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RASSEGNA STAMPA
lunedì 21 settembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it – Corriere Sociale del 18/09/15
Vittima della tratta ingannate, abusate e
rimpatriate in Nigeria. Arci: «Politica cinica»
di Eugenio Terrani
ROMA - Dopo essere sopravvissute al viaggio della speranza a bordo di un barcone sono
finite in strada, vittime della tratta. Hanno subito ripetuti abusi prima di finire nel Cie
romano di Ponte Galeria, a luglio. Ora venti di quelle 66 donne sono state imbarcate su un
aereo e rispedite in Nigeria.
GLI ABUSI
Erano arrivate in Sicilia sul barcone, alla fine di un viaggio non pagato perché i trafficanti
aveva già programmato per loro un futuro sulle strade. «Dopo lo sbarco nessuno le aveva
informate sulla possibilità di presentare richiesta d’asilo» fa sapere l’Arci. «Eppure i segni
delle violenze subite erano ben evidenti sui loro corpi e raccontavano storie di abusi
sessuali e psicologici».
IL RIMPATRIO
Dopo mesi di viaggio attraverso Nigeria, Niger e Libia pensavano di essere fuggite
dall’orrore. «Alcune di queste donne sono state violentate anche dalla polizia nelle carceri
di Zwara» hanno raccontato i volontari delle associazioni cui era stato concesso l’ingresso
nel Cie e che le hanno informate sui loro diritti. La richiesta di protezione è stata accolta
solo per quattro di loro, mentre per le altre è scattato l’ordine di rimpatrio. La Nigeria di
Boko Haram è infatti nella lista dei paesi “sicuri” e a fermarne il rimpatrio non è bastata
nemmeno la richiesta di sospensiva del tribunale che stava analizzando le richieste.
«ITALIA INSENSIBILE»
«Nell’esprimere la nostra amarezza – si legge in una nota dell’Arci – la nostra
preoccupazione per la sorte che attenderà in patria queste giovani donne già così
duramente provate, non possiamo che biasimare l’Italia, la sua insensibilità morale e
politica, la superficialità con cui vengono trattati anche i casi più dolorosi. Del resto già
l’Europa più di una volta ha stigmatizzato il nostro paese per le espulsioni illegittime.
Eppure nulla sembra mutare. Di fronte alla marea umana che preme alle frontiere del
nostro continente, le istituzioni europee e italiane non riescono a trovare una posizione
comune per garantire accoglienza e integrazione, dimostrandosi ancora una volta
inadeguate e ciniche».
http://sociale.corriere.it/vittima-della-tratta-ingannate-abusate-e-rimpatriate-in-nigeria-arcipolitica-cinica/
Da Articolo 21 del 18/09/15
Vittime di tratta, rimpatriate in Nigeria, paese
‘sicuro’. L’Arci denuncia il cinismo e
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l’insensibilità politica e morale delle autorità
italiane
Imbarcate su un aereo e rispedite in Nigeria. Si è chiusa nel peggiore dei modi la vicenda
di almeno venti delle 66 donne nigeriane da luglio rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria a
Roma. Arrivavano dalla Sicilia, dove erano sbarcate dopo il solito viaggio sui barconi
gestiti dai trafficanti di esseri umani, viaggio che non avevano pagato perché c’era chi per
loro aveva già programmato un futuro sulle strade, merce da immettere nel mercato del
sesso.
Nessuno, dopo lo sbarco, le aveva informate sulla possibilità di presentare richiesta
d’asilo, eppure i segni delle violenze subite erano ben evidenti sui loro corpi e
raccontavano storie di abusi, sessuali e psicologici. Da questo orrore pensavano di essere
finalmente fuggite, dopo mesi di viaggio attraverso la Nigeria, il Niger, la Libia. Alcune
violentate anche dalla polizia nelle carceri di Zwara, come hanno raccontato ai volontari
delle associazioni cui era stato finalmente concesso l’ingresso nel Cie e che le hanno
informate sul loro diritto a chiedere asilo.
Ma la richiesta di protezione è stata accolta solo per quattro di loro, mentre per le altre è
scattato l’ordine di rimpatrio. La Nigeria di Boko Haram è infatti nella lista dei paesi ‘sicuri’
e a fermarne il rimpatrio non è bastata nemmeno la richiesta di sospensiva del Tribunale
che stava analizzando le richieste.
Nell’esprimere la nostra amarezza, la nostra preoccupazione per la sorte che attenderà in
patria queste giovani donne già così duramente provate, non possiamo che biasimare
l’Italia, la sua insensibilità morale e politica, la superficialità con cui vengono trattati anche i
casi più dolorosi. Del resto già l’Europa più di una volta ha stigmatizzato il nostro paese
per le espulsioni illegittime. Eppure nulla sembra mutare. Di fronte alla marea umana che
preme alle frontiere del nostro continente, le istituzioni europee e italiane non riescono a
trovare una posizione comune per garantire accoglienza e integrazione, dimostrandosi
ancora una volta inadeguate e ciniche.
http://www.articolo21.org/2015/09/vittime-di-tratta-rimpatriate-in-nigeria-paese-sicuro-larcidenuncia-il-cinismo-e-linsensibilita-politica-e-morale-delle-autorita-italiane/
Da Huffington Post del 20/09/15
Elezioni Grecia. Alexis Tsipras vince per la
terza volta. Ma con meno gente (FOTO,
VIDEO)
"Ora dobbiamo continuare la lotta iniziata 7 mesi fa e governeremo per i prossimi 4 anni!
La nostra bandiera e quella di Anel è quella dell'onestà". Pochi minuti di discorso, camicia
bianca come sempre, il sudore della tensione e del caldo di Atene, Alexis Tsipras arringa
la folla radunata al tendone di Syriza in piazza Klothmonos, a due passi da Syntagma. È la
sua 'terza' vittoria da quando è in sella al governo ad Atene: le elezioni di gennaio, il
referendum di luglio e queste elezioni di settembre. Vince nonostante la scissione di
Syriza. Ma vince con meno gente.
Non è solo il dato dell'astensionismo, in aumento di dieci punti rispetto al 64 per cento di
elettori che si sono recati alle urne a gennaio. C'è anche quello della piazza. A
Klothmonos c'è una folla tutto sommato ridotta. Molto ridotta rispetto a quella della sera
del 5 luglio scorso, la sera dell'oxi, no alle richieste della Troika, quando Atene fu inondata
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da fiumi di folla festante ovunque. Ma questo Tsipras se lo aspettava. Non a caso,
parlando dal piccolo palco improvvisato, promette: "La crescita arriverà aiutando i più
deboli...". Punta a riconquistare chi non ci ha creduto. Lui invece non ha mai avuto dubbi.
Nonostante i sondaggi che lo davano testa a testa col neo leader di Nea Demokratia
Vangelis Meimarakis. "Vinceremo", ha anticipato stamane incontrando la delegazione
italiana di Sel, guidata dal capogruppo alla Camera Arturo Scotto. Calmo e sicuro,
contento anche del recente gemellaggio tra una squadra di calcio greca, il Panathinaikos,
e la Roma, che "è una grande squadra", ha detto il premier uscente e rieletto ai vendoliani.
'Bella ciao' immancabile, i canti greci di lotta, Patti Smith e la sua altrettanto immancabile
'People have the power', la bandiera degli italiani de 'L'altra Europa con Tsipras' che non
smette di ondeggiare nella e sulla folla. In piazza lo aspettano così. Niente di nuovo e
tanta felicità. Lui è breve nel discorso, pur caloroso. Ed è breve anche nelle decisioni sul
governo. Il dato elettorale è chiaro: a Syriza vanno 145 deputati. Gliene mancano 5 per la
maggioranza. Tsipras non ha dubbi nemmeno in questo caso: stesso governo di prima,
con Anel. E la folla di sinistra resta festante anche quando il leader chiama sul palco
Panos Kammenos, l'ex ministro della Difesa, leader della formazione di destra anti-Troika
Anel, tutta voto religioso ortodosso e dei militari. Già stanotte l'incontro con lui per formare
il governo.
Veloce. Come veloce è stata tutta questa storia: memorandum, scissione, dimissioni, voto
anticipato. Tutto in poco più di due mesi. E ora la battaglia con l'Ue. L'ha spiegata per
bene la vice ministra degli Affari sociali, Theano Fotiou oggi alla sede di Syriza,
incontrando tutta la delegazione italiana, Sel e Altra Europa con Tsipras. "Ci sono dei punti
del memorandum che abbiamo lasciato apposta oscuri: le relazioni sul lavoro, le tasse
sulla prima casa, il fondo di gestione del demanio pubblico", ha spiegato questa donna
sulla cinquantina, architetto di professione, nonché attivista della rete 'Solidarity for all' che
si occupa di distribuzione di aiuti ai più deboli. Rete che proprio oggi ha ricevuto in dono
30mila euro portati dall'Italia dall'Arci, frutto di una colletta tutta italiana.
"Vincere in condizioni di memorandum è un'impresa storica", prevedeva Fotiou. "Non
difendiamo questo memorandum, non lo adottiamo così com'è", anche se, ha aggiunto,
sapevamo da febbraio che avremmo dovuto firmarlo perché in sette mesi di governo
Tsipras ben 120milioni di euro sono stati trasferiti all'estero: avevamo bisogno di fondi.
Fino a giugno, ben quattro volte siamo stati sul punto di trovare un accordo con l'Ue, poi
loro cambiavano le carte in tavola... Ora puntiamo a un buon accordo".
"Qui ad Atene si fa così", dicono a Syriza citando Pericle. Soddisfatti di aver retto
nell'Attica, la regione di Atene che per la verità dava pensiero prima del voto. E poi
Salonicco, altra grande città, e nelle zone popolari del Pireo. Anche la festa però dura
poco: al lavoro, da domani si ricomincia con Angela Merkel e Wolfgang Shauble.
Da Repubblica.it del 21/09/15
Arci, il libro sul ricongiungimento familiare e
l'integrazione
Verrà presentato martedì 22 settembre presso l'Aula Bisogno del
Consiglio Nazionale delle Ricerche, alle 16
ROMA - Martedì 22 settembre, presso l'Aula Bisogno del Consiglio Nazionale delle
Ricerche, alle 16 verrà presentato il libro Ricongiungimento Familiare, Housing Sociale,
Mobilità Lavorativa: quali buone pratiche per l'integrazione dei migranti. La pubblicazione,
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a cura dell'Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del CNR, rappresenta il risultato
finale delle attività di ricerca realizzate nell'ambito del progetto "Partecipare per integrarsi.
Buone pratiche internazionali per azioni locali", finanziato con i fondi FEI (Fondo Europeo
per l'Integrazione), progetto di cui Arci è stata capofila.
I partecipanti al progetto. Al progetto hanno partecipato, altre ad Arci e ISGI, le ACLI, il
Patronato ACLI, e vari partner europei (Università di Barcellona, Università di Nanterre,
Acli e. V. Selbsthilfe Werk für interkulturelle Arbeit e Centro interculturale di Bruxelles). Alla
presentazione parteciperanno, tra gli altri, la dott. ssa Maria Antonietta Rosa, Vice Prefetto
del Ministero dell'Interno, Direzione Centrale per le Politiche dell'immigrazione e dell'asilo,
Ufficio II - Politiche dell'immigrazione e dell'asilo sul territorio; il prof. Riccardo Pozzo,
Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale del CNR; il
prof. Giuseppe Palmisano, Direttore dell'Istituto di studi giuridici internazionali del CNR; il
dottor Corrado Bonifazi, Direttore dell'Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche
sociali del CNR; la dottoressa Maria Eugenia Cadeddu, ricercatrice dell'Istituto per il
lessico intellettuale europeo e la storia delle idee. Parteciperanno inoltre i responsabili per
l'immigrazione delle organizzazioni partner, Filippo Miraglia (ARCI), Cristina Morga (ACLI)
e Marco Calvetto (Patronato ACLI). Presiede Fabio Marcelli, Dirigente di ricerca ISGICNR.
http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2015/09/21/news/arci-123349683/
del 21/09/15, pag. 7
A piedi scalzi davanti le ambasciate
d’Ungheria
***
Quanto sta succedendo in Ungheria in queste ore è inaccettabile e disumano.
E’ un passo indietro nella storia della civiltà europea e dell’umanità in generale.
Respingere profughi, richiedenti asilo ed esseri umani in generale con muri, manganellate,
idranti e gas lacrimogeni è un atto di barbarie che non possiamo in alcun modo tollerare.
L’Europa tutta deve reagire e denunciare il comportamento del governo di Orban.
Siamo al fianco della società civile ungherese che sta cercando di opporsi alle scelte del
suo governo e chiediamo al governo italiano di fare tutte le pressioni possibili per evitare
che tale barbarie continui.
A dieci giorni dalla grande esperienza delle 75 Marce degli Scalzi di Venerdì 11 settembre
lanciamo una nuova mobilitazione nazionale: presentiamoci scalzi lunedì 21 settembre alle
ore 18 davanti all’ambasciata ungherese di Roma e davanti a tutti i consolati dell’Ungheria
in Italia, portiamo con noi un cartello «Io sono clandestino, arrestatemi — I’m illegal, arrest
me!» o anche «I sono rifugiato, arrestatemi! — I’m refugee, arrest me!»
Ognuno può organizzarlo liberamente davanti ad una delle sedi consolari qui elencate.
Il motivo di questa mobilitazione è sempre quello già annunciato con le Marce dell’11
settembre che qui ricordiamo.
Non è pensabile fermare chi scappa dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare
contro quelle ingiustizie.
Dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace.
Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa
lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti.
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Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti
disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione di ricchezze.
Per chiedere con forza i primi quattro necessari cambiamenti delle politiche migratorie
europee e globali:
certezza di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature
accoglienza degna e rispettosa per tutti
chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e detenzione dei migranti
creare un vero sistema unico di asilo in Europa superando il regolamento di Dublino
Perché la storia appartenga alle donne e agli uomini scalzi e al nostro camminare insieme.
Il manifesto ha aderito all’iniziativa insieme a Msf, Amnesty international, Arci, Emergency
e Lunaria. Manifestazioni davanti alle sedi consolari ungheresi sono state indette per ora a
Milano, Venezia e Palermo.
Alla mobilitazione che si terrà a Roma davanti all’ambasciata di Ungeria hanno aderito
anche le volontarie e i volontari del centro Baobab di via Cupa.
Da il FattoQuotidiano.it del 19/09/15
Viterbo, 143 beni pubblici inutilizzati. Arci: “E’
un Kmq morto di città, diventino spazi per
cultura e servizi”
Due chilometri quadrati di beni pubblici di cui uno completamente inutilizzato. Edifici a
volte in stato di abbandono. Tutti sul territorio del comune di Viterbo, capoluogo di
provincia con 66mila abitanti. I proprietari? Regione Lazio, Comune e Provincia di Viterbo.
Il dato che emerge da un rapporto voluto da Arci Viterbo e Riccardo Valentini, capogruppo
del Pd al Consiglio regionale del Lazio. L’obiettivo? Recuperare i beni inutilizzati e farne
una città diffusa della cultura. Tra i beni inutilizzati, in tutto 143 su 484 per un valore
catastale di circa 110 milioni di euro e una rendita catastale di 522 milioni, ci sono le ex
Terme Inps ed edifici storici di grande valore come Palazzo Doria Pamphilj (XVII secolo),
l’Ospedale Grande degli Infermi (XIX secolo), Palazzo Calabresi (XV secolo) e l’ex
Tribunale dove nel 1911 si svolse il primo processo alla camorra e nel 1952 quello a
Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito Salvatore Giuliano
di Daniele Camilli
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/09/19/viterbo-143-beni-pubblici-inutilizzati-arci-e-un-kmqmorto-di-citta-diventino-spazi-per-cultura-e-servizi/416054/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 21/09/15, pag. 12
La «forma» dell’impresa sociale
La riscrittura delle regole nodo cruciale nella riforma del Terzo settore
Una buona legge non deve inventare la realtà, ma semplicemente accompagnarla e
ordinarla. Questa regola, che rispecchia un principio generale della funzione legislativa, è
stata varie volte richiamata negli ultimi mesi, in corso di dibattito sulla riforma del Terzo
settore attualmente all’esame del Parlamento. Il monito si va ripetendo con una certa
frequenza soprattutto a proposito dell’impresa sociale, forma giuridica della quale l’articolo
6 del disegno di legge delega prevede una profonda riscrittura. E le ragioni dell’insistenza,
volendo semplificare al massimo la materia, sono sostanzialmente due: da un lato
l’impresa sociale è il segmento della galassia non profit più dinamico, innovativo e con il
più elevato potenziale di crescita; dall’altro è quello dai contorni già adesso meno marcati,
alla luce del progressivo allentamento dei vincoli imposti dal Codice civile allo svolgimento
di attività di produzione e di servizi da parte di enti associativi e fondazioni.
Non è stato sempre così: l’impresa sociale nasce, infatti, con la legge 381 del 1991 sulla
cooperazione sociale che, nel tracciare il perimetro, utilizza paletti che oggi possono
sembrare “rozzi”, ma che indubbiamente hanno il pregio della chiarezza. Da una parte si
indicano gli obiettivi (il perseguimento dell’interesse generale della comunità), dall’altra si
pongono dei vincoli (il divieto di distribuire gli utili) e, soprattutto, si identificano i settori di
attività (servizi sociali, socio-sanitari, educativi, inserimento lavorativo di persone
svantaggiate). Questa linearità e semplicità nella definizione ha aiutato la forma giuridica
della cooperativa sociale ad affermarsi ma, nel tempo, si è poi rivelata un vestito troppo
stretto da portare, con la conseguenza di ripetuti strappi e lacerazioni.
Le tappe della riforma
L’esigenza di una riforma, maturata già alla fine degli anni Novanta, si è poi tradotta nel
decreto legislativo 155 del 2006, caratterizzato da un sostanziale ampliamento degli ambiti
di attività, senza peraltro intaccare la specificità giuridica della cooperazione sociale, che
ha continuato a vivere di vita propria, come modalità specifica di impresa non profit.
Viceversa, l’impresa sociale ex Dlgs 155 non è riuscita a decollare (sono meno di mille,
attualmente, le realtà iscritte nella sezione ad hoc del Registro delle imprese), banalmente
per la mancanza di una qualsiasi ragionevole motivazione fiscale, in grado se non altro di
compensare i costi di costituzione o transizione con qualche beneficio o incentivo.
Si arriva così a oggi, con un sostanziale stallo della forma giuridica, a fronte di una crescita
impetuosa delle organizzazioni che, a diverso titolo, svolgono attività di produzione: lo
stesso censimento Istat del 2011 ha certificato l’esistenza di oltre 60mila fra associazioni,
fondazioni ed enti che coprono più del 70% dei costi con ricavi da vendita di beni e servizi.
