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RASSEGNA STAMPA lunedì 21 settembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it – Corriere Sociale del 18/09/15 Vittima della tratta ingannate, abusate e rimpatriate in Nigeria. Arci: «Politica cinica» di Eugenio Terrani ROMA - Dopo essere sopravvissute al viaggio della speranza a bordo di un barcone sono finite in strada, vittime della tratta. Hanno subito ripetuti abusi prima di finire nel Cie romano di Ponte Galeria, a luglio. Ora venti di quelle 66 donne sono state imbarcate su un aereo e rispedite in Nigeria. GLI ABUSI Erano arrivate in Sicilia sul barcone, alla fine di un viaggio non pagato perché i trafficanti aveva già programmato per loro un futuro sulle strade. «Dopo lo sbarco nessuno le aveva informate sulla possibilità di presentare richiesta d’asilo» fa sapere l’Arci. «Eppure i segni delle violenze subite erano ben evidenti sui loro corpi e raccontavano storie di abusi sessuali e psicologici». IL RIMPATRIO Dopo mesi di viaggio attraverso Nigeria, Niger e Libia pensavano di essere fuggite dall’orrore. «Alcune di queste donne sono state violentate anche dalla polizia nelle carceri di Zwara» hanno raccontato i volontari delle associazioni cui era stato concesso l’ingresso nel Cie e che le hanno informate sui loro diritti. La richiesta di protezione è stata accolta solo per quattro di loro, mentre per le altre è scattato l’ordine di rimpatrio. La Nigeria di Boko Haram è infatti nella lista dei paesi “sicuri” e a fermarne il rimpatrio non è bastata nemmeno la richiesta di sospensiva del tribunale che stava analizzando le richieste. «ITALIA INSENSIBILE» «Nell’esprimere la nostra amarezza – si legge in una nota dell’Arci – la nostra preoccupazione per la sorte che attenderà in patria queste giovani donne già così duramente provate, non possiamo che biasimare l’Italia, la sua insensibilità morale e politica, la superficialità con cui vengono trattati anche i casi più dolorosi. Del resto già l’Europa più di una volta ha stigmatizzato il nostro paese per le espulsioni illegittime. Eppure nulla sembra mutare. Di fronte alla marea umana che preme alle frontiere del nostro continente, le istituzioni europee e italiane non riescono a trovare una posizione comune per garantire accoglienza e integrazione, dimostrandosi ancora una volta inadeguate e ciniche». http://sociale.corriere.it/vittima-della-tratta-ingannate-abusate-e-rimpatriate-in-nigeria-arcipolitica-cinica/ Da Articolo 21 del 18/09/15 Vittime di tratta, rimpatriate in Nigeria, paese ‘sicuro’. L’Arci denuncia il cinismo e 2 l’insensibilità politica e morale delle autorità italiane Imbarcate su un aereo e rispedite in Nigeria. Si è chiusa nel peggiore dei modi la vicenda di almeno venti delle 66 donne nigeriane da luglio rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Arrivavano dalla Sicilia, dove erano sbarcate dopo il solito viaggio sui barconi gestiti dai trafficanti di esseri umani, viaggio che non avevano pagato perché c’era chi per loro aveva già programmato un futuro sulle strade, merce da immettere nel mercato del sesso. Nessuno, dopo lo sbarco, le aveva informate sulla possibilità di presentare richiesta d’asilo, eppure i segni delle violenze subite erano ben evidenti sui loro corpi e raccontavano storie di abusi, sessuali e psicologici. Da questo orrore pensavano di essere finalmente fuggite, dopo mesi di viaggio attraverso la Nigeria, il Niger, la Libia. Alcune violentate anche dalla polizia nelle carceri di Zwara, come hanno raccontato ai volontari delle associazioni cui era stato finalmente concesso l’ingresso nel Cie e che le hanno informate sul loro diritto a chiedere asilo. Ma la richiesta di protezione è stata accolta solo per quattro di loro, mentre per le altre è scattato l’ordine di rimpatrio. La Nigeria di Boko Haram è infatti nella lista dei paesi ‘sicuri’ e a fermarne il rimpatrio non è bastata nemmeno la richiesta di sospensiva del Tribunale che stava analizzando le richieste. Nell’esprimere la nostra amarezza, la nostra preoccupazione per la sorte che attenderà in patria queste giovani donne già così duramente provate, non possiamo che biasimare l’Italia, la sua insensibilità morale e politica, la superficialità con cui vengono trattati anche i casi più dolorosi. Del resto già l’Europa più di una volta ha stigmatizzato il nostro paese per le espulsioni illegittime. Eppure nulla sembra mutare. Di fronte alla marea umana che preme alle frontiere del nostro continente, le istituzioni europee e italiane non riescono a trovare una posizione comune per garantire accoglienza e integrazione, dimostrandosi ancora una volta inadeguate e ciniche. http://www.articolo21.org/2015/09/vittime-di-tratta-rimpatriate-in-nigeria-paese-sicuro-larcidenuncia-il-cinismo-e-linsensibilita-politica-e-morale-delle-autorita-italiane/ Da Huffington Post del 20/09/15 Elezioni Grecia. Alexis Tsipras vince per la terza volta. Ma con meno gente (FOTO, VIDEO) "Ora dobbiamo continuare la lotta iniziata 7 mesi fa e governeremo per i prossimi 4 anni! La nostra bandiera e quella di Anel è quella dell'onestà". Pochi minuti di discorso, camicia bianca come sempre, il sudore della tensione e del caldo di Atene, Alexis Tsipras arringa la folla radunata al tendone di Syriza in piazza Klothmonos, a due passi da Syntagma. È la sua 'terza' vittoria da quando è in sella al governo ad Atene: le elezioni di gennaio, il referendum di luglio e queste elezioni di settembre. Vince nonostante la scissione di Syriza. Ma vince con meno gente. Non è solo il dato dell'astensionismo, in aumento di dieci punti rispetto al 64 per cento di elettori che si sono recati alle urne a gennaio. C'è anche quello della piazza. A Klothmonos c'è una folla tutto sommato ridotta. Molto ridotta rispetto a quella della sera del 5 luglio scorso, la sera dell'oxi, no alle richieste della Troika, quando Atene fu inondata 3 da fiumi di folla festante ovunque. Ma questo Tsipras se lo aspettava. Non a caso, parlando dal piccolo palco improvvisato, promette: "La crescita arriverà aiutando i più deboli...". Punta a riconquistare chi non ci ha creduto. Lui invece non ha mai avuto dubbi. Nonostante i sondaggi che lo davano testa a testa col neo leader di Nea Demokratia Vangelis Meimarakis. "Vinceremo", ha anticipato stamane incontrando la delegazione italiana di Sel, guidata dal capogruppo alla Camera Arturo Scotto. Calmo e sicuro, contento anche del recente gemellaggio tra una squadra di calcio greca, il Panathinaikos, e la Roma, che "è una grande squadra", ha detto il premier uscente e rieletto ai vendoliani. 'Bella ciao' immancabile, i canti greci di lotta, Patti Smith e la sua altrettanto immancabile 'People have the power', la bandiera degli italiani de 'L'altra Europa con Tsipras' che non smette di ondeggiare nella e sulla folla. In piazza lo aspettano così. Niente di nuovo e tanta felicità. Lui è breve nel discorso, pur caloroso. Ed è breve anche nelle decisioni sul governo. Il dato elettorale è chiaro: a Syriza vanno 145 deputati. Gliene mancano 5 per la maggioranza. Tsipras non ha dubbi nemmeno in questo caso: stesso governo di prima, con Anel. E la folla di sinistra resta festante anche quando il leader chiama sul palco Panos Kammenos, l'ex ministro della Difesa, leader della formazione di destra anti-Troika Anel, tutta voto religioso ortodosso e dei militari. Già stanotte l'incontro con lui per formare il governo. Veloce. Come veloce è stata tutta questa storia: memorandum, scissione, dimissioni, voto anticipato. Tutto in poco più di due mesi. E ora la battaglia con l'Ue. L'ha spiegata per bene la vice ministra degli Affari sociali, Theano Fotiou oggi alla sede di Syriza, incontrando tutta la delegazione italiana, Sel e Altra Europa con Tsipras. "Ci sono dei punti del memorandum che abbiamo lasciato apposta oscuri: le relazioni sul lavoro, le tasse sulla prima casa, il fondo di gestione del demanio pubblico", ha spiegato questa donna sulla cinquantina, architetto di professione, nonché attivista della rete 'Solidarity for all' che si occupa di distribuzione di aiuti ai più deboli. Rete che proprio oggi ha ricevuto in dono 30mila euro portati dall'Italia dall'Arci, frutto di una colletta tutta italiana. "Vincere in condizioni di memorandum è un'impresa storica", prevedeva Fotiou. "Non difendiamo questo memorandum, non lo adottiamo così com'è", anche se, ha aggiunto, sapevamo da febbraio che avremmo dovuto firmarlo perché in sette mesi di governo Tsipras ben 120milioni di euro sono stati trasferiti all'estero: avevamo bisogno di fondi. Fino a giugno, ben quattro volte siamo stati sul punto di trovare un accordo con l'Ue, poi loro cambiavano le carte in tavola... Ora puntiamo a un buon accordo". "Qui ad Atene si fa così", dicono a Syriza citando Pericle. Soddisfatti di aver retto nell'Attica, la regione di Atene che per la verità dava pensiero prima del voto. E poi Salonicco, altra grande città, e nelle zone popolari del Pireo. Anche la festa però dura poco: al lavoro, da domani si ricomincia con Angela Merkel e Wolfgang Shauble. Da Repubblica.it del 21/09/15 Arci, il libro sul ricongiungimento familiare e l'integrazione Verrà presentato martedì 22 settembre presso l'Aula Bisogno del Consiglio Nazionale delle Ricerche, alle 16 ROMA - Martedì 22 settembre, presso l'Aula Bisogno del Consiglio Nazionale delle Ricerche, alle 16 verrà presentato il libro Ricongiungimento Familiare, Housing Sociale, Mobilità Lavorativa: quali buone pratiche per l'integrazione dei migranti. La pubblicazione, 4 a cura dell'Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del CNR, rappresenta il risultato finale delle attività di ricerca realizzate nell'ambito del progetto "Partecipare per integrarsi. Buone pratiche internazionali per azioni locali", finanziato con i fondi FEI (Fondo Europeo per l'Integrazione), progetto di cui Arci è stata capofila. I partecipanti al progetto. Al progetto hanno partecipato, altre ad Arci e ISGI, le ACLI, il Patronato ACLI, e vari partner europei (Università di Barcellona, Università di Nanterre, Acli e. V. Selbsthilfe Werk für interkulturelle Arbeit e Centro interculturale di Bruxelles). Alla presentazione parteciperanno, tra gli altri, la dott. ssa Maria Antonietta Rosa, Vice Prefetto del Ministero dell'Interno, Direzione Centrale per le Politiche dell'immigrazione e dell'asilo, Ufficio II - Politiche dell'immigrazione e dell'asilo sul territorio; il prof. Riccardo Pozzo, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale del CNR; il prof. Giuseppe Palmisano, Direttore