smorfia. Attento a non commettere delle azioni riprovevoli. Già imbavagliato. Condizionato.
Com'era molto più simpatica la bambina! Forse perché era solo
più puttana del bambino? Più chiuso, lui? Più timido? Ogni tanto è bello essere un po'... puttani! In fondo, forse, si , tratta solo
di disponibilità. Puttana è considerata chi si vende (si offre) per
un compenso! Ma chi è che non cerca compensazioni nella vita
di oggi? Chi non vorrebbe vendersi un po'? E non ce la fa. Purtroppo.
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La svolta vera.
Una svolta vera e propria c’è stata quando un medico mi ha
detto che dovevo operarmi al cuore, perché c’era una valvola
che non funzionava! Mi sono operato, e mi sono reso conto di
dove era arrivata la chirurgia, cioè la scienza, cioè il progresso.
Venti, trent’anni prima io avrei dovuto morire. E così mi sono
reso conto della morte. Ma un conto è sapere cos’ è la morte in
quanto muore qualcuno dei tuoi (amici, parenti, persone amate, animali) e tu ne senti la mancanza; il tuo corpo è abituato a
quell’ essere e una volta che non c’è più, il tuo corpo (e la tua
mente) sente la mancanza di tutto ciò che quell’ essere ti dava
(c’entra anche la biochimica dei sentimenti, secondo quello che
dice K. Lorenz). E un conto è sentirne l’alito, perché la cosa riguarda te stesso; sei tu che stai per andartene. O per lo meno
potresti andartene. O addirittura vorresti andartene! Entri in
un’ ottica diversa, vedi le cose in un altro modo, dentro di te
succede un cambiamento, uno spostamento, una ‘svolta’!
Dunque, la morte in quanto la mia morte! Non è una bazzecola.
Per come la penso io, mi si scatena una serie di domande. Ma
più che di domande, di certezze che mi provocano altre considerazioni. A volte penso che la morte faccia paura in quanto si
sa che c’è, e in quanto la vediamo negli altri. In quanto improvvisamente una persona che c’era e che faceva parte della
mia vita, una persona a cui volevo bene, con cui magari ho fatto l’amore, una persona intelligente, acuta, spiritosa, improvvisamente non c’è più e non ci sarà mai più! Ti fa pensare, no?
Ma perché succede? Ho seguito recentemente un programma
culturale che voleva rispondere a questa domanda: perché la
morte? E diceva che ai primordi della vita, quando c’erano solo
cellule, microrganismi, non c’era nel loro dna l’ appuntamento
con la morte. Morivano, sì, ma per cause esterne, un incidente,
un incontro con un predatore (c’ erano anche ai primordi della
vita!) (insomma da quando è cominciata la vita è cominciata la
battaglia fra prede e predatori) (meditate gente!), un cambiamento spaziale, o atmosferico… ma non c’era nel dna! Si poteva essere eterni! Poi, con l’ evoluzione, è cominciata a venir
fuori la morte. Perché? Risposta: per permettere la vita di altri,
per permettere l’evoluzione, che ha bisogno di cambiamenti.
Insomma la vita si occupa dell’evoluzione della vita e delle specie, non del singolo, mentre a noi singoli non ce ne frega niente delle specie. Lo sta dimostrando l’Umanità in questo momento in particolare.
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Dicevo: la morte fa paura in quanto si sa che c’è. Ma quando si
muore (sperando di non tirarla per le lunghe! Insomma, sperando di non soffrire, questo è il punto!), si entra nel nulla, non
c’è più niente, non si soffre, non si pensa, non si ricorda, non
ci si preoccupa del futuro, non ci si rende conto di aver lasciato
un grande amore, dei figli; c’è il nulla. E allora perché si dovrebbe aver paura? La consapevolezza! Apparteniamo alla specie homo sapiens sapiens. Per cui si pensa, si ripensa, e si sa
di pensare e di ripensare… Io penso che Cartesio intendesse
anche altro nel suo cogito ergo sum. “Penso… cosa? Dunque
sono… cosa?” Le prime risposte che mi vengono in mente? Un
pasticcione, un essere diverso ma uguale a una pecora, un arrabbiato, un essere disperato che trova nelle droghe o nell’ alcool delle risposte, un terrorista, una prostituta, una moglie fedele per obbligo morale, una moglie fedele perché innamorata,
un mafioso, un assassino, un prossimo suicida, e chi più ne ha
ne metta, perché questi esseri fanno parte dell’ umanità. E
questi esseri la pensano ognuno a modo suo. Ed ecco che la
famosa locuzione “penso dunque sono” può diventare “penso a
questa mia vita di merda, dunque sono un drogato, penso a
come sfruttare la mia fica, dunque sono una puttana, penso a
come guadagnarmi il regno dei cieli, dunque mi uccido, magari
uccidendo altra gente che non la pensa come me, ecc…”. Sta
succedendo! E’ questo l’homo sapiens sapiens?
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If.
Se io non avessi ristabilito dei rapporti amichevoli con Silvana,
e se non fossi andato a trovarla nella sua nuova casa, con giardino, e quindi con frequentazione continua di gatti; se non avessi frequentato anch'io per un po' di tempo quella casa, dove
a un certo punto sono nate contemporaneamente tre nuove
cucciolate da tre gatte diverse; se lei non mi avesse fatto vedere i suoi gattini appena nati, che sùbito mi hanno conquistato; se lei non avesse dovuto partire per due settimane e non
me li avesse affidati perché mi occupassi di loro, sia per quanto
riguarda il cibo per le madri, sia per certi disturbi agli occhi che
i piccoli stavano accusando, per cui ho dovuto portarli dal veterinario, che mi ha fatto capire la gravità della situazione; che
non si trattava solo degli occhi, ma di una forma virale che li
avrebbe uccisi in poco tempo, senza un intervento immediato e
continuativo; per cui, dovendo somministrare loro degli antibiotici tre volte al giorno, ho portato in casa mia tutti i gattini
per poterli curare con comodità (ormai si stavano svezzando),
tanto che poi sono guariti perfettamente; e se intanto non mi
ci fossi affezionato, al punto che me li sono tenuti per sempre.
Allora riassumendo: se io non avessi ristabilito un rapporto amichevole con Silvana, certamente quei gattini non sarebbero
sopravissuti, né tanto meno sarebbero entrati in casa mia. Ma
mi vengono in mente altri 'se'.
Per sentire il bisogno di riconciliarmi con Silvana, io ho dovuto
attraversare un periodo difficile e complicato con Laura, al punto che ho sentito il bisogno di telefonare a Silvana, per fare
quattro chiacchiere, riprendere un contatto con una persona
importante della mia vita, forse capire un po' di più cos'era
successo, e che cosa mi stava succedendo. Dunque: se non avessi conosciuto Laura (casualmente) e non avessi avuto dei
problemi con lei, quei gattini sarebbero morti. Quindi: la mia
crisi con Laura e i sentimenti relativi, sono stati determinanti
per la sopravvivenza di quelle creature. Ovvero: la vita e la
morte dipendono, a volte, da piccoli particolari che, obbiettivamente, non c'entrano per niente col contesto in questione.
La mia storia con Laura era ben lontana da quei gattini. Inoltre: quei gattini (poi diventati gattoni) certamente sono stati
determinanti nella nascita del mio rapporto con Angelica. Insomma: non c'è niente a questo mondo che non sia importante
e collegato con tutto quanto il resto. E' una trama intricatissima, fatta di tante piccole, grandi cose, gesti, parole, silenzi,
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anche solo pensieri, che ci condizionano comunque, ci spingono
a un gesto, una parola, un tono di voce, un silenzio, da cui possono dipendere vita, morte, sentimenti, rotture, separazioni.
C'è da perdere la testa.
Cosa voglio dire? Che non c'è niente al mondo di insignificante.
In questo gioco ad intarsio perenne. In questo puzzle che è la
nostra vita. E credo che nessuno di noi ha il disegno generale
del puzzle. Lo costruiamo vivendo. Vivere è imparare a vivere,
diceva Konrad Lorenz. Che equivale a: "giocare è imparare a
giocare". Se affrontiamo la vita con questo atteggiamento (la
vita in fondo è un gioco) ci si può anche divertire. Certo non
dobbiamo pretendere arbitri favorevoli o che chiudano un occhio. Non ce ne sono. Dobbiamo arrangiarci da noi. Ed essere
onesti e leali. Allora ci si può anche divertire.
177
Breve commedia
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La confessione.
Atto I°. Siamo in una chiesa davanti a un confessionale. Non si
vede che il pentito inginocchiato, ma si sente la voce del prete
dentro il confessionale.
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
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Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Padre, ho peccato....
Che è successo?
Facendo sesso con una ragazza.
Quante volte?
Una volta, due...
Una volta o due?
Ha importanza?
Ma da quanto tempo non ti confessi?
Una ventina d' anni.
Da quanto!?
Vent' anni.
E come mai?
Era sei mesi che non facevo sesso e non ho potuto resistere a una tentazione.
No, dico come mai da vent' anni?
Ah... ho avuto dei problemi.
Di che genere?
Bè...
Coraggio, sù...
Ma... non credo che sia il caso qui di raccontare tutta la
mia vita.
Di raccontare la tua vita no, ma di mettermi al corrente
della tua situazione attuale, sì!
Non è una situazione solo di adesso.
Se sei venuto a confessarti, vuol dire che è una situazione che ti sta complicando la vita. Quindi...
Ecco, sì, è la parola giusta. Complicando...
Allora da quanto tempo... no, questo me l'hai detto.
Come mai da vent'anni?
Non credevo più nella confessione.
In che senso?
Non ne sentivo il bisogno. Mi sembrava una... una
sciocchezza.
Ah... E adesso ci credi?
Adesso...?
Adesso ci credi?
Penso di si, se no non sarei qui con lei.
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Prete
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Prete
Uomo
Prete
Uomo
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Uomo
Prete
Uomo
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Uomo
Prete
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Uomo
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Uomo
Prete
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Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
E come mai?
Come mai cosa?
Come mai adesso torni a credere?
Ma è così importante?
Cosa?
Che glielo dica!
Ma cosa vuoi fare?... Sei tu che stabilisci le regole di un
sacramento?
Le chiedo solo se è importante. Non è facile per me
capire.
È importante sì.
(Sospira)...
Senti, figliolo...
No, non mi chiami così... per favore.
Perché?
Potrei essere suo fratello mi sembra, e non mi va di...
E io invece ti considero un figlio... che torna a casa. Hai
presente la parabola del figliol prodigo?
E per favore non mi tiri fuori le parabole. Possibile che
dobbiate sempre far riferimento ai Vangeli? E i Vangeli
e la Bibbia...
Mio caro, sono la base della nostra fede.
La Bibbia?
I Vangeli. Cos'hai contro i Vangeli?