Un’occasione storica
Ora, con la riforma del Terzo settore, il Governo punta a offrire una soluzione organica.
«L’obiettivo – spiega il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba, che ha la delega al non profit
ed è un profondo conoscitore del mondo associativo, essendo stato in passato, tra l’altro,
presidente nazionale delle Acli – è liberare un campo nuovo di imprenditoria sociale, non
perché si voglia piegare la realtà in una certa direzione, ma perché va riconosciuta
l’esistenza nel mondo non profit di forti elementi di innovazione».
«Ci sono almeno 85mila organizzazioni costituite in forma non societaria che, però, sono
market oriented», ricorda Bobba. Ci sono grandi associazioni con centinaia di dipendenti,
così come molte fondazioni. Bisogna trovare una strada per rendere la forma giuridica più
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coerente con l’attività di fatto. Anche perché – conclude – dobbiamo valorizzare
l’innovazione sociale che, di questi tempi, appare spesso subordinata a quella di natura
tecnologica mentre, in realtà, è il vero motore del cambiamento».
Quando, però, dagli obiettivi generali si passa al dettaglio dei criteri riformatori indicati nel
disegno di legge delega, le distanze tendono ad allargarsi fino a diventare solchi profondi.
«Bisogna evitare – osserva Carlo Borzaga, professore all’università di Trento, presidente
di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, nonché “padre nobile”
della disciplina del non profit produttivo – che finiscano messi insieme alla rinfusa spezzoni
di innovazione o specifici strumenti ideati in contesti diversi». «Quello che mi preoccupa –
spiega – è la tentazione di ripartire da zero, alimentando un dibattito senza memoria, che
rischia di distruggere, anziché valorizzarla, l’idea stessa di impresa sociale, fondendola nel
calderone di una non ben precisata propensione delle imprese a farsi carico dei problemi
sociali».
Il confronto, insomma, è molto acceso. E lo è ancora di più su alcuni punti nevralgici della
delega, quali l’allentamento dei vincoli alla distribuzione di utili o le eventuali (tutte da
definire) agevolazioni fiscali. L’esigenza di condurre in porto una riforma storica per il
Terzo settore riuscirà, forse, a fare da collante e ad assicurare un’accelerazione dell’iter
parlamentare, fin qui tutt’altro che spedito. Quel che è certo, in ogni caso, è che una
galassia varia e frastagliata come quella del non profit, che ha nel dna una vocazione
identitaria insopprimibile, non potrà crescere senza pluralismo, anche nelle forme e nelle
modalità del fare impresa sociale.
Elio Silva
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ESTERI
del 21/09/15, pag. 2
Alle elezioni Nea Demokratia non è riuscita a rimontare Sarà un
esecutivo “fotocopia” di quello uscente, con i nazionalisti di Anel. “Non
ci dovremo preoccupare del fuoco amico dei traditori di Unità popolare”
“Siamo duri a morire”
Tsipras batte la destra
Astensione da record ma Syriza governerà
DAL NOSTRO INVIATO
ETTORE LIVINI
ATENE
“AVANTI popolo, alla riscossa, bandiera rossa bandiera rossa! ». Atene, Piazza Korai, ore
22.30. Il pericolo è scampato. E i militanti di Syriza, dopo una campagna in sordina e al
cardiopalma, possono finalmente abbandonarsi al canto liberatorio. Alexis Tsipras non
lascia, anzi raddoppia. Il 41enne enfant prodige della politica ellenica è risorto dalle sue
ceneri. «Siamo duri a morire », ride lui in versione Bruce Willis salutando la folla in festa
sotto il gazebo elettorale. Ha tradito le promesse («troika e austerity sono cose del
passato»), ha portato il partito alla scissione. I greci però hanno deciso di dargli un’altra
chance. Syriza ha stravinto le elezioni e — con il 75 % dei voti scrutinati — viaggia al
35,4%. Nea Demokratia, data da tutti in rimonta, si è fermata al 28,3%. E Atene — dopo
nove mesi sull’ottovolante — riparte esattamente da dove era rimasta a gennaio.
«Non ci speravo», assicura con le lacrime agli occhi il 75enne Manolis Papadimitriou,
arrivato qui al Panepistemiou in macchina a clacson spiegato. Invece è successo. Oggi
Tsipras riceverà dalle mani del capo dello Stato Prokopis Pavlopoulos il mandato a
formare il nuovo governo. E quello che doveva essere un complicato giro di consultazioni
a caccia di equilibri da misurare con il bilancino, sarà probabilmente una pura formalità:
l’ex premier — arrivato a Korai assieme al vecchio compagno di coalizione Pános
Kamménos — farà decollare un esecutivo “fotocopia” di quello precedente. «È una vittoria
chiara e netta», dice. Vero: i seggi conquistati da Syriza (145) sommati ai dieci della destra
nazionalista di Anel (10) gli garantiscono la maggioranza assoluta in Parlamento.
«Non dovremo andare a trattare con il cappello in mano dal Pasok e dal Potami», gioisce
l’insegnante di matematica Anna Kampouraki. «E soprattutto potremo finalmente
governare senza preoccuparci del fuoco amico dei traditori di Unità popolare ». I ribelli del
partito guidati da Panagiotis Lafazanis hanno fatto flop. L’ endorsement in zona Cesarini di
Yanis Varoufakis — «appoggerò loro, il voto di oggi certifica la resa alla troika»,
pontificava ieri al seggio — è stato il bacio della morte: la sinistra radicale, secondo gli
ultimi dati, rischia di rimanere sotto la soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento.
Nea Demokratia, che sabato fiutava un’insperata vittoria in rimonta, è rimasta invece con
l’amaro in bocca. Un rassegnato Vangelis Meimarakis ha ammesso già alle otto di sera la
sconfitta. «È un paradosso», dice incredulo Ioannis Andreou, mentre smonta il gazebo del
partito a Syntagma. «A gennaio il 36,3% dei greci ha votato Tsipras perché prometteva di
mandare in pensione l’austerity, ora la stessa percentuale lo appoggia per rifilarne al
paese un’altra overdose ». La verità è che il fronte anti- memorandum, dopo sette mesi di
sfibrante braccio di ferro con Bruxelles, si è sciolto come neve al sole. I partiti pro-euro
hanno conquistato il 70% dei consensi. Il voto di protesta si è materializzato in
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un’astensione- monstre (ai seggi si è presentato solo il 55% degli aventi diritto, un record
negativo) e nella crescita di Alba Dorata, che sull’onda del dramma dei rifugiati e malgrado
i guai giudiziari, è risalita oltre il 7% confermandosi terza forza nazionale, prima tra i
disoccupati. Il Pasok, in ripresa al 6,3%, non è riuscito invece a coronare il suo sogno di
diventare l’ago della bilancia come l’ex Psi di Craxi, la ruota di scorta decisiva per formare
un governo di coalizione.
La festa, lo sanno bene sotto il gazebo di Syriza a Korai, durerà poco. «Il difficile per noi
inizia ora», ammette il 21enne studente di legge Giorgos Fotiadis. Il governo Tsipras 2
dovrà muoversi tra paletti molto stretti. Entro ottobre ci sono da approvare riforma delle
pensioni e quella fiscale, si devono ricapitalizzare le banche e provare a rimuovere i
controlli di capitali. «Il vantaggio del premier è che il copione è già scritto e dovrà solo farsi
dettare ogni mattina i compiti a casa da Angela Merkel», ironizza Vassilis Primikiris, uno
degli “ex” passati a Unità Popolare.
«Faremo un passo alla volta» assicurano i fedelissimi, snobbando le reazioni acide degli
ex compagni. Il primo sarà quello di provare ad addolcire la pillola amara del
memorandum con le discussioni per ristrutturare il debito previste a fine ottobre. «Poi
incroceremo le dita sperando che dalle elezioni in Spagna, Portogallo e Irlanda arrivino
buone notizie in grado di riequilibrare un po’ i rapporti di forza in Europa — continua
Giorgos — e tentare, magari, di ammorbidire la cura lacrime e sangue che ci ha imposto la
Troika».
Si vedrà. Anche il vincitore, nella notte del trionfo inatteso, ha preferito rimanere con i piedi
per terra. «Abbiamo aperto la strada per il lavoro e la lotta», ha twittato sobriamente
Tsipras linkando l’immagine di un gabbiano in volo sull’Egeo. «Abbiamo una seconda
chance per liberarci per sempre del vecchio mondo che ha bloccato per 40 anni il paese »,
ha aggiunto. L’era delle promesse roboanti e irrealizzabili è finita. Quella del pragmatismo,
inaugurata con il compromesso post-referendum, è iniziata con il piede giusto. «Non
dobbiamo gettare alle ortiche questa occasione », si accalora Tonia Papadimoulis,
militante da 20 anni nel partito. «Gli elettori ci hanno dato fiducia perdonando i nostri
voltafaccia. Ora dobbiamo rispettare gli impegni: combattere corruzione, evasori e far
pagare la crisi a chi finora non ha sborsato un centesimo». Gli obiettivi di Syriza e della
Troika, in questo caso, coincidono. Suonano i clacson nella notte di Atene. Domani è un
altro giorno. Ma stasera, alla faccia di Varoufakis, dei controlli di capitale, della crisi e di
quel clima di rassegnazione che si respirava fino a sabato sera, è il momento — come a
gennaio — di tornare a fare festa.
del 21/09/15, pag. 4
Il solito rito propiziatorio in un bar di Atene a chiacchierare con degli
sconosciuti, poi il vertice del partito. Dopo i risultati la birra con i suoi:
“La lotta continua”
La rinascita di Alexis dalle flebo al trionfo
“Macché sondaggi lui conosce la gente”
MATTEO PUCCIARELLI
DAL NOSTRO INVIATO
ATENE.
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Nei giorni più duri della trattativa con l’Europa, quelli post referendum, Alexis Tsipras non
stava bene e si vedeva, ingrassato e pallido com’era; notti in bianco, ore e ore di riunioni
con i suoi per un verso e con i potenti d’Europa dall’altro, tutte le prime pagine del mondo
con la sua faccia. E allora — si racconta — di ritorno da Bruxelles lo ricoverarono per
qualche ora in gran segreto, un po’ di analisi per capire cosa non andasse e qualche flebo
per tirarlo su. «Il peso di un Paese e il futuro di un continente sulle spalle, avete idea di
cosa possa significare?», dice Stelios Pappas, storico dirigente di Syriza — nonché papà
di Nikos, il miglior amico di Alexis, ex “ministro di Stato” dello scorso governo, una specie
di sottosegretario della presidenza del Consiglio.
Ecco, un mese e mezzo dopo Tsipras è un altro. «Rinato», dice chi lo conosce bene. E di
nuovo «tignoso», determinato. Non sono ancora le otto di sera, la sua Bmw arriva alla
sede del partito dopo averlo prelevato da casa — quartiere popolare di Kypseli, i militanti
lo applaudono, lui saluta sorridendo ed entra veloce diretto al settimo piano, dove lo studio
da presidente del partito è rimasto intatto. Il caposcorta si ferma al primo piano: «Dove
sono gli alcolici?, che li porto su da Alexis, bisogna brindare». Due ceste: la mastika, birra,
e tre bottiglie di vino che un militante ha imbottigliato in proprio con etichetta
personalizzata, faccione di Tsipras e sobria dicitura “leader di popolo”.
La giornata certifica quello che, perlomeno dal punto di vista di Tsipras, è stato un
capolavoro politico e insieme una vittoria personale. Syriza di nuovo primo partito, terza
vittoria in meno di un anno se si conta anche il referendum; ma soprattutto i vecchi
compagni di Unità popolare fuori dal Parlamento. «L’occhio sinistro di tutti quanti guardava
i risultati di Syriza, quello di destra la percentuali di Lafazanis», spiega Nikos Fillis, uno dei
tre portavoce del precedente governo, direttore del giornale di partito e acerrimo nemico
dei “traditori” (sono considerati così) come Zoe Kostantopoulou e Yanis Varoufakis.
Insomma: Tsipras ha fatto fuori i “rompiscatole”, il suo consenso è rimasto intatto e i
potenziali avversari sono finiti polverizzati.
«Vinciamo con cinque punti avanti, lasciate perdere i sondaggi», rassicurava tutti lo stesso
Tsipras nei giorni scorsi. Alla fine sono stati sette. Mentre in quegli stessi minuti postsbornia l’ex ministro della Difesa Pános Kamménos, leader di Anel, la destra anti-austerity
che sembrava dover rimanere fuori dal Parlamento, sbraitava: «I sondaggisti sono degli
assassini! ».
«Ha fiuto, ha il polso della gente», lo osanna qualcuno (ma dopo, a conti fatti). Così il rito
propiziatorio di Tsipras di sabato scorso sembra aver funzionato. È sempre lo stesso:
piombare in un bar di Atene a caso e chiacchierare ai tavoli con gli sconosciuti. L’ultimo è
stato il “Six Dogs”, caffè letterario corredato di amache per riposini estemporanei, due ore
di confronto soprattutto con i giovani. Poi, nella notte tra sabato e domenica, l’ennesimo
confronto con i vertici del partito: stavolta c’era pronto un piano A, un piano B, un piano C.
Il primo, il preferito da tutti: se Syriza avesse preso la maggioranza assoluta. Il secondo:
se fosse bastato un nuovo accordo con Anel. Il terzo: se fosse toccato allargarsi anche ai
socialisti. Il quarto — se Syriza avesse perso le elezioni — non era contemplato, ma del
resto non ci sarebbe stato dibattito, una confortevole opposizione dura e pura come ai
vecchi tempo. Stavolta, senza la Piattaforma di sinistra di mezzo, la decisione era stata di
affidargli un mandato pieno e incondizionato.
Tutto bello, tutto perfetto? Insomma, e per capirlo basta scendere di un piano alla sede di
partito, dal settimo al sesto. Dove ci sono gli uffici della corrente “movimento dei 53”, i filoTsipras ma critici, legati al partito tradizionale, cioè meno leaderismo, più militanza diffusa
e processi democratici da seguire passo passo. «A me vedere le signore di mezza età che
lo acclamano adulanti come “il nostro ragazzo, il nostro ragazzo!” fa male — commenta un
po’ alterato un membro del comitato centrale — ma cosa sta diventando la politica?». È la
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regola della sinistra e della politica: gli spazi si riempiono, sparita una minoranza interna
ne nasce automaticamente un’altra.
Se sarà un problema o meno, per l’ingegner Tsipras perlomeno oggi non importa. Esce
dalla sede del partito alle 22.48, saluta con la mano sul cuore, una signora con la bandiera
cilena quasi lo sequestra abbracciandolo da dietro la transenna. La bionda e avvenente
governatrice dell’Attica Rena Dourou lo bacia affettuosa. «E adesso — saluta Tsipras — la
lotta continua».
del 21/09/15, pag. 6
L’ultradestra ringrazia disoccupati e antimigranti
DAL NOSTRO INVIATO ATENE «Grazie signora Merkel». E giù una risata, e giù un altro
sorso di birra. La palazzina moderna di fronte alla vecchia stazione di Larissa rappresenta
lo svincolo tra le due grandi crisi europee, il debito greco e la tragedia dei migranti. «La
cancelliera tedesca ci vuole davvero bene».
L’ingresso chiuso da una pesante porta blindata e sorvegliato a vista da tre incappucciati
neri non è certo un invito all’allegria, ma la sede di Alba Dorata è forse l’unico luogo della
politica greca dove questa sera c’è gente che festeggia davvero. Appena pochi mesi fa il
partito neonazista sembrava destinato a rientrare nei ranghi con lo stesso passo di marcia
militare usato dai suoi deputati durante il loro primo ingresso in Parlamento, correva l’anno
di disgrazia 2012. L’ultima campagna elettorale è stata per lungo tempo così mogia e
dimessa da far ipotizzare una sorta di baratto, auto-estinzione in cambio di un difficile
lasciapassare giudiziario per il fondatore Nikolaos Michaloliakòs, accusato di essere
coinvolto nell’omicidio del rapper antifascista Pavlov Fyssas.
Gli schiamazzi che provengono dalle finestre aperte sulla zona più popolare del quartiere
di Omonia sono invece la logica conseguenza di un risultato quasi insperato. Terza forza
del Paese, superata per la prima volta la soglia del 7%. «Eravamo in grande difficoltà.
Dopo il referendum ci eravamo resi conto che l’opposizione ai diktat di Bruxelles era
diventata un’arma meno efficace. Ma ragazzi, agosto è stata una benedizione». Lo statista
al quale ci stiamo rivolgendo via telefono per una analisi politica del voto si chiama Artemis
Matthaiopoulos. E’ quell’omone a disagio in giacca e cravatta che in Parlamento siede
sempre alle spalle del suo capo. «Tutti quei migranti che sbarcavano nelle nostre isole, la
cancelliera tedesca che gli apriva le porte. Il vento stava girando nuovamente dalla nostra
parte».
Nella sua prima vita, Matthaiopoulos era il bassista di band Nazi-punk che si chiamava
Pogrom e cantava liriche delicate come la seguente, estrapolata da una canzone intitolata
Auschwitz: «Fottiti Anna Frank, che si fotta l’intera tribù di Abramo, la stella di David mi fa
vomitare». «Ma quelli sono sfoghi giovanili. Le sembra che ci sia ancora bisogno di dare
giustificazioni? Noi non siamo nazisti, la gente continua a interpretare male il nostro
simbolo, che non è una svastica rivesciata, ma un fregio dell’Antica Grecia. Tutto un
equivoco».
Pochi giorni fa ci aveva fatto entrare nel suo ufficio al secondo piano della sede del partito,
e nel farci strada aveva chiuso con pudore la porta di una sala riunioni addobbata con
memorabilia della Seconda guerra mondiale. «La verità è che siamo puri nazionalisti che
amano l’esercito e le nostre forze di sicurezza» aveva commentato con una alzata di
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spalle. All’età di 36 anni, Matthaiopoulos è diventato il volto della seconda generazione,
l’uomo al quale verrà presto passato il bastone, metaforico, del comando.