dell'Istituto di studi giuridici internazionali del CNR; il dottor Corrado Bonifazi, Direttore dell'Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche sociali del CNR; la dottoressa Maria Eugenia Cadeddu, ricercatrice dell'Istituto per il lessico intellettuale europeo e la storia delle idee. Parteciperanno inoltre i responsabili per l'immigrazione delle organizzazioni partner, Filippo Miraglia (ARCI), Cristina Morga (ACLI) e Marco Calvetto (Patronato ACLI). Presiede Fabio Marcelli, Dirigente di ricerca ISGICNR. http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2015/09/21/news/arci-123349683/ del 21/09/15, pag. 7 A piedi scalzi davanti le ambasciate d’Ungheria *** Quanto sta succedendo in Ungheria in queste ore è inaccettabile e disumano. E’ un passo indietro nella storia della civiltà europea e dell’umanità in generale. Respingere profughi, richiedenti asilo ed esseri umani in generale con muri, manganellate, idranti e gas lacrimogeni è un atto di barbarie che non possiamo in alcun modo tollerare. L’Europa tutta deve reagire e denunciare il comportamento del governo di Orban. Siamo al fianco della società civile ungherese che sta cercando di opporsi alle scelte del suo governo e chiediamo al governo italiano di fare tutte le pressioni possibili per evitare che tale barbarie continui. A dieci giorni dalla grande esperienza delle 75 Marce degli Scalzi di Venerdì 11 settembre lanciamo una nuova mobilitazione nazionale: presentiamoci scalzi lunedì 21 settembre alle ore 18 davanti all’ambasciata ungherese di Roma e davanti a tutti i consolati dell’Ungheria in Italia, portiamo con noi un cartello «Io sono clandestino, arrestatemi — I’m illegal, arrest me!» o anche «I sono rifugiato, arrestatemi! — I’m refugee, arrest me!» Ognuno può organizzarlo liberamente davanti ad una delle sedi consolari qui elencate. Il motivo di questa mobilitazione è sempre quello già annunciato con le Marce dell’11 settembre che qui ricordiamo. Non è pensabile fermare chi scappa dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare contro quelle ingiustizie. Dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace. Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti. 5 Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione di ricchezze. Per chiedere con forza i primi quattro necessari cambiamenti delle politiche migratorie europee e globali: certezza di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature accoglienza degna e rispettosa per tutti chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e detenzione dei migranti creare un vero sistema unico di asilo in Europa superando il regolamento di Dublino Perché la storia appartenga alle donne e agli uomini scalzi e al nostro camminare insieme. Il manifesto ha aderito all’iniziativa insieme a Msf, Amnesty international, Arci, Emergency e Lunaria. Manifestazioni davanti alle sedi consolari ungheresi sono state indette per ora a Milano, Venezia e Palermo. Alla mobilitazione che si terrà a Roma davanti all’ambasciata di Ungeria hanno aderito anche le volontarie e i volontari del centro Baobab di via Cupa. Da il FattoQuotidiano.it del 19/09/15 Viterbo, 143 beni pubblici inutilizzati. Arci: “E’ un Kmq morto di città, diventino spazi per cultura e servizi” Due chilometri quadrati di beni pubblici di cui uno completamente inutilizzato. Edifici a volte in stato di abbandono. Tutti sul territorio del comune di Viterbo, capoluogo di provincia con 66mila abitanti. I proprietari? Regione Lazio, Comune e Provincia di Viterbo. Il dato che emerge da un rapporto voluto da Arci Viterbo e Riccardo Valentini, capogruppo del Pd al Consiglio regionale del Lazio. L’obiettivo? Recuperare i beni inutilizzati e farne una città diffusa della cultura. Tra i beni inutilizzati, in tutto 143 su 484 per un valore catastale di circa 110 milioni di euro e una rendita catastale di 522 milioni, ci sono le ex Terme Inps ed edifici storici di grande valore come Palazzo Doria Pamphilj (XVII secolo), l’Ospedale Grande degli Infermi (XIX secolo), Palazzo Calabresi (XV secolo) e l’ex Tribunale dove nel 1911 si svolse il primo processo alla camorra e nel 1952 quello a Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito Salvatore Giuliano di Daniele Camilli http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/09/19/viterbo-143-beni-pubblici-inutilizzati-arci-e-un-kmqmorto-di-citta-diventino-spazi-per-cultura-e-servizi/416054/ 6 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 21/09/15, pag. 12 La «forma» dell’impresa sociale La riscrittura delle regole nodo cruciale nella riforma del Terzo settore Una buona legge non deve inventare la realtà, ma semplicemente accompagnarla e ordinarla. Questa regola, che rispecchia un principio generale della funzione legislativa, è stata varie volte richiamata negli ultimi mesi, in corso di dibattito sulla riforma del Terzo settore attualmente all’esame del Parlamento. Il monito si va ripetendo con una certa frequenza soprattutto a proposito dell’impresa sociale, forma giuridica della quale l’articolo 6 del disegno di legge delega prevede una profonda riscrittura. E le ragioni dell’insistenza, volendo semplificare al massimo la materia, sono sostanzialmente due: da un lato l’impresa sociale è il segmento della galassia non profit più dinamico, innovativo e con il più elevato potenziale di crescita; dall’altro è quello dai contorni già adesso meno marcati, alla luce del progressivo allentamento dei vincoli imposti dal Codice civile allo svolgimento di attività di produzione e di servizi da parte di enti associativi e fondazioni. Non è stato sempre così: l’impresa sociale nasce, infatti, con la legge 381 del 1991 sulla cooperazione sociale che, nel tracciare il perimetro, utilizza paletti che oggi possono sembrare “rozzi”, ma che indubbiamente hanno il pregio della chiarezza. Da una parte si indicano gli obiettivi (il perseguimento dell’interesse generale della comunità), dall’altra si pongono dei vincoli (il divieto di distribuire gli utili) e, soprattutto, si identificano i settori di attività (servizi sociali, socio-sanitari, educativi, inserimento lavorativo di persone svantaggiate). Questa linearità e semplicità nella definizione ha aiutato la forma giuridica della cooperativa sociale ad affermarsi ma, nel tempo, si è poi rivelata un vestito troppo stretto da portare, con la conseguenza di ripetuti strappi e lacerazioni. Le tappe della riforma L’esigenza di una riforma, maturata già alla fine degli anni Novanta, si è poi tradotta nel decreto legislativo 155 del 2006, caratterizzato da un sostanziale ampliamento degli ambiti di attività, senza peraltro intaccare la specificità giuridica della cooperazione sociale, che ha continuato a vivere di vita propria, come modalità specifica di impresa non profit. Viceversa, l’impresa sociale ex Dlgs 155 non è riuscita a decollare (sono meno di mille, attualmente, le realtà iscritte nella sezione ad hoc del Registro delle imprese), banalmente per la mancanza di una qualsiasi ragionevole motivazione fiscale, in grado se non altro di compensare i costi di costituzione o transizione con qualche beneficio o incentivo. Si arriva così a oggi, con un sostanziale stallo della forma giuridica, a fronte di una crescita impetuosa delle organizzazioni che, a diverso titolo, svolgono attività di produzione: lo stesso censimento Istat del 2011 ha certificato l’esistenza di oltre 60mila fra associazioni, fondazioni ed enti che coprono più del 70% dei costi con ricavi da vendita di beni e servizi. Un’occasione storica Ora, con la riforma del Terzo settore, il Governo punta a offrire una soluzione organica. «L’obiettivo – spiega il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba, che ha la delega al non profit ed è un profondo conoscitore del mondo associativo, essendo stato in passato, tra l’altro, presidente nazionale delle Acli – è liberare un campo nuovo di imprenditoria sociale, non perché si voglia piegare la realtà in una certa direzione, ma perché va riconosciuta l’esistenza nel mondo non profit di forti elementi di innovazione». «Ci sono almeno 85mila organizzazioni costituite in forma non societaria che, però, sono market oriented», ricorda Bobba. Ci sono grandi associazioni con centinaia di dipendenti, così come molte fondazioni. Bisogna trovare una strada per rendere la forma giuridica più 7 coerente con l’attività di fatto. Anche perché – conclude – dobbiamo valorizzare l’innovazione sociale che, di questi tempi, appare spesso subordinata a quella di natura tecnologica mentre, in realtà, è il vero motore del cambiamento». Quando, però, dagli obiettivi generali si passa al dettaglio dei criteri riformatori indicati nel disegno di legge delega, le distanze tendono ad allargarsi fino a diventare solchi profondi. «Bisogna evitare – osserva Carlo Borzaga, professore all’università di Trento, presidente di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, nonché “padre nobile” della disciplina del non profit produttivo – che finiscano messi insieme alla rinfusa spezzoni di innovazione o specifici strumenti ideati in contesti diversi». «Quello che mi preoccupa – spiega – è la tentazione di ripartire da zero, alimentando un dibattito senza memoria, che rischia di distruggere, anziché valorizzarla, l’idea stessa di impresa sociale, fondendola nel calderone di una non ben precisata propensione delle imprese a farsi carico dei problemi sociali». Il confronto, insomma, è molto acceso. E lo è ancora di più su alcuni punti nevralgici della delega, quali l’allentamento dei vincoli alla distribuzione di utili o le eventuali (tutte da definire) agevolazioni fiscali. L’esigenza di condurre in porto una riforma storica per il Terzo settore riuscirà, forse, a fare da collante e ad assicurare un’accelerazione dell’iter parlamentare, fin qui tutt’altro che spedito. Quel che è certo, in ogni caso, è che una galassia varia e frastagliata come quella del non profit, che ha nel dna una vocazione identitaria insopprimibile, non potrà crescere senza pluralismo, anche nelle forme e nelle modalità del fare impresa sociale. Elio Silva 8 ESTERI del 21/09/15, pag. 2 Alle elezioni Nea Demokratia non è riuscita a rimontare Sarà un esecutivo “fotocopia” di quello uscente, con i nazionalisti di Anel. “Non ci dovremo preoccupare del fuoco amico dei traditori di Unità popolare” “Siamo duri a morire” Tsipras batte la destra Astensione da record ma Syriza governerà DAL NOSTRO INVIATO ETTORE LIVINI ATENE “AVANTI popolo, alla riscossa, bandiera rossa bandiera rossa! ». Atene, Piazza Korai, ore 22.30. Il