Niente, ma vorrei, ecco... è il modo con cui parlate, il
modo con cui stabilite i rapporti con i fedeli...
Cioè?
Sembra quasi che li trattiate da preistorici.
Usare i Vangeli è trattare da preistorici? Senza i Vangeli
noi…
Ma perché dobbiamo... dovete basarvi...? lo ho bisogno
di credere in qualcosa che c'è adesso... che...
Tu chiami Dio semplicemente qualcosa!?
Qualcosa, qualcuno... a prescindere dalle sacre scritture...
Non puoi "prescindere", come tu dici, dalle sacre scritture... È la fonte della rivelazione... è la base su cui...
Voglio che lei mi convinca che c'è Dio senza bisogno di
tirar fuori Gesù Cristo.
Vuoi!? Tu vuoi? lo credo proprio che tu non sei ancora
pronto per il sacramento della confessione.
Le chiedo solo, padre, le chiedo solo che mi dia una
mano. Sono venuto da lei pieno di fede e di speranza...
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Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
No, tu sei venuto pieno di pregiudizi, preconcetti, tra
l'altro falsi... Non so neanche perché sia venuto da
me...
Perché ho bisogno che mi parli di Dio.
lo ti sto parlando di Dio.
Lei mi vuole parlare di Gesù Cristo. Lo so che Gesù è
stato un uomo che...
Ma Gesù Cristo è Dio!!
Uomo
Ok... è Dio... Vogliamo chiamarlo Gesù Cristo? Va bene.
Ho bisogno che lei mi parli di Gesù Cristo. Creatore e Si gnore del cielo e della terra.
Prete
Il Creatore è Dio, che governa su di noi assieme alle altre componenti della Trinità, perché Dio è uno e trino.
Ma nessuno ti ha insegnato il catechismo?
Non ho bisogno allora che lei mi parli della Trinità! Non
ho bisogno della Trinità... lo ho bisogno di cose concrete... Gesù Cristo è concreto? Gesù Cristo è Dio? Va bene. Parliamo solo di Gesù Cristo allora... che è meglio.
lo non posso confessarti così...
Perché?
Perché non sei pronto. Non è questo il modo di affrontare un sacramento.
E come dovrei essere?
Sei altezzoso, insofferente, presuntuoso... Poi ti vuoi
comunicare magari?
Non necessariamente. Ho bisogno di sistemare la mia
coscienza...
Tu hai bisogno di riflettere... prima di venire qui...
lo voglio solo confessarmi...
Ma perché hai bisogno di confessarti? Dillo. lo sono qui.
Perché sento dentro un peso... no, non un peso... sì, un
peso, una mancanza di respiro, un bisogno di respirare,
sento dentro che non mi funziona qualcosa, sento che...
E che c'entro io? Puoi farlo davanti a un amico... a un
medico...
Ho bisogno di confessarmi davanti a un prete.
Perché?
Perché ho bisogno che un prete mi dica cosa c'è che
non va in me... e ho bisogno di un prete che mi faccia
capire come un uomo di trent' anni, quaranta, non so
quanti ne ha lei... dalla voce mi sembra fra i trenta e i
quaranta...
Quarantadue.
Uomo
Prete
Uomo
Prete
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Uomo
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Prete
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Va bene quarantadue... ecco, che un uomo di quarantadue anni mi dica che cosa l'ha convinto a credere in
Dio... basandosi su antiche scritture e su alcuni dogmi
che non sono spiegabili se non con una fede... Ma da
dove le viene questa fede? Dove l'ha presa? Chi gliel'ha
data?
La fede non si prende in un negozio... come si compra
un paio di jeans.
E allora da dove le viene?
La fede nasce dentro...
Da un bisogno?
Da una certezza.
Non può essere certo.
Perché non posso?
I suoi erano religiosi?
Non cambiare discorso.
Non cambio. Cerco solo di...
Senti figliolo...
La pregherei...
Che cosa?
Non mi dica anche lei "senti figliolo"! Lo si sente perfino
al cinema.
(Stavolta è incazzato!) Non puoi pretendere da me che
mi comporti come vuoi tu! A cui poi ti presenti per ricevere un sacramento! Ti rendi conto? E mi ingiungi di
comportarmi e di parlare come vuoi tu. Ti rendi conto?
E poi non farmi... non farmi... Non ho nessuna voglia di
alterarmi e tu mi fai alterare...
Mi scusi allora. Cercherò di capirla. Solo che in questo
modo non posso affidarmi a lei ciecamente.
Solo perchè ti chiamo "figliolo"? Ma tu sei mio figlio. Tu
sei una pecorella smarrita, che adesso, dopo non so
quante..
E adesso anche la storia della "pecorella smarrita"! Ma
non potete parlare senza tirar fuori sempre queste frasi
fatte?
Senti... non so come ti chiami...
Alberto.
Senti Alberto, vuoi confessarti a modo mio o vuoi confessarti a modo tuo? Perché se vuoi confessarti a modo
tuo, te lo dico subito, questa confessione non vale. Te
lo dico subito.
Voglio solo confessarmi. Tutto qua.
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Prete
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E perché hai scelto me?
Sono entrato in una chiesa, ho visto un confessionale
con la luce accesa, ho visto una fila, ho aspettato il mio
turno e ora sono qui...
Bene. Hai detto che hai commesso un atto impuro, no?
Hai commesso un atto impuro insieme a una donna, hai
detto.
A una ragazza.
Una prostituta?
No.
Sei sicuro?
Sì.
Dove l'hai trovata?
Ci lavoro insieme. Ma che differenza fa? Con le prostitute è più grave?
È la stessa cosa. Era solo per inquadrare la situazione.
E perché hai sentito il bisogno di confessarti dopo essere stato con questa ragazza?
Non lo so.
Lo hai fatto altre volte con questa ragazza?
No, è la prima volta.
Dove l'hai incontrata? Com'è successo?
Gliel'ho detto. Si lavora insieme.
Tu cosa fai?
Lo sceneggiatore.
E com'è successo?
Che lavorando insieme abbiamo cenato e... una cosa tira l'altra, insomma siamo finiti a letto.
In un albergo?
A casa sua.
E' sposata?
Sì. Non c'era il marito.
E adesso ti sei pentito?
No, non sono venuto qui perché mi sono pentito di
quello che ho fatto con questa ragazza...
E allora? Hai esordito dicendo...
È della mia vita intera che non sono soddisfatto.
Ovviamente in questi anni l'avrai fatto altre volte!
Cosa?
Di andare a letto con una donna.
Bè, sì, ovviamente.
Non è il caso che tu ti vanti.
No.
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Ed è inutile che ti chieda quante volte l'hai fatto perché
probabilmente non te lo ricorderai neppure.
Ovviamente.
E che altri peccati hai commesso in questo periodo?
Ultimamente?
O meglio, diciamo che cosa hai fatto nella tua vita...
possiamo parlare di una vita, a questo punto, no?
Certo.
Che cosa ritieni di aver fatto che ha offeso il Signore?
Gesù Cristo?
Dio...
Il punto è questo...
Sei sposato?
Lo ero.
Sei divorziato? Di già?
È appunto di questo che...
Senti... Antonio.
Alberto.
Alberto. lo credo che tu debba venire qui in un altro
momento. Affrontiamo i tuoi problemi con calma. Hai
visto la fila che c'è fuori... e io non posso dedicare più
di qualche minuto a ogni confessione... altrimenti finisce che...
Ma come ci si fa a confessare in cinque minuti?
La gente che viene qui è abituata. Vengono a confessare i peccati commessi in una settimana, in un mese, per
potersi comunicare poi la domenica alla messa. Ovviamente tu non frequenti la chiesa, non vai a messa la
domenica.
Ovviamente. Certo.
Ovviamente no, od ovviamente sì?
Ovviamente no. Ma io non sono di qua. Passavo per caso. Perché stiamo lavorando in questa città.
Dove abiti?
A Roma.
E non puoi aspettare di fare una bella confessione
quando sarai tornato a Roma? Tu hai bisogno di...
Ma io torno a Roma fra un mese... forse due.
E non puoi aspettare un mese? Hai aspettato vent'anni!
Ma si rende conto di quello che dice?
Lo so, però...
lo posso morire fra una settimana e secondo la vostra
dottrina potrei andare all'inferno. E sarebbe colpa sua.
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Colpa mia!? Questa è bella! Stai lontano dalla chiesa
per vent'ani in cui evidentemente ne combini di tutti i
colori e se vai all' inferno adesso è colpa mia!? E poi
cosa intendi con "la vostra dottrina"? È anche la tua...
La mia vorrei che fosse più semplice. Senta padre, mi
pento di quello che ho fatto, di quello che ho fatto finora. Non mi può dare un'assoluzione totale? Non può
darmi un' assoluzione generale per tutto quello che ho
fatto di sbagliato, per il male che ho commesso? Poi le
prometto che rivedo tutto, mi ravvedo, sto attento, non
ho più voglia di...
Stiamo scherzando? Ma tu chi ti credi di essere?
Una pecorella, un figliol prodigo che ritorna dal padre.
Mi stai prendendo in giro?
Mi scusi , padre. Il fatto è che non ci capisco più niente.
Questo è un periodo della mia vita molto confuso. Non
so più bene cos'è il bene e cos'è il male. Mi ricordo da
bambino com'ero felice dopo una confessione e una comunione...
lo credo che tu abbia bisogno di un analista più che di
un prete.
È lei che si rifiuta di confessarmi!
Ma neanche per sogno. lo non rifiuto la confessione a
nessuno che si avvicina a Cristo con animo umile, devoto, contrito. Cosa che tu non hai.
Come fa a giudicare così, in pochi minuti?
Te l'ho detto. Vieni in un altro momento. Adesso ho da
fare con molte persone che stanno aspettando...
E che sono certamente più umili, contrite e devote…
Su questo non c'è dubbio.
E quando posso tornare?
Lunedì... verso le 3.
Di notte?
Di pomeriggio. Di notte io dormo, se posso.
Anch'io, se posso.
Cos'hai? Troppe distrazioni femminili?
Insonnia.
Te l'ho detto. Tu hai bisogno di un analista... e magari
anche di un medico. Ora vai, ci vediamo...
Un’ultima cosa padre... Volevo sapere... Ma perché gli
atti impuri sono impuri solo al di fuori del matrimonio,
mentre all'interno si possono fare tutte le sconcezze
possibili?
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(non dice niente, come allibito)
Padre... C'è ancora?
Ci sono, ci sono...
Allora?
Non è che hai con te un registratore vero? O una telecamera?
No.
Antonio, ci vediamo stasera.
Alberto.
Alberto, vieni stasera, suona alla porta del collegio, dopo le 9... dopo le 21.
L'avevo capito.