Alba Dorata è il partito più votato tra i disoccupati, è andato in doppia cifra anche nelle
periferie ateniesi, nell’Attica e nelle isole. «Seguite il viaggio dei migranti in Grecia e
troverete noi. La Merkel e la sua Europa ci hanno fatto un altro grande favore». Il
commento del risultato elettorale viene interrotto dalla baraonda intorno a lui. Erano il
sintomo più evidente del malessere greco, sono più numerosi di prima. E non saranno
nazisti, ma quel modo di salutarsi dei sostenitori ai quali viene aperta la porta blindata ci
sembra di averlo già visto da qualche parte.
del 21/09/15, pag. 5
Tra i profughi accampati al parco
in un’Atene incapace di aiutarli
Senza più soldi, in migliaia vivono nelle tende in Piazza della Vittoria Gli
aiuti Ue bloccati dalla burocrazia: cibo e acqua forniti dai cittadini
Tonia Mastrobuoni
Come se la crisi economica non avesse sprofondato molte zone di Atene in un abisso di
povertà, microcriminalità e tensioni sociali. In alcuni quartieri, i neonazisti di Alba dorata si
divertono a fare scorribande con le mazze da baseball contro i migranti, i tossici si bucano
ormai in pieno giorno agli angoli delle strade, la morìa dei negozi continua a ritmi
vertiginosi e il Comune ha alzato bandiera bianca. Nella mensa dei poveri dietro Omonia,
dopo tre mesi di pasti senza carne, lunedì è arrivato il pollo. Ma neanche la lunga cottura
al forno ne ha potuto nascondere il sapore di cane avariata. La capitale è al collasso. E
ora fa i conti anche con la crisi dei profughi.
In pieno centro, in piazza della Vittoria, su coperte e tappeti regalati dagli abitanti del
quartiere, migliaia di afghani aspettano catatonici, affamati, di proseguire il loro viaggio
disperato verso l’Europa continentale. Ad un certo punto, da una stradina laterale sbuca
una signora con delle buste blu, piene di pane. Una dozzina di uomini si precipita su di lei,
in pochi secondi le pagnotte sono sparite; i profughi si dileguano, le portano alle loro
famiglie. Le donne velate e i bambini stanno sotto gli alberi, immobili, si proteggono come
possono dal caldo infernale. È pieno di neonati, le madri giovanissime li adagiano piano a
terra per cambiarli. I piccoli gattonano tra i piccioni, l’immondizia. Ad Atene fanno ancora
38 gradi, l’umidità è soffocante.
I turisti «volontari»
«Ogni giorno è così: nessuno aiuta questa gente, dipendono dalla misericordia dei greci,
dei vicini» spiega un fotografo free lance spagnolo, Cristian Pons, che sta qui da
settimane. «Li hanno lasciati completamente soli: i negozi qui intorno non li fanno neanche
più andare al bagno», aggiunge una turista francese accanto a lui, Nathalie. È di Nizza, ha
passato le vacanze qui invece che su un’isola greca: «Non ho potuto fare altrimenti. Mi
vergogno dell’Europa e del mio Paese, la Francia».
Un turista svizzero, Michael Raber, è passato nei giorni scorsi dal barbiere della piazza
per tagliarsi i capelli ed è rimasto talmente sconvolto da donare 1500 bottigliette d’acqua ai
profughi. «Il problema è che quando il chiosco della piazza ha cominciato a distribuirle, c’è
stato un assalto tale che abbiamo dovuto gridare che bisognava pensare prima alle donne
e ai bambini», racconta Nathalie. È stata lei a procurare un carrello della spesa per
distribuirle prima alle donne.
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Siriani, in questa piazza, non se ne vedono quasi: proseguono il viaggio per l’Europa più
velocemente.
L’attesa infinita
Gli afghani, i pachistani restano qui, in balìa degli sciacalli che chiedono cifre
astronomiche per portarli in Germania. Molti ripartono comunque, alla cieca. Arrivano dal
Pireo, hanno attraversato l’Asia, la Turchia, sono riusciti ad arrivare qui spendendo spesso
gli ultimi soldi, non si rassegnano ad arenarsi in piazza della Vittoria. Sari Gul, ventitré
anni, li aiuta come può. Occhi a mandorla verdi, afghano anche lui, è arrivato in Grecia sei
mesi fa, racconta che i siriani vengono portati a Omonìa o nei centri di accoglienza o
altrove: «Gli afghani restano più a lungo».
Cercano di andarsene appena riescono a mettere insieme qualche euro, ma «il problema
è che ne arrivano tantissimi, ogni giorno». Il fotografo spagnolo ci mostra un video di ieri
mattina: «Ne sono arrivati mille e cinquecento, solo qui».
E il Comune, il governo cosa fanno? Non è solo colpa dell’Europa, se i profughi sono
abbandonati a se stessi. A giugno, i ritardi nell’arrivo dei fondi europei ha provocato uno
scandalo: quotidiani greci come Kathimerini hanno raccontato che quasi 600 milioni di
euro di fondi destinati all’accoglienza dei profughi erano bloccati a Bruxelles per
l’incapacità del governo di istituire l’autorità per gestirli. Dal 2014 la Commissione europea
aveva chiesto ad Atene di istituire un’unica autorità per la gestione dei fondi europei.
Adesso l’autorità c’è, finalmente, e una portavoce della Commissione ha fatto sapere ieri
che i primi 30 milioni sono arrivati la scorsa settimana. Meglio tardi che mai.
del 21/09/15, pag. 5
Il paesino che vive senza euro
e lo ha sostituito con il baratto
Nella Grecia stremata dalla crisi, c’è chi non si è perso d’animo e ha fatto di necessità
virtù, fino a tornare alle origini. È il caso di Volos, quinta città ellenica, situata nel nord del
Paese, ossia nell’antica Tessaglia, che ha pensato bene di reintrodurre il baratto e di
sostituirlo, almeno in parte, all’euro.
Quello che nel 2010 era iniziato in un quartiere come esperimento, adesso è una realtà
istituzionalizzata, così tanto, che da 50 membri la comunità ha raggiunto quasi un migliaio.
Il meccanismo, è tutto fuorché banale. Per accedere agli scambi bisogna registrarsi a un
sito, previa presentazione di un documento di identità. Su questa piattaforma, tutta la
merce viene valutata in Tem, la moneta usata dai barattanti e dove un Tem equivale a un
euro.
Non si tratta di una moneta stampata, ma virtuale, utilizzata per rendere più facili e
trasparenti gli scambi. Ogni iscritto riceve 300 Tem in modo tale che possa iniziare a
scambiare. Per evitare che venga a mancare il giusto equilibrio fra quello che viene ceduto
e quello che viene acquistato, ogni utente non può accumulare più di 1200 Tem.
Dallo spillo all’elefante
Andando sul sito, si trova veramente di tutto. Il principio di base è che la gente mette sul
mercato cose di cui può fare a meno, cercando di scambiarle invece con cose di cui ha
assolutamente bisogno. Quindi una famiglia magari vende il secondo televisore, che è
diventato un bene decisamente superfluo, in cambio di cibo, vestiti o un altro
elettrodomestico. Per esempio, un cappotto vecchio o vestiti che non vanno più possono
essere scambiati con qualcosa di più utile.
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La piattaforma si è rivelata particolarmente preziosa anche per alcuni negozianti, che si
sono trovati a chiudere le loro attività a causa della crisi e che per un motivo o per l’altro
non sono riusciti a svuotare i magazzini. Ma la logica del baratto, all’inizio applicata solo ai
beni, si è presto applicata anche ai servizi e quindi sul sito della comunità di Volos è
possibile trovare lezioni di inglese, in cambio di lavori idraulici o di ristrutturazione a casa.
L’arte di arrangiarsi
«Siamo molto soddisfatti di come è cresciuto il fenomeno – spiega a La Stampa, Leonidas
Christopoulos, uno dei primi sostenitori della piattaforma –. Quando la crisi ha iniziato a
toccare i consumi della gente, sapevamo che prima o poi i greci sarebbero stati costretti a
disfarsi del superfluo. In questo modo non solo abbiamo risparmiato l’umiliazione di dover
vendere cose a cui erano affezionati, abbiamo anche trovato il modo di evitare sprechi che
in periodi come questi non ci si può davvero permettere. Con il sistema del baratto, infatti,
gli alimenti in scadenza vengono distribuiti con maggiore facilità e così si evita di buttarli
via». [m. ott.]
del 21/09/15, pag. 25
IL CROLLO DEL CENTRISMO DI SINISTRA
NADIA URBINATI
UNO degli argomenti più intriganti suggeriti dalla vittoria di Jeremy Corbyn alla leadership
del Labour Party è il seguente: la sinistra ha bruciato il suo centro consegnando il governo
ai Tory per i prossimi anni. Questa diagnosi può essere interpretata in due modi diversi. Il
primo è quello che si ricava dalle parole del capo storico del centrismo laburista, Tony
Blair, il quale con malcelato egocentrismo ha identificato l’elezione di Corbyn con una
reazione contro di lui e ha preso la penna per scongiurare i laburisti a “ detestarlo”
liberamente ma a confermare la sua linea centrista non votando per Corbyn. Detestato per
la sua entusiasta partecipazione alla guerra di Bush in Iraq, il fondatore del New Labour
non ha fatto che rafforzare la Corbymania. E il centrismo ha alzato un cordone sanitario
intorno al nuovo leader.
Il caso inglese è perfino più radicale di quello spagnolo e greco perchè qui la sinistra ha
ripreso le redini del suo partito tradizionale, scuotendone l’identità centrista. La quale, non
il radicalismo della sinistra, è all’origine della crisi del Labour.
Posizionandosi al centro, il Labour di Miliband ha dimostrato di essere sostituibile con i
conservatori. Competere per il centro non è una politica saggia quando le politiche
centriste sono a tutti gli effetti conservatrici. Ecco perchè il cordone sanitario del centrismo
nei confronti di Corbyn suggerisce un’altra lettura all’argomento per cui la sinistra ha
bruciato il suo centro.
La ribellione contro il centrismo è un fenomeno non confinato all’Europa.
Bernie Sanders che sfida Hillary Clinton alle prossime primarie democratiche, si definisce
socialista e conquista l’audience nel popolarissimo talk-show di Colbert. I sondaggi lo
danno vincente in New Hampshire e Iowa anche se perderà senz’ombra di dubbio la
nomination. Sanders come Corbyn punta il dito contro un tipo di moderatismo che è
diventato un abito troppo stretto per i democratici, spronati dallo stesso moderato Barack
Obama che, non va dimenticato, ha portato alla Casa Bianca una retorica di sinistra per
riuscire a imporre la riforma sanitaria e le politiche a favore della classe media.
Quindi c’è un centrismo di sinistra. E quando viene praticato con determinazione riesce a
contenere la sinistra più radicale e a essere una buona alternativa ai conservatori. È
questo il centrismo che i partiti di sinistra hanno bruciato.
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Il problema è stato ben individuato da Paul Krugman. Commentando la vittoria di Corbyn
ha scritto che essa «non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base
laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei
moderati del Labour»; i candidati moderati che sfidavano Corbyn non avevano altro da
offrire che il sostegno alle politiche di austerità del governo conservatore. Il “crollo morale”
dei moderati interni alla sinistra è il fattore da considerare dunque. La sinistra sembra non
avere più un centro suo, scegliendo di adottare quello proprio della destra.
Il centro al singolare è una categoria delle meno felici in politica perchè esso non è
un’entità che sta al di sopra delle parti. È invece una pratica di moderazione rispetto a
posizioni che sono specifiche e ideologicamente diverse. Il centro della sinistra non è lo
stesso di quello della destra, perchè non consiste nell’annacquare con politiche di destra
quelle di sinistra, per esempio limitando il diritto di sciopero o adottando politiche fiscali
che favoriscono la casa invece che il lavoro.
La sinistra ha un suo centro e la sua erosione e scomparsa è all’origine delle due possibili
risposte messe in campo finora: una risposta radicale nei partiti di sinistra che sono
all’opposizione (da Podemos al Labour) e una risposta destrinista o ibridata con il centro
della destra nei partiti di sinistra che sono al governo. Entrambi sono l’esito del “crollo
morale” del centrismo di sinistra, e all’origine tanto del radicalismo quanto del destrinismo.
del 21/09/15, pag. 30
Francia, il «Fronte» degli intellettuali
Nazionalisti e trasversali, attaccano l’Europa e sono accusati di fare il
gioco di Marine Le Pen
dal nostro corrispondente
a Parigi Stefano Montefiori
Il pensiero dominante, se mai è esistito, in Francia sembra sul punto di cambiare campo.
Dopo decenni di attacchi al politicamente corretto e al conformismo di sinistra, gli
intellettuali che si sentivano ai margini e amavano definirsi fuori dal coro stanno
conquistando una nuova egemonia culturale. Le loro idee non sempre sono nuove, ma lo
sono lo spazio e il seguito straordinario che hanno conquistato nella società francese.
Accomunati dal rimpianto per la Francia come nazione sovrana e dall’odio per le élite filoeuropee, l’economista Jacques Sapir e il filosofo Michel Onfray ipotizzano un’alleanza
trasversale di tutte le forze «sovraniste», dall’estrema sinistra all’estrema destra, per
tornare a una Francia capace di stampare moneta, condurre la politica economica, dare
lavoro ai disoccupati. Vengono tacciati di simpatie per il Front National, di essere «i nuovi
reazionari». Loro sostengono di osservare semplicemente la realtà, senza i paraocchi del
progressismo di maniera. Vendono migliaia di libri, e si organizzano.
Il prossimo 20 ottobre alla Mutualité di Parigi, uno dei luoghi tradizionali della sinistra
francese, il giornale «Marianne» organizza una grande e inusuale serata di sostegno a
Michel Onfray, alla quale parteciperanno Alain Finkielkraut, Pascal Bruckner e altri. Noto
per il Trattato di ateologia e per decine di opere (contro Freud, Sade e Sartre, a favore di
Nietzsche e Camus), il prolifico intellettuale che si definisce tuttora appartenente alla
«sinistra libertaria» è il più colpito in questi giorni dall’accusa di fare il gioco di Marine Le
Pen.
Nei suoi frequenti interventi su giornali, radio e tv, Onfray demolisce l’Europa liberale,
l’euro e il governo socialista di François Hollande che a suo dire ha tradito la sinistra,
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perché predica l’accoglienza ai rifugiati ma si dimentica del popolo francese old school ,
all’antica.
Il filosofo nato come epicureo e anticlericale si è trasformato nell’ennesimo lepenista
oggettivo, dicono i detrattori, in particolare dopo l’ultima intervista al «Figaro» nella quale
Onfray critica l’ondata di emozione per la foto del bambino siriano e lamenta che «il più
piccolo dubbio sui migranti viene criminalizzato».
Sabato sera Michel Onfray era quindi l’invitato più atteso nel talk show più seguito di
Francia, On n’est pas couché (quasi un milione e mezzo di spettatori a mezzanotte).
Davanti a lui Léa Salamé e Yann Moix avevano il compito di metterlo in difficoltà, ma i ruoli
si sono presto invertiti. «Con la vita mondana che fa a Parigi, lei non ha più il tempo di
leggere», ha detto subito Onfray a Moix in una carica contro i salotti di Saint-Germain-desPrés, prima di lanciarsi nella difesa dei «nuovi proletari, delle ragazze costrette a
prostituirsi per pagarsi gli studi».
Se a Londra a guidare il Labour è Jeremy Corbyn, nemico di Blair e della terza via socialliberale, a Parigi l’intellettuale di sinistra che conquista le prime pagine è Michel Onfray,
che fa risalire la rovina della gauche alla svolta del 1983, quando François Mitterrand
rinnegò le nazionalizzazioni annunciate due anni prima e «si adeguò al neo-liberalismo e
all’Europa».
Alla serata alla Mutualité parteciperanno anche Régis Debray e Jean-Pierre Le Goff: il
fronte comune dei pensatori che un tempo si sarebbero detti eretici si allarga. Éric
Zemmour, l’editorialista di destra autore del bestseller sul «suicidio francese», ha dedicato
una lettera aperta al suo «nuovo amico» di sinistra Onfray in cui gli dà il «benvenuto nel
club dei populisti». «Tu dici “il mio popolo” per parlare dei Francesi con affetto e non
“questo Paese” con sufficienza — scrive Zemmour sul “Figaro” —. Hai compreso il
disprezzo di classe che anima le nostre élite benpensanti nelle quali l’amore dell’Altro da
anni sfocia nell’odio di sé. Non hai digerito “la svolta del 1983”, l’apostasia del socialismo
in nome dell’Europa. Accetti il confronto con la realtà, anche se contraddice i tuoi a priori
ideologici».
C’è poi Michel Houellebecq, che non è un saggista o un politologo, ma il romanziere
francese più conosciuto e letto nel mondo. Quest’estate durante un’intervista Houellebecq
ha parlato con stima di Michel Onfray, Pascal Bruckner e Alain Finkielkraut, mentre è nota
la scarsa simpatia reciproca con il premier socialista Manuel Valls (definito peraltro da
Onfray «un cretino»). Il giudizio di Houellebecq sull’Europa è netto: «Il mio rimprovero
all’Europa è che non esiste, a differenza della Francia. Non mi sento affatto europeo. Mi
sento francese». Non è solamente una questione intellettuale. Chi prevale nel discorso
pubblico è destinato a condizionare le scelte della politica, in un momento decisivo per la
Francia e per l’Europa. E il discorso pubblico, in questo momento in Francia, vede
protagoniste le voci di pensatori come Onfray che si schierano contro l’Europa, le cessioni
di sovranità a Bruxelles, e denunciano il fallimento delle politiche migratorie di sinistra.
A dicembre sono in programma le elezioni regionali, e secondo i sondaggi Marine Le Pen
vincerà facilmente dove è candidata, nel Nord. Nel 2016 si terranno le primarie nella
destra, e i socialisti dovranno scegliere il loro uomo — ancora Hollande? — per le elezioni
presidenziali del 2017. Mentre queste scadenze si avvicinano, l’unica forza politica che
appare in crescita e in sintonia con una parte consistente dell’opinione pubblica è il Front
National. Privo di intellettuali organici, il partito di Marine Le Pen ha fatto della battaglia
culturale la sua priorità, rivendicando e applicando apertamente la lezione di Gramsci.
Mentre i socialisti al governo sembrano impantanati nel ritocco delle aliquote fiscali e nei
tecnicismi, il FN parla di valori e ideali, da anni.
Gli intellettuali anti-sistema e la sinistra tradizionale hanno ognuno una vistosa debolezza.
I primi continuano a presentarsi come vittime dell’ostracismo e della «polizia del
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pensiero», quando invece sono invitati ovunque e contesi come star. I secondi, i loro
detrattori, cadono invece nella trappola della reductio ad hitlerum , anzi della sua variante
reductio ad lepenum : per squalificare un argomento, che sia solido o meno non importa,
lo si assimila alle tesi di Marine Le Pen, e si pensa così di aver ragione a poco prezzo.