pericolo è scampato. E i militanti di Syriza, dopo una campagna in sordina e al cardiopalma, possono finalmente abbandonarsi al canto liberatorio. Alexis Tsipras non lascia, anzi raddoppia. Il 41enne enfant prodige della politica ellenica è risorto dalle sue ceneri. «Siamo duri a morire », ride lui in versione Bruce Willis salutando la folla in festa sotto il gazebo elettorale. Ha tradito le promesse («troika e austerity sono cose del passato»), ha portato il partito alla scissione. I greci però hanno deciso di dargli un’altra chance. Syriza ha stravinto le elezioni e — con il 75 % dei voti scrutinati — viaggia al 35,4%. Nea Demokratia, data da tutti in rimonta, si è fermata al 28,3%. E Atene — dopo nove mesi sull’ottovolante — riparte esattamente da dove era rimasta a gennaio. «Non ci speravo», assicura con le lacrime agli occhi il 75enne Manolis Papadimitriou, arrivato qui al Panepistemiou in macchina a clacson spiegato. Invece è successo. Oggi Tsipras riceverà dalle mani del capo dello Stato Prokopis Pavlopoulos il mandato a formare il nuovo governo. E quello che doveva essere un complicato giro di consultazioni a caccia di equilibri da misurare con il bilancino, sarà probabilmente una pura formalità: l’ex premier — arrivato a Korai assieme al vecchio compagno di coalizione Pános Kamménos — farà decollare un esecutivo “fotocopia” di quello precedente. «È una vittoria chiara e netta», dice. Vero: i seggi conquistati da Syriza (145) sommati ai dieci della destra nazionalista di Anel (10) gli garantiscono la maggioranza assoluta in Parlamento. «Non dovremo andare a trattare con il cappello in mano dal Pasok e dal Potami», gioisce l’insegnante di matematica Anna Kampouraki. «E soprattutto potremo finalmente governare senza preoccuparci del fuoco amico dei traditori di Unità popolare ». I ribelli del partito guidati da Panagiotis Lafazanis hanno fatto flop. L’ endorsement in zona Cesarini di Yanis Varoufakis — «appoggerò loro, il voto di oggi certifica la resa alla troika», pontificava ieri al seggio — è stato il bacio della morte: la sinistra radicale, secondo gli ultimi dati, rischia di rimanere sotto la soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento. Nea Demokratia, che sabato fiutava un’insperata vittoria in rimonta, è rimasta invece con l’amaro in bocca. Un rassegnato Vangelis Meimarakis ha ammesso già alle otto di sera la sconfitta. «È un paradosso», dice incredulo Ioannis Andreou, mentre smonta il gazebo del partito a Syntagma. «A gennaio il 36,3% dei greci ha votato Tsipras perché prometteva di mandare in pensione l’austerity, ora la stessa percentuale lo appoggia per rifilarne al paese un’altra overdose ». La verità è che il fronte anti- memorandum, dopo sette mesi di sfibrante braccio di ferro con Bruxelles, si è sciolto come neve al sole. I partiti pro-euro hanno conquistato il 70% dei consensi. Il voto di protesta si è materializzato in 9 un’astensione- monstre (ai seggi si è presentato solo il 55% degli aventi diritto, un record negativo) e nella crescita di Alba Dorata, che sull’onda del dramma dei rifugiati e malgrado i guai giudiziari, è risalita oltre il 7% confermandosi terza forza nazionale, prima tra i disoccupati. Il Pasok, in ripresa al 6,3%, non è riuscito invece a coronare il suo sogno di diventare l’ago della bilancia come l’ex Psi di Craxi, la ruota di scorta decisiva per formare un governo di coalizione. La festa, lo sanno bene sotto il gazebo di Syriza a Korai, durerà poco. «Il difficile per noi inizia ora», ammette il 21enne studente di legge Giorgos Fotiadis. Il governo Tsipras 2 dovrà muoversi tra paletti molto stretti. Entro ottobre ci sono da approvare riforma delle pensioni e quella fiscale, si devono ricapitalizzare le banche e provare a rimuovere i controlli di capitali. «Il vantaggio del premier è che il copione è già scritto e dovrà solo farsi dettare ogni mattina i compiti a casa da Angela Merkel», ironizza Vassilis Primikiris, uno degli “ex” passati a Unità Popolare. «Faremo un passo alla volta» assicurano i fedelissimi, snobbando le reazioni acide degli ex compagni. Il primo sarà quello di provare ad addolcire la pillola amara del memorandum con le discussioni per ristrutturare il debito previste a fine ottobre. «Poi incroceremo le dita sperando che dalle elezioni in Spagna, Portogallo e Irlanda arrivino buone notizie in grado di riequilibrare un po’ i rapporti di forza in Europa — continua Giorgos — e tentare, magari, di ammorbidire la cura lacrime e sangue che ci ha imposto la Troika». Si vedrà. Anche il vincitore, nella notte del trionfo inatteso, ha preferito rimanere con i piedi per terra. «Abbiamo aperto la strada per il lavoro e la lotta», ha twittato sobriamente Tsipras linkando l’immagine di un gabbiano in volo sull’Egeo. «Abbiamo una seconda chance per liberarci per sempre del vecchio mondo che ha bloccato per 40 anni il paese », ha aggiunto. L’era delle promesse roboanti e irrealizzabili è finita. Quella del pragmatismo, inaugurata con il compromesso post-referendum, è iniziata con il piede giusto. «Non dobbiamo gettare alle ortiche questa occasione », si accalora Tonia Papadimoulis, militante da 20 anni nel partito. «Gli elettori ci hanno dato fiducia perdonando i nostri voltafaccia. Ora dobbiamo rispettare gli impegni: combattere corruzione, evasori e far pagare la crisi a chi finora non ha sborsato un centesimo». Gli obiettivi di Syriza e della Troika, in questo caso, coincidono. Suonano i clacson nella notte di Atene. Domani è un altro giorno. Ma stasera, alla faccia di Varoufakis, dei controlli di capitale, della crisi e di quel clima di rassegnazione che si respirava fino a sabato sera, è il momento — come a gennaio — di tornare a fare festa. del 21/09/15, pag. 4 Il solito rito propiziatorio in un bar di Atene a chiacchierare con degli sconosciuti, poi il vertice del partito. Dopo i risultati la birra con i suoi: “La lotta continua” La rinascita di Alexis dalle flebo al trionfo “Macché sondaggi lui conosce la gente” MATTEO PUCCIARELLI DAL NOSTRO INVIATO ATENE. 10 Nei giorni più duri della trattativa con l’Europa, quelli post referendum, Alexis Tsipras non stava bene e si vedeva, ingrassato e pallido com’era; notti in bianco, ore e ore di riunioni con i suoi per un verso e con i potenti d’Europa dall’altro, tutte le prime pagine del mondo con la sua faccia. E allora — si racconta — di ritorno da Bruxelles lo ricoverarono per qualche ora in gran segreto, un po’ di analisi per capire cosa non andasse e qualche flebo per tirarlo su. «Il peso di un Paese e il futuro di un continente sulle spalle, avete idea di cosa possa significare?», dice Stelios Pappas, storico dirigente di Syriza — nonché papà di Nikos, il miglior amico di Alexis, ex “ministro di Stato” dello scorso governo, una specie di sottosegretario della presidenza del Consiglio. Ecco, un mese e mezzo dopo Tsipras è un altro. «Rinato», dice chi lo conosce bene. E di nuovo «tignoso», determinato. Non sono ancora le otto di sera, la sua Bmw arriva alla sede del partito dopo averlo prelevato da casa — quartiere popolare di Kypseli, i militanti lo applaudono, lui saluta sorridendo ed entra veloce diretto al settimo piano, dove lo studio da presidente del partito è rimasto intatto. Il caposcorta si ferma al primo piano: «Dove sono gli alcolici?, che li porto su da Alexis, bisogna brindare». Due ceste: la mastika, birra, e tre bottiglie di vino che un militante ha imbottigliato in proprio con etichetta personalizzata, faccione di Tsipras e sobria dicitura “leader di popolo”. La giornata certifica quello che, perlomeno dal punto di vista di Tsipras, è stato un capolavoro politico e insieme una vittoria personale. Syriza di nuovo primo partito, terza vittoria in meno di un anno se si conta anche il referendum; ma soprattutto i vecchi compagni di Unità popolare fuori dal Parlamento. «L’occhio sinistro di tutti quanti guardava i risultati di Syriza, quello di destra la percentuali di Lafazanis», spiega Nikos Fillis, uno dei tre portavoce del precedente governo, direttore del giornale di partito e acerrimo nemico dei “traditori” (sono considerati così) come Zoe Kostantopoulou e Yanis Varoufakis. Insomma: Tsipras ha fatto fuori i “rompiscatole”, il suo consenso è rimasto intatto e i potenziali avversari sono finiti polverizzati. «Vinciamo con cinque punti avanti, lasciate perdere i sondaggi», rassicurava tutti lo stesso Tsipras nei giorni scorsi. Alla fine sono stati sette. Mentre in quegli stessi minuti postsbornia l’ex ministro della Difesa Pános Kamménos, leader di Anel, la destra anti-austerity che sembrava dover rimanere fuori dal Parlamento, sbraitava: «I sondaggisti sono degli assassini! ». «Ha fiuto, ha il polso della gente», lo osanna qualcuno (ma dopo, a conti fatti). Così il rito propiziatorio di Tsipras di sabato scorso sembra aver funzionato. È sempre lo stesso: piombare in un bar di Atene a caso e chiacchierare ai tavoli con gli sconosciuti. L’ultimo è stato il “Six Dogs”, caffè letterario corredato di amache per riposini estemporanei, due ore di confronto soprattutto con i giovani. Poi, nella notte tra sabato e domenica, l’ennesimo confronto con i vertici del partito: stavolta c’era pronto un piano A, un piano B, un piano C. Il primo, il preferito da tutti: se Syriza avesse preso la maggioranza assoluta. Il secondo: se fosse bastato un nuovo accordo con Anel. Il terzo: se fosse toccato allargarsi anche ai socialisti. Il quarto — se Syriza avesse perso le elezioni — non era contemplato, ma del resto non ci sarebbe stato dibattito, una confortevole opposizione dura e pura come ai vecchi tempo. Stavolta, senza la Piattaforma di sinistra di mezzo, la decisione era stata di affidargli un mandato pieno e incondizionato. Tutto bello, tutto perfetto? Insomma, e per capirlo basta scendere di un piano alla sede di partito, dal settimo al sesto. Dove ci sono gli uffici della corrente “movimento dei 53”, i filoTsipras ma critici, legati al partito tradizionale, cioè meno leaderismo, più militanza diffusa e processi democratici da seguire passo passo. «A me vedere le signore di mezza età che lo acclamano adulanti come “il nostro ragazzo, il nostro ragazzo!” fa male — commenta un po’ alterato un membro del comitato centrale — ma cosa sta diventando la politica?». È la 11 regola della sinistra e della politica: gli spazi si riempiono, sparita una minoranza interna ne nasce automaticamente un’altra. Se sarà un problema o meno, per l’ingegner Tsipras perlomeno oggi non importa. Esce dalla sede del partito alle 22.48, saluta con la mano sul cuore, una signora