Il collegio è qui accanto, lo vedi subito, uscendo a destra. E chiedi di me... Padre Giuseppe...
Non può darmi un'assoluzione adesso?
No
Anche provvisoria... Poi stasera le dico tutto.
No
Allora a stasera, Padre Giuseppe.
A stasera. Ora vai... Dì dieci Ave Maria alla Madonna.
Ma non mi ha dato l'assoluzione.
Intanto dì dieci Ave Maria alla Madonna.
OK.
Ed ora il II° atto: La stanza di padre Giuseppe nel suo collegio.
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Allora padre... da dove cominciamo?
Da dove vuoi cominciare tu!
Allora diciamo che... ci ho pensato in queste ore...
Ti sei rivisto con questa donna con cui...?
No. Oggi e domani siamo liberi e lei è tornata a casa
sua.
È sposata?
Sì.
È per questo che senti un rimorso!
No, non credo sia per questo.
Questa mattina hai cominciato dicendo...
Sì ma è anche vero che stavo pensando ad altro...
E cioè?
Se è venuta con me lo desiderava anche lei. Il fatto è
che non sono innamorato di lei. E neanche lei di me.
L'abbiamo fatto più che altro per... malinconia...
E allora è questo il punto...
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L'abbiamo fatto per sentirci vicini, forse per solitudine.
Ed è scattato il sentimento di un errore, di un'azione
gratuita... Ne avete parlato, poi?
No.
Il fatto è che tu hai sentito comunque un peso... e questo è il peso del peccato... il senso di avere offeso
Dio... Il che significa che tu...
No... non è neanche questo.
Ma certo che è questo.
No.
E allora cos'è?
Il problema è a monte... il problema è che io sento
questo peso, come dice lei... e sento il bisogno di sgravarmi... di togliermelo di dosso... ma non è tanto il fatto di ieri... di essere stato con una donna sposata...
Di essere stato con una donna che non è tua moglie! Di
essere stato al di fuori di certe regole di vita civile, se
proprio non vogliamo tirare in ballo la religione. Vedi...
Alberto... o Antonio?.. Scusa ma...
Alberto.
La religione non è contro le regole civili, la religione è
nelle regole di una civiltà onesta, organizzata... la religione è sempre servita a sottolineare le norme di una
civiltà sana. Se tutti si rendessero conto che...
Il fatto è che io mi sento al di fuori di tutto questo.
Lo so.
E non ritengo sana questa civiltà.
Mi rendo conto anche di questo e ti capisco.
Non so fino a che punto. Non è che io sono una persona
incivile, irregolare, io mi sento a posto con la coscienza
riguardo alla mia vita nella società... non rubo, pago le
tasse, non faccio infrazioni, voto...
Ma commetti adulterio!
Mi perdoni, padre, ma questa è una cazzata rispetto alle cose vere... alle cose di cui...
Cazzata dici? Bene... vedo che non sei un irregolare
ma... comunque usi un linguaggio diciamo colorito...
Padre, il 96 per cento degli esseri umani fa queste cose.
E siccome lo fa il 96 per cento, allora anche tu...
E il quattro per cento rimanente sono preti, suore, persone molto religiose, o fondamentalisti islamici per cui
l’adulterio va punito con la lapidazione... e che comunque spesso hanno due mogli...
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Tu stai facendomi dei discorsi che non posso seguire. Ti
ho detto di venire da me perché pensavo che...
Il mio problema non è questo.
(Di nuovo è incazzato) E continui a dirmi che il tuo
problema non è questo... non è quello di cui stiamo
parlando... Il tuo problema è questo.
No
Il tuo problema è che tu sei lontano da Dio... il tuo problema è che, anche contro il tuo volere, provi il senso
del divino, e sei fortunato, se no non saresti venuto in
una chiesa, di sabato pomeriggio, in una città che non
è la tua.
Ma lei cosa intende colla parola "divino"!? Perché è questo che non capisco...
Lo vedi? Tu stai combattendo una lotta fra il tuo sentimento materialistico della realtà e il tuo bisogno di Dio
che c'è indubbiamente dentro di te..
Padre, vorrei raccontarle un episodio della mia vita per
me fondamentale.
Dimmi.
lo ho studiato in un collegio di gesuiti.
Ah.
Dai dieci ai sedici anni. E la mattina prima di cominciare
le lezioni c'era la messa... tutte le mattine... e spesso si
faceva la comunione... e prima ci si confessava... sempre... E la prima cosa che si confessava erano i peccati
impuri... E il padre confessore ci diceva... "quante volte?"... e io dicevo... "una volta, due volte"... e lui diceva... "da solo o in compagnia?"... e per compagnia capivo che non intendeva una ragazza, ma un amico con
cui potevamo fare delle cose insieme, dato che con le
ragazze era difficile...
E allora?
E allora mi ricordo che lui, dopo questa domanda a cui
regolarmente dicevo... "no, da solo"... lui andava avanti
a chiedere... "e poi?"... E poi nient' altro, però tanto
per dire qualcosa di più... se no sembrava che gli unici
peccati per me fossero quelli impuri... dicevo "ho risposto male a mia madre"... e cose del genere...
E poi?
Poi sono uscito dal collegio e sono entrato nella vita... E
la vita è stata una vita normale, con le ragazze, con cui
ho avuto sempre dei problemi da giovane... finché final-
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mente sono stato con una ragazza e in quel momento
ero felice, ero stato con una ragazza, ma non mi sembrava di aver peccato... Allora il peccato per me era solo quello solitario!?... Poi è successo, un giorno, c'era la
guerra in Bosnia, e in televisione parlavano di pulizia
etnica, e di tutti i massacri che sia da una parte che
dall'altra mettevano in atto, e degli stupri di gruppo, su
migliaia di donne, e mi ricordo di una volta che il papa
disse in televisione di pregare per questa povera gente,
che l'unica via per far finire quegli orrori era la preghiera, e mi ricordo che mi incazzai... mi incazzai al punto
che dissi forte "Cazzo!"... Ma invece di pregare Dio perché facesse finire quella tragedia, non si poteva pregarlo di non far succedere queste tragedie... insomma se
Lui vede tutto, sa tutto, prevede tutto, può tutto, non
poteva allora impedire che avvenissero!?...
È questo che stai pensando ancora?
Forse sì.
Cioè tu pensi che Dio dovrebbe darci una vita serena,
senza conflitti, in pratica dovremmo essere dei personaggi di una favola a lieto fine... una favola scritta da
Lui... che si diverte a crearla e a seguirla?
No.
La vita che ci da è nostra, e possiamo farne quello che
vogliamo.
Certo. È proprio questo che ci incasina.
Preferiresti che tutto fosse già programmato e che tu
non devi fare altro che viverlo nella grazia di Dio...?
Non dico questo. Dico che se le cose stanno così a che
serve Dio? Perché ci ha messo al mondo?
Quindi ammetti che ti ha messo al mondo?
Ammettiamolo. E allora perché?
Ma non ti piace vivere? Conoscere? Partecipare alla gestione non solo della tua vita ma anche di quella della
società?
No... E guardi che io sono una persona a cui le cose
vanno bene... Ma non capisco perché ci sono tanti altri
a cui le cose vanno male...
Forse sono prove... pensaci... sono ostacoli che...
Sono ostacoli le violenze di massa? Sono ostacoli le
centinaia di migliaia di morti per lo tsunami nell'oceano
indiano?... Cosa vuole dimostrare colpendoci con tragedie naturali, guerre, massacri, stupri... Che colpa ne
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hanno le donne di quei paesi in cui è successo quello
che è successo e per cui il papa ha detto "preghiamo"
per quella povera gente?
Ma tu pensi che tutto quello che succede succede perché lo vuole Lui?
E non è così? Lui sa tutto, vede tutto, è dappertutto,
prevede tutto...
Queste sono le favole che immaginate voi..
Noi chi?
Voi che pensate a un Dio sopra le nuvole. Dio non è un
padrone assoluto!
Nel Vecchio Testamento è così... Dio è il padrone di una
razza prediletta... che gli deve rendere conto di tutto...
e se non fa quello che vuole Lui si incazza... e ti manda
fulmini e saette e lacrime e sangue... la stessa cosa che
faceva Giove, no?
Sono d'accordo con te. Infatti non è di questo Dio che
stiamo parlando.
E allora di chi? O ce n'è più di uno? Perché anche quello
dei musulmani non è da meno! Anzi, è ancora più rigoroso.
Dio è uno solo... fratello mio. E non può essere che così.
Adesso non sono più suo figlio! Sono diventato fratello.
Ma tu sei venuto qui per prendermi per il culo o per ragionare insieme a me su cose che sono più grandi di
noi... Perché è da quando l'uomo ha perso coscienza di
sé che si parla di queste cose.
Sono venuto qui per ragionare insieme a lei.
(Pausa) Tu credi che la vita per noi sacerdoti sia facile? Credi che abbiamo la scienza infusa? Anche i papi
a volte si sbagliano e a volte correggono ciò che è stato
fatto da altri papi. Ed è questo il bello, no? stiamo cercando, stiamo cercando di capire. L' importante è che..
Lei dice che tutto quello che succede non dipende da
Lui? E allora da chi dipende o da cosa dipende? Dal caso?
Non essere così scientifico...
Anche Dio è in balia del caso...?
Antonio...
Alberto... Anche Lui si adatta e cerca di intervenire...
però interviene solo se lo si prega... ?
Mi fai parlare?
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Mi dica.
Tu stai affrontando il mistero ragazzo mio.... La vita è
un mistero, lo ammetterai anche tu... Decisamente i
comportamenti di Dio sono un mistero su cui non possiamo...
Non ho voglia di risolvere tutto dicendo che "è tutto un
mistero". Dio è un mistero. La vita è un mistero. Gli
stupri di massa sono un mistero.
Non sto parlando di questi misteri... che comunque esistono. Sto parlando del mistero per cui un uomo come
te, e ne conosco tanti, sente che ha bisogno di Dio, ha
bisogno di rivolgersi a Lui... anche se...
Ma allora perché dovremmo pregarlo di risolvere i nostri
problemi?
Che vuoi dire?
Che la vita è un problema nostro... coi nostri problemi... ognuno ha i suoi. E dovremmo risolverceli da soli,
no?... Senza bisogno di Suoi interventi. Perché dovremmo pregarlo? E chi ci dice che sono le nostre preghiere che ottengono la sua intercessione. Non può
darsi che le eventuali "grazie" sarebbero arrivate lo
stesso?
Hai mai sentito parlare del libero arbitrio? È questo che
ci distingue dagli animali. E in quanto esseri umani....
Cioè siamo stati creati nell'Eden, come dice la Bibbia?
Ma vai oltre a queste cose, cerca di andare oltre, per...
Per Dio, stava per dire?
Ma cosa sei? Un Tentatore venuto apposta per rompermi i coglioni?