Fiancheggiatore del Front National? Per niente, risponde quindi Onfray. «Gli alleati
oggettivi di Marine Le Pen sono semmai tutti quelli che la rendono possibile da un quarto
di secolo — ha scritto su «Le Monde» —. Ovvero la destra e la sinistra liberali che hanno
fatto della parola “sovranista” un insulto (...); il socialismo che ha fatto di Maastricht
l’orizzonte insuperabile della politica e, di conseguenza, ha gettato nel precariato milioni di
proletari in Europa».
Gli intellettuali negano di aiutare il Front National, anche se arrivano spesso alle stesse
conclusioni, ma qual è la posizione del partito? Marine Le Pen ama citare gli studiosi che
forniscono punti di appoggio fattuali alle sue tesi: dalla demografa Michèle Tribalat che
mette in guardia sull’avanzata dell’islam, al geografo Christophe Guilluy che indaga sulla
Francia «peri-urbana», cioè sui sobborghi tra città e campagna abitati dai bianchi piccoloborghesi. Marine Le Pen nomina gli intellettuali ma si guarda bene dal farli apparire come
contigui al Front National: è un errore che preferisce lasciare agli avversari. La leader del
FN segue lo scontro da apparente spettatrice, e si frega le mani. Grandi risultati con il
minimo sforzo.
del 21/09/15, pag. 8
Per quaranta minuti il pontefice e il Comandante si sono parlati e stretti
la mano “in un clima informale e familiare”. Come doni uno scambio di
libri Ad applaudire il pontefice mezzo milione di persone Appello per la
Colombia: “Mettiamo fine alla violenza”
Francesco incontra Fidel E a piazza della
Revolución “Bisogna servire le persone non
le ideologie”
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
L ’AVANA.
Fidel e Francesco. Uno davanti all’altro. Il Comandante della Revolución cubana e il Papa
della riforma nella Chiesa. Il Líder maximo che ha sconfitto il generale Fulgencio Batista e
il Pontefice argentino che attacca i conservatori della Curia. Non poteva non esserci
questo incontro all’Avana. Ora sono qui, nella residenza del Jefe, con i familiari di Castro
intorno, la moglie e i figli, mentre Jorge Bergoglio ha con sé il nunzio vaticano a Cuba,
monsignor Giorgio Lingua e alcuni cardinali. Ma la cordiale stretta di mano fra i due leader
latinoamericani, il gesuita diventato Papa, e il rivoluzionario un tempo allievo dei gesuiti,
solo dieci anni di differenza uno dall’altro, è più che ideale. È una consonanza di vedute, di
passato e di prospettive. Nel rispetto della diversità e della storia personale di ognuno,
ovvio. E difatti il discorso spazia fluido, dalla politica all’ambiente, dalla letteratura alla
religione.
Senza interpreti. Non c’è bisogno. Tutto in spagnolo. E così i regali. Francisco ha portato
la sua Enciclica “Laudato Sì” in lingua castigliana. E altri tre libri, ognuno tradotto e pronto
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da leggere. Anche Castro ha preparato un dono: il saggio del teologo brasiliano Frei Betto
Fidel e la religione .
Il Comandante lo apre sulla prima pagina. Prende una penna, verga la sua dedica: «Por
Papa Francisco / in occasione della sua visita a Cuba/ con l’ammirazione e il rispetto del
popolo cubano».
«Un incontro in un clima familiare, una conversazione dai toni informali», lo definisce il
portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. Avviene dopo la messa nella Plaza de la
Revolución, con un’omelia ricca di riferimenti politici e spirituali, che Fidel ha seguito alla tv
senza perdersi una parola del Papa. Di che cosa parlano? Fidel, nell’ormai abituale tuta
blu, fa molte domande, come avvenuto tre anni fa, sempre qui, con Benedetto XVI. E se
allora l’intesa intellettuale fra il Líder cubano e il Pontefice tedesco aveva funzionato, con
un Castro che chiedeva a Joseph Ratzinger di mandargli por favor dei libri di teologia, ieri
l’incontro non ha mancato di toccare argomenti politici e pastorali. «La conversazione tra il
Papa e Fidel — conferma Lombardi — ha riguardato i temi della riflessione e del
magistero di Francesco sull’umanità, il suo futuro, la situazione mondiale oggi, la crisi
ambientale».
Castro è assetato di letture religiose. Bergoglio lo sa. Nella sua borsa nera ha portato,
assieme all’Enciclica scritta di suo pugno, due volumi in edizione spagnola del sacerdote
italiano Alessandro Pronzato, esperto di catechesi, di Bibbia e di divulgazione teologica:
«La nostra bocca si aprì al sorriso» (citazione da un salmo), testo sul valore dello humour
e dell’allegria in relazione alla fede, e Vangeli scomodi . Poi una raccolta di discorsi e
prediche, con registrazione acclusa in due cd («trovati a fatica», ammette Lombardi), di
padre Armando Llorente, che fu insegnante di Ca- stro qui a Cuba, al collegio dei gesuiti di
Belen.
Quaranta minuti di botta e risposta che scorrono veloci. Fidel è felice. Francesco sorride.
Un’atmosfera familiare e informale. “Fraterna”, la descrive Lombardi. Il Vaticano decide di
non diffondere nessuna immagine dell’incontro. «Per rispetto della riservatezza di questa
visita». Lo fa invece, più tardi, il regime cubano. La salute di Fidel è argomento sempre
delicato. Castro, ora 89enne, aveva lasciato il potere nel 2006 per qualche accenno di
malattia. Ieri l’argomento delle dimissioni di Benedetto XVI nel 2013, nemmeno un anno
dopo il suo viaggio a Cuba, e di una eventuale rinuncia accennata da Francesco non ha
avuto il tempo di essere affrontato.
Al mattino, il Papa aveva trovato una piazza sufficientemente gremita: mezzo milione di
persone. E in un luogo altamente simbolico per Cuba come Plaza de la Revolución, ha
detto che «non si servono le ideologie, ma le persone». Parlava all’ombra di due
evidentissime immagini stilizzate del Che Guevara e dell’altro leader rivoluzionario, Camilo
Cienfuegos, e sotto un’enorme bandiera di Cuba. Ma anche sotto una grande immagine di
Gesù. Così, davanti all’attuale capo dello Stato, Raul Castro, e in prima fila all’ormai
onnipresente Presidenta argentina Cristina Kirchner (freddina oggi la stretta di mano del
Papa), Francesco non ha lesinato parole legate ai temi politici. Sulla Colombia, che
vorrebbe visitare il prossimo anno, lancia un appello sul negoziato andato male tra il
governo e i guerriglieri delle Farc: «Per favore, non possiamo permetterci un altro
fallimento in questo cammino di pace e riconciliazione. Bisogna mettere fine alla notte di
violenza». Il cardinale Jaime Ortega — unico arcivescovo ad aver ricevuto la visita di tre
Papi — a conferma dell’importanza dell’isola caraibica per il Vaticano, accenna al disgelo
fra l’Avana e Washington: «Non rimanga ai livelli alti politici, ma arrivi ai popoli di entrambe
le nazioni».
Poi all’Angelus il Papa fa riflessioni di carattere più spirituale. E trova una bellissima frase:
«Bisogna riconoscere Gesù nell’uomo sfinito sulla strada». Che continua: «In ogni fratello
affamato o assetato, che è spogliato o in carcere o malato». È la sua riflessione sugli
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ultimi: «La grandezza di una nazione si misura dal servizio ai più deboli. Bisogna
capovolgere la logica del potere, sulle élite prevalgano gli umili».
A lui si richiamano in serata le Damas de blanco , il movimento di opposizione la cui
leader, Berta Soler, viene fermata con alcune compagne e il marito, il dissidente politico
Angel Moya, mentre vanno alla messa. «Siamo usciti dalla sede delle Damas de blanco in
23, e con Moya, alle 5 del mattino per andare nella piazza e siamo stati arrestati tutti»,
spiega Soler dopo essere tornata a casa dopo un fermo di qualche ora in un
commissariato. Non è riuscita a vedere, come voleva, el Papa argentino.
Ma a quell’ora, Francesco si era già incontrato con Fidel.
del 21/09/15, pag. 29
Il movimento di protesta nato durante la crisi dei rifiuti torna in piazza.
E ora vuole porre fine al “regime dei ladri”
La primavera di Beirut contro il governo che
“puzza”
ALBERTO STABILE
BEIRUT
DAVANTI AL mausoleo che accoglie le spoglie di Rafiq Hariri e sotto gli ispidi minareti
della moschea che lo stesso ex premier assassinato il 14 febbraio del 2005 volle ad
immagine e somiglianza della sontuosa Moschea Blu di Istanbul, i dimostranti del “29
agosto” hanno dato sfogo alla rabbia verso i “padroni” del Libano. «Mettiamo fine al regime
delle mafie» recita un graffito. «Siete cani da guerra», accusa un’altra scritta. «Il Libano
non è il vostro negozietto all’angolo... », frase seguita dalla parola che più spesso ricorre
sui muri dei palazzi e sui recinti dei cantieri: «Ladri!».
Tira una brutta aria a Beirut. Il Centre de Ville, o Downtown, come viene chiamato il cuore
commerciale della città, è deserto. I negozi sono vuoti, o chiusi. I Palazzi del Potere sono
resi inaccessibili da barriere di metallo e da doppie e triple spirali di filo spinato. La piazza
dell’Orologio su cui si affaccia il Parlamento è isolata. Il Gran Serraglio, sede del governo,
sembra una fortezza assediata da un’armata nemica.
Quella che era nata come una protesta civile, provocata da un problema pratico, come la
mancata raccolta dei rifiuti urbani e il conseguente insopportabile accumulo di immondizie
per le strade, è sfociata in uno scontro violento con l’esecutivo e in una sorta di
contestazione globale dell’intera architettura del potere libanese, basata sulla spartizione
delle principali cariche e funzioni dello Stato su base settaria, vale a dire alle tre principali
sette religiose, cristiani, musulmani sunniti e musulmani sciiti. Ora, questo modello, un
tempo osannato come il trionfo del compromesso contro l’autoritarismo dei regimi arabi,
ha smesso di funzionare e lo Stato, le istituzioni libanesi sono sprofondate nella paralisi.
Il movimento che, a partire dalla crisi dei rifiuti, ha voluto segnalare il suo sdegno verso i
responsabili del degrado lanciando lo slogan “ Puzzate!”, da cui ha preso anche il nome,
non è chiaramente la causa, e neanche una concausa, dello stato in cui versa il Libano ma
semmai una conseguenza della crisi. Una conseguenza che, secondo il politologo Rami
Khouri, va accolta con favore: «Stiamo assistendo — dice — alle doglie che porteranno
alla nascita del Cittadino libanese. La gente è scesa in piazza per una sua scelta
individuale, non in quanto appartenente ad una setta o perché mandata a protestare dal
leader della sua setta d’appartenenza. È una battaglia tra la dignità e i diritti dei cittadini e
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l’incombente, inossidabile struttura oligarchica del potere basata sugli interessi della
famiglia e del clan».
Nella piazza dedicata a Riad al Solh, il primo Premier nominato dopo l’indipendenza
ottenuta nel 1943 e ucciso dai nazionalisti siriani nel luglio del 1951, le tende dei
movimento resistono sotto il solleone dell’interminabile estate libanese. Per due settimane
è stato questo il cuore della protesta, quando un gruppo di 14 at-tivisti ha iniziato uno
sciopero della fame contro il ministro dell’Interno e dell’ambiente, Mohammed Machnouk,
chiedendone le dimissioni. Una delle voci più combattive era quella di Waref Sleiman,
studente di architettura, sui vent’anni, sorriso accattivante, barba incolta, capigliatura
ribelle. Chiedo a Waref perché hanno deciso di interrompere il digiuno. Risponde:
«Quando abbiamo realizzato che il ministro Machnouk non ha la spina dorsale, abbiamo
deciso di concludere lo sciopero delle fame », risponde sprezzante. Un gesto, precisa, che
non va interpretato in alcun modo come un cedimento: «La strada è nostra, oggi e domani.
Nessun ritiro, nessuna resa».
La risposta delle autorità, più che polemica è incomprensibile. «I dimostranti vogliono
essere picchiati — ha detto Machnouk in un intervista alla tv di Hariri commentando i
continui incidenti e la mano spesso pesante della polizia — così possono apparire
sanguinanti alla televisione e far passare l’idea che sono vittime, che sono oppressi».
È in questa giostra di reciproche incomprensioni che la situazione si avvia verso una fase
di stallo. Il governo ha varato un piano d’emergenza per i rifiuti approntato dal ministro
dell’Agricoltura, Akram Shehayeb, druso, seguace di Walid Jumblatt. L’immondizia è
sparita dalle strade (segno che la crisi si poteva forse evitare), ma il movimento ha
respinto il piano che prevede la divisione dello smaltimento fra tutte e sei le province
libanesi, e, secondo i militanti del “29 Agosto”, un’ulteriore moltiplicazione dei profitti
garantiti alle ditte private assegnatarie dello smaltimento con il corredo della inevitabile
corruzione dei politici.
In compenso, anche se l’aria a Beirut è diventata momentaneamente più respirabile, i
movimenti della società civile si sono moltiplicati. Oltre a “Puzzate”, alla grande marcia
hanno aderito anche “Siamo disgustati”, “Lasciateci soli”, “Chiediamo conto”. Quest’ultimo
gruppo vuole introdurre il principio di responsabilità per una classe politica
sostanzialmente irresponsabile.
A questa marea montante di scontento i politici possono oppure null’altro che il loro
fallimento. Venticinque anni dopo la fine della guerra civile, lo stato non è capace di fornire
ai cittadini acqua potabile, energia elettrica continuativa, scuole pubbliche accettabili,
ospedali e cure mediche almeno per i più bisognosi. In Libano solo chi ha molto denaro
vive bene e comanda.
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INTERNI
del 21/09/15, pag. 2
Il Senato è eletto dal popolo e la Carta non si
cambia così
Il costituzionalista - spiega il trucco dell’elezione indiretta di Palazzo
Madama voluta dal disegno di legge Boschi: è un falso, altro che
Bundesrat
In un articolo intitolato Perché è meglio indiretta, apparso di recente su Il sole 24Ore,
Roberto D’Alimonte, autorevole ed ascoltato studioso di sistemi elettorali, ha ribadito la
sua contrarietà all’elezione diretta del Senato sulla base di due concisi argomenti: 1)
L’elezione indiretta è da preferire perché su 28 paesi dell’Unione europea, 15 hanno un
sistema monocamerale, 8 prevedono l’elezione indiretta e solo 5 l’elezione diretta.
Pertanto “la proposta in discussione al Senato” non costituirebbe affatto “un’anomalia”; 2)
Quanto al modello indiretto di elezione, per D’Alimonte “non è semplice rispondere” se sia
meglio il modello previsto per il Bundesrat della Repubblica federale tedesca – nel quale
sono i Governi locali a rappresentare i Länder – oppure il modello Boschi, nel quale sono i
consigli regionali e i consigli provinciali di Trento e Bolzano ad eleggere i senatori: 74 tra i
consiglieri regionali e 21 tra i sindaci dei comuni capoluogo. Pertanto, non essendo
semplice rispondere al quesito, è opportuno non “rinviare sine die una riforma che il paese
attende da più di trenta anni”.
In apertura, D’Alimonte rileva che “sui metodi di elezione delle seconde camere in Europa
si sta facendo in questi giorni parecchia confusione”. Il che è vero. È però altrettanto vero
che uno dei maggiori motivi di confusione sta proprio nell’inesattezza della locuzione
“elezione indiretta” generalmente utilizzata per designare sia il modello tedesco, sia il
modello previsto dalla riforma Boschi.
Infatti, se i cittadini eleggono i consiglieri regionali e provinciali, e questi a loro volta
eleggono i senatori, non si può dire, per la proprietà transitiva, che i cittadini eleggano
(indirettamente) anche i senatori. Sono infatti esclusivamente i consigli regionali e
provinciali ad eleggere i senatori. Quindi è solo per intenti mistificatori, per ignoranza
oppure per addolcire la pillola che si allude alla futura elezione dei senatori come se
saranno indirettamente scelti dai cittadini. Si badi bene: se tale tesi rispondesse a verità, si
dovrebbe allora concludere che anche il Presidente della Repubblica è eletto
indirettamente dal popolo. Mentre è a tutti noto che le Camere in seduta comune sono
liberissime nella loro scelta. Del pari inesatto è sostenere che l’elezione dei componenti
del Bundesrat sarebbe indiretta. Il modello vigente costituisce una conseguenza
dell’ordinamento federale instaurato dalla Costituzione imperiale del 1871, che mantenne
in vita gli Stati preesistenti trasformandoli in Länder, mentre l’unificazione monarchica
italiana li soppresse del tutto (di qui la difficoltà storica più che giuridica di trasformare il
nostro Senato in una specie di Bundesrat). Il Bundesrat tedesco è quindi costituito non da
parlamentari, ma dai 16 Länder rappresentati dai rispettivi Governi, nella persona di uno o
più rappresentanti, che, a seconda dell’importanza del Land, hanno a disposizione da 3 a
6 voti per ogni deliberazione. Quand’è, allora, che si può correttamente parlare di “modello
indiretto”? Risposta: solo quando i cittadini eleggano i Grandi elettori, e questi, a loro volta,
eleggano i senatori (Leopoldo Elia). Il che appunto avviene in Francia, dove sono i cittadini
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ad eleggere i 150 mila Grandi elettori che dovranno eleggere i 348 Senatori, laddove in
Italia non sarebbero i cittadini, ma poco più di mille consiglieri regionali e provinciali a
dover eleggere solo 95 senatori.
In conclusione, le ragioni in base alle quali il Senato dovrebbe continuare ad essere
direttamente eletto sono assai serie. Direi, anzi, indiscutibili. Esse discendono da ciò:
poiché anche dalla riforma Boschi gli è riconosciuta la spettanza delle funzioni legislativa e
di revisione costituzionale, sarebbe manifestamente incostituzionale se le rispettive
deliberazioni, vincolanti per tutti i cittadini, non rinvenissero la loro legittimazione nel voto
dei cittadini. Nel proclamare che “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle
forme e nei limiti della Costituzione”, l’articolo 1 della nostra Costituzione garantisce infatti
che la funzione legislativa e la funzione di revisione costituzionale – massime espressioni
della sovranità popolare – debbano essere riconducibili “alla volontà dei cittadini espressa
attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità
popolare” (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014).