con la bandiera cilena quasi lo sequestra abbracciandolo da dietro la transenna. La bionda e avvenente governatrice dell’Attica Rena Dourou lo bacia affettuosa. «E adesso — saluta Tsipras — la lotta continua». del 21/09/15, pag. 6 L’ultradestra ringrazia disoccupati e antimigranti DAL NOSTRO INVIATO ATENE «Grazie signora Merkel». E giù una risata, e giù un altro sorso di birra. La palazzina moderna di fronte alla vecchia stazione di Larissa rappresenta lo svincolo tra le due grandi crisi europee, il debito greco e la tragedia dei migranti. «La cancelliera tedesca ci vuole davvero bene». L’ingresso chiuso da una pesante porta blindata e sorvegliato a vista da tre incappucciati neri non è certo un invito all’allegria, ma la sede di Alba Dorata è forse l’unico luogo della politica greca dove questa sera c’è gente che festeggia davvero. Appena pochi mesi fa il partito neonazista sembrava destinato a rientrare nei ranghi con lo stesso passo di marcia militare usato dai suoi deputati durante il loro primo ingresso in Parlamento, correva l’anno di disgrazia 2012. L’ultima campagna elettorale è stata per lungo tempo così mogia e dimessa da far ipotizzare una sorta di baratto, auto-estinzione in cambio di un difficile lasciapassare giudiziario per il fondatore Nikolaos Michaloliakòs, accusato di essere coinvolto nell’omicidio del rapper antifascista Pavlov Fyssas. Gli schiamazzi che provengono dalle finestre aperte sulla zona più popolare del quartiere di Omonia sono invece la logica conseguenza di un risultato quasi insperato. Terza forza del Paese, superata per la prima volta la soglia del 7%. «Eravamo in grande difficoltà. Dopo il referendum ci eravamo resi conto che l’opposizione ai diktat di Bruxelles era diventata un’arma meno efficace. Ma ragazzi, agosto è stata una benedizione». Lo statista al quale ci stiamo rivolgendo via telefono per una analisi politica del voto si chiama Artemis Matthaiopoulos. E’ quell’omone a disagio in giacca e cravatta che in Parlamento siede sempre alle spalle del suo capo. «Tutti quei migranti che sbarcavano nelle nostre isole, la cancelliera tedesca che gli apriva le porte. Il vento stava girando nuovamente dalla nostra parte». Nella sua prima vita, Matthaiopoulos era il bassista di band Nazi-punk che si chiamava Pogrom e cantava liriche delicate come la seguente, estrapolata da una canzone intitolata Auschwitz: «Fottiti Anna Frank, che si fotta l’intera tribù di Abramo, la stella di David mi fa vomitare». «Ma quelli sono sfoghi giovanili. Le sembra che ci sia ancora bisogno di dare giustificazioni? Noi non siamo nazisti, la gente continua a interpretare male il nostro simbolo, che non è una svastica rivesciata, ma un fregio dell’Antica Grecia. Tutto un equivoco». Pochi giorni fa ci aveva fatto entrare nel suo ufficio al secondo piano della sede del partito, e nel farci strada aveva chiuso con pudore la porta di una sala riunioni addobbata con memorabilia della Seconda guerra mondiale. «La verità è che siamo puri nazionalisti che amano l’esercito e le nostre forze di sicurezza» aveva commentato con una alzata di 12 spalle. All’età di 36 anni, Matthaiopoulos è diventato il volto della seconda generazione, l’uomo al quale verrà presto passato il bastone, metaforico, del comando. Alba Dorata è il partito più votato tra i disoccupati, è andato in doppia cifra anche nelle periferie ateniesi, nell’Attica e nelle isole. «Seguite il viaggio dei migranti in Grecia e troverete noi. La Merkel e la sua Europa ci hanno fatto un altro grande favore». Il commento del risultato elettorale viene interrotto dalla baraonda intorno a lui. Erano il sintomo più evidente del malessere greco, sono più numerosi di prima. E non saranno nazisti, ma quel modo di salutarsi dei sostenitori ai quali viene aperta la porta blindata ci sembra di averlo già visto da qualche parte. del 21/09/15, pag. 5 Tra i profughi accampati al parco in un’Atene incapace di aiutarli Senza più soldi, in migliaia vivono nelle tende in Piazza della Vittoria Gli aiuti Ue bloccati dalla burocrazia: cibo e acqua forniti dai cittadini Tonia Mastrobuoni Come se la crisi economica non avesse sprofondato molte zone di Atene in un abisso di povertà, microcriminalità e tensioni sociali. In alcuni quartieri, i neonazisti di Alba dorata si divertono a fare scorribande con le mazze da baseball contro i migranti, i tossici si bucano ormai in pieno giorno agli angoli delle strade, la morìa dei negozi continua a ritmi vertiginosi e il Comune ha alzato bandiera bianca. Nella mensa dei poveri dietro Omonia, dopo tre mesi di pasti senza carne, lunedì è arrivato il pollo. Ma neanche la lunga cottura al forno ne ha potuto nascondere il sapore di cane avariata. La capitale è al collasso. E ora fa i conti anche con la crisi dei profughi. In pieno centro, in piazza della Vittoria, su coperte e tappeti regalati dagli abitanti del quartiere, migliaia di afghani aspettano catatonici, affamati, di proseguire il loro viaggio disperato verso l’Europa continentale. Ad un certo punto, da una stradina laterale sbuca una signora con delle buste blu, piene di pane. Una dozzina di uomini si precipita su di lei, in pochi secondi le pagnotte sono sparite; i profughi si dileguano, le portano alle loro famiglie. Le donne velate e i bambini stanno sotto gli alberi, immobili, si proteggono come possono dal caldo infernale. È pieno di neonati, le madri giovanissime li adagiano piano a terra per cambiarli. I piccoli gattonano tra i piccioni, l’immondizia. Ad Atene fanno ancora 38 gradi, l’umidità è soffocante. I turisti «volontari» «Ogni giorno è così: nessuno aiuta questa gente, dipendono dalla misericordia dei greci, dei vicini» spiega un fotografo free lance spagnolo, Cristian Pons, che sta qui da settimane. «Li hanno lasciati completamente soli: i negozi qui intorno non li fanno neanche più andare al bagno», aggiunge una turista francese accanto a lui, Nathalie. È di Nizza, ha passato le vacanze qui invece che su un’isola greca: «Non ho potuto fare altrimenti. Mi vergogno dell’Europa e del mio Paese, la Francia». Un turista svizzero, Michael Raber, è passato nei giorni scorsi dal barbiere della piazza per tagliarsi i capelli ed è rimasto talmente sconvolto da donare 1500 bottigliette d’acqua ai profughi. «Il problema è che quando il chiosco della piazza ha cominciato a distribuirle, c’è stato un assalto tale che abbiamo dovuto gridare che bisognava pensare prima alle donne e ai bambini», racconta Nathalie. È stata lei a procurare un carrello della spesa per distribuirle prima alle donne. 13 Siriani, in questa piazza, non se ne vedono quasi: proseguono il viaggio per l’Europa più velocemente. L’attesa infinita Gli afghani, i pachistani restano qui, in balìa degli sciacalli che chiedono cifre astronomiche per portarli in Germania. Molti ripartono comunque, alla cieca. Arrivano dal Pireo, hanno attraversato l’Asia, la Turchia, sono riusciti ad arrivare qui spendendo spesso gli ultimi soldi, non si rassegnano ad arenarsi in piazza della Vittoria. Sari Gul, ventitré anni, li aiuta come può. Occhi a mandorla verdi, afghano anche lui, è arrivato in Grecia sei mesi fa, racconta che i siriani vengono portati a Omonìa o nei centri di accoglienza o altrove: «Gli afghani restano più a lungo». Cercano di andarsene appena riescono a mettere insieme qualche euro, ma «il problema è che ne arrivano tantissimi, ogni giorno». Il fotografo spagnolo ci mostra un video di ieri mattina: «Ne sono arrivati mille e cinquecento, solo qui». E il Comune, il governo cosa fanno? Non è solo colpa dell’Europa, se i profughi sono abbandonati a se stessi. A giugno, i ritardi nell’arrivo dei fondi europei ha provocato uno scandalo: quotidiani greci come Kathimerini hanno raccontato che quasi 600 milioni di euro di fondi destinati all’accoglienza dei profughi erano bloccati a Bruxelles per l’incapacità del governo di istituire l’autorità per gestirli. Dal 2014 la Commissione europea aveva chiesto ad Atene di istituire un’unica autorità per la gestione dei fondi europei. Adesso l’autorità c’è, finalmente, e una portavoce della Commissione ha fatto sapere ieri che i primi 30 milioni sono arrivati la scorsa settimana. Meglio tardi che mai. del 21/09/15, pag. 5 Il paesino che vive senza euro e lo ha sostituito con il baratto Nella Grecia stremata dalla crisi, c’è chi non si è perso d’animo e ha fatto di necessità virtù, fino a tornare alle origini. È il caso di Volos, quinta città ellenica, situata nel nord del Paese, ossia nell’antica Tessaglia, che ha pensato bene di reintrodurre il baratto e di sostituirlo, almeno in parte, all’euro. Quello che nel 2010 era iniziato in un quartiere come esperimento, adesso è una realtà istituzionalizzata, così tanto, che da 50 membri la comunità ha raggiunto quasi un migliaio. Il meccanismo, è tutto fuorché banale. Per accedere agli scambi bisogna registrarsi a un sito, previa presentazione di un documento di identità. Su questa piattaforma, tutta la merce viene valutata in Tem, la moneta usata dai barattanti e dove un Tem equivale a un euro. Non si tratta di una moneta stampata, ma virtuale, utilizzata per rendere più facili e trasparenti gli scambi. Ogni iscritto riceve 300 Tem in modo tale che possa iniziare a scambiare. Per evitare che venga a mancare il giusto equilibrio fra quello che viene ceduto e quello che viene acquistato, ogni utente non può accumulare più di 1200 Tem. Dallo spillo all’elefante Andando sul sito, si trova veramente di tutto. Il principio di base è che la gente mette sul mercato cose di cui può fare a meno, cercando di scambiarle invece con cose di cui ha assolutamente bisogno. Quindi una famiglia magari vende il secondo televisore, che è diventato un bene decisamente superfluo, in cambio di cibo, vestiti o un altro elettrodomestico. Per esempio, un cappotto vecchio o vestiti che non vanno più possono essere scambiati con qualcosa di più utile. 