Magari. Se vuole che io me ne vada, me ne vado.
No. Non è questo. Ormai ti ritengo una pagliuzza in un
occhio... che devo saper affrontare. Tu sei veramente
un tentatore. E voglio stare con te per scoprire dove mi
vuoi fare arrivare.
La cosa mi esalta.
Però cerca di seguirmi e non aprire bocca solo per sottolineare le facili obiezioni dei materialisti di professione. Lo sono lieto di averti incontrato. Ecco, e sono convinto che è Dio che ti ha mandato questa mattina.
Meno male. Credevo che fosse il mio libero arbitrio.
Di una cosa però ti prego... Ma certo fa parte della tua
professione.
Cioè?
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L'abitudine all'ironia o all'umorismo... o al sarcasmo.
Non ci serve, non ci porta da nessuna parte.
D'accordo. Non so però se ce la faccio. Fa parte del mio
modo di ragionare. O di contestare.
Che cosa stavamo dicendo?
Il libero arbitrio?...
Certo.
Grazie al quale stiamo distruggendo il nostro mondo, il
nostro ambiente, la nostra specie! E se andiamo avanti
così... anche Dio. Perché quando non ci saremo più...
come specie estinta anche noi... come i dinosauri... che
sarà di Lui? Ricomincerà da capo? Con Adamo, Eva, il
Paradiso Terrestre, la mela...? Ma forse anche questo è
sarcasmo!?
Ma perché tu sei venuto da me? Sei tu che sei venuto
da me. Sei tu che volevi confessarti da me... Se hai
queste idee per la testa perché vuoi confessare i tuoi
peccati? E che cos'è per te il peccato?
(Pausa) lo non so cosa sia il peccato. Oserei dire che
non credo nel peccato. Penso che l'idea di peccato che
ho sia ancora quella che mi hanno istillato i gesuiti.
Cioè?
Qualsiasi cosa che vada contro i dieci comandamenti.
E adesso non ci credi più? Mi hai detto poco fa... o stamattina...
No... però ce ne sono altri. lo credo che andrebbero aggiornate le tavole... È un' edizione ormai superata, non
le pare?
E allora per confessare quali peccati sei venuto da me?
Hai cominciato dicendo "Padre ho peccato facendo sesso con una ragazza:"
Sì, ma non è vero.
Che vuoi dire?
Che non è vero... abbiamo cenato, siamo stati a casa
mia ma non abbiamo fatto niente.
E allora?
E allora ho detto una bugia.
Perché?
Per cominciare in qualche modo. Quando ero dai gesuiti
cominciavo sempre così... "Ho commesso degli atti impuri"... e quello, tranquillo, diceva sempre "quante volte?"...
Più vado avanti con te e più non ci capisco più niente.
Anch'io.
192
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Se non è di questo che volevi confessarti... allora di cosa?
Volevo parlare con un prete.
Sono qui.
Volevo parlare con una persona che dedica la sua vita
ai problemi degli altri, quando questi altri si sentono in
difetto per qualcosa, si sentono di aver commesso qualcosa che non è giusto, sentono dentro un peso che li
soffoca, perché magari vorrebbero poter fare qualcosa
di buono, qualcosa che serva al prossimo, qualcosa che
ci faccia fermare su questo scivolo in cui stiamo precipitando...
E tu ti senti di contribuire a questa catastrofe?
Sì.
Col tuo lavoro?
Il mio lavoro è solo routine. Guadagno scrivendo per il
cinema perché so scrivere le battute, ma spesso non mi
interessa quello che scrivo. Devo tener conto di tante
cose a cui sono abituato: del botteghino, degli incassi,
dei giovani, dei vecchi, del pubblico medio, del divertimento, della risata, del Natale in cui uscirà il film...
E non puoi fare un altro lavoro che ti interessi di più?
Che ti coinvolga di più? In cui credi...?
No. So fare solo questo. Mi pagano per questo. Sono
riuscito a entrarci a fatica... e sono in mano alla legge
del mercato. Tutto del resto è in mano alle leggi del
mercato. Forse anche voi.
Noi chi?
Preti.
Non credo.
Perché voi preti non vi sposate? Sarebbe ora che lo richiedeste?
Senti Antonio...
Alberto!
Alberto!... Eccheccazzo!
Non c'è problema.
Io è tutto il giorno che mi sto domandando continuamente "ma cosa vuole quello da me!?" Mi vuoi provocare? Sei venuto magari con un registratore per riprendere quello che risponde un prete alle tue provocazioni?
Potrebbe essere un'idea. Ma non è tanto per renderlo
pubblico, quanto per risentire il nostro dialogo e meditarci su, dal momento che...
193
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Ah, quindi ce l'hai?
No.
Alberto, che vuoi da me?
Confessarmi!
No, tu vuoi qualcos'altro.
È vero. Bravo. L'hai capito. Posso darti del tu?
Fai quello che vuoi, solo cerca di spiegarti.
Io sento che non sto vivendo una vita come vorrei. lo
ho un altro senso del concetto di vita. Per me vivere significa responsabilità. E significa anche mistero, certo.
Non so perché sono venuto al mondo. È chiaro che mio
padre e mia madre non ci pensavano. Forse sono nato
così, per sbaglio. Magari mi volevano più tardi.
Ci sono ancora i tuoi?
Mio padre no.
E' morto?
Non c'è mai stato. Voglio dire che sono figlio di una ragazza madre.
Ah... E tua madre dov'è adesso? Vive con te?
Mia madre vive in una casa di cura. Ha l'Alzeimer.
Quando la vado a trovare è felice che uno sconosciuto
vada a trovarla.
Continua col discorso che stavi facendo. Hai un alto
senso del concetto di vita dicevi.
Un altro senso...
Ma anche un alto, no?
Senti... ma tu come ti chiami?
Giuseppe.
Don Giuseppe..
Padre Giuseppe.
Ah... Che differenza c'è?
C'è che sono un gesuita. Questa chiesa è dei gesuiti. E
qui accanto abbiamo un collegio.
Ah! Bene.
Posso offrirti qualcosa? Vuoi bere qualcosa?
No, grazie.... Senti, Giuseppe...
Dimmi.
Ma Dio... dov'è?
Che vuoi dire?
Dove si trova? Quando si dice che è in cielo è chiaro
che è una metafora. In cielo ci sta il sole, la luna, le
stelle, l'universo in espansione. Ma Lui allora dov'è?
Dentro di noi? Nelle cose... nella natura?...
194
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Ma Dio ha un'altra dimensione... non è di questa terra... è inutile usare le misure dell'uomo... Domandarsi
dov'è... com'è fatto... cosa fa... da dove viene... quali
sono le sue intenzioni... perché si comporta così... perché ci ha creato... dove andremo dopo la morte... sono
domande che non hanno risposte nella logica... Non
abituiamoci a vederlo con la barba bianca... che sbuca
dalle nuvole per vedere cosa facciamo noi.. poveri...
Sono le stesse sacre scritture che inducono a...
Le sacre scritture sono state scritte in epoche in cui
queste immagini funzionavano.
Sei tu che hai detto che i vangeli sono la base della rivelazione di Dio.
È così... è così perché comunque funzionano su miliardi
di esseri umani, che hanno bisogno di queste scritture... E' così perché se si sanno leggere ci trovi tutto. La
Bibbia è il libro più venduto, lo sai? Lo saprai certo.
Il libro più venduto è Harry Potter.
Non scherziamo... Alberto. Anch'io spesso mi pongo
delle domande... a cui non rispondo perché non so rispondere... ma so, io so... che Dio esiste... Non so dove... non so com'è fatto... non so perché lascia che succedano delle cose orribili... ma so che non è Lui che lo
vuole... siamo noi che lo vogliamo e dobbiamo renderci
conto che siamo noi che lo vogliamo...
Siamo noi che vogliamo lo tsunami?
Perché a un certo punto ci venga in mente che solo in
un' altra dimensione, che non è la nostra, umana, ma
una dimensione divina... divina in quanto vicina a Lui...
all' Essere Infinito... c'è la salvezza... c'è una ragione di
vita... altrimenti veramente tutto è inutile e senza scopo... Dio non è in cielo, in mezzo a una corona di angeli
e di santi... ovviamente... Dio semplicemente è!... È la
verità... è la giustizia... è la trascendenza... a cui dobbiamo aspirare, altrimenti è un inferno... un inferno su
questa terra.
Allora anche per te?
Cosa anche per me?
È un inferno.
A me piace pensare che tutti i sacrifici... i dolori, perché
no?... tutti i dolori, le difficoltà... tutte la battaglie anche morali, le angosce che nascono dai miei bisogni spirituali, come anche le pulsioni della carne... il sesso,
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Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
perché no? anche lo tsunami... fanno parte di un' ascesa, di una perfezione a cui tendo...
Ma vivere insieme a una donna, convivere, e fare dei figli è umano, non è contro natura. Perché volete andare
contro natura?
Alberto, non è detto che tutto ciò che è naturale sia
giusto.
Ma tu ti stai sacrificando, voi vi state sacrificando perché?
Cosa vuoi? Convincermi a introdurre il matrimonio nella
Chiesa? La mia voce non è così potente.
Giuseppe, a me non me ne frega niente se vuoi vivere
da martire, magari ogni tanto facendoti una sega, scusa... ma quando ci vuole...
Esci subito da questa casa. lo ti ho ospitato perché ho
visto in te... ho creduto di vedere...
Ho colpito nel segno?
Antonio...
Alberto!
Alberto... Vaffanculo.
Così mi piaci. Così comincio a credere in te.. No, non
me ne vado... Perché adesso comincio a capire qualcosa. Grazie a te. Giuseppe io ti stimo. Adesso ti stimo
perché sei una persona vera. E vorrei frequentarti, se
me lo permetti... Anch'io credo di essere una persona
vera, che chiede, vuole sapere... Non mi va di vivere
nei misteri. lo voglio sapere... capire...
La vita è un mistero. Il nostro corpo è un mistero... tutto è un mistero...
Ecco io voglio saperne il più possibile.
Non si può.
Perché?
È da quando l'uomo ha preso coscienza che cerchiamo
delle risposte. Ma nessuno è in grado di darne... se non
con la fede. Sapremo com'è fatto l'uomo, com'è fatto
l’Universo, ma non sapremo mai perché! Se non con la
fede... Sappiamo cosa succede quando si muore, ma
non sappiamo dove si andrà, e perché succede tutto
questo, se non con la fede... (Suono di un telefono)
Scusa un attimo ma a quest'ora io... Pronto? Sì... Come
si chiama?... Va bene... vengo subito... Ora devo andare... C'è un uomo che sta morendo all' ospedale qui vicino.... Devo andare... Ci vediamo in un altro momen-
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Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
Prete
Uomo
to... se vuoi... Ma forse non abbiamo altro da dirci...