Beninteso, l’elettività del Senato è solo uno dei molti punti critici della riforma Boschi, ma è
di grande importanza. Il riconoscimento del suffragio universale per il Senato ha infatti
l’indiscutibile merito di evitare – almeno in liea di principio! – che la scelta dei candidati alla
carica di senatore sia coinvolta nelle beghe e negli scandali che notoriamente coinvolgono
la politica locale.
Postilla. Leggo che, per tacitare la minoranza PD, sarebbe in via di presentazione un
emendamento secondo il quale spetterebbe alle leggi regionali disciplinare le modalità di
valutazione dei consiglieri regionali candidati al Senato. Emendamento che però sarebbe
palesemente incostituzionale poiché, essendo il Senato un organo dello Stato, la relativa
legislazione elettorale rientra nella competenza esclusiva statale [articolo 117 comma 1
lettera f), Cost.]. Né si pensi che, per introdurre una tale norma bislacca, potrebbe essere
modificato anche il citato articolo 117. La Corte costituzionale, in decine di sentenze, ha
infatti sempre sottolineato l’incostituzionalità di leggi regionali che pretendevano di
disciplinare attività strumentali del funzionamento di organi dello Stato.
del 21/09/15, pag. 12
L’ultimatum di Renzi a Pierluigi
“Ora ci contiamo,stop ai rilanci”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA .
Lo schema della direzione è proprio quello meno gradito dalla sinistra del Pd. «Il voto
finale è sicuro», dice Matteo Renzi ai suoi fedelissimi. Come è successo sul Jobs Act e
sulla legge elettorale, creando un vincolo di maggioranza alle scelte dei parlamentari in
aula. Anche perché il premier valuta le ultime uscite di colui che è il suo vero sfidante nella
partita della riforma. «Ho visto che Bersani chiude rispetto a un accordo. E ho
l’impressione che vogliano solo e sempre rilanciare». In questo caso niente intesa, nessun
patto con la minoranza e si andrà allo scontro in aula convinti di avere i numeri per farcela
anche senza i dissidenti.
Il premier non scopre le carte sull’apertura concreta che farà oggi pomeriggio per
sciogliere il nodo dell’elettività dei senatori. Ma è proprio un impegno chiaro e limpido ciò
che chiedono i dissidenti, altrimenti finirà al solito modo: la minoranza non parteciperà al
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voto della direzione dimostrando plasticamente una spaccatura interna. Roberto Speranza
ripete le parole pronunciate negli ultimi giorni: «Il voto in quell’organismo non può essere
impegnativo quando si cambia la Costituzione ». Quindi stavolta non ci potranno essere
appelli a seguire le decisioni dei vertici.
Le dichiarazioni ufficiali della domenica ancora estiva non nascondono un clima teso.
Vasco Errani, che ha ascoltato Pier Luigi Bersani alla chiusura della festa dell’Unità di
Bologna, confida: «So che si sta lavorando sul comma 5 dell’articolo 2». Quindi le parti
trattano, cercano una strada unitaria. Ma come? Questo è il punto. Con senatori eletti o
senatori indicati? I duellanti, Renzi e Bersani, ci tengono a sottolineare la loro coerenza
nell’immobilismo delle posizioni. L’ex segretario nega una sua chiusura rivendicando di
aver sempre indicato alcuni paletti così come li ripete oggi. Poi certo, il punto chiave non
sono il taglio dei deputati o le funzioni del nuovo Senato. Il punto rimane l’elezione diretta
dei senatori. Il premier-segretario fa più o meno lo stesso: «Stiamo sempre lì: abbiamo
indicato il termine ultimo per il voto della riforma a Palazzo Madama per il 15 ottobre. E il
voto deve arrivare sul testo della Camera, già approvato con la doppia lettura conforme ».
Salvo le correzioni sulle modifiche apportate a Montecitorio, quel minuscolo cuneo che
serve a siglare un patto tra gli sfidanti del Partito democratico. Ma, spiega ai collaboratori,
«considero una chiusura le parole di Bersani di sabato. Se vogliono solo rilanciare allora
salta tutto».
La conta di oggi in direzione può mettere una pietra sopra l’accordo, surriscaldando
ancora di più l’atmosfera. Malgrado ci siano altri giorni per trattare. La scadenza degli
emendamenti è mercoledì. Il governo può presentare sue proposte anche oltre questo
termine. In più il Pd è appeso alla decisione di Piero Grasso sull’articolo 2: lo giudicherà
emendabile tutto o solo in parte, magari proprio al comma 5 dell’articolo 2 dove
aggiungendo una frase si soddisfano le richieste della sinistra? Il sottosegretario alle
riforme Luciano Pizzetti considera vicina l’intesa, proprio in quel punto del testo. Speranza
è ottimista, non crede che possa finire male ora che anche secondo lui si «è a un
millimetro da un compromesso ». L’alternativa a un accordo del resto assomiglia a un
disastro per tutti, almeno a sentire Massimo D’Alema.
L’ex premier ha parlato ieri alla festa del Pd del Lussemburgo. Non ha mai pronunciato la
parola scissione ma ha messo in guardia la guida renziana del partito. «Attenzione che più
il Pd rompe con la sua comunità e più si materializza, di pari passo con la deriva centrista,
la possibilità di una candidatura a sinistra ». Cioè di un movimento fuori dal Pd con una
parte del popolo del Pd. «È un rischio estremo ma c’è», avverte D’Alema. Ovviamente l’ex
premier non sfugge alla domanda sui voti presi da lui e quelli di Renzi. Il segretario non
vuole tornare alle percentuali dei Ds guidati da D’Alema. «Renzi è un bugiardo - sentenzia
D’Alema - . Nel ‘96 il Pds era al 21 per cento e con gli altri dell’Ulivo facevamo il 36 per
cento. Questi sono i numeri».
Tra i protagonisti diretti della direzione di oggi però D’Alema non c’è. A meno che non
abbia pronto un intervento dal podio della sala all’ultimo piano di Largo del Nazareno. La
battaglia è tra bersaniani e renziani e dopo l’intera estate passata a lanciarsi messaggi a
distanza, con interviste o discorsi alle feste dell’Unità, si giunge al momento decisivo, a un
faccia a faccia negli organismi ufficiali.
del 21/09/15, pag. 12
Senato, nel Pd è il giorno della conta
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Oggi il parlamentino del partito convocato da Renzi voterà sulla linea da
seguire in Aula sulla riforma Boschi: la sinistra vada in pizzeria e si
metta d’accordo. Bersani: se si vuole, intesa a un millimetro
ROMA L’accordo interno al Pd sulla riforma del Senato somiglia alla freccia di
un’automobile: ora «c’è», e ora «no». E quando «non c’è» volano accuse tra le parti.
Anche se intanto Matteo Renzi ieri ha fatto annunciare una certezza: alla direzione di oggi
farà il punto su tutte le riforme e quindi chiederà al partito un voto finale.
Prima il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, da Torino, aveva detto che «la riforma
è condivisa al 90%», sottolineando che quel che manca al traguardo è responsabilità della
minoranza del suo partito: «Trovino una pizzeria, si mangino una pizza tutti insieme, si
facciano una telefonata, ma decidano che cosa vogliono fare. Non se ne può più di questi
avanti e indietro». E, in merito al nodo cruciale dell’elettività diretta dei nuovi senatori, la
Boschi ha insistito sulla validità del testo governativo: «Se il Senato deve rappresentare i
territori, non possono non esserci consiglieri regionali e sindaci. Per questo abbiamo
proposto che ci siano eletti di secondo livello». Comunque, ha aggiunto il ministro, «si
arriverà all’approvazione in Senato entro il 15 ottobre. Se il Pd perde questa sfida, il rischio
è perdere credibilità come partito».
Eppure la minoranza continua a ripetere che non potranno essere i consigli regionali a
eleggere chi dovrà sedere a Palazzo Madama, ma che dovranno sceglierli direttamente i
cittadini. Lo ha ribadito Vannino Chiti: «Bisogna che questo principio sia stabilito con
chiarezza, se si vuole trovare una mediazione degna della Costituzione. La riforma non si
fa con il pallottoliere, ma con il dialogo». E Pier Luigi Bersani insiste: se si tocca l’articolo 2
e si dà potere ai cittadini l’accordo è a un millimetro (alla Festa dell’Unità di Bologna, l’ex
segretario commenta i suoi rapporti con il premier: «Son sempre stato amico fraterno con
chi mi ha sostituito. Con Errani, in Regione Emilia-Romagna, con Letta al ministero.
Perché non riesco a esserlo con Renzi? Per statistica non mi sembra un problema mio»).
Ma accuse ancora più esplicite al governo seguitano ad arrivare dalle opposizioni. Roberto
Calderoli, vicepresidente leghista del Senato, resta pronto a combattere in Aula con
«milioni di emendamenti». E dice, intervistato da Maria Latella su S ky Tg24 , che l’intesa
«non c’è mai stata. Siamo di fronte a una commedia in cui il gatto Renzi e la volpe Boschi,
coppia spregiudicata, tentano di convincere gli antagonisti a votare la riforma. C’è una
campagna acquisti in corso». Tesi sostenuta anche da Maurizio Gasparri (FI): «Per Renzi
questa è una prova di forza. Non gli importa che questa riforma sia sbagliata. Contano i
numeri. Quello che sta accadendo al Senato è vergognoso». Il capogruppo azzurro alla
Camera Renato Brunetta aggiunge: «L’Italia non è uscita dalla crisi. Il governo non ha
puntato a far ripartire il Paese, ma a conquistare il potere: con la legge elettorale e questa
riforma».
Infine, per il M5S, interviene il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio: «Riforma inutile
e dannosa. Non abolisce il Senato, ma ne crea uno in cui entreranno consiglieri regionali e
sindaci che potranno salvarsi dalla galera con l’immunità parlamentare».
R. R.
del 21/09/15, pag. 9
Intercettazioni, stretta finale
Ma il governo cambia idea
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Niente udienza “di selezione”per decidere cosa è rilevante e cosa no
Una commissione di saggi sceglierà le nuove norme.Domani il voto
finale
Francesco Grignetti
Sarà la settimana della verità per le intercettazioni: domani la Camera è chiamata a votare
l’ultimo capitolo, forse il più controverso, della riforma del processo penale. La novità è che
il governo e la maggioranza hanno cambiato idea sul meccanismo che dovrebbe impedire
la pubblicazione di intercettazioni «non rilevanti». Già perché quella «udienza di
selezione» alla presenza di pubblici ministeri e avvocati che per tanto tempo è stata
considerata la panacea del problema, è stata affondata dalle osservazioni dei tecnici.
Come ha spiegato ai suoi la presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti,
Pd, servirebbe piuttosto un «procedimento di selezione». E sta crescendo il consenso per
il lodo Pignatone-Bruti-Lo Voi (dal nome dei procuratori di Roma, Milano e Palermo) che in
un’audizione parlamentare avevano ipotizzato di diffondere in conferenze stampa le
ordinanze dei gip o anche i decreti di sequestro e perquisizione dei pubblici ministeri. Se
poi nell’atto fossero contenute intercettazioni inopportune, sarebbe colpa del singolo
magistrato. Disse in quell’occasione Giuseppe Pignatone: «Si può riflettere se adottare lo
stesso trattamento anche per la richiesta del pubblico ministero che preluda all’ordinanza
del gip». E Bruti Liberati: «Occorrerebbe anche salvaguardare la parità tra testate e tra
giornalisti».
L’udienza che non va
La novità degli ultimi giorni è che dalla legge sta per sparire il riferimento all’udienza di
selezione. Si sono resi conto, di fronte alle articolate obiezioni dei magistrati (inascoltati
invece sulla rigidità di imporre l’iscrizione di massa al registro degli indagati), che stavano
per creare un mostro: imponendo un’udienza soltanto per esaminare le intercettazioni, si
rischiava una toppa peggio del buco. La selezione tra intercettazioni rilevanti e irrilevanti,
infatti, si potrebbe mai fare prima di un arresto? Una procura avrebbe dovuto chiamare
l’avvocato difensore di un arrestando il giorno prima dell’arresto per esaminare tutti
assieme le intercettazioni che lo riguardavano? Grottesco. Ovviamente una selezione con
contraddittorio tra le parti si può fare solo a posteriori di una ordinanza. Ma se l’udienza di
selezione si fa una settimana o un mese dopo un arresto, peraltro possibile già oggi, come
impedire che la serie integrale delle intercettazioni, contenute negli atti a supporto, finisca
ai giornalisti non appena si va davanti al Tribunale della Libertà?
La delega
Il governo, fin dal primo testo del dicembre scorso, ha sempre chiesto una delega per
riformare le intercettazioni. L’obiettivo dichiarato è bilanciare meglio le norme, tutelando i
tre profili costituzionali coinvolti: diritto alla privacy dei cittadini, diritto di cronaca dei
giornalisti, segretezza delle indagini dei magistrati. Si profila però ora una delega più vaga.
E sul punto i grillini annunciano battaglia perché contrarissimi al metodo: vedono che le
decisioni cruciali vengono sempre più spesso avocate dal governo ai danni del Parlamento
e non ci stanno. Il ministro Andrea Orlando intende però andare avanti e anche
decisamente. Subito dopo il voto della Camera annuncerà la costituzione presso il
ministero di una commissione di saggi, «personalità dal profilo inattaccabile» ha detto a
una delle ultime feste del Pd, per studiare tecnicamente la soluzione di questo rebus.
L’idea che circola a via Arenula è di chiamare alcuni tra quelli auditi in Parlamento. Non
sarebbe da meravigliarsi se Orlando chiamasse Pignatone, Bruti o Lo Voi, ma non si può
escludere anche qualche colpo a sorpresa. Un nome alla Stefano Rodotà, ad esempio,
che in Italia è giurista tra i più quotati sul versante della difesa della privacy.
No ai farisei
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I procuratori, nella loro audizione, erano stati espliciti. La situazione attuale è «farisaica»:
la legge vieta la pubblicazione delle ordinanze, che però sono pubbliche e nella
disponibilità di decine di avvocati. I tempi del black-out sono interminabili, però a violare i
divieti i giornalisti rischiano una risibile multa. Meglio distribuire le ordinanze a tutti e non
se ne parli più. Segreto rafforzato, invece, sugli atti a supporto, fino all’udienza preliminare,
che in genere arriva un annetto dopo un arresto. Gli avvocati, da parte loro, sottolineano
un punto della riforma che per loro è fondamentale: le intercettazioni tra un legale e il suo
assistito vanno cancellate. «Ne va della sacralità del diritto di difesa», dice Beniamino
Migliucci, presidente dell’Unione Camere penali.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 21/09/15, pag. 21
Migranti in terra di boss
La ‘ndrangheta e l’affare delle forniture Inchiesta dell’Antimafia sul
centro d’accoglienza I gestori: «Le ditte? Hanno l’ok del Prefetto»
dal nostro inviato a Isola Capo Rizzuto (Crotone)
Goffredo Buccini
Scusi, attorno a voi c’è la ‘ndrangheta?
Piccolo sobbalzo: «Non capisco cosa sta dicendo, eh!, mi scusi lei».
Dico: date lavoro e speranze in una zona, tra Isola Capo Rizzuto e Crotone, povera e
disperata...
Sospiro profondo: «...eeeh, mi dispiace quando vedo dei disservizi».
No, dicevo: la sentite la pressione della ‘ndrangheta, quindi?
Lieve pallore: «...c’è una cultura retrò, ma io sono sereno».
Lei però è di Isola. Sa chi sono gli Arena?
«Li leggo sui giornali, ma mica li vedo in giro, eh! E poi, un cognome cosa mai significa? Il
mio professore delle medie si chiamava Arena!».
Sono i padrini di Isola, comandano fino a Crotone. Gente retrò?
«Chiusa. Ma lei non è qui per parlare di queste cose, no? Perché non parliamo del
Cara?».
Rigido nella sua giacchetta azzurrina, Francesco Tipaldi, 33 anni, direttore del Cara di
Sant’Anna, qui, sulla Statale Ionica 106 che ha scritto una parte terribile della propria
storia con il sangue, non pronuncia mai la parola ‘ndrangheta: ma non ha poi tutti i torti. Un
Cara — un Centro di accoglienza per richiedenti asilo — può essere molte cose.
Per gli investigatori antimafia di Catanzaro è un affare degli Arena. Questa, almeno, è la
tesi di un’indagine ancora riservata (e da negare in via ufficiale) sui tentativi di infiltrazione
nei servizi e nelle forniture che la Confraternita della Misericordia, gestore in convenzione
del centro d’accoglienza, affida a imprese locali. Ghibli 2 (nome non casuale, la prima
inchiesta Ghibli smantellò la parte militare del clan) si è a lungo inabissata in qualche
cassetto ma infine è riemersa come un fiume carsico e punta entro l’anno a incastrare una
dozzina di colletti bianchi: gli affiliati occulti. Fosse servito un faro in più, l’ha acceso
l’attentato dell’anno scorso ai furgoni della «Quadrifoglio», la ditta del consigliere
comunale isolitano Pasquale Poerio che al Cara fornisce il catering. Su un tavolo opaco
dove talvolta si confondono vittime e collusi (a rischio di cantonate), la torta è fatta dei
milioni erogati dalla prefettura di Crotone per il mantenimento dei rifugiati, ma anche di
assunzioni e voti (qui lavorano in 400, con l’indotto «ci fai eleggere un sindaco, se vuoi»,
dice una fonte) e forse di intese massoniche, contatti con deputati, aspirazioni a un posto
in Parlamento.
Ma un Cara come questo, la mattina in cui lo visitiamo, è molto altro ancora. È 1.200
anime (al massimo dovrebbero starcene 800) di una dozzina di etnie diverse, tutte in
attesa di un destino che viene deciso nel settore blindato della commissione territoriale.
Ernest, ghanese, mi dice in un inglese sincopato: «Il 25 tocca a me, voglio il foglio, senza
un documento in Europa non sei un uomo». Mustafà fa i salti di gioia, il «foglio» l’ha
appena preso, ride con un poliziotto: «Adesso vado a vivere a casa tua!».