14 La piattaforma si è rivelata particolarmente preziosa anche per alcuni negozianti, che si sono trovati a chiudere le loro attività a causa della crisi e che per un motivo o per l’altro non sono riusciti a svuotare i magazzini. Ma la logica del baratto, all’inizio applicata solo ai beni, si è presto applicata anche ai servizi e quindi sul sito della comunità di Volos è possibile trovare lezioni di inglese, in cambio di lavori idraulici o di ristrutturazione a casa. L’arte di arrangiarsi «Siamo molto soddisfatti di come è cresciuto il fenomeno – spiega a La Stampa, Leonidas Christopoulos, uno dei primi sostenitori della piattaforma –. Quando la crisi ha iniziato a toccare i consumi della gente, sapevamo che prima o poi i greci sarebbero stati costretti a disfarsi del superfluo. In questo modo non solo abbiamo risparmiato l’umiliazione di dover vendere cose a cui erano affezionati, abbiamo anche trovato il modo di evitare sprechi che in periodi come questi non ci si può davvero permettere. Con il sistema del baratto, infatti, gli alimenti in scadenza vengono distribuiti con maggiore facilità e così si evita di buttarli via». [m. ott.] del 21/09/15, pag. 25 IL CROLLO DEL CENTRISMO DI SINISTRA NADIA URBINATI UNO degli argomenti più intriganti suggeriti dalla vittoria di Jeremy Corbyn alla leadership del Labour Party è il seguente: la sinistra ha bruciato il suo centro consegnando il governo ai Tory per i prossimi anni. Questa diagnosi può essere interpretata in due modi diversi. Il primo è quello che si ricava dalle parole del capo storico del centrismo laburista, Tony Blair, il quale con malcelato egocentrismo ha identificato l’elezione di Corbyn con una reazione contro di lui e ha preso la penna per scongiurare i laburisti a “ detestarlo” liberamente ma a confermare la sua linea centrista non votando per Corbyn. Detestato per la sua entusiasta partecipazione alla guerra di Bush in Iraq, il fondatore del New Labour non ha fatto che rafforzare la Corbymania. E il centrismo ha alzato un cordone sanitario intorno al nuovo leader. Il caso inglese è perfino più radicale di quello spagnolo e greco perchè qui la sinistra ha ripreso le redini del suo partito tradizionale, scuotendone l’identità centrista. La quale, non il radicalismo della sinistra, è all’origine della crisi del Labour. Posizionandosi al centro, il Labour di Miliband ha dimostrato di essere sostituibile con i conservatori. Competere per il centro non è una politica saggia quando le politiche centriste sono a tutti gli effetti conservatrici. Ecco perchè il cordone sanitario del centrismo nei confronti di Corbyn suggerisce un’altra lettura all’argomento per cui la sinistra ha bruciato il suo centro. La ribellione contro il centrismo è un fenomeno non confinato all’Europa. Bernie Sanders che sfida Hillary Clinton alle prossime primarie democratiche, si definisce socialista e conquista l’audience nel popolarissimo talk-show di Colbert. I sondaggi lo danno vincente in New Hampshire e Iowa anche se perderà senz’ombra di dubbio la nomination. Sanders come Corbyn punta il dito contro un tipo di moderatismo che è diventato un abito troppo stretto per i democratici, spronati dallo stesso moderato Barack Obama che, non va dimenticato, ha portato alla Casa Bianca una retorica di sinistra per riuscire a imporre la riforma sanitaria e le politiche a favore della classe media. Quindi c’è un centrismo di sinistra. E quando viene praticato con determinazione riesce a contenere la sinistra più radicale e a essere una buona alternativa ai conservatori. È questo il centrismo che i partiti di sinistra hanno bruciato. 15 Il problema è stato ben individuato da Paul Krugman. Commentando la vittoria di Corbyn ha scritto che essa «non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour»; i candidati moderati che sfidavano Corbyn non avevano altro da offrire che il sostegno alle politiche di austerità del governo conservatore. Il “crollo morale” dei moderati interni alla sinistra è il fattore da considerare dunque. La sinistra sembra non avere più un centro suo, scegliendo di adottare quello proprio della destra. Il centro al singolare è una categoria delle meno felici in politica perchè esso non è un’entità che sta al di sopra delle parti. È invece una pratica di moderazione rispetto a posizioni che sono specifiche e ideologicamente diverse. Il centro della sinistra non è lo stesso di quello della destra, perchè non consiste nell’annacquare con politiche di destra quelle di sinistra, per esempio limitando il diritto di sciopero o adottando politiche fiscali che favoriscono la casa invece che il lavoro. La sinistra ha un suo centro e la sua erosione e scomparsa è all’origine delle due possibili risposte messe in campo finora: una risposta radicale nei partiti di sinistra che sono all’opposizione (da Podemos al Labour) e una risposta destrinista o ibridata con il centro della destra nei partiti di sinistra che sono al governo. Entrambi sono l’esito del “crollo morale” del centrismo di sinistra, e all’origine tanto del radicalismo quanto del destrinismo. del 21/09/15, pag. 30 Francia, il «Fronte» degli intellettuali Nazionalisti e trasversali, attaccano l’Europa e sono accusati di fare il gioco di Marine Le Pen dal nostro corrispondente a Parigi Stefano Montefiori Il pensiero dominante, se mai è esistito, in Francia sembra sul punto di cambiare campo. Dopo decenni di attacchi al politicamente corretto e al conformismo di sinistra, gli intellettuali che si sentivano ai margini e amavano definirsi fuori dal coro stanno conquistando una nuova egemonia culturale. Le loro idee non sempre sono nuove, ma lo sono lo spazio e il seguito straordinario che hanno conquistato nella società francese. Accomunati dal rimpianto per la Francia come nazione sovrana e dall’odio per le élite filoeuropee, l’economista Jacques Sapir e il filosofo Michel Onfray ipotizzano un’alleanza trasversale di tutte le forze «sovraniste», dall’estrema sinistra all’estrema destra, per tornare a una Francia capace di stampare moneta, condurre la politica economica, dare lavoro ai disoccupati. Vengono tacciati di simpatie per il Front National, di essere «i nuovi reazionari». Loro sostengono di osservare semplicemente la realtà, senza i paraocchi del progressismo di maniera. Vendono migliaia di libri, e si organizzano. Il prossimo 20 ottobre alla Mutualité di Parigi, uno dei luoghi tradizionali della sinistra francese, il giornale «Marianne» organizza una grande e inusuale serata di sostegno a Michel Onfray, alla quale parteciperanno Alain Finkielkraut, Pascal Bruckner e altri. Noto per il Trattato di ateologia e per decine di opere (contro Freud, Sade e Sartre, a favore di Nietzsche e Camus), il prolifico intellettuale che si definisce tuttora appartenente alla «sinistra libertaria» è il più colpito in questi giorni dall’accusa di fare il gioco di Marine Le Pen. Nei suoi frequenti interventi su giornali, radio e tv, Onfray demolisce l’Europa liberale, l’euro e il governo socialista di François Hollande che a suo dire ha tradito la sinistra, 16 perché predica l’accoglienza ai rifugiati ma si dimentica del popolo francese old school , all’antica. Il filosofo nato come epicureo e anticlericale si è trasformato nell’ennesimo lepenista oggettivo, dicono i detrattori, in particolare dopo l’ultima intervista al «Figaro» nella quale Onfray critica l’ondata di emozione per la foto del bambino siriano e lamenta che «il più piccolo dubbio sui migranti viene criminalizzato». Sabato sera Michel Onfray era quindi l’invitato più atteso nel talk show più seguito di Francia, On n’est pas couché (quasi un milione e mezzo di spettatori a mezzanotte). Davanti a lui Léa Salamé e Yann Moix avevano il compito di metterlo in difficoltà, ma i ruoli si sono presto invertiti. «Con la vita mondana che fa a Parigi, lei non ha più il tempo di leggere», ha detto subito Onfray a Moix in una carica contro i salotti di Saint-Germain-desPrés, prima di lanciarsi nella difesa dei «nuovi proletari, delle ragazze costrette a prostituirsi per pagarsi gli studi». Se a Londra a guidare il Labour è Jeremy Corbyn, nemico di Blair e della terza via socialliberale, a Parigi l’intellettuale di sinistra che conquista le prime pagine è Michel Onfray, che fa risalire la rovina della gauche alla svolta del 1983, quando François Mitterrand rinnegò le nazionalizzazioni annunciate due anni prima e «si adeguò al neo-liberalismo e all’Europa». Alla serata alla Mutualité parteciperanno anche Régis Debray e Jean-Pierre Le Goff: il fronte comune dei pensatori che un tempo si sarebbero detti eretici si allarga. Éric Zemmour, l’editorialista di destra autore del bestseller sul «suicidio francese», ha dedicato una lettera aperta al suo «nuovo amico» di sinistra Onfray in cui gli dà il «benvenuto nel club dei populisti». «Tu dici “il mio popolo” per parlare dei Francesi con affetto e non “questo Paese” con sufficienza — scrive Zemmour sul “Figaro” —. Hai compreso il disprezzo di classe che anima le nostre élite benpensanti nelle quali l’amore dell’Altro da anni sfocia nell’odio di sé. Non hai digerito “la svolta del 1983”, l’apostasia del socialismo in nome dell’Europa. Accetti il confronto con la realtà, anche se contraddice i tuoi a priori ideologici». C’è poi Michel Houellebecq, che non è un saggista o un politologo, ma il romanziere francese più conosciuto e letto nel mondo. Quest’estate durante un’intervista Houellebecq ha parlato con stima di Michel Onfray, Pascal Bruckner e Alain Finkielkraut, mentre è nota la scarsa simpatia reciproca con il premier socialista Manuel Valls (definito peraltro da Onfray «un cretino»). Il giudizio di Houellebecq sull’Europa è netto: «Il mio rimprovero all’Europa è che non esiste, a differenza della Francia. Non mi sento affatto europeo. Mi sento francese». Non è solamente una questione intellettuale. Chi prevale nel discorso pubblico è destinato a condizionare le scelte della politica, in un momento decisivo per la Francia e per l’Europa. E il discorso pubblico, in questo momento in Francia, vede protagoniste le voci di pensatori come Onfray che si schierano contro l’Europa, le cessioni di sovranità a Bruxelles, e denunciano il fallimento delle politiche migratorie di sinistra. A dicembre sono in programma le elezioni regionali, e secondo i sondaggi Marine Le Pen vincerà facilmente dove è candidata, nel Nord. Nel 2016 si terranno le primarie nella destra, e i socialisti dovranno scegliere il loro uomo — ancora Hollande? — per le elezioni presidenziali del 2017. Mentre queste scadenze si avvicinano, l’unica forza politica che appare in crescita e in sintonia con una parte consistente dell’opinione pubblica è il Front National. Privo di intellettuali organici, il partito di Marine Le Pen ha fatto della battaglia culturale la sua priorità, rivendicando e applicando apertamente la lezione di Gramsci. Mentre i socialisti al governo sembrano impantanati nel ritocco delle aliquote fiscali e nei tecnicismi, il FN parla di valori e ideali, da anni. Gli intellettuali anti-sistema e la sinistra tradizionale hanno ognuno una vistosa debolezza. I primi continuano a presentarsi come vittime dell’ostracismo e della «polizia del 17 pensiero», quando invece sono