Una sola cosa... ancora...
Dai!
Il problema... è solo da noi?... Da noi su questa terra?
Che vuoi dire? Qual è l'altra provocazione?
Voglio dire... Se ci fossero altre vite nell'universo, anche per loro... Cioè, insomma... Dio è impegnato in tutte le Galassie?
Questo è il mio numero... Adesso vado a trovare qualcuno che va a sincerarsi di persona cosa c'è nell'aldilà...
Ciao... Alfredo... no...?
Si, certo... Come "amami Alfredo!"
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Gran Finale
198
Ci sono dei momenti…
Ci sono dei momenti in cui mi fermo, mi blocco, mi siedo, se
trovo da sedere, se no sto in piedi, le braccia conserte, oppure
abbandonate lungo i fianchi, tanto non mi servono, socchiudo
gli occhi, tanto non mi servono, o guardo davanti a me, senza
vedere niente, come un cieco, come i ciechi in cui si vede la
pupilla che però non vede niente, e fanno una strana impressione quando ci sei davanti, perché sembra che ti vedano, ma
(secondo loro) non ti vedono, ecco, e se uno mi guarda in quel
momento assomiglio a un cieco, o a un drogato, partito per la
sua tangente, o uno in preda ad uno stato ipnotico, che se uno
mi parla, non rispondo, non ascolto, se uno mi tocca non lo
sento, o se lo sento, non avverto, non mi interessa, non sono
presente, non esisto, non so dove sono, non ci sono, o sono altrove, senza coscienza, senza stimoli, senza voglie…
Ci sono dei momenti… così comincia una canzone di Gaber, che
va avanti dicendo “che ho voglia di star solo”, ma io non ho
neppure voglia di star solo; ci sono dei momenti in cui sono al
di là, al di sopra, o al di qua, non partecipo, se ci fosse un’ omicidio davanti a me, non me ne accorgerei, e se chiedessero
formalmente la mia testimonianza, direi “non so”, non ho visto,
e se per questo mi incriminassero, mi lascerei portare dentro,
non mi interessa, non c’ero, o se c’ero, non ho visto, e mi potrebbero portare dentro, non mi interessa…
Ci sono dei momenti in cui, effettivamente, non posso dire di
non essere consapevole, sono consapevole del mio stato, sono
consapevole di essere in uno stato senza stimoli, senza interessi, in una specie di stato ipnotico, in cui forse vedo, sento,
ma è come se non vedessi o sentissi, non mi interessa, non mi
interessa niente o forse sono solo stupìto di questo mio disinteresse, di questa mia abulia, senza per altro preoccuparmi…
Ci sono dei momenti in cui forse dentro di me mi sto domandando “ma che ci faccio io qui? chi sono? in questo universo
privo di senso, che ci sto a fare, perché sono qui, qual è lo scopo? Queste mani, questi occhi, a cosa sono predisposti? Questa
mia intelligenza!? Questa mia vita, con esperienze, conoscenze, consapevolezze? Ho già vissuto questa situazione un’altra
volta, tempo fa, in cui ho scoperto la consapevolezza e me ne
sono stupito e in un certo senso affascinato, ma ora è diverso,
ora la faccenda è più critica, perché ora non trovo risposte, e
se non trovo risposte, la domanda successiva, che è simile alla
prima e unica, è questa: “e allora che ci sto a fare?” In quanto
199
non mi basta una mezza risposta tipo: “vivi e lascia vivere!... o
segui quello che fanno gli altri!... o chettifrega, scopri il mondo!”... No, non mi basta. Se sono qui voglio un motivo. Io non
l’ho voluto o non mi ricordo di averlo voluto. E se non lo trovo,
e non credo che ci sia nessuno che l’abbia voluto, perché trovo
questo mondo e questa vita e questa società sbagliate e assurde e folli, quindi nessuno può averlo voluto, sarebbe un pazzo,
o che gioca a fare il pazzo, o che gioca a fare Dio… senza riuscirvi, perché l’idea che ho di un Dio (se mai) è molto alta, perfetta, senza contraddizioni e questo mondo, questa vita è tutta
piena di contraddizioni e di ingiustizie, e non vedo perché dovrei pregare questo Dio di darci una mano e cambiare le sue
decisioni, se è Lui che le ha volute. O non le ha volute? E allora
che ci sta a fare?
Ci sono dei momenti in cui penso alle volte in cui sono stato
anestetizzato, che mi hanno anestetizzato, in cui non avvertivo, mai avvertito (e l’hanno fatto più di una volta) l’istante esatto in cui perdevo la conoscenza, sentivo un dottore che mi
parlava, mi infilava una ago in una vena, mi chiedeva delle cose, e io rispondevo, una volta perfino sono stato sull’orlo
dell’umorismo, ma del momento preciso in cui perdevo la conoscenza non ne avevo la coscienza, ecco questo vorrei si potesse ripetere, ma senza il finale previsto del ritorno alla coscienza. No. Passare attraverso la meraviglia della perdita della consapevolezza (che peraltro non mi ha dato molte soddisfazioni),
di quello sprofondare nel nulla che ho già provato, senza avere
la coscienza del momento preciso (stupendo), passare al nulla
più assoluto e… Basta, stop, finito. Come mi ha assicurato il
veterinario deve essere successo ai miei gatti. Solo che per i
miei gatti c’ero io che decidevo per loro. Ho deciso io per la
sterilizzazione (il sesso, rottura di coglioni!), ho deciso io la fine di tutto (di cui non si sono accorti). In questa vita invece si
entra perché qualcuno ci sbatte dentro senza chiederci il permesso, approfittando del nostro cervello inesperto per dirci
come stanno le cose (molto male!) e non si può andarcene
quando siamo stufi perché è reato, è reato! Anzi a volte può
succedere che salviamo la vita di una creatura umana moribonda, e quando è guarita la sbattiamo in un ergastolo per
l’eternità. Voglio essere un gatto. Con un padrone come sono
stato io. Vorrei essere stato Dash e Guerrino e Bostik e Fogna,
ma soprattutto Kira. E mi scusino gli altri. Domani vado in
montagna. Ho voglia di stare solo. Ci sono dei momenti che ho
voglia di stare solo. A presto.
200
Comunicato.
Da questo momento non è più l’autore di queste pagine
che vi parla, vi racconta e riflette. È una sua amica. Cioè
io, Isabella. Lui non è tornato dalla montagna. Non ancora o forse non più. Possibile che un giorno ricompaia…
diverso, cambiato, evoluto, come ha sempre desiderato.
O può darsi che resti dove ha voluto andare. È sempre
stato un uomo curioso. Le pagine che da qui ci conducono fino alla fine, le ho messe insieme io, secondo sue indicazioni che mi ha lasciato nel caso che “io tardassi a
tornare” come mi lasciò scritto.
Isabella Del Bianco
201
Destino.
Tutte le volte che leggo, sento, vedo immagini, notizie che riguardano fatti catastrofici, o felici avvenimenti inattesi, o gente
assassinata, bruciata viva, annegata, il famoso bambino morto
sotto un albero schiantato dal vento, incidenti, naufragi, lo
tzunami nell’ oceano indiano di tempo fa, i massacri in Africa,
in Bosnia molti anni fa, vittorie clamorose riguardanti il lotto,
ecc… penso al Destino. Mi riesce difficile decidere che nulla è
stato scritto e che tutto è frutto del Caso. Eppure la logica, la
ragione ti conducono a queste conclusioni. Non ci può essere la
mano di un Dio (per chi ci crede) o di un Satanasso (per chi ci
crede).
E poi ci sono le relazioni che nascono da una scelta piuttosto
che un’altra, che ti conduce verso un destino piuttosto che un
altro. Vedi il capitolo che ho intitolato “If”.
Uno esce di casa e non torna più, uno dice “vado a farmi un
bagno” e muore nella vasca per un infarto, uno gioca una
schedina, così, per abitudine, e stravince, un altro fa la stessa
cosa e non si rende conto di aver vinto. Nelle casse dello stato
ci sono cifre incredibili di denaro di vincite non ritirate. Mamma
mia, quanti percorsi, quanti giochi del caso, quanti misteri! La
vita è divertente per questo? Ormai che ci siamo che possiamo
fare? Accettarla, per quello che è.
I percorsi che facciamo non sono segnati, non ci posso credere,
sarebbe una sorta di Monopoli giocato da esseri al di sopra di
noi, al di fuori di noi, al di sotto, esseri piccolissimi o giganteschi, che si divertono, puntano, scommettono… Mamma mia!
Ripeto: non può essere Dio, il Dio in cui vorrei poter credere.
Sarebbe così comodo.
Però non avrei la considerazione in me stesso che ora mi da
una certa abilità nel vivere. Vorrei entrare nella mente delle
persone che pregano Dio che gli salvi la vita del figlio ferito in
un incidente di motorino. Poi quando succede che il figlio non
ce la fa e muore, o anche resta in coma per anni e anni, che
pensano? Che pensano di Dio? Come lo giustificano? Continuano a crederci? Continuano a pregarlo? Vorrei essere nella loro
mente. Ritengo che conoscerei un po’ meglio la natura umana.
E ne sarei felice.
202
Homo sapiens sapiens.
Ho sempre pensato (fin da piccolo) che la vita di un uomo non
è sganciata da quella degli altri. Siamo tutti della stessa specie
e della stessa razza: homo sapiens sapiens. Anche se alcuni
particolari fisici tendono a far credere che le razze sono diverse. Ma anche nei cani ci sono delle diversità, ma sono tutti cani.
E così dovremmo essere un’ unica mente che cerca, scopre, inventa, uno per tutti e tutti per uno. Questo a prescindere dal
mio giudizio sull’ essere umano attuale, sulla società in cui viviamo, sulla civiltà, sull’ umanità, anzi, l’Umanità.
Ma non possiamo cambiare rotta? Non possiamo considerarci
un'unica famiglia? Tutti gli animali della stessa specie, in genere, può darsi che sbaglio, non sono un etologo, quindi, per
quanto ne so, non dico che si amino, ma almeno si sopportano,
c’è una sorta di sopportazione l’uno dell’altro, nella peggiore
delle ipotesi. Altrimenti c’è una sorta di considerazione, se non
addirittura di aiuto reciproco. Sto parlando naturalmente di animali sociali.
E noi? Lo siamo anche noi. Cosa c’è che ci ha fatto diventare
diversi? Spesso ostili, in conflitto, da arrivare a nuocerci, ucciderci? L’un l’altro.
Siamo in troppi? Siamo (per la maggioranza) dei bastardi!?
Come è stato possibile? Cos’è successo della nostra meravigliosa consapevolezza? Non dovrebbe servirci, esserci utile? Essendo noi una specie meravigliosamente fornita di qualità, non
dovremmo chiederci continuamente le famose tre domande: da
dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? E comportarci di
conseguenza?