Un Cara mescola filo spinato e latte per i bambini, botte e carezze, prostituzione e
redenzione. Mary, nigeriana, ci ha partorito la sua Testimony due mesi fa, appena arrivata:
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domani escono, le hanno prese in uno Sprar, ricovero a misura di mamma e neonata. La
Misericordia, fondata nel 1988 dal parroco di Isola, Edoardo Scordio, sarà pure diventata
una calamita per arrampicatori, ma attira senza dubbio volontari e ragazzi generosi. Nei
prefabbricati, che hanno sostituito i container, si arrangia una parvenza di vita, panni stesi,
materassi a terra, «noi abbiamo i subsahariani, non gli ingegneri siriani». Issangae va di
continuo in infermeria. È alto due metri, fissato con la pressione. L’hanno già bocciato, ha
fatto ricorso, «in Gambia non ci torno, sono gay e mi ammazzano», dice, guardando il
muro del Cie, il centro di espulsione appena riattivato. I migranti disegnano madri come
madonne addolorate, nel laboratorio di pittura. Poi animano rivolte feroci, l’ultima il 13
luglio, con la 106 occupata, i lacrimogeni, i voli cancellati nell’aeroporto che sta proprio qui
di fronte. «Qui adesso ti sembra il paradiso e dodici ore dopo scoppia l’inferno». Il 4
settembre sono arrivati in un colpo solo 800 eritrei e la sera ne sono scappati trecento.
La chiave è Crotone. Non si capisce il Cara (che in realtà sta nel vicino territorio comunale
di Isola) se non si capisce Crotone. Una città abbandonata dall’Italia dopo la chiusura delle
sue fabbriche. Senza autostrada. Con una stazione da cui smontano i binari, tanto non ci
arriva più nessuno tranne i «dublinanti», che nemmeno li prendono al Cara, perché il
permesso di soggiorno lo hanno già e sono costretti dal regolamento di Dublino a tornare
qui, alla questura d’arrivo, per rinnovarlo, bivaccando, nel frattempo, due, tre mesi in
stazione.
Peppino Vallone, sindaco pd di Crotone, dice che «la Misericordia fa business». Pare
paradossale, ma il Cara è l’ultima cosa viva in questa terra morta. Il catering un tempo era
crotonese. Il barista dell’aeroporto mi sussurra di «lamentele dei neri»: «Gli danno razioni
da malati d’ulcera, vengono qui affamati». Noi vediamo in verità pietanze abbondanti
(pasta, pollo, patatine, frutta), ma, chissà, la nostra visita non è certo a sorpresa. A
domanda, nessuno si lagna. Ma un pachistano sorride enigmatico «Ogni stomaco è uno
stomaco diverso». Pure l’uso di buoni da spendere solo dentro il Cara, in luogo del
«pocket money» da dare ai migranti, è molto controverso, benché previsto dalla
convenzione con la prefettura. Chiedere lumi è impossibile, il prefetto ci rifiuta il colloquio.
Forte è la sensazione di un temporale in arrivo.
Leonardo Sacco, governatore della confraternita e pupillo di don Scordio, non si fida dei
giornalisti. Mi dirotta sul suo avvocato, Francesco Verri: il volto migliore che la
confraternita possa offrire oggi. Verri parla con passione, toni franchi: «Non sono un legale
di ‘ndrangheta, sono stato parte civile per Dodò», il bimbo ammazzato qui dalle pallottole
della mafia. Sostiene che la Misericordia ha le carte in regola; che ogni assunzione ha
l’avallo della prefettura. Ammette, sì, che i fornitori subiscono pressioni, «ma li ho sempre
spinti a denunciare chiunque». Esclude quindi che teste di legno degli Arena abbiano
lavorato o lavorino per il Cara? «No. Quel che posso dire è che la prefettura fa le sue
indagini; se c’è un rischio, licenziamo, rescindiamo. Ma se questo percorso non fosse
compiuto o fosse in itinere, io non lo so». Efficace. L’unica sfasatura è quando, per due
volte, definisce «presunto boss» un mafioso conclamato (per sentenza) come il padrino
storico Nicola Arena. Ovviamente, un lapsus casuale. E raro: perché in Calabria quasi
nulla si dice per caso.
(1 - continua)
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 21/09/15, pag. 16
Ue, nella bozza del vertice multe da 6500 euro
per ogni profugo rifiutato
Settimana decisiva sulle quote,si va verso un voto a maggioranza per
superare il no dei paesi dell’Est Kerry:100mila in Usa nel 2017
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
È la settimana decisiva per capire se l’Europa sarà in grado di mettere fine al caos
rifugiati, ma ancora una volta all’appuntamento i governi arrivano spaccati. Per costringere
il fronte dell’Est ad accettare la solidarietà tra partner, spunta l’ipotesi di far pagare alle
capitali egoiste 6.500 euro per ogni richiedent e asilo scaricato alle cure degli altri paesi
dell’Unione. E mentre John Kerry annuncia che nel 2017 gli Usa ospiteranno fino a
100mila rifugiati, in Europa si va verso un voto a maggioranza che metterà nell’angolo l’ex
blocco sovietico, uno shock politico inevitabile dopo le scelte sul filo della xenofobia di
leader come l’ungherese Orbàn.
Domani a Bruxelles si riuniscono i ministri degli interni dei Ventotto, mercoledì toccherà ai
leader. Sul tavolo la proposta della Commissione di ripartire tra tutti, dopo una prima
tranche di 40mila richiedenti asilo, altri 120mila migranti arrivati in Italia, Grecia e
Ungheria. Contro le quote restano Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania,
Slovacchia e Lettonia. Scontato che questa volta, dopo il flop della scorsa settimana, si
andrà al voto per mettere in minoranza i ribelli, ma per limitare i danni po-litici si cerca di
tenere a bordo almeno Varsavia, la capitale dal peso specifico maggiore.
Ieri gli ambasciatori dei Ventotto hanno lavorato fino a tardi per limare le conclusioni del
Consiglio Interni. Per permettere al governo di Ewa Kopacz di rientrare salvando la faccia
in piena campagna elettorale (lo spauracchio è il ritorno al potere del partito estremista di
Jaroslaw Kaczynski), verrà annacquata l’obbligatorietà delle quote: tutti saranno vincolati
dal voto, anche a maggioranza, ma il numero di rifugiati siriani o eritrei che ogni governo
dovrà accogliere non sarà più quello stabilito con criteri vincolanti dalla Commissione, ma
sarà deciso dai ministri in una nota allegata alle conclusioni. Anche se le cifre
ricalcheranno quelle calcolate da Bruxelles, i governi contrari potranno dire ai propri
elettori di non essersi fatti imporre quote dall’Unione, bensì di averle accettate
volontariamente. Inoltre il blocco dell’Est eviterà il precedente di un sistema automatico
vincolante in vista della battaglia di ottobre, quando Bruxelles cercherà di rendere
permanente il meccanismo delle quote per emendare il regolamento di Dublino che ad
oggi lascia ogni Paese da solo nel gestire i migranti.
Per evitare il fuggi fuggi registrato a luglio, con molti governi che hanno preso un numero
irrisorio di rifugiati nella redistribuzione dei primi 40mila, si pensa a un sistema
sanzionatorio per chi cercherà di sfilarsi. La proposta originaria di Bruxelles prevedeva che
una nazione potesse esimersi in cambio di una multa pari allo 0,002 del Pil, ma l’idea non
piaceva alla Germania (la Merkel non vuole permettere a nessuno di sottrarsi alla
solidarietà) e a Italia e Francia, eticamente e politicamente contrarie a scambi soldimigranti. Per venire incontro a Berlino, ieri si discuteva se sostituire l’esenzione totale con
la possibilità di chiedere, dietro motivi comprovati, di sottrarsi dal prendersi carico di un
numero di richiedenti asilo fino al 30% della quota nazionale. In cambio il governo in
questione dovrebbe pagare 6.500 euro a migrante rifiutato (la Polonia con 20 milioni
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potrebbe scaricare 3000 rifugiati). I richiedenti asilo saranno assorbiti dagli altri paesi, ai
quali andranno i soldi della “sanzione”. Ieri sera questa soluzione è stata al centro della
discussione, ma resta l’ostilità di molti paesi a permettere ai leader estremisti di pagare
anziché salvare famiglie in fuga dall’inferno siriano. Gli ambasciatori torneranno sul punto
oggi, quindi la palla passerà ai ministri.
Si discute poi cosa fare dei 54mila migranti che l’Ungheria potrebbe ricollocare tra i partner
Ue ma che Orbàn, pur di opporsi alle quote, si terrà in casa. O saranno aumentate le
quote in favore di Italia e Grecia (al momento 39mila e 50mila da ricollocare), oppure
saranno “congelati” per essere prelevati in futuro da chi si troverà in emergenza (Slovenia,
Croazia, Austria).
Non è ancora chiaro a cosa porterà il summit di mercoledì. L’auspicio è che i ministri
domani chiudano sulle quote per permettere ai leader di ritrovare un linguaggio comune e
attutire lo strappo guardando ai punti sui quali c’è accordo. Per questo i premier
parleranno di un pacchetto di assistenza alla Grecia, dove la gestione dei migranti è al
collasso, e di un sostegno economico a Turchia, Giordania e Libano, che ospitano milioni
di siriani. Si parlerà anche di una strategia di lungo termine sulla Siria (ieri il ministro Pinotti
ha detto che sono 87 i foreign fighters collegati all’Italia). Eppure sembra difficile che i
leader solidali, a partire da Merkel, Renzi e Hollande, non si scontrino con quelli estremisti,
Orbàn in testa.
del 21/09/15, pag. 10
Vertice Ue, intesa vicina sulle quote
E gli Usa: ne accoglieremo 100 mila
Bozza di compromesso: sì alla redistribuzione fra gli Stati, senza
obbligo
Marzo Zatterin
Entrano in scena gli «amici della presidenza» e spunta una bozza di compromesso con cui
si prova a salvare la faccia dell’Europa solidale davanti alla drammatica ondata migratoria.
Il Lussemburgo, guida dell’Ue per il semestre, ha assemblato una ricetta per sdoganare il
principio che porta alla redistribuzione 120 mila profughi fra (quasi) tutti gli stati
dell’Unione, eliminando ogni elemento vincolante suggerito dalla Commissione. Centrale
nel caso il ruolo dell’Ungheria. Ha rinunciato alla quota di migranti da cedere e s’è detta
disposta a prenderne in carico sino a 2353. Volontariamente, come gli altri frenatori
dell’Est. Così ha liberato 54 mila posti che potrebbero finire in una riserva, pensata
inizialmente per Italia e Grecia (da cui dovrebbero partire gli altri 66 mila), ma aperta per
aiutare le capitali del fronte sud-orientale.
Si sta cercando di non votare, di non formalizzare la palese spaccatura fra i Ventotto.
Dopo lo scacco di una settimana fa, domani si ritrovano a Bruxelles i ministri degli Interni
Ue. Devono approvare l’impegno di ripartire 120 mila profughi, per consenso o
maggioranza qualificata. Arrivare alla conta e isolare Praga, Bratislava e Bucarest,
sarebbe tuttavia pericoloso, soprattutto perché mercoledì i ventotto leader si rincontrano a
cena proprio con l’idea di discutere una politica estera per limitare i flussi migratori.
La mossa di Kerry
Frau Merkel chiede azione e i più vogliono seguirla. Sarebbe anche una replica alla mossa
solidale dell'amministrazione Obama, che ieri ha rivelato l’intenzione di alzare il numero
dei rifugiati da accogliere sino a 100 mila nel 2017 (da 70 mila). L’annuncio è stato dato a
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Berlino dal segretario di Stato John Kerry, dopo una serie di incontri col governo tedesco.
«Questa decisione - ha spiegato il capo della diplomazia Usa - è in linea con la miglior
tradizione americana di come una terra che offre sempre altre possibilità ed è un segnale
di speranza».
Perché il summit europeo possa essere costruttivo, si deve disinnescare la miccia dei 120
mila. «Anche a costo di annacquare le proposte della Commissione», suggerisce una
fonte. Inevitabile che ai rappresentanti permanenti dei ventotto presso l’Unione sia toccata
una domenica di lavoro. Hanno discusso a fondo le due pagine della bozza di conclusioni
scritte dai lussemburghesi per i ministri degli Interni e le 25 del testo legale in annesso per
la redistribuzione. E’ qui che sono apparsi «gli amici della presidenza», i circa venti stati
che vorrebbero una politica realmente solidale per accogliere i migranti e andare oltre
l’emergenza. Fra giovedì e venerdì «è stato possibile risolvere le principali questioni»,
suggerisce il testo visto da «La Stampa». Restano punti d’attrito e il risultato è aperto.
Eppure a tarda sera non mancavano segni di ottimismo.
La riserva
Budapest rinuncia a cedere i 54 mila che la Commissione le ha assegnato sulla carta il 9
settembre. Lo fa per non essere costretta ad attrezzare gli hot spot, i centri d’accoglienza
all’europea, dice un diplomatico. Per assegnare la quota magiara la presidenza propone di
pensare subito a Italia e Grecia. Oppure di creare una dote per il futuro nell’Europa sudorientale, strada che risulta raccogliere più favori. Eleggibili: Austria, Bulgaria, Romania,
Croazia, Grecia, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Italia.
Niente vincoli
La presidenza ha soppresso le chiavi di distribuzioni (pil etc.) delineate dalla
Commissione, ma ha tenuto i numeri sulle attribuzioni. Così otterrebbe lo stesso risultato
senza creare precedenti e su base volontaria.
Il buy out
La proposta di Juncker stabiliva che, in circostanze speciali, le capitali potessero astenersi
dall’ospitare e pagare lo 0,002% del pil come contributo agli altri. Adesso la bozza elimina
il fattore straordinario e stabilisce che si possa comprare la non ospitalità, in misura del
30% della quota. Al costo di 6500 euro per profugo non preso, la somma che l’Ue versa a
chi invece li accoglie. Quasi una multa.
Hotspot
C’è pressione su Italia e Grecia. Devono assicurare che chi arriva sia identificato e
registrato secondo norma. Tedeschi, francesi, olandesi, belgi e austriaci chiedono
garanzie, soprattutto per evitare flussi secondari, cioè che questo o quel paese lasci
passare i migranti. Vanno inaugurati "senza ritardi", si legge nella bozza di conclusioni
degli Interni. Ma allo sherpa di Berlino ieri non bastava. Nessuno si fida sino in fondo delle
autorità elleniche. E nemmeno delle nostre.
del 21/09/15, pag. 10
Salviamo la libertà di movimento in Europa
L’emergenza migranti rischia di bloccare uno dei principali motori di
crescita dell’Unione: la possibilità di spostarsi liberamente tra Stati.
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Oggi ogni 100 cittadini comunitari, solo 3 risiedono in un Paese diverso
da quello di origine
di Ilaria Maselli
Si stava meglio quando si stava peggio, si sente dire troppo spesso. E invece no, perché
quando si stava peggio gli emigrati italiani abitavano nelle baracche della provincia di
Charleroi, dove oggi atterrano gli aerei di Ryanair, e venivano mandati a lavorare nelle
miniere in Belgio in cambio di carbone. Cinquant’anni dopo gli accordi bilaterali sul
modello gastarbeiter – lavoratori ospiti – l’architettura dei flussi migratori in Europa è assai
cambiata.
Per cominciare, non si parla più di “migrazione” ma di “mobilità”, quando a spostarsi è un
cittadino comunitario. E questa possibilità di spostarsi in un altro Paese dell’Unione
europea è uno dei diritti cardine della cittadinanza europea. L’arrivo dei rifugiati in queste
settimane potrebbe creare il casus belli per limitare la libertà di circolazione sul
Continente.
La difficile situazione finanziaria della Grecia prima, e la crisi dei rifugiati subito dopo,
hanno messo a dura prova la tenuta dell’integrazione europea nel corso degli ultimi mesi.
Il passo dalla controversia sulla distribuzione delle di rifugiati nei diversi Paesi alla richiesta
di limitazioni al diritto di circolazione può essere breve. E, come diceva Giulio Andreotti, a
pensar malesi fa peccato, ma spesso ci si indovina. I segnali purtroppo non mancano:
l’Ungheria di Viktor Orbàan che blocca i treni verso l’Austria, la Danimarca limita quelli
verso la Germania. E, più esplicita di tutte, la proposta del ministro degli Interni della Gran
Bretagna Theresa May di limitare l’arrivo dei cittadini dell’Unione europea a quelli che
hanno già un lavoro, insieme al primo ministro Belga Charles Michel dopo il mancato
attentato sul treno Amsterdam-Parigi.
Diciamolo chiaro: il problema nell’Ue è che di mobilità tra paesi ce n’ è troppo poca e non
troppa! I dati non sono facili da reperire, ma secondo dati Eurostat, l’agenzia statistica
dell’Unione europea, aggiornati al 2012, ogni 100 cittadini comunitari, soltanto 3 risiedono
in un Paese diverso da quello di origine. Il tre per cento equivale all’incirca a 15 milioni di
persone su un totale di 500, più o meno come se tutta l’Olanda fosse abitata da europei di
ogni genere, eccetto gli olandesi. Sono molti? Per slegare la risposta a questa domanda
da considerazioni soggettive, è utile guardare agli Stati Uniti, dove lo stock di residenti in
uno stato diverso da quello di provenienza ammonta al 30 per cento, ben 10 volte il dato
europeo.
Il paragone regge ovviamente fino a un certo punto, in quanto gli Stati Uniti sono un paese
federale a tutti gli effetti i cui cittadini parlano la stessa lingua. Eppure il dato è utile per
capire che la retorica sull’emergenza mobilità non è supportata da riscontri concreti. A
essere di proporzioni limitate non è poi soltanto lo stock ma anche il flusso: secondo gli
stessi dati, a spostarsi oltre i propri confini ogni anno sono all’incirca 1,5 milioni di persone
sui 28 Stati membri, una quantità di persone inferiore a quella degli abitanti di una città di
piccola taglia come Praga. Stupisce quindi la proposta del ministro inglese May dopo che
l’ufficio per il budget ha dovuto rivedere al rialzo le stime sulla crescita del Pil per il 20152016 proprio in reazione all’aumento dei flussi in arrivo.
E in Italia? Si sente sempre più spesso parlare di fuga di cervelli da noi, specie in
direzione della Germania, Paese in cui i dati sull’occupazione sono ad oggi
particolarmente incoraggianti. Sempre nel 2012, circa 60.000 italiani hanno lasciato il
paese per ricollocarsi in un altro stato europeo. Poco più degli abitanti di Rieti!
Le statistiche tedesche analizzate da Benjaamin Elsner e Klaus Zimmermann mostrano
che il flusso netto di cittadini provenienti dai Paesi cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda,
Italia, Grecia e Spagna) è stato di 20.000 unità nel 2010 e di 40.000 nel 2011.
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La tendenza è dunque al rialzo negli anni della crisi, ma i totali sono ben lontani da far
pensare alla mobilità come soluzione agli squilibri occupazionali del continente.