invitati ovunque e contesi come star. I secondi, i loro detrattori, cadono invece nella trappola della reductio ad hitlerum , anzi della sua variante reductio ad lepenum : per squalificare un argomento, che sia solido o meno non importa, lo si assimila alle tesi di Marine Le Pen, e si pensa così di aver ragione a poco prezzo. Fiancheggiatore del Front National? Per niente, risponde quindi Onfray. «Gli alleati oggettivi di Marine Le Pen sono semmai tutti quelli che la rendono possibile da un quarto di secolo — ha scritto su «Le Monde» —. Ovvero la destra e la sinistra liberali che hanno fatto della parola “sovranista” un insulto (...); il socialismo che ha fatto di Maastricht l’orizzonte insuperabile della politica e, di conseguenza, ha gettato nel precariato milioni di proletari in Europa». Gli intellettuali negano di aiutare il Front National, anche se arrivano spesso alle stesse conclusioni, ma qual è la posizione del partito? Marine Le Pen ama citare gli studiosi che forniscono punti di appoggio fattuali alle sue tesi: dalla demografa Michèle Tribalat che mette in guardia sull’avanzata dell’islam, al geografo Christophe Guilluy che indaga sulla Francia «peri-urbana», cioè sui sobborghi tra città e campagna abitati dai bianchi piccoloborghesi. Marine Le Pen nomina gli intellettuali ma si guarda bene dal farli apparire come contigui al Front National: è un errore che preferisce lasciare agli avversari. La leader del FN segue lo scontro da apparente spettatrice, e si frega le mani. Grandi risultati con il minimo sforzo. del 21/09/15, pag. 8 Per quaranta minuti il pontefice e il Comandante si sono parlati e stretti la mano “in un clima informale e familiare”. Come doni uno scambio di libri Ad applaudire il pontefice mezzo milione di persone Appello per la Colombia: “Mettiamo fine alla violenza” Francesco incontra Fidel E a piazza della Revolución “Bisogna servire le persone non le ideologie” MARCO ANSALDO DAL NOSTRO INVIATO L ’AVANA. Fidel e Francesco. Uno davanti all’altro. Il Comandante della Revolución cubana e il Papa della riforma nella Chiesa. Il Líder maximo che ha sconfitto il generale Fulgencio Batista e il Pontefice argentino che attacca i conservatori della Curia. Non poteva non esserci questo incontro all’Avana. Ora sono qui, nella residenza del Jefe, con i familiari di Castro intorno, la moglie e i figli, mentre Jorge Bergoglio ha con sé il nunzio vaticano a Cuba, monsignor Giorgio Lingua e alcuni cardinali. Ma la cordiale stretta di mano fra i due leader latinoamericani, il gesuita diventato Papa, e il rivoluzionario un tempo allievo dei gesuiti, solo dieci anni di differenza uno dall’altro, è più che ideale. È una consonanza di vedute, di passato e di prospettive. Nel rispetto della diversità e della storia personale di ognuno, ovvio. E difatti il discorso spazia fluido, dalla politica all’ambiente, dalla letteratura alla religione. Senza interpreti. Non c’è bisogno. Tutto in spagnolo. E così i regali. Francisco ha portato la sua Enciclica “Laudato Sì” in lingua castigliana. E altri tre libri, ognuno tradotto e pronto 18 da leggere. Anche Castro ha preparato un dono: il saggio del teologo brasiliano Frei Betto Fidel e la religione . Il Comandante lo apre sulla prima pagina. Prende una penna, verga la sua dedica: «Por Papa Francisco / in occasione della sua visita a Cuba/ con l’ammirazione e il rispetto del popolo cubano». «Un incontro in un clima familiare, una conversazione dai toni informali», lo definisce il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi. Avviene dopo la messa nella Plaza de la Revolución, con un’omelia ricca di riferimenti politici e spirituali, che Fidel ha seguito alla tv senza perdersi una parola del Papa. Di che cosa parlano? Fidel, nell’ormai abituale tuta blu, fa molte domande, come avvenuto tre anni fa, sempre qui, con Benedetto XVI. E se allora l’intesa intellettuale fra il Líder cubano e il Pontefice tedesco aveva funzionato, con un Castro che chiedeva a Joseph Ratzinger di mandargli por favor dei libri di teologia, ieri l’incontro non ha mancato di toccare argomenti politici e pastorali. «La conversazione tra il Papa e Fidel — conferma Lombardi — ha riguardato i temi della riflessione e del magistero di Francesco sull’umanità, il suo futuro, la situazione mondiale oggi, la crisi ambientale». Castro è assetato di letture religiose. Bergoglio lo sa. Nella sua borsa nera ha portato, assieme all’Enciclica scritta di suo pugno, due volumi in edizione spagnola del sacerdote italiano Alessandro Pronzato, esperto di catechesi, di Bibbia e di divulgazione teologica: «La nostra bocca si aprì al sorriso» (citazione da un salmo), testo sul valore dello humour e dell’allegria in relazione alla fede, e Vangeli scomodi . Poi una raccolta di discorsi e prediche, con registrazione acclusa in due cd («trovati a fatica», ammette Lombardi), di padre Armando Llorente, che fu insegnante di Ca- stro qui a Cuba, al collegio dei gesuiti di Belen. Quaranta minuti di botta e risposta che scorrono veloci. Fidel è felice. Francesco sorride. Un’atmosfera familiare e informale. “Fraterna”, la descrive Lombardi. Il Vaticano decide di non diffondere nessuna immagine dell’incontro. «Per rispetto della riservatezza di questa visita». Lo fa invece, più tardi, il regime cubano. La salute di Fidel è argomento sempre delicato. Castro, ora 89enne, aveva lasciato il potere nel 2006 per qualche accenno di malattia. Ieri l’argomento delle dimissioni di Benedetto XVI nel 2013, nemmeno un anno dopo il suo viaggio a Cuba, e di una eventuale rinuncia accennata da Francesco non ha avuto il tempo di essere affrontato. Al mattino, il Papa aveva trovato una piazza sufficientemente gremita: mezzo milione di persone. E in un luogo altamente simbolico per Cuba come Plaza de la Revolución, ha detto che «non si servono le ideologie, ma le persone». Parlava all’ombra di due evidentissime immagini stilizzate del Che Guevara e dell’altro leader rivoluzionario, Camilo Cienfuegos, e sotto un’enorme bandiera di Cuba. Ma anche sotto una grande immagine di Gesù. Così, davanti all’attuale capo dello Stato, Raul Castro, e in prima fila all’ormai onnipresente Presidenta argentina Cristina Kirchner (freddina oggi la stretta di mano del Papa), Francesco non ha lesinato parole legate ai temi politici. Sulla Colombia, che vorrebbe visitare il prossimo anno, lancia un appello sul negoziato andato male tra il governo e i guerriglieri delle Farc: «Per favore, non possiamo permetterci un altro fallimento in questo cammino di pace e riconciliazione. Bisogna mettere fine alla notte di violenza». Il cardinale Jaime Ortega — unico arcivescovo ad aver ricevuto la visita di tre Papi — a conferma dell’importanza dell’isola caraibica per il Vaticano, accenna al disgelo fra l’Avana e Washington: «Non rimanga ai livelli alti politici, ma arrivi ai popoli di entrambe le nazioni». Poi all’Angelus il Papa fa riflessioni di carattere più spirituale. E trova una bellissima frase: «Bisogna riconoscere Gesù nell’uomo sfinito sulla strada». Che continua: «In ogni fratello affamato o assetato, che è spogliato o in carcere o malato». È la sua riflessione sugli 19 ultimi: «La grandezza di una nazione si misura dal servizio ai più deboli. Bisogna capovolgere la logica del potere, sulle élite prevalgano gli umili». A lui si richiamano in serata le Damas de blanco , il movimento di opposizione la cui leader, Berta Soler, viene fermata con alcune compagne e il marito, il dissidente politico Angel Moya, mentre vanno alla messa. «Siamo usciti dalla sede delle Damas de blanco in 23, e con Moya, alle 5 del mattino per andare nella piazza e siamo stati arrestati tutti», spiega Soler dopo essere tornata a casa dopo un fermo di qualche ora in un commissariato. Non è riuscita a vedere, come voleva, el Papa argentino. Ma a quell’ora, Francesco si era già incontrato con Fidel. del 21/09/15, pag. 29 Il movimento di protesta nato durante la crisi dei rifiuti torna in piazza. E ora vuole porre fine al “regime dei ladri” La primavera di Beirut contro il governo che “puzza” ALBERTO STABILE BEIRUT DAVANTI AL mausoleo che accoglie le spoglie di Rafiq Hariri e sotto gli ispidi minareti della moschea che lo stesso ex premier assassinato il 14 febbraio del 2005 volle ad immagine e somiglianza della sontuosa Moschea Blu di Istanbul, i dimostranti del “29 agosto” hanno dato sfogo alla rabbia verso i “padroni” del Libano. «Mettiamo fine al regime delle mafie» recita un graffito. «Siete cani da guerra», accusa un’altra scritta. «Il Libano non è il vostro negozietto all’angolo... », frase seguita dalla parola che più spesso ricorre sui muri dei palazzi e sui recinti dei cantieri: «Ladri!». Tira una brutta aria a Beirut. Il Centre de Ville, o Downtown, come viene chiamato il cuore commerciale della città, è deserto. I negozi sono vuoti, o chiusi. I Palazzi del Potere sono resi inaccessibili da barriere di metallo e da doppie e triple spirali di filo spinato. La piazza dell’Orologio su cui si affaccia il Parlamento è isolata. Il Gran Serraglio, sede del governo, sembra una fortezza assediata da un’armata nemica. Quella che era nata come una protesta civile, provocata da un problema pratico, come la mancata raccolta dei rifiuti urbani e il conseguente insopportabile accumulo di immondizie per le strade, è sfociata in uno scontro violento con l’esecutivo e in una sorta di contestazione globale dell’intera architettura del potere libanese, basata sulla spartizione delle principali cariche e funzioni dello Stato su base settaria, vale a dire alle tre principali sette religiose, cristiani, musulmani sunniti e musulmani sciiti. Ora, questo modello, un tempo osannato come il trionfo del compromesso contro l’autoritarismo dei regimi arabi, ha smesso di funzionare e lo Stato, le istituzioni libanesi sono sprofondate nella paralisi. Il movimento che, a partire dalla crisi dei rifiuti, ha voluto segnalare il suo sdegno verso i responsabili del degrado lanciando lo slogan “ Puzzate!”, da cui ha preso anche il nome, non è chiaramente la causa, e neanche una concausa, dello stato in cui versa il Libano ma semmai una conseguenza della crisi. Una conseguenza che, secondo il politologo Rami Khouri, va accolta con favore: «Stiamo assistendo — dice — alle doglie che porteranno alla nascita del Cittadino libanese. La gente è scesa in piazza per una sua scelta individuale, non in quanto appartenente ad una setta o perché mandata a protestare dal leader della sua setta d’appartenenza. È una battaglia tra la dignità e i diritti dei cittadini e 20 