Altrimenti questa vita è solo uno stupido, inutile, meschino
passaggio in un mondo che non sapevamo neanche esistesse,
che finisce nel modo più imbecille, senza che si abbia conosciuto niente e nessuno, senza avere esplorato né il mondo né noi
stessi, per andare da nessuna parte. Probabilmente. Un mondo
dove qualcuno ha scoperto qualcosa, ma non è riuscito a trovare il perché. Questo è il problema. Non è tanto ‘essere o non
essere’, o l’evoluzione delle specie, quanto, perché? Qualcuno
abbia la compiacenza di darmi una risposta che mi soddisfi, mi
convinca, che io possa dire: “Ah, ecco! Adesso finalmente ho
capito!” E’ per questo che vivo e in questo modo. Pazienza, non
posso uscirne? C’è di peggio. In Palestina, per esempio, sono
proprio fottuti.
203
Capitoletto
Diceva K. Lorenz che non sempre l'evoluzione migliora la vita;
l'evoluzione non è finalizzata al miglioramento di un organismo; ma è semplicemente un continuo adattamento (casuale)
a nuove situazioni. Dove la selezione naturale avviene esclusivamente sotto forma di concorrenza fra individui della stessa
specie, può succedere che il risultato sia nocivo alla specie
stessa. Alcuni animali hanno imboccato dei vicoli ciechi. Nei
cervi il duello fra la maggior parte dei membri maschi del gruppo ha portato alla formazione di un trofeo di corna che non ha
nessuna funzione all'infuori della lotta fra rivali, e che, anzi, dal
punto di vista del metabolismo e in genere dell'economia della
conservazione è solo dannoso. Come certi uccelli forniti di un
piumaggio meraviglioso (per i loro rituali di corteggiamento)
che però non serve più al volo, anzi è un impaccio. Oltre al fatto che sono diventati oggetto di caccia. Come i rinoceronti, o
gli elefanti, che vengono uccisi per i loro corni, e le zanne. Anche noi abbiamo imboccato un vicolo cieco? “La ragione fu l'
aiuto, la ragione ora è l'ostacolo” ha detto Sri Aurobindo.
Così diceva K. Lorenz ponendoci di fronte a un dilemma. Che si
può risolvere solo attraverso un nostro atteggiamento mentale:
positivo o negativo. Viviamo ora un momento in cui non è difficile cedere al negativo. Siamo arrivati a questo punto. L’uomo
adesso è questo individuo che vediamo tutti i giorni. Ok. E io
sono stufo di questo tipo di uomo, di questo tipo di società.
Sono stufo anche di me stesso. Allora? Che fare? Ammazzarmi?
Non sono in grado. Non è così facile. Per via degli anticorpi, del
sistema immunitario che abbiamo nell’inconscio.
Allora? Non resta che il bicchiere mezzo pieno. Non considerarci dei cervi che devono lottare per sopravvivere alla loro sfiga,
ma degli essere umani ultimo modello, che sanno mettere in
moto al massimo la consapevolezza: ovvero apparteniamo alla
specie homo sapiens sapiens sapiens! Cioè cerchiamo di essere
intelligenti veramente. Tenendo conto che non si risolve con le
ideologie piovute dall’alto. Ognuno di noi è diverso. Ma cercando quel dialogo intelligente che auspichiamo. Siamo dei miracoli, è vero. Non intendo nel senso soprannaturale. Siamo dei
miracoli così come a volte avviene che qualcuno vince al superenalotto. Non è un miracolo, sarebbe assurdo chiamarlo così.
È semplicemente un gioco del caso che spesso chiamo Caso,
perché a volte mi sembra proprio un’ Entità che governa e stabilisce... il Tutto.
204
I nomi dei miei gatti.
Ci tenevo. Ecco i nomi dei miei gatti: Dash, nero, completamente nero che più nero non si può; in quel periodo c'era in televisione la pubblicità di un detersivo che rendeva la biancheria
bianca, che più bianca non si può! E il detersivo si chiamava
Dash. Bostik, era una femmina, tenerissima, dolcissima e attaccatissima alle mie gambe, sempre appiccicata, facevo un
passo, mi veniva dietro, insomma avete capito il tipo; in quel
periodo c'era la pubblicità di un mastice attaccatutto chiamato
Bostik (forse c'è ancora). Guerrino, detto così da Guerrin Meschino, un eroe del periodo dei cavalieri, detto meschino perché non sapeva di chi fosse figlio; io l'ho chiamato Guerrin Meschino, ovvero il Meschino perché tutti gli altri gatti si approfittavano di lui, gli rubavano la pappa e lui lasciava fare, lo cacciavano dai posti più comodi, e lui se ne andava da un'altra
parte; a un certo punto, siccome era il più grosso, lo prendevano per la mamma, che non c'era più, e si mettevano a ciucciargli la pancia, tutti e quattro, riducendogliela una pelliccia
tutta sbavata, e lui lasciava fare, non si lamentava, e la cosa è
durata fin quando erano grandi, che ogni tanto ancora si buttavano sulla sua pancia a ciucciare. Poi Kira, non ricordo, forse
perché era la più bella, tipo persiana, e forse in quel momento
c'era in giro questo nome legato a una certa principessa Kira.
Fogna, che aveva una pelliccia talmente maculata, con strisce
grigie di diverse tonalità, e sparse qua e là senza senso, senza
una minima armonia, che quando era sdraiato e dormiva sembrava uno straccio sporco e infangato. I miei cari gatti. Con cui
ho vissuto 20 anni. E che non dimenticherò mai. Solo se rincoglionissi. Non si sa mai, oggi. Attorno a me vedo solo rincoglioniti.
205
La vita è un film. (un altro racconto).
Primo atto. (Interno giorno.)
“Voglio morire” pensa. Ha le lacrime agli occhi. E un peso dentro, nello stomaco, un dolore, una voglia di piangere, di buttarsi per terra a singhiozzare, picchiare i pugni sul pavimento,
gridare la propria sofferenza. E invece è semplicemente seduto
su una sedia in cucina a guardare il vuoto, mentre le immagini
nella mente scorrono a una velocità incredibile, passando dall’
una all’altra, come un proiettore di diapositive impazzito. Una
soprattutto gli riappare continuamente. Quella immagine della
notte precedente, in cui ha visto sua madre a letto con un uomo. Uno sconosciuto. No, veramente non era uno sconosciuto,
ma un uomo di cui lui era gelosissimo. Un giovane, più giovane
della mamma. Un cantante, un allievo della nonna.
Le cose erano andate così. Anzi, le cose andavano così da un
po’ di tempo, due, tre mesi, più o meno, da quando si era accorto che la mamma era cambiata. Non era più tenera con lui,
non era più occupata di lui, non era più dolce, attenta, premurosa, non era più la mamma che lui conosceva. Era diventata
più severa, nervosa, esigente. A volte non lo ascoltava neppure. Era distratta. Correva al telefono sempre per prima, e spesso, al telefono, parlava sottovoce.
Finché un giorno la vede per strada con uno. Uno sconosciuto.
Fu un colpo, al cuore. Lì per lì stava per seguirli, ma poi lo prese un’ ansia che non ce la fece. Non disse niente, a casa. Neppure ai nonni. Così per qualche giorno si portò dentro questo
peso. Nuovo per lui. A casa non faceva che spiare la madre,
osservarla, senza farsi accorgere naturalmente.
Fino alla sera precedente, in cui la madre era uscita senza dire
dove sarebbe andata, e lui restò a casa in preda a una gelosia
folle. Quasi si sentiva male. Il cuore gli batteva irregolarmente.
A volte si sentiva perfino soffocare, tanto che doveva correre in
cucina a bere un bicchiere d’acqua. Intanto le ore passavano,
la mamma non tornava, e lui stava sempre più male. A un certo punto chiese perfino ai nonni:
-
Ma dov’è stasera la mamma?
È andata fuori con degli amici.
Chi?
Non lo so. Aveva delle faccende di lavoro per il laboratorio.
E quando torna?
206
- Non so. Mangiavano fuori. Non aspettarla. Mangia. Guarda la
televisione, se vuoi. Poi vai a letto.
Non mangiò nulla e andò a letto subito. Sveglio, soffrente, geloso, faceva finta di leggere ma non capiva niente. Attento ad
ogni minimo rumore, fruscio, dialogo che veniva dalle scale.
Ed ecco, a una certa ora, tardi, le due, due e mezza, sente prima l’ascensore fermarsi al loro piano, poi delle voci, la porta di
casa che si apre delicatamente, la voce della mamma! La voce
della mamma che parla sottovoce!? Con chi sta parlando? Il
cuore gli prende a battere in modo frenetico. Lo sente in gola.
Con chi sta la mamma? Con chi è entrata? Aspetta qualche minuto, sempre col cuore in gola, con le orecchie attentissime.
Sente aprirsi la porta del bagno e poi chiudersi e poi riaprirsi e
rinchiudersi ancora. E poi il silenzio.
È qui che non può fare a meno di seguire un impulso irrazionale, assurdo. Non subito ma dopo un po’, dopo aver calcolato a
modo suo i movimenti della coppia nella stanza della mamma,
col cuore che quasi gli esce dal petto, si alza, esce in corridoio,
accende la luce dove sa lui, apre la porta della camera della
mamma, sente un grido soffocato, e nella penombra, vede la
figura di un uomo nudo che sgattaiola fin dietro l’armadio. E la
voce della mamma, strana, coperta da un lenzuolo che gli dice:
- Pucci, che vuoi? Perché non sei a dormire?
- No, niente. Volevo dirti una cosa. Scusami.
Richiude la porta, torna in camera sua e si butta sul suo letto.
Immobile. Riesce comunque a sentire dei rumori che gli fanno
capire che qualcuno è uscito di casa, in tutta fretta. La mamma
dopo un po’ gli entra in camera, e con un tono di voce incredibile, mai sentita, come piangesse, sapendo di dire una balla, gli
racconta che stava con amici, non si è sentita bene, e l’hanno
accompagnata a casa. Lui non dice niente, nemmeno si alza
dalla posizione che aveva assunto. Non si preoccupa neppure di
sembrare soddisfatto della scusa. Poi la mamma torna in camera sua e torna il silenzio. Dopo un po’ si sente la nonna che va
in bagno. “Voglio morire” pensa. E questo pensiero gli frulla in
testa per un sacco di giorni.
Due giorni dopo l’episodio della camera della mamma, in cui
aveva elaborato quel piano di cui si era già pentito (la mamma
era diventata improvvisamente dolce e carina) si trovò a percorrere una via del quartiere dove lui ci passava spesso per
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andare a studiare in casa di un amico. E fu lì che vide davanti a
lui una coppia che rideva, con il giovane che raccontava e raccontava, faceva lo spiritoso, e la donna che rideva e rideva. La
coppia si fermò per un attimo, il giovane tirò fuori delle chiavi
e aprì un portoncino, come fosse l’ingresso di un magazzino. E
i due sparirono dentro il portoncino che si rinchiuse subito. Era
la mamma col tenore. Che rideva! La mamma.
Atto secondo. (Otto anni dopo. Interno sera.)
“Voglio morire” pensa. “Che senso ha vivere se non riesco ad
essere un uomo?” Sono le sei di mattina e si trova su un autobus semivuoto. Sta tornando a casa. La notte è stata tragica.
Non fa che ripassare nella mente le immagini appena vissute.
Non fa che riascoltare le frasi appena dette, appena ascoltate.
La faccia di lei, sull'uscio, mentre lui la saluta, prima di andarsene, è una faccia intraducibile. “A che starà pensando? Che
penserà di me?” Per fortuna lui ha avuto quell'idea geniale, di
farsi venire quell'attacco.
- Che hai? Che ti succede? Amore!
- Scusami, ma ho dei problemi.
- Che problemi?
Difficile spiegare dei problemi che non si vogliono raccontare.
Quelli veri. Quindi l’unica è inventarne degli altri. L’unica è farsi prendere da una crisi senza doverla troppo spiegare. Ma lei
insiste.
- Vuoi parlarmene o no?
- No. Non posso… E poi è inutile.
- Perché? Chi sono io per te? Una qualsiasi, con cui non vale la
pena di perdere tempo?
Così lui inventa una specie di presenza misteriosa, incombente,
nel vuoto, che solo lui vede, e che lo fa andare fuori di testa. Si
mette a tremare. E sbarra gli occhi, fissando il vuoto.
-
Vattene, vattene via.
Lo dici a me?
No!
A chi allora?
A lui!
Lui chi? -
208
Come spiegare? O meglio, come inventare? Comincia a parlare
con grande difficoltà, come se fosse faticoso anche il racconto
di ciò che vive, o vede. E in effetti è così. Si rende conto che
sta inventando tutto nel momento stesso in cui ci sta pensando. Sta improvvisando lì per lì.
- In certi momenti, non so perché, ma ci sarà un motivo, in
certi momenti della mia vita, importanti, è come se io mi
sdoppiassi, è come se una parte di me uscisse da me, e rimanesse lì a guardarmi, come per giudicarmi. Come se quello
che sto facendo non fosse giusto. Tutto questo lo dice con grande difficoltà, balbettando, con
lunghe pause, senza guardarla mai negli occhi.
- Non credi sia giusto quello che stiamo facendo? - Non è questo. Io lo credo giusto perché ti amo, e ti desidero,
e ho voglia di fare l’amore con te. - Ma? - Ma è come se io non dovessi provare piacere, non solo un
piacere fisico, ma un piacere assoluto, come se io non fossi
degno della felicità. Questa frase gli piaceva, gli era venuta bene. Era una dichiarazione d’ amore, fatta bene, indiretta. Ma a che serviva? A giustificare la sua impotenza? Perché di questo si tratta? Eppure
quando è solo e pensa a lei, gli si rizza, o quando si baciano in
certi angoli nascosti; o quella sera, in riva al mare, o su quella
panchina nascosta, nel parco, lui avvertiva l’ erezione. E come
mai, nel momento in cui potrebbe fare l’amore, non ha reazioni
idonee? Come mai, nei momenti in cui si trova solo, con una
ragazza, in circostanze favorevoli all’atto sessuale, non funziona? Che gli succede? Prima pensava che fosse perché le ragazze con cui andava non gli piacevano. Ma di questa lui era follemente innamorato, non pensava che a lei, le scriveva lettere
lunghissime e bellissime. Anche secondo lei. E allora perché?
Cosa c’era che non andava? Ne aveva parlato a un medico,
tempo prima, e il dottore gli aveva dato anche delle pillole, a
base di stricnina. Che però non avevano dato i risultati che lui
si aspettava. Insomma la sua vita sarebbe stata questa? Con la
possibilità di provare l’amore e l’impossibilità di fare l’amore?
I pensieri di ordine generale si mescolavano alle immagini, terribili, drammatiche, della notte precedente. Rivedeva se stesso,
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che entrava nella casa di lei, finalmente soli, i genitori non
c’erano, la sorella in vacanza, soli, loro due, per tutta la notte.
Aveva aspettato quel momento con trepidazione, e ansia. Onestamente anche con paura. Paura di fallire? Era questa paura
che lo fregava? E infatti quando si spogliarono e andarono a
letto e si abbracciarono, lui era terrorizzato. Il suo pensiero era
solo al suo membro. Come avrebbe reagito. E difatti non reagì!
“Dunque sono malato? Ma allora che senso ha vivere se non
riesco ad essere un uomo?”
L’autobus comincia a riempirsi quando scende e si avvia verso
casa. Lo sguardo perso nel vuoto, le gambe senza vita. Entra in
ascensore, si guarda allo specchio, sembra un cadavere ambulante. Che penserà sua madre vedendolo entrare? Si prepara
qualche giustificazione. Era con amici, hanno fatto tardi, si è
fermato da loro. Apre la porta, ma sua madre sta ancora dormendo. Meno male. Va in camera sua. Si siede sul letto e comincia a pensare seriamente al suicidio. E improvvisamente gli
tornano alla memoria altre immagini, altre sensazioni, di molti
anni prima, quando aveva dieci anni, che per la prima volta
sentì il desiderio di morire. Perché si sentiva solo, abbandonato, dimenticato, in questa valle di lacrime. E si rende conto di
quanto sia più grave adesso la situazione. “Adesso sì che vale
la pena! Adesso sì che devo farlo! Come posso andare avanti
così? Che senso ha questa vita per me?” Si rende conto anche
di essere un po’ melodrammatico. Ma questo non gli impedisce
di pensare seriamente a come fare. Senza soffrire.
Terzo atto. (Otto anni dopo. Interno notte.)
“Voglio morire” pensa. “Ma com’è possibile soffrire così tanto?”
Un nodo in gola perenne lo perseguita, da non riuscire quasi a
deglutire, e un'oppressione alla bocca dello stomaco, e poi insonnia, inappetenza, e voglia di piangere, voglia di piangere.
Ma soprattutto un pensiero fisso: lei, nel totale e nei particolari: i suoi occhi, la sua bocca, il suo naso, i suoi capelli, il suo
collo, le spalle, il seno, il ventre, il sesso, le gambe, i piedi, e
le immagini della loro storia: le carezze date/ricevute, gli sguardi, i gesti, i gesti quotidiani e quelli straordinari, le discussioni,
i litigi, le rotture, momentanee, si capisce, per poi telefonarsi
la sera, per scusarsi, e parlare, parlare, commuoversi, e ripromettersi tante cose, tante cose... E rivedersi il giorno dopo
piangendo tutt’e due, e sciogliersi in un amplesso disperato. E
fare l’amore, fare l’amore, fare l’amore…
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“Ma dove sto andando? E perché? E fino a quando? E che senso
ha, nell'universo, questa mia sofferenza così stupida? Stupida
perché mentale, solo mentale”. Il suo corpo sta bene, o meglio
stava bene, mangiava, digeriva, cacava, rideva, correva, organizzava, progettava. Prima. E ora? Ora sembrava un cadavere
ambulante. Lei lo ha lasciato. Perché?
Una strana consapevolezza microcosmica si inserisce nei suoi
pensieri. Si sofferma su piccole cose, o su avvenimenti che in
altri momenti non lo avrebbero interessato minimamente: su
un certo tagliando di controllo che deve staccare e spedire se
vuole vincere un elettrodomestico, che poi non gli servirà, comunque, perché ha già tutto; sulle elezioni di miss Italia, che
guarda alla televisione per distrarsi, o forse per rendersi conto
che esistono delle donne più belle di lei.
E poi una consapevolezza macrocosmica: i problemi sociali più
inquietanti del momento: la droga, la violenza, la miseria, il
terzo mondo. L'occhio gli cade su un giornale dove campeggia
una fotografia dalla Somalia, in cui si vede una famiglia di indigeni, padre, madre e otto figli, totalmente denutriti, scheletrici,
col padre sdraiato per terra, che, secondo la didascalia, sta
morendo di stenti sotto lo sguardo dei figli e della moglie, impotenti. Si vedono i corpi, le gambe, le braccia, o per lo meno
delle propaggini lunghe e secche, che dovrebbero essere gli arti. Ma soprattutto colpiscono gli occhi, che guardano un mondo
così impossibile.
E gli viene da chiedersi: “Che cosa penseranno? Del mondo,
della vita! Si faranno delle domande? O la mancanza di alimenti li porta a un'incoscienza totale, e forse opportuna? È questa
la vita? Si rendono conto di ciò che sono? E di ciò che potrebbero essere?”. E gli viene da chiedersi: “Soffriranno anche loro
d'amore, da quelle parti? O hanno altro cui pensare!?”
E gli viene da pensare: “Sono un imbecille! Un imbecille fortunato, che posso permettermi di soffrire d'amore, perché non ho
altro a cui pensare, evidentemente; e so anche, dentro di me,
lo so, lo sento, che queste mie imbecillaggini mi stanno consumando la vita; e so, lo sento, sono consapevole che, in questo momento, se sono onesto, della Somalia non me ne frega
un cazzo! E che non c'è miss Italia che tenga al suo confronto,
al confronto di lei, del suo grande amore, del suo più grande
amore! Del più grande amore della sua vita!”
A tanto può ridursi un sistema nervoso? E pensa a Dio. Dov'è?
E com'è? E dove cercarlo? Fuori? Nel cosmo? O dentro di lui?
“Ma com'è che dentro non lo trovo? O non lo trovo più? E poi
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perché lo devo cercare? A che mi serve? A lenire le mie sofferenze? Ma io adesso soffro solo per amore! E Dio dovrebbe
preoccuparsi di queste cazzate?”
“Mi manca, mi manca, mi manca!” Ma che cosa soprattutto? Il
suo sguardo? I suoi occhi, un po’ miopi? La sua dolcezza, nei
momenti dolci, la sua intelligenza, il suo modo di vedere le cose, che tanto lo aiuta a vivere, lo aiutava a vivere? Il suo caratteraccio, i suoi cambi d’umore, improvvisi, ma in fin dei conti brevi? E a volte divertenti.
O il sesso? Il sesso! Si ricorda di quella volta in cui lei glielo
prese in bocca per la prima volta, che prima aveva una certa
riluttanza, e poi cominciò a divertirsi, e alla fine chiedeva di
farlo lei, di sua spontanea volontà! O quella volta in cui lei gli
disse “amore, sto per venire!”, che lo riempì di gioia, perché si
sentì partecipe dei sommovimenti interni di lei! Per cui, dopo,
lui glielo chiedeva sempre. “Dimmelo quando stai per venire,
eh?”
E lei, ad occhi chiusi, faceva sì col capo. E poi glielo diceva
sempre. Lo preavvisava! Dio, che bello! O quella volta che fecero l’amore in montagna, accanto a un ruscello, fuori pista, e
non si erano resi conto che, poco distante passava un sentiero
pubblico, per cui a un certo punto sentirono delle voci, e fecero
appena in tempo a rivestirsi, in qualche modo. Che poi lei si
accorse che lui aveva ancora i pantaloni sbottonati, e si misero
a ridere fino alle lacrime. O quella volta che stavano per lasciarsi, che avevano deciso che tutto era finito, per cui avevano deciso di lasciarsi, e lei uscì di casa, e lui rimase come intontito, ma dopo neanche un minuto, lei suonava di nuovo, lui
apriva, e si buttarono l’uno nelle braccia dell’altra, in un modo
convulso, stringendosi fino a farsi male. E senza dire niente si
spogliarono, in anticamera, dove si trovavano, e fecero l’amore
sul tappeto, senza dire niente, senza scambiarsi una parola,
finché lei si rivestì, e senza dire una parola, uscì di nuovo. Poi
si telefonarono la sera, come se niente fosse stato.
Sente dentro un vuoto enorme, come se tutta la sua energia
venisse risucchiata da un buco nero. Sente la vita che se ne sta
andando. “Non posso vivere senza di lei! È troppo importante
per me!” Ma si ricorda anche delle altre volte in cui ha avuto
questo pensiero, e glielo ha manifestato, e lei è tornata con lui.
Ma questa volta sembrerebbe di no. Sembrerebbe che lei faccia
sul serio. O voglia fare sul serio, in modo definitivo. Non lo
chiama più, non gli telefona più, si fa negare. “Che abbia un altro!?”
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Oddio! Per la prima volta gli entra nella mente questa bomba.
“Che abbia un altro?” Una semplice frase che può annichilirlo.
Gli viene in mente il detto “uccide più la lingua che la spada.”
Cioè la parola, cioè il pensiero fatto di parole.
Sente il sangue andargli alla testa. Come se un veleno lo stesse invadendo improvvisamente e rapidamente, rapidissimamente. Si deve sedere. E cominciano le immagini a farsi strada
nuovamente. Ma questa volta sono creazioni della fantasia. E
vede lei fra le braccia di un altro, la vede baciarlo, fare l’ amore, fare con quest’altro le cose che facevano insieme, loro due,
qualche settimana prima!
E qui si accorge di essere ridotto proprio male. E che non sa
come risollevarsi. E che forse non vuole più sollevarsi. E lo riprende la voglia di morire. Perché così non può vivere. E si ricorda delle altre volte in cui voleva morire, e pensava al suicidio. E non l’ha fatto perché forse non aveva toccato abbastanza
il fondo, perché, in fondo, dentro di lui c’era ancora la voglia di
vivere, e di tentare, e di sperare.
Ma questa volta è diverso. Sente ancora quella nausea già provata. Ma questa volta è diversa. È generale. La vita non gli interessa più, se è così piena di trabocchetti. C’è qualcuno da
qualche parte che lo prende in giro? O non c’è nessuno? E allora tanto peggio. C’è solo il caso, un caso irresponsabile, un caso maligno, che si accanisce contro qualcuno piuttosto che
qualcun altro. Perché? Non si sa. Poco importa. È così. E allora
vaffanculo!
Si rende conto, anche, che il suo bisogno di lei, forse, dipende
proprio dalle sue esperienze precedenti, dalle sue difficoltà di
prima, dalla sua impotenza psicologica, guarita, ma forse mai
debellata, almeno nelle cause che la resero possibile. “Senza di
lei la mia vita non ha senso!”
La vita non ha senso! L’ha già detto altre volte questa frase,
ma questa volta gli sembra che, almeno la frase, abbia un senso. Fa un ultima telefonata. Gli risponde lei! Incredibile!
- Pronto?
- Pronto, sono io!
Dall’altra parte sente il clic di chi ha interrotto la comunicazione. Senza pensarci due volte, rifà il numero. “Non può essere
così stronza!” Ma dall’altra parte ora c’è la segreteria. Non trova soluzioni, sta male, vomita, si butta sul letto, piange. Suona
il telefono. Risponde subito. È una sua amica. Una sua ex. “Ti
ricordi di me?” “Cazzo se mi ricordo!” “Ti va di vedermi!” “Sììì!”
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Epilogo. (In montagna. Esterno giorno.)
Tornando indietro, con la mente, ai vari capitoli della sua storia
passata, non può fare a meno di pensare che la sua vita è stata
in fondo una serie di esperienze molto interessanti. Alcune più
difficili, alcune molto facili, alcune terribili. Ma si rende conto,
in fondo, di averle superate tutte, e che tutte gli sono servite
per imparare.
Ora è un uomo maturo, di una certa età, ha capito molte cose.
O per lo meno, ha capito che forse c’è poco da capire. L’età, le
esperienze, e la stanchezza, l’hanno portato ad avere una sua
filosofia, un suo modo d’intendere la vita, e di renderla accettabile. Anzi, interessante. Del resto è sempre stato un uomo
curioso. Ed è forse proprio questa qualità che l’ha portato a superare gli scogli più duri, e a proseguire il cammino.
E ora? Ora si trova in una situazione strana. Innanzitutto, per
la cronaca, ora si trova in montagna, da solo, d’estate, e ha
deciso di trascorrere qualche giorno in montagna. Più che da
solo, insieme a se stesso, cercando di tirare un po’ le somme.
Sente il bisogno di tirare un po’ le somme. E ora, esattamente,
si trova in cima a un monte. La situazione lo diverte, perché
sembra simbolica. E sta guardando a valle. È seduto sul ciglio
di uno strapiombo, coi piedi nel vuoto, e guarda davanti a sé,
la vallata, le montagne lontane, le nuvole. Mentre il vento lo
accarezza piacevolmente. È una temperatura giusta, né troppo
calda, né troppo fresca. Giusta. I colori, il tepore, la vista,
l’udito, il vento, tutto sembra perfetto. E’ il suo stato del momento che va bene. Il suo rapporto con se stesso che ora funziona. In un certo modo si sente come appagato.
Certamente vorrebbe conoscere qualcosa di più. E quando mai
si è soddisfatti? Vorrebbe continuare a salire la montagna, ma
ormai è in cima. Sorride. “Dove voglio andare ancora?” Sentirebbe il bisogno di conoscere di più, ma è come se una voce gli
dicesse: “più di così?” Ci pensa su, e ci riflette. Non è tanto la
realtà in sé, non è tanto la conoscenza per la conoscenza; ci
sono tante cose che non conosce, e che gli piacerebbe di conoscere. Ma sa che non potrà più farlo, non ne ha il tempo, né
forse la voglia, gli manca l’energia, la grinta. Lui, proprio lui,
più di così non può andare avanti. È stanco. E ora vuole solo
riposare in pace. In effetti sentirebbe ancora qualche impulso
dentro, se non altro delle voci, ma queste lo turbano. “Sono
cose di giovani!” pensa “Ormai sono vecchio.”
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Gli torna in mente quando voleva ammazzarsi. Sorride al ricordo. Sorride anche al ricordo di quella volta in cui quella maga,
o una che si spacciava per tale, gli predisse che lui si sarebbe
suicidato. Lo colpì, la predizione, perché in effetti tante volte
ne ebbe l’idea. Solo che non ebbe mai la forza, l’energia, la
spinta, il coraggio, o l’incoscienza. In quanto al futuro non vede più il motivo per farlo. “Sono cose di giovani!” pensa “Ormai
sono vecchio. A un certo punto verrà da sé”.
Una brezza più energica del solito gli scompiglia i capelli. I pochi rimasti! Sorride. Considera la sua posizione. È seduto proprio sull’orlo dell’ abisso. Del resto non ha mai sofferto di vertigini. Gli basterebbe spingere il busto un po’ più in avanti, fare
in modo di perdere l’equilibrio, e sarebbe fatto. La montagna
penserebbe al resto. Doveva trovarsi lì tanti anni fa. Ma tanti
anni fa era tutto più difficile. Anche ammazzarsi. E adesso?
Adesso ci pensa ancora. Ma poi si rende conto che non c’è più
quella necessità. “Che mi frega. È un problema che riguarda i
giovani! Cazzi loro! Io ho dato e ho ricevuto. Abbastanza!”
Con un mezzo sorriso sulle labbra, chissà perché, gli frulla per
la testa che sarebbe proprio questo il momento giusto per togliere le tende. E dire addio a tutto quanto. Gli andrebbe l’idea
di essere lui a decidere quando uscire di scena, dal momento
che furono gli altri a decidere circa il suo ingresso. Fu sua madre a volerlo mettere al mondo. Ora è lui a decidere di andarsene. Sarebbe bello! Come quel giapponese che arrivato a sessantacinque anni decise di fare karakiri, lasciando un biglietto:
“Scusate il disturbo. Sono entrato in questo mondo senza che
io lo volessi e senza che nessuno mi chiedesse il permesso.
Almeno lasciate che sia io a decidere quando me ne voglio andare! Grazie di tutto.”
Però sa che non lo farà mai. Il suo istinto di conservazione
glielo impedirebbe. E poi ha sempre avuto paura di soffrire.
Magari resterebbe per ore in fondo al burrone, ferito a morte,
ma ancora vivo. Sorride di questi pensieri così folli. Così si alza, per tornare in albergo. Ma mette un piede in fallo, il terreno
è friabile, franoso, scivola, perde l’equilibrio, e si trova nel vuoto, a precipitare verso il fondo valle. Senza un grido. In silenzio.
Dolore non ne provò, perché il cuore si fermò quasi subito durante il volo. E quindi anche il cervello, i sensi. Insomma non
sentì l’impatto col fondo. Ma nei pochi secondi che precedettero
la fine, nei pochi attimi in cui era ancora consapevole, si rese
conto che forse questo era il modo giusto. Voleva e non voleva.
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Fu lui e non fu lui. Insomma non si oppose, non fece niente per
impedire quel che successe. Del resto da solo, e di sua spontanea volontà, non l’avrebbe mai fatto. Fu come se l’idea fosse
venuta da fuori, tenendo conto dei suoi desideri. E in fondo lui
era pronto.
Non fu più trovato. Dissero che forse era finito in un crepaccio,
nella zona dei ghiacci. Forse era finito in un ghiacciaio. Da dove
sarebbe ricomparso magari duemila anni dopo. Mummificato, e
con uno strano sorriso sulle labbra, ormai diventate di cuoio. È
già successo.