Le cifre sulla mobilità in Europa non giustificano quindi le proposte di limitare il diritto dei
cittadini comunitari a spostarsi senza restrizioni, né tantomeno l’allarme della fuga dei
cervelli. E anche se le cifre fossero diverse e gli allarmi fondati, sarebbe comunque
impensabile cercare di trattenere quelli che si apprestano a partire, perché gli stessi italiani
che fanno la fortuna delle università inglesi o delle aziende olandesi non otterrebbero
risultati altrettanto brillanti in un contesto di elevata disoccupazione e scarsa meritocrazia.
La mobilità va quindi favorita nell’ottica della circolazione dei cervelli: vanno attratti i talenti
di altri paesi e allo stesso tempo bisogna mantenere i contatti con gli italiani fuori. Perché
in un’economia trainata da servizi e tecnologie non si puo pensare che la presenza fisica
sia indispensabile alla creazione di valore aggiunto.
del 21/09/15, pag. 11
Mujica all’Europa: “I migranti?
Una soluzione, non un problema”
L’ex presidente uruguaiano a Expo per parlare di agricoltura
Alberto Mattioli
Nei suoi 80 anni di vita, l’uruguaiano José Alberto Mujica Cordano, per tutti «Pepe», è
stato guerrigliero e ministro, prigioniero politico per 14 anni e Presidente della Repubblica
per cinque, dal 2010 al 2015, durante i quali ha istituito il matrimonio gay, legalizzato la
marijuana ed è diventato un’icona progressista mondiale. Era il «presidente campesino»,
che viveva nella sua fattoria invece che a Palazzo, si era autoassegnato uno stipendio di
800 euro al mese, rifiutava di mettersi la cravatta e si spostava su un vetusto Maggiolino.
Mujica è a Milano per due giorni. Ieri, scortato da Andrea Olivero, viceministro delle
Politiche agricole, ha visitato Expo e inaugurato la mostra su «Un orto nella rete», il
progetto di agricoltura sociale di Snam. Di agricoltura sociale riparlerà anche oggi, sempre
a Expo. Nel frattempo, ancora e sempre senza cravatta, ha dispensato battute e
saggezza. Non tutti sono d’accordo con quel che dice, nessuno nega che lo dica con una
simpatia travolgente.
Presidente, Expo le è piaciuta?
«Per ora ho visto poco, soprattutto molta gente. Però è importante il tema dell’agricoltura.
Perché l’agricoltura è il cibo della gente. E se il cibo l’abbiamo, nessuno se ne cura; se
manca, ce ne accorgiamo subito».
Per questo è venuto a parlare di agricoltura sociale?
«Certo. Ma bisogna prenderla un po’ alla lontana. Il primo esercito professionale fu istituito
a Babilonia o a Baghdad, insomma da quelle parti. Il suo compito era quello di far pagare
la tasse ai campesinos, ai contadini. E la storia è continuata così fino a oggi. Ora è arrivato
il momento di restituire qualcosa ai contadini. Il problema è che siamo tutti urbanizzati
nella testa. Così ovunque nel mondo la gente abbandona le campagne e va in città.
Adesso bisogna urbanizzare le campagne, cioè portare lì i servizi sociali, gli ospedali, le
scuole. Altrimenti in campagna non resterà nessuno».
A proposito di gente che emigra: se fosse un dirigente europeo, cosa farebbe di
fronte alle masse umane che premono alle frontiere?
«Io credo che prima si deve cambiare la testa degli europei, perché capiscano che
l’accoglienza non è una questione di solidarietà. Per secoli, l’Europa ha mandato i suoi
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giovani a popolare il mondo. Adesso gli europei sono sempre più vecchi e fanno sempre
meno figli. La popolazione attiva è ormai minoritaria. Quindi le strade possibili sono due. O
il settore attivo della popolazione aumenta di molto la sua capacità di produrre ricchezza e
di sopportare il peso fiscale, cosa che mi sembra improbabile...»
Oppure?
«Oppure i vecchi del futuro se la passeranno molto male. Per questo dico che è un
problema di mentalità. Passato lo choc, prima gli europei capiranno che l’immigrazione
non è solo un problema ma anche una possibilità e meglio sarà per tutti».
Altro tema di giornata: il suo amico Francesco a Cuba.
«È un’ottima cosa che abbia fatto questo viaggio. E non solo per il mondo cattolico.
Francesco sta combattendo una battaglia per rompere i pregiudizi e abbattere le barriere.
Il suo sforzo di ringiovanire la Chiesa fa bene alla Chiesa ma anche al mondo, è un
tentativo di renderlo più giusto. Per questo simpatizzo con Papa Francesco. Anche se
sono ateo».
C’è chi dice che, quanto a stile di vita, lui si sia ispirato a lei.
«Ma no! Chi conosceva Bergoglio prima che diventasse Papa sa bene come si
comportava. Lui è così. Il suo modo di vivere non è uno spettacolo».
Veniamo a lei. Cosa l’ha resa più fiero dei suoi cinque anni da Presidente?
«Che nel mio Paese la povertà è diminuita».
Ha qualche rimpianto?
«Moltissimi. Come tutti, credo. Noi uomini sogniamo molto di più di quello che riusciamo a
fare».
Nei suoi anni in galera, qual è stato il momento peggiore?
«Credo quando mi dissero che un compagno cui volevo bene era morto».
Ultima domanda: viaggia ancora in Maggiolino?
«Su quel Maggiolino io ci morirò. È talmente vecchio che potrei comprare i pezzi di
ricambio in farmacia! D’altronde ormai sono vecchio anch’io, e un vecchio che va ai 150
all’ora è un pericolo per tutti. Visto che la mia macchina non fa più dei 70, sono tutti al
sicuro. Ma in realtà di Maggiolini ne ho due. Uno è quello che mi fu regalato quando fui
eletto Presidente».
E l’altro?
«L’altro è quello che avevo prima. Ma l’ho prestato a un amico».
del 21/09/15, pag. 17
TURCHIA
Barcone speronato 13 morti,4 bimbi
ROMA. La Guardia costiera greca ha recuperato tra le onde il corpo di una bimba di 6
anni, alla deriva al largo dell’isola di Lesbo. La piccola, ancora senza nome, è una delle
vittime delle tante tragedie che quasi ogni giorno e ogni notte ormai si consumano tra la
Grecia e la Turchia. Solo ieri tredici persone sono morte annegatequattro erano bambini dopo che un traghetto turco ha urtato un barcone carico di migranti al largo della città
portuale di Canakkale, nella Turchia occidentale.
Mentre un altro barcone con 46 persone a bordo si è rovesciato nella notte tra sabato e
domenica al largo di Lesbo: in 20 sono stati soccorsi dalla Guardia costiera greca, ma gli
altri 26 risultano dispersi in mare.
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Ma non accenna a diminuire neanche il flusso della rotta mediterranea verso le coste
italiane. Oltre 2000 persone, soccorse nelle ultime ore tra la Libia e il Canale di Sicilia,
sono sbarcate a Crotone, Reggio Calabria, Porto Empedocle.
del 21/09/15, pag. 18
Alla Manzoni, nel cuore della città, quest’anno le due prime elementari
composte solo da stranieri: qui l’integrazione funziona
Nella scuola che sfida la Lega tutti i bambini
del mondo
BENEDETTA TOBAGI
Mohamed Elvis dal Bangladesh, Maryam dall’Egitto, Youssef dalla Tunisia, Mihidu da Sri
Lanka, Jinhong dalla Cina, Peace e Precious dalla Nigeria, Zohra dal Marocco, Sabina
dalla Romania…per 35 bimbi che hanno iniziato la scuola lunedì scorso, l’“internazionale
futura società” è già qui. Accade a Brescia (nono Comune in Italia per presenza di
stranieri, 36mila su 196mila), nella primaria “Manzoni”, un vecchio edificio ai margini del
quartiere del Carmine. Le strade eleganti del centro distano pochi minuti, come pure i
casermoni dell’ex zona operaia di via Milano e il trambusto della Stazione. Già regno di
ladri e puttane, da vent’anni è uno dei quartieri più multietnici d’Europa (metà dei residenti
sono stranieri di 60 nazionalità diverse), oggetto di tesi e studi scientifici. La mattina,
mezz’ora prima dell’ingresso, il cortile comincia a riempirsi di bimbi: il prescuola non c’è
ancora, ma i genitori lavorano. Poi la processione di mamme: sari, qualche djellaba e ogni
foggia di velo (uno solo integrale, però). Tuniche svolazzanti su pantaloni colorati, le
pakistane stanno tra di loro. Un bimbo di sette anni col turbante dei sikh. Sembra una
periferia di Parigi o Londra, o una vecchia pubblicità di Benetton. La Manzoni è diventata
un “caso” perché nelle due prime tutti gli alunni sono stranieri ( sebbene alcuni abbiano
cittadinanza italiana), ma la situazione matura da anni: i genitori italiani, spaventati dalla
crescente concentrazione di stranieri, sono fuggiti nelle paritarie di zona o in altri distretti,
accelerando il processo. Come invertire questa polarizzazione, o far rispettare i “tetti” di
cui parla Salvini? Gli stranieri sono colonne portanti dell’economia e i loro bambini hanno
diritto di studiare. Privare i genitori italiani della facoltà di scegliere la scuola dei figli?
Varca i cancelli la terza mamma con quattro bambini: ecco i tassi di natalità che faranno
dell’Italia intera un Paese multietnico. Non è un “caso”, questo, ma un laboratorio in cui
osservare uno spaccato del futuro, le sfide che pone, le buone pratiche per affrontarle.
Dopo aver cantato insieme, i bambini di prima siedono per gli esercizi preparatori alla
scrittura. «Vanno ad annate come il vino, fermo o frizzante» scherza Rebecca,
coordinatrice d’istituto, «quest’anno sono calmi per fortuna ». Si respira un’aria serena, ma
la situazione è complicata. «Posso andare in bagno?» chiede con un filo di voce Viktoria,
ucraina: l’ha appena imparato. Insieme a Maksim, bielorusso, è una dei sei nuovi allievi
che non sanno l’italiano; 32 in tutto, distribuiti sui cinque anni, ma ne arriveranno ancora.
La competenza linguistica degli altri è disomogenea. In questi casi, si usa distaccare un
docente per una decina d’ore la settimana: insegna la lingua a piccoli gruppi mentre gli
altri fanno storia o italiano, e in ore come musica o ginnastica si sta tutti insieme, mi spiega
Eugenio, maestro dall’82, per molti anni “alfabetizzatore” alla Manzoni. Funziona, ma
costa. Per ora non c’è nulla: il provveditorato comunicherà le risorse stanziate dal Miur tra
ottobre e novembre, dicono. Anche se le richieste sono state presentate già la scorsa
primavera, elaborate d’intesa con i Centri Territoriali per l’Integrazione, ideati 11 anni fa da
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una maestra bresciana al provveditorato. Purtroppo, mi spiega un’addetta, i fondi l’anno
scorso erano solo la metà rispetto al 2003-2005, anche se nel frattempo gli stranieri sono
triplicati. Per di più, l’organico delle tre primarie di Brescia centro è stato ridotto. I genitori
fuggono anche per questo: le maestre devono star dietro a tutti e un bambino italiano,
temono, “perderebbe tempo”. Le risorse del Comune, che pure s’impegna molto, si sono
assottigliate: sono mancati i soldi per portare i bimbi in piscina. Davvero “tagliare le tasse è
di sinistra” se si toglie ossigeno ai sindaci, sulla pelle dei più deboli? Qui il disagio sociale
è palpabile. Solo 12 neoarrivati sono iscritti alla mensa: costa troppo. Tanti vengono da
famiglie povere, figli di operai non specializzati (nel bresciano lo è uno straniero su 5),
sottoccupati, senza lavoro. Sono i nuovi ragazzi della scuola di Barbiana. L’istituzione non
è più classista e autoritaria come ai tempi di don Milani, anzi, cerca di colmare i divari: non
chiedono ai genitori risme e carta igienica, spiega la dirigente, ma usano la coperta
cortissima dei fondi per pagare uscite scolastiche e materiali, a discapito di altro. Le
lavagne interattive sono una chimera: ce n’è una sola. Spesso le maestre contribuiscono
di tasca propria. A Brescia, per fortuna, c’è una forte la rete di solidarietà. Oratori come S.
Faustino e S. Giovanni o centri d’aggregazione giovanili come “Carmen Street” dei padri
maristi sono aperti a tutti, musulmani inclusi. I volontari vanno a prendere i bambini alle
16:30 e li tengono fino a sera, offrendo sport, giochi, l’assistenza sui compiti che i genitori
non saprebbero dare. Qui i piccoli allievi della Manzoni possono mescolarsi agli italiani:
fondamentale per una vera integrazione, che non è solo parlare la lingua. In questo senso,
la scuola primaria ha un’altra ricaduta sociale importante. I maestri, infatti, “educano” di
fatto anche molti genitori stranieri. Rischia di suonare razzista, ma sono alcuni di loro a
creare i maggiori problemi, confessa Eugenio: la mamma nigeriana convinta che i
maschietti vadano sempre serviti, il papà che mette mano alla cinghia. Le maestre
Barbara S. e Maria T. ricordano l’opera paziente di persuasione sui genitori musulmani
che non accettavano la mescolanza tra maschi e femmine o non volevano mandare la
figlia in piscina, le mediazioni sull’uso del velo per le più piccole. Servono tempo,
pazienza, apertura. E risorse. In attesa che dall’alto si ricordino di loro, gli insegnanti
vivono il lavoro come una missione. Fanno le nozze coi fichi secchi: percorsi condivisi
bambini-genitori, laboratori sulla cucina e le favole dal mondo, didattica conversazionale;
l’anno scorso con le quinte (una sola bambina italiana) hanno persino fatto un musical.
Mostrano spezzoni del loro “Grease” alla festa d’accoglienza per i genitori dei nuovi
arrivati; ce n’è più della metà: un buon risultato. Tra loro un’ex allieva dominicana: oggi
ventottenne, ha iscritto qui la prima figlia, «perché sono bravissimi».
Certo, alcune zone della città non sono più linde e tranquille come vent’anni fa, ma a
Brescia, a dispetto delle polemiche leghiste, l’integrazione funziona, e la scuola ha fatto la
differenza. Uscita dalla Manzoni, ai tavolini di un bar del centro vedo un crocchio
multietnico di adolescenti. Il maestro Eugenio si ferma, scherza con un ragazzo di colore,
suo ex allievo. Era un bambino tolto alla famiglia, mi spiega (la Manzoni ha nel bacino
d’utenza anche due istituti per minori in affido): poteva diventare un “caso”, invece sta
benissimo e ha appena iniziato le superiori. I problemi non affrontati alle primarie si
ripropongono alle medie, amplificati. Il fenomeno delle “gang” qui non esiste ancora. I
problemi sono grandi, i dilemmi continui. Vogliamo governare la complessità, investendo in
buone pratiche sul modello di Brescia e altre realtà, oppure – tra tagli mascherati e
speculazione sulla paura - scivolare verso i divari abissali della società statunitense?
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SOCIETA’
del 21/09/15, pag. 31
Lo rivela uno studio: le tribù di abitudinari e viaggiatori sono
contrapposte dal Neolitico.È la “rivalità” più antica dell’uomo
Nomadi o stanziali dalla preistoria non siamo
mai cambiati
MARINO NIOLA
SONO PASSATI dodicimila anni, ma gli uomini sono rimasti quelli di una volta. Divisi in
due tribù. Nomadi e sedentari. Esploratori e abitudinari. Proprio come all’inizio del
Neolitico. Alla faccia della globalizzazione, della mobilità no limits, dei voli low cost e del
turismo di massa.
A dirlo è uno studio di Kdd Lab dell’Università di Pisa, condotto insieme all’Istituto di
scienze e tecnologie dell’informazione del Cnr pisano e al Centro di ricerca sulle reti
complesse Barabasi Lab di Budapest e Boston. I risultati sono stati appena pubblicati su
Nature Communications . Gli scienziati hanno incrociato una mole imponente di dati, i
cosiddetti Big Data, sulla mobilità umana. Che vanno dalle tracce Gps delle nostre
automobili al traffico telefonico di centinaia di migliaia di persone, i cui movimenti sono
stati monitorati nell’arco di vari mesi. Lo scopo dell’indagine era di confrontare il raggio di
mobilità ricorrente, vale a dire quello relativo ai soli spostamenti quotidiani, per esempio tra
l’abitazione e l’ufficio, con il raggio di azione totale, cioè l’insieme di tutti i nostri transfer,
grandi e piccoli, abituali e occasionali. Ebbene, i ricercatori hanno scoperto che le persone
tendono naturalmente a dividersi in due tipologie antropologiche ben distinte. Ciascuna
con i suoi usi e costumi. Con i suoi totem e tabù.
Il primo gruppo è quello degli abitudinari, soprannominati anche i ritornanti. Perché hanno
la tendenza a tornare sempre sui propri passi. La loro è una territorialità limitata. Non
amano le deviazioni, fanno ogni giorno la stessa strada e se possono frequentano sempre
gli stessi locali. Una vita a chilometro zero. Colazione al solito bar, giornale preso al volo
all’edicola sotto casa, palestra di quartiere, spesa nel supermercato più vicino. E la
domenica a pranzo da mammà. O, quando osano, nella trattoria fuori porta, dove li
conoscono da una vita e non c’è nemmeno bisogno di ordinare, tanto i camerieri hanno in
memoria gusti e disgusti del cliente. Sedotti e forse anche sedati dal solito tran tran, i
ripetenti sono sempre alla ricerca di consuetudini e di certezze. Per loro la routine non ha
niente di negativo. Significa né più né meno di quel che dice la parola stessa, che viene
dal francese
route e vuol dire strada battuta. Un percorso collaudato che non c’è ragione di
abbandonare e che diventa un placebo esistenziale.
L’altra tipologia umana è quella degli esploratori. La cui mobilità ricorrente è solo una
minima parte di quella complessiva. Che si dirama di qua e di là e cambia continuamente.
Al centro ci sono gli spostamenti obbligati, casa-lavoro e ritorno. Ma intorno a questo
nucleo, gli itinerari dei globetrotter si allungano in tutte le direzioni, fino a formare una
stella con un numero di raggi potenzialmente infinito. E soprattutto imprevedibile. Perché
se c’è una cosa che fa venire l’orticaria al tipo explorer, è il già fatto e il già visto. Al
minimo accenno di routine l’anima nomade si sente chiusa in una gabbia. E l’unica cosa
che desidera è evadere per rimettersi on the road.
E dire che le due tribù si ignorano è quasi un eufemismo. In realtà non si prendono
neanche di striscio. E sembra proprio che non si piacciano. La loro differenza e diffidenza
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reciproca arriva fino alle soglie dell’apartheid. Gli scienziati parlano di omofilia sociale per
definire l’inclinazione endogamica delle due orde. Sia quella inerziale dei pantofolai, che
vivono sempre con il freno a mano tirato e frequentano i loro simili. Sia quella dei
giramondo che sono perennemente ed esclusivamente connnessi con altri giramondo.
Come dire che chi si somiglia si piglia.
E non è tutto. Perché dopo aver mappato accuratamente i comportamenti del popolo
nomade e di quello sedentario, il team di ricerca ha sviluppato un modello matematico in
grado di simulare la nostra mobilità. Nonché di prevedere e prevenire l’impatto delle nostre
scelte, sia individuali sia di gruppo, in materia di inquinamento ambientale, di consumo
energetico e di pianificazione urbana. Come dice Fosca Giannotti del Cnr, con questi
strumenti di rilevazione e di proiezione saremo in grado di programmare meglio il nostro
futuro. Per esempio di capire se una infrastruttura viaria serve davvero o se è una
cattedrale nel deserto.
Quello che balza agli occhi degli osservatori dell’uomo è che millenni di sedentarizzazione
non sono riusciti a cambiarci del tutto. E meno che meno a cancellare quell’istinto nomade
che, secondo il grande scrittore inglese Bruce Chatwin, modella carsicamente il carattere
di molti individui. Evidentemente né la rivoluzione agricola, né quella industriale, né
tantomeno la massiccia urbanizzazione di oggi sono riuscite a fermarci del tutto. Anche se
non ci muoviamo in carovane ma in caravan. Non andiamo più in giro con la tenda ma con
Be Welcome. Nomadi digitali in cerca di una vita di quelle che non si sa mai.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 21/09/15, pag. 17
Infrastrutture. Uno studio di Ref Ricerche evidenzia il gap nella gestione
del servizio rispetto l’Europa
L’acqua ha bisogno di più risorse
Nel 2014 investiti 1,8 miliardi ma la spesa dovrebbe triplicare
Una corsa ad ostacoli che colmare il gap infrastrutturale che nel settore idrico integrato ci
separa dall’Europa. Tra gli ostacoli principali c’è il nodo dei finanziamenti che negli ultimi
anni ha avuto un andamento altalenante: lo scorso anno sono ritornati a quota 1,8 miliardi
(+14% rispetto al 2011) mentre nel 2013 si erano fermati a circa 1,4 miliardi. Un rimbalzo
non sufficiente per raggiungere gli oltre 1,9 miliardi del 2008, l’anno migliore nel recente
passato. Di questi fondi meno di un terzo, circa 430 milioni, proviene da contributi pubblici.
Ma queste risorse che nel corso degli ultimi anni hanno avuto un trend al ribasso.
Questo il quadro che emerge da uno studio, realizzato dal Laboratorio servizi pubblici
locali di Ref Ricerche in collaborazione con Utilitalia, che oggi viene presentato nel corso
di una tavola rotonda che si svolge a porte chiuse. Saranno presenti i vertici di multiutility e
multiservizi, banche e fondi. Il tema dei lavori riguarda il rapporto tra regole, piani di
sviluppo e investimenti.
Investimenti che nonostante gli alti e bassi soddisfano Donato Berardi, partner di Ref
Ricerche e direttore del laboratorio. «Il ritorno a 1,8 miliardi è un segnale che conferma il
giudizio positivo degli investitori per le regole espresse dall’Aeegsi - spiega -. Ma il
fabbisogno reale è molto maggiore e gli investimenti dovrebbero triplicare perché solo così
potremmo recuperare quei deficit infrastrutturali che ci separano dagli altri paesi europei».
Basta scorrere i dati degli investimenti per abitante/anno. Nel nostro paese nel 2014 si è
arrivati a 34 euro contro i 120-80 di Regno Unito e Usa.
Il male dell’Italia è quello di una rete che fa acqua, dove solo gli operatori più grandi, quelli
che servono oltre un milione di abitanti, riescono a fare degli investimenti, circa il 70% del
totale. Il restante è ad appannaggio dei gestori medio-piccoli: qui c’è chi riesce a
programmare interventi e altri con una capacità di spesa in conto capitale quasi nulla. «Il
modello migliore, quello da adottare, è quello della “gestione unica di ambito” prevista nel
decreto Sblocca Italia - aggiunge Berardi -. Si dovrebbe passare dalle oltre duemila
gestioni di oggi a un centinaio di Ambito territoriale ottimale (Ato ndr), che potrebbero
coincidere con le province».
Percorrendo questa via si riuscirebbe a colmare il deficit nella depurazione, il carico
trattato arriva solo all’79%, arrivare al 100% di copertura della popolazione per
acquedotto. Senza dimenticare che ora le perdite della rete arrivano, in media, a più del
37% contro il 32% del 2008 con punte record vicine al 50% nel Sud. Non molto diversa la
situazione nella depurazione dove i ritardi delle regioni ci possono costare, dal 2016, oltre
480 milioni di sanzioni comunitarie.
Per smuovere le acque e raggiungere un livello di servizio idrico vicino agli standard
europei, dice lo studio, si dovrebbe investire 5 miliardi l’anno. «Una volta recuperati i costi
pregressi, per finanziare gli investimenti sarà sufficiente un aumento delle tariffe di un
terzo in dieci anni» aggiunge il direttore. Quello del recupero dei costi del servizio da anni
è un nodo spinoso perché da sempre nel Mezzogiorno, le tariffe sono state
artificiosamente tenute al minimo senza contare la quota di evasione.
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In condizioni a regime grazie alle nuove risorse si potrebbe mettere mano e ammodernare
le infrastrutture (reti idriche, fognarie e impianti di depurazione) il cui valore pro capite è
calcolato in 240 euro. Ben poca cosa rispetto ai 1.400 euro dell’Inghilterra.
Piani d’investimento più coraggiosi non solo permetterebbero di recuperare il gap verso i
paesi europei più avanzati ma darebbero in più una decisa spinta al Pil e all’occupazione.
Ref stima che per ogni miliardo speso nel miglioramento del sistema idrico nazionale
genera un aumento del Pil superiore ai due miliardi e porta alla creazione di circa 16mila
nuovi posti di lavoro.«È il frutto di un’analisi prudenziale - aggiunge Berardi -. Con 90 euro
per abitante l’anno si potrebbe arrivare nell’arco di un decennio a una crescita del Pil pari
a 6-7 punti percentuali e alla creazione di 185mila occupati l’anno».
Per il momento i Programmi d’intervento 2014-2017 dei principali gestori puntano su opere
strategiche che migliorano la qualità del servizio. Su Roma (Ato 2)l’Acea prevede opere
per 528 milioni, a Torino (Ato 3) la Smat adegua e potenzia le infrastrutture con 416
milioni. La Metropolitana Milanese nel capoluogo rinnova una parte della vecchia rete
dell’acquedotto, delle fognature e alcune centrali con un piano da 200 milioni. A Genova
l’Iren punta alla depurazione con oltre 210 milioni mentre l’Acquedotto pugliese punta al
risanamento e potenziamento della rete.
[email protected]
Enrico Netti
del 21/09/15, pag. 17
Entrate. A fine mese l’udienza al Consiglio di Stato sul metodo deciso
dall’Authority
Quattro anni di conflitti sul calcolo della
tariffa
Oltre ai tavoli di gestori e banche, il tema degli investimenti nelle reti e nelle infrastrutture
idriche occupa stabilmente l’agenda dei giudici amministrativi, e la partita è in pieno corso.
La parola decisiva tocca al Consiglio di Stato, che dopo il primo via libera dato dal Tar
l’anno scorso dovrà decidere la sorte del metodo tariffario e, di conseguenza, quella
dell’architettura costruita per tornare a coprire i progetti di investimento.
Visto il ruolo di primo piano che ricopre, il “fronte giudiziario” non può essere dimenticato
quando si prova a indovinare il futuro del servizio idrico e delle sue gestioni. Perché
qualsiasi investimento nasce da una programmazione che si nutre ci certezze, e in questo
campo le certezze mancano, a essere generosi, da quattro anni e mezzo.
La storia infinita del braccio di ferro sul metodo tariffario nasce con il referendum del 2011,
che in nome dell’«acqua pubblica» portò 26 milioni di italiani a cancellare la norma con cui
si prevedeva la determinazione della tariffa anche sulla base «dell’adeguatezza della
remunerazione del capitale investito». Il presupposto referendario che non si potesse “fare
business” sull’acqua ha polverizzato il vecchio «metodo normalizzato», che prevedeva una
remunerazione standard degli investimenti (il 7%) e di conseguenza consentiva, in caso di
condizioni favorevoli, di ottenere dagli utenti anche somme aggiuntive rispetto ai costi di
ammortamento degli investimenti.
All’apertura delle urne, insomma, il servizio idrico si è trovato privo di un parametro di
sostegno economico e, vista la situazione, anche di un più generale quadro regolatorio. Il
compito è stato allora affidato all’Autorità per l’energia elettrica e il gas che, dopo le ovvie
difficoltà iniziali nel mettere piede in un settore completamente diverso da quelli di cui fino
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ad allora si era occupata, si è attrezzata per riempire il vuoto e imboccare la via stretta tra
due esigenze: rispettare l’esito del referendum, e non azzerare le possibilità di sviluppo di
un servizio già caratterizzato da un cronico deficit di infrastrutture, come impone anche il
principio europeo della «full cost recovery» in base al quale la tariffa deve coprire tutti i
costi, investimenti compresi.
Nasce da qui il nuovo metodo tariffario che, a farla semplice, poggia su due principi: il
sostegno (determinato a posteriori) dei «costi effettivi» sostenuti per la gestione ordinaria e
per gli investimenti e l’esigenza di garantire una programmazione con il fondo per i?«nuovi
investimenti», pensato anche per garantire compensazioni per gli utenti in difficoltà
economiche. Anche su questo nuovo impianto si è scatenata la polemica, che si è tradotta
nei ricorsi: a marzo 2014 il Tar Lombardia ha “promosso” il nuovo metodo tariffario, ma la
battaglia si è spostata al Consiglio di Stato, dove l’udienza è in programma a fine mese.
Ma non fioriscono solo sulla tariffa le incertezze che continuano ad alzare ostacoli agli
investimenti. Un altro fronte eternamente critico è rappresentato dalla geografia dei
gestori: come per gli altri servizi a rete, fin dal 2011 è previsto il passaggio di tutte le
competenze agli ambiti territoriali ottimali, anche con l’obiettivo di favorire la creazione di
gestori più grandi, quindi più solidi sul piano economico, e dunque maggioramente in
grado di offrire garanzie a chi finanzia gli investimenti. In sei Regioni su 15 a Statuto
ordinario, però, i nuovi enti di governo non sono stati istituiti, al punto che il Governo ha
attivato l’iter che può portare al commissariamento.
E la stasi costa. Per capirlo basta andare con la mente a un altro tema idrico che in
passato ha impegnato i giudici su su fino alla Corte costituzionale: quello della
depurazione. Da gennaio l’Italia comincerà a pagare le multe europee per i buchi che
ancora presenta in questo ambito, e che può colmare solo con nuovi investimenti.
Gianni Trovati
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ECONOMIA E LAVORO
del 21/09/15, pag. 15
Allarme privacy per il Jobs Act l’Authority
teme pioggia di ricorsi
VALENTINA CONTE
IL CASO
ROMA.
Che fine hanno fatto? Gli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act - ammortizzatori,
politiche attive, semplificazioni, attività ispettive - sono stati approvati dal Consiglio dei
ministri del 4 settembre. Ma da allora se n’è persa traccia. Incalzato, il governo da poco ne
ha pubblicato i testi ufficiosi sul sito (e così anche il ministero del Lavoro). Si attendeva,
spiegano da Palazzo Chigi, la firma del presidente della Repubblica. Mattarella in realtà li
ha vergati quasi subito dopo averli ricevuti, in ritardo, il 14 settembre, dieci giorni dopo il
varo e a un soffio dalla scadenza del 16. Ma i testi veri, ufficiali, non sono ancora
pubblicati in Gazzetta ufficiale, dunque non sono in vigore. Com’è finita allora la vicenda
dei controlli a distanza, la norma più dibattuta del pacchetto?
A quanto pare, male per il Parlamento. Il governo ha tenuto la sua formulazione originaria
di giugno, senza toccare nemmeno una virgola. E senza tenere conto delle
raccomandazioni non solo delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, ma neanche dei
caveat dell’Authority per la privacy nella doppia audizione parlamentare. Al punto che ora
la stessa Authority, sin qui prudente in attesa dei testi definitivi, teme l’avanzare di un
contenzioso infinito. I lavoratori che ritengono di essere stati spiati in violazione della loro
privacy e per questo sanzionati o licenziati proveranno la carta difensiva dell’Autorità.
Eventualità che non nasconde neanche Palazzo Chigi. «Il testo della norma richiama il
codice della privacy, dunque non saranno fatti controlli di massa su tablet, portatili e
smartphone, ma a campione », spiega un collaboratore del premier. «E l’Authority può
intervenire come vuole, se ritiene ci sia un uso distorto dei dati, ma anche i lavoratori
potranno farne ricorso». Un bel groviglio.
La norma pare non ben scritta, i suoi buchi possono aprire voragini. Lo ha fatto capire in
più occasioni lo stesso Garante per la privacy, Antonello Soro, che nel discorso sulla
Relazione annuale, lo scorso 23 giugno, richiamava l’esigenza di «solide garanzie per
evitare che i dati vengano usati “contro di noi”». Chiedendo una «cornice» di queste
garanzie proprio al Parlamento. «Un più profondo monitoraggio di impianti e strumenti non
deve tradursi in una indebita profilazione delle persone che lavorano», insisteva.
Esortando a «coniugare l’esigenza di efficienza delle imprese con la tutela dei diritti».
Parole cadute nel vuoto, mentre la tecnologia fa passi da gigante, con telecamere
intelligenti e sistemi di geolocalizzazione sempre più potenti e intrusivi.
Dove finisce il controllo, si chiederà il lavoratore, visto che il cellulare me lo porto a casa?
E poi cosa controlli: a chi scrivo, con chi parlo, ma anche quello che dico su Skype, ad
esempio? Confini laschi, non tracciati ma lasciati aperti dal Jobs Act. «Tanto rumore per
nulla», scrive il senatore pd Pietro Ichino sul suo blog. Per 25 anni si sono usati cellulari,
pc e gps aziendali - è il ragionamento - senza consenso dei sindacati né loro proteste.
Senza casi giudiziali, né interventi dell’Authority. Il Garante gli risponde che non è un
problema di sindacati, quanto di «effettiva estensione e pervasività di questi controlli». E di
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utilizzo dei dati «per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro». La novità (e il punto) è
questa.
del 21/09/15, pag. 11
Evasione
Oltre 91 miliardi sottratti all’erario, 40 solo di
Iva Al Nord record di imposte non pagate. Il
caso Imu
ROMA L’evasione fiscale da sola, senza contare quindi quella sui contributi sociali (Inps,
Inail), sottrae ogni anno alle casse pubbliche più di 91 miliardi di euro. I «valori più elevati
di evasione si attestano nelle regioni settentrionali», perché sono le più ricche, mentre la
più alta «propensione all’evasione» si riscontra nel Mezzogiorno. L’imposta più evasa è
l’Iva, dove l’Italia è anche ai primi posti in Europa, battuta solo da Grecia, Slovacchia,
Lituania e Romania. Tra le ditte individuali, i campioni dell’evasione sono i commercianti.
Infine, nonostante si affermi che è difficilissimo evadere sugli immobili, esiste anche
un’evasione sull’Imu. Questi i principali contenuti del «Rapporto sui risultati conseguiti in
materia di misure di contrasto all’evasione fiscale», allegato alla nota di aggiornamento del
Documento di economia e finanza approvato venerdì dal Consiglio dei ministri.
Il rapporto previsto dalla legge di Stabilità 2013 e giunto quest’anno alla seconda edizione
disegna una mappa dell’evasione dalla quale emerge tra l’altro come, nonostante gli sforzi
fatti, si sia abbassato di poco negli ultimi dieci anni il livello di « tax gap », ovvero «la
differenza tra l’ammontare del gettito teorico di ciascuna imposta e l’ammontare del gettito
effettivamente riscosso». Secondo la tabella di pagina 61 del Rapporto, consultabile sul
sito del ministero dell’Economia, il tax gap medio nel quinquennio 2001-2006 era di 93,5
miliardi all’anno, un valore sceso a 91,3 miliardi nel quinquennio 2007-2013, pari al 6,6%
del Prodotto interno lordo. L’imposta più evasa resta l’Iva, che da sola sottrae alle casse
del Fisco più di 40,2 miliardi di euro all’anno rispetto al gettito che si avrebbe senza
evasione. Il mancato introito di Irpef e Ires viene calcolato insieme e dà una somma di
quasi 44 miliardi mentre l’evasione sull’Irap è pari a 7,2 miliardi.
Nel complesso il tax gap ammonta a circa 47,4 miliardi al Nord (il 54% del totale) , 24,4
miliardi al Centro (27%) e 19,5 miliardi al Sud (21%). Questo perché, dice la relazione,
l’evasione «tende a concentrarsi maggiormente nelle aree del Nord dove si colloca anche
la quota maggiore di valore aggiunto prodotto dal Paese». Quanto alla propensione a non
pagare le tasse sono invece le regioni meridionali che «manifestano livelli più elevati di
intensità di evasione, che in alcuni casi sfiora il 60% (60 centesimi di gettito evaso per ogni
euro regolarmente versato)». Il rapporto contiene anche una stima del tax gap Irpef-Irap
per le ditte individuali. A evadere di più sono i commercianti (27.644 euro l’imponibile
medio non dichiarato) seguiti da lavoratori autonomi e professionisti (10.829 euro).
Sorprendente, infine, il tax gap sull’Imu 2013: 5,6 miliardi, «pari al 28,5% del gettito Imu
teorico». A livello regionale l’evasione è più elevata nel Mezzogiorno e minore nel resto
d’Italia, «variando dal 40,5% del gettito teorico in Calabria al 12,6% in Valle d’Aosta».
Il rapporto indica anche la quota di maggiori entrate derivanti da lotta all’evasione fiscale
che deve andare a riduzione della pressione fiscale. Tenuto conto dei risultati ottenuti e
dei limiti fissati dalla legge (deve trattarsi di entrate aggiuntive e permanenti) il bilancio è
davvero magro. Per il 2015, infatti, le maggiori risorse rispetto agli incassi permanenti
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ottenuti nel 2014 sono stimate in appena 143 milioni di euro. Se li suddividiamo per 40
milioni di contribuenti, fa tre euro e mezzo a testa.
Enrico Marro
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