l’incombente, inossidabile struttura oligarchica del potere basata sugli interessi della famiglia e del clan». Nella piazza dedicata a Riad al Solh, il primo Premier nominato dopo l’indipendenza ottenuta nel 1943 e ucciso dai nazionalisti siriani nel luglio del 1951, le tende dei movimento resistono sotto il solleone dell’interminabile estate libanese. Per due settimane è stato questo il cuore della protesta, quando un gruppo di 14 at-tivisti ha iniziato uno sciopero della fame contro il ministro dell’Interno e dell’ambiente, Mohammed Machnouk, chiedendone le dimissioni. Una delle voci più combattive era quella di Waref Sleiman, studente di architettura, sui vent’anni, sorriso accattivante, barba incolta, capigliatura ribelle. Chiedo a Waref perché hanno deciso di interrompere il digiuno. Risponde: «Quando abbiamo realizzato che il ministro Machnouk non ha la spina dorsale, abbiamo deciso di concludere lo sciopero delle fame », risponde sprezzante. Un gesto, precisa, che non va interpretato in alcun modo come un cedimento: «La strada è nostra, oggi e domani. Nessun ritiro, nessuna resa». La risposta delle autorità, più che polemica è incomprensibile. «I dimostranti vogliono essere picchiati — ha detto Machnouk in un intervista alla tv di Hariri commentando i continui incidenti e la mano spesso pesante della polizia — così possono apparire sanguinanti alla televisione e far passare l’idea che sono vittime, che sono oppressi». È in questa giostra di reciproche incomprensioni che la situazione si avvia verso una fase di stallo. Il governo ha varato un piano d’emergenza per i rifiuti approntato dal ministro dell’Agricoltura, Akram Shehayeb, druso, seguace di Walid Jumblatt. L’immondizia è sparita dalle strade (segno che la crisi si poteva forse evitare), ma il movimento ha respinto il piano che prevede la divisione dello smaltimento fra tutte e sei le province libanesi, e, secondo i militanti del “29 Agosto”, un’ulteriore moltiplicazione dei profitti garantiti alle ditte private assegnatarie dello smaltimento con il corredo della inevitabile corruzione dei politici. In compenso, anche se l’aria a Beirut è diventata momentaneamente più respirabile, i movimenti della società civile si sono moltiplicati. Oltre a “Puzzate”, alla grande marcia hanno aderito anche “Siamo disgustati”, “Lasciateci soli”, “Chiediamo conto”. Quest’ultimo gruppo vuole introdurre il principio di responsabilità per una classe politica sostanzialmente irresponsabile. A questa marea montante di scontento i politici possono oppure null’altro che il loro fallimento. Venticinque anni dopo la fine della guerra civile, lo stato non è capace di fornire ai cittadini acqua potabile, energia elettrica continuativa, scuole pubbliche accettabili, ospedali e cure mediche almeno per i più bisognosi. In Libano solo chi ha molto denaro vive bene e comanda. 21 INTERNI del 21/09/15, pag. 2 Il Senato è eletto dal popolo e la Carta non si cambia così Il costituzionalista - spiega il trucco dell’elezione indiretta di Palazzo Madama voluta dal disegno di legge Boschi: è un falso, altro che Bundesrat In un articolo intitolato Perché è meglio indiretta, apparso di recente su Il sole 24Ore, Roberto D’Alimonte, autorevole ed ascoltato studioso di sistemi elettorali, ha ribadito la sua contrarietà all’elezione diretta del Senato sulla base di due concisi argomenti: 1) L’elezione indiretta è da preferire perché su 28 paesi dell’Unione europea, 15 hanno un sistema monocamerale, 8 prevedono l’elezione indiretta e solo 5 l’elezione diretta. Pertanto “la proposta in discussione al Senato” non costituirebbe affatto “un’anomalia”; 2) Quanto al modello indiretto di elezione, per D’Alimonte “non è semplice rispondere” se sia meglio il modello previsto per il Bundesrat della Repubblica federale tedesca – nel quale sono i Governi locali a rappresentare i Länder – oppure il modello Boschi, nel quale sono i consigli regionali e i consigli provinciali di Trento e Bolzano ad eleggere i senatori: 74 tra i consiglieri regionali e 21 tra i sindaci dei comuni capoluogo. Pertanto, non essendo semplice rispondere al quesito, è opportuno non “rinviare sine die una riforma che il paese attende da più di trenta anni”. In apertura, D’Alimonte rileva che “sui metodi di elezione delle seconde camere in Europa si sta facendo in questi giorni parecchia confusione”. Il che è vero. È però altrettanto vero che uno dei maggiori motivi di confusione sta proprio nell’inesattezza della locuzione “elezione indiretta” generalmente utilizzata per designare sia il modello tedesco, sia il modello previsto dalla riforma Boschi. Infatti, se i cittadini eleggono i consiglieri regionali e provinciali, e questi a loro volta eleggono i senatori, non si può dire, per la proprietà transitiva, che i cittadini eleggano (indirettamente) anche i senatori. Sono infatti esclusivamente i consigli regionali e provinciali ad eleggere i senatori. Quindi è solo per intenti mistificatori, per ignoranza oppure per addolcire la pillola che si allude alla futura elezione dei senatori come se saranno indirettamente scelti dai cittadini. Si badi bene: se tale tesi rispondesse a verità, si dovrebbe allora concludere che anche il Presidente della Repubblica è eletto indirettamente dal popolo. Mentre è a tutti noto che le Camere in seduta comune sono liberissime nella loro scelta. Del pari inesatto è sostenere che l’elezione dei componenti del Bundesrat sarebbe indiretta. Il modello vigente costituisce una conseguenza dell’ordinamento federale instaurato dalla Costituzione imperiale del 1871, che mantenne in vita gli Stati preesistenti trasformandoli in Länder, mentre l’unificazione monarchica italiana li soppresse del tutto (di qui la difficoltà storica più che giuridica di trasformare il nostro Senato in una specie di Bundesrat). Il Bundesrat tedesco è quindi costituito non da parlamentari, ma dai 16 Länder rappresentati dai rispettivi Governi, nella persona di uno o più rappresentanti, che, a seconda dell’importanza del Land, hanno a disposizione da 3 a 6 voti per ogni deliberazione. Quand’è, allora, che si può correttamente parlare di “modello indiretto”? Risposta: solo quando i cittadini eleggano i Grandi elettori, e questi, a loro volta, eleggano i senatori (Leopoldo Elia). Il che appunto avviene in Francia, dove sono i cittadini 22 ad eleggere i 150 mila Grandi elettori che dovranno eleggere i 348 Senatori, laddove in Italia non sarebbero i cittadini, ma poco più di mille consiglieri regionali e provinciali a dover eleggere solo 95 senatori. In conclusione, le ragioni in base alle quali il Senato dovrebbe continuare ad essere direttamente eletto sono assai serie. Direi, anzi, indiscutibili. Esse discendono da ciò: poiché anche dalla riforma Boschi gli è riconosciuta la spettanza delle funzioni legislativa e di revisione costituzionale, sarebbe manifestamente incostituzionale se le rispettive deliberazioni, vincolanti per tutti i cittadini, non rinvenissero la loro legittimazione nel voto dei cittadini. Nel proclamare che “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, l’articolo 1 della nostra Costituzione garantisce infatti che la funzione legislativa e la funzione di revisione costituzionale – massime espressioni della sovranità popolare – debbano essere riconducibili “alla volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare” (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014). Beninteso, l’elettività del Senato è solo uno dei molti punti critici della riforma Boschi, ma è di grande importanza. Il riconoscimento del suffragio universale per il Senato ha infatti l’indiscutibile merito di evitare – almeno in liea di principio! – che la scelta dei candidati alla carica di senatore sia coinvolta nelle beghe e negli scandali che notoriamente coinvolgono la politica locale. Postilla. Leggo che, per tacitare la minoranza PD, sarebbe in via di presentazione un emendamento secondo il quale spetterebbe alle leggi regionali disciplinare le modalità di valutazione dei consiglieri regionali candidati al Senato. Emendamento che però sarebbe palesemente incostituzionale poiché, essendo il Senato un organo dello Stato, la relativa legislazione elettorale rientra nella competenza esclusiva statale [articolo 117 comma 1 lettera f), Cost.]. Né si pensi che, per introdurre una tale norma bislacca, potrebbe essere modificato anche il citato articolo 117. La Corte costituzionale, in decine di sentenze, ha infatti sempre sottolineato l’incostituzionalità di leggi regionali che pretendevano di disciplinare attività strumentali del funzionamento di organi dello Stato. del 21/09/15, pag. 12 L’ultimatum di Renzi a Pierluigi “Ora ci contiamo,stop ai rilanci” GOFFREDO DE MARCHIS IL RETROSCENA ROMA . Lo schema della direzione è proprio quello meno gradito dalla sinistra del Pd. «Il voto finale è sicuro», dice Matteo Renzi ai suoi fedelissimi. Come è successo sul Jobs Act e sulla legge elettorale, creando un vincolo di maggioranza alle scelte dei parlamentari in aula. Anche perché il premier valuta le ultime uscite di colui che è il suo vero sfidante nella partita della riforma. «Ho visto che Bersani chiude rispetto a un accordo. E ho l’impressione che vogliano solo e sempre rilanciare». In questo caso niente intesa, nessun patto con la minoranza e si andrà allo scontro in aula convinti di avere i numeri per farcela anche senza i dissidenti. Il premier non scopre le carte sull’apertura concreta che farà oggi pomeriggio per sciogliere il nodo dell’elettività dei senatori. Ma è proprio un impegno chiaro e limpido ciò che chiedono i dissidenti, altrimenti finirà al solito modo: la minoranza non parteciperà al 23 voto della direzione dimostrando plasticamente una spaccatura interna. Roberto Speranza ripete le parole pronunciate negli ultimi giorni: «Il voto in quell’organismo non può essere impegnativo quando si cambia la Costituzione ». Quindi stavolta non ci potranno essere appelli a seguire le decisioni dei vertici. Le dichiarazioni ufficiali della domenica ancora estiva non nascondono un clima teso. Vasco Errani, che ha ascoltato Pier Luigi Bersani alla chiusura della festa dell’Unità di Bologna, confida: «So che si sta lavorando sul comma 5 dell’articolo 2». Quindi le parti trattano, cercano una strada unitaria. Ma come? Questo è il punto. Con senatori eletti o senatori indicati? I duellanti, Renzi e Bersani, ci tengono a sottolineare la loro coerenza nell’immobilismo delle posizioni. L’ex segretario nega una sua chiusura rivendicando di aver sempre indicato alcuni paletti così come li ripete oggi. Poi certo, il punto chiave non sono il taglio dei deputati o le funzioni del nuovo Senato. Il punto rimane l’elezione diretta dei senatori. Il premier-segretario fa più o meno lo stesso: «Stiamo sempre lì: abbiamo indicato il termine ultimo per il voto della riforma a Palazzo Madama per il 15 ottobre. E il voto deve arrivare sul testo della Camera, già approvato con la doppia lettura conforme ». Salvo le correzioni sulle modifiche apportate a Montecitorio, quel minuscolo cuneo che serve a siglare un patto tra gli sfidanti del Partito democratico. Ma, spiega ai collaboratori, «considero una chiusura le parole di Bersani di sabato. Se vogliono solo rilanciare allora salta tutto». La conta di oggi in direzione può mettere una pietra sopra l’accordo, surriscaldando ancora di più l’atmosfera. Malgrado ci siano altri giorni per trattare. La scadenza degli emendamenti è mercoledì. Il governo può presentare sue proposte anche oltre questo termine. In più il Pd è appeso alla decisione di Piero Grasso sull’articolo 2: lo giudicherà emendabile tutto o solo in parte, magari proprio al comma 5 dell’articolo 2 dove aggiungendo una frase si soddisfano le richieste della sinistra? Il sottosegretario alle riforme Luciano Pizzetti considera vicina l’intesa, proprio in quel punto del testo. Speranza è ottimista, non crede che possa finire male ora che anche secondo lui si «è a un millimetro da un compromesso ». L’alternativa a un accordo del resto assomiglia a un disastro per tutti, almeno a sentire Massimo D’Alema. L’ex premier ha parlato ieri alla festa del Pd del Lussemburgo. Non ha mai pronunciato la parola scissione ma ha messo in guardia la guida renziana del partito. «Attenzione che più il Pd rompe con la sua comunità e più si materializza, di pari passo con la deriva centrista, la possibilità di una candidatura a sinistra ». Cioè di un movimento fuori dal Pd con una parte del popolo del Pd. «È un rischio estremo ma c’è», avverte D’Alema. Ovviamente l’ex premier non sfugge alla domanda sui voti presi da lui e quelli di Renzi. Il segretario non vuole tornare alle percentuali dei Ds guidati da D’Alema. «Renzi è un bugiardo - sentenzia D’Alema - . Nel ‘96 il Pds era al 21 per cento e con gli altri dell’Ulivo facevamo il 36 per cento. Questi sono i numeri». Tra i protagonisti diretti della direzione di oggi però D’Alema non c’è. A meno che non abbia pronto un intervento dal podio della sala all’ultimo piano di Largo del Nazareno. La battaglia è tra bersaniani e renziani e dopo l’intera estate passata a lanciarsi messaggi a distanza, con interviste o discorsi alle feste dell’Unità, si giunge al momento decisivo, a un faccia a faccia negli organismi ufficiali. del 21/09/15, pag. 12 Senato, nel Pd è il giorno della conta 24 Oggi il parlamentino del partito convocato da Renzi voterà sulla linea da seguire in Aula sulla riforma Boschi: la sinistra vada in pizzeria e si metta d’accordo. Bersani: se si vuole, intesa a un millimetro ROMA L’accordo interno al Pd sulla riforma del Senato somiglia alla freccia di un’automobile: ora «c’è», e ora «no». E quando «non c’è» volano accuse tra le parti. Anche se intanto Matteo Renzi ieri ha fatto annunciare una certezza: alla direzione di oggi farà il punto su tutte le riforme e quindi chiederà al partito un voto finale. Prima il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, da Torino, aveva detto che «la riforma è condivisa al 90%», sottolineando che quel che manca al traguardo è responsabilità della minoranza del suo partito: «Trovino una pizzeria, si mangino una pizza tutti insieme, si facciano una telefonata, ma decidano che cosa vogliono fare. Non se ne può più di questi avanti e indietro». E, in merito al nodo cruciale dell’elettività diretta dei nuovi senatori, la Boschi ha insistito sulla validità del testo governativo: «Se il Senato deve rappresentare i territori, non possono non esserci consiglieri regionali e sindaci. Per questo abbiamo proposto che ci siano eletti di secondo livello». Comunque, ha aggiunto il ministro, «si arriverà all’approvazione in Senato entro il 15 ottobre. Se il Pd perde questa sfida, il rischio è perdere credibilità come partito». Eppure la minoranza continua a ripetere che non potranno essere i consigli regionali a eleggere chi dovrà sedere a Palazzo Madama, ma che dovranno sceglierli direttamente i cittadini. Lo ha ribadito Vannino Chiti: «Bisogna che questo principio sia stabilito con chiarezza, se si vuole trovare una mediazione degna della Costituzione. La riforma non si fa con il pallottoliere, ma con il dialogo». E Pier Luigi Bersani insiste: se si tocca l’articolo 2 e si dà potere ai cittadini l’accordo è a un millimetro (alla Festa dell’Unità di Bologna, l’ex segretario commenta i suoi rapporti con il premier: «Son sempre stato amico fraterno con chi mi ha sostituito. Con Errani, in Regione Emilia-Romagna, con Letta al ministero. Perché non riesco a esserlo con Renzi? Per statistica non mi sembra un problema mio»). Ma accuse ancora più esplicite al governo seguitano ad arrivare dalle opposizioni. Roberto Calderoli, vicepresidente leghista del Senato, resta pronto a combattere in Aula con «milioni di emendamenti». E dice, intervistato da Maria Latella su S ky Tg24 , che l’intesa «non c’è mai stata. Siamo di fronte a una commedia in cui il gatto Renzi e la volpe Boschi, coppia spregiudicata, tentano di convincere gli antagonisti a votare la riforma. C’è una campagna acquisti in corso». Tesi sostenuta anche da Maurizio Gasparri (FI): «Per Renzi questa è una prova di forza. Non gli importa che questa riforma sia sbagliata. Contano i numeri. Quello che sta accadendo al Senato è vergognoso». Il capogruppo azzurro alla Camera Renato Brunetta aggiunge: «L’Italia non è uscita dalla crisi. Il governo non ha puntato a far ripartire il Paese, ma a conquistare il potere: con la legge elettorale e questa riforma». Infine, per il M5S, interviene il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio: «Riforma inutile e dannosa. Non abolisce il Senato, ma ne crea uno in cui entreranno consiglieri regionali e sindaci che potranno salvarsi dalla galera con l’immunità parlamentare». R. R. del 21/09/15, pag. 9 Intercettazioni, stretta finale Ma il governo cambia idea 25 Niente udienza “di selezione”per decidere cosa è rilevante e cosa no Una commissione di saggi sceglierà le nuove norme.Domani il voto finale Francesco Grignetti Sarà la settimana della verità per le intercettazioni: domani la Camera è chiamata a votare l’ultimo capitolo, forse il più controverso, della riforma del processo penale. La novità è che il governo e la maggioranza hanno cambiato idea sul meccanismo che dovrebbe impedire la pubblicazione di intercettazioni «non rilevanti». Già perché quella «udienza di selezione» alla presenza di pubblici ministeri e avvocati che per tanto tempo è stata considerata la panacea del problema, è stata affondata dalle osservazioni dei tecnici. Come ha spiegato ai suoi la presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, Pd, servirebbe piuttosto un «procedimento di selezione». E sta crescendo il consenso per il lodo Pignatone-Bruti-Lo Voi (dal nome dei procuratori di Roma, Milano e Palermo) che in un’audizione parlamentare avevano ipotizzato di diffondere in conferenze stampa le ordinanze dei gip o anche i decreti di sequestro e perquisizione dei pubblici ministeri. Se poi nell’atto fossero contenute intercettazioni inopportune, sarebbe colpa del singolo magistrato. Disse in quell’occasione Giuseppe Pignatone: «Si può riflettere se adottare lo stesso trattamento anche per la richiesta del pubblico ministero che preluda all’ordinanza del gip». E Bruti Liberati: «Occorrerebbe anche salvaguardare la parità tra testate e tra giornalisti». L’udienza che non va La novità degli ultimi giorni è che dalla legge sta per sparire il riferimento all’udienza di selezione. Si sono resi conto, di fronte alle articolate obiezioni dei magistrati (inascoltati invece sulla rigidità di imporre l’iscrizione di massa al registro degli indagati), che stavano per creare un mostro: imponendo un’udienza soltanto per esaminare le intercettazioni, si rischiava una toppa peggio del buco. La selezione tra intercettazioni rilevanti e irrilevanti, infatti, si potrebbe mai fare prima di un arresto? Una procura avrebbe dovuto chiamare l’avvocato difensore di un arrestando il giorno prima dell’arresto per esaminare tutti assieme le intercettazioni che lo riguardavano? Grottesco. Ovviamente una selezione con contraddittorio tra le parti si può fare solo a posteriori di una ordinanza. Ma se l’udienza di selezione si fa una settimana o un mese dopo un arresto, peraltro possibile già oggi, come impedire che la serie integrale delle intercettazioni, contenute negli atti a supporto, finisca ai giornalisti non appena si va davanti al Tribunale della Libertà? La delega Il governo, fin dal primo testo del dicembre scorso, ha sempre chiesto una delega per riformare le intercettazioni. L’obiettivo dichiarato è bilanciare meglio le norme, tutelando i tre profili costituzionali coinvolti: diritto alla privacy dei cittadini, diritto di cronaca dei giornalisti, segretezza delle indagini dei magistrati. Si profila però ora una delega più vaga. E sul punto i grillini annunciano battaglia perché contrarissimi al metodo: vedono che le decisioni cruciali vengono sempre più spesso avocate dal governo ai danni del Parlamento e non ci stanno. Il ministro Andrea Orlando intende però andare avanti e anche decisamente. Subito dopo il voto della Camera annuncerà la costituzione presso il ministero di una commissione di saggi, «personalità dal profilo inattaccabile» ha detto a una delle ultime feste del Pd, per studiare tecnicamente la soluzione di questo rebus. L’idea che circola a via Arenula è di chiamare alcuni tra quelli auditi in Parlamento. Non sarebbe da meravigliarsi se Orlando chiamasse Pignatone, Bruti o Lo Voi, ma non si può escludere anche qualche colpo a sorpresa. Un nome alla Stefano Rodotà, ad esempio, che in Italia è giurista tra i più quotati sul versante della difesa della privacy. No ai farisei 26 I procuratori, nella loro audizione, erano stati espliciti. La situazione attuale è «farisaica»: la legge vieta la pubblicazione delle ordinanze, che però sono pubbliche e nella disponibilità di decine di avvocati. I tempi del black-out sono interminabili, però a violare i divieti i giornalisti rischiano una risibile multa. Meglio distribuire le ordinanze a tutti e non se ne parli più. Segreto rafforzato, invece, sugli atti a supporto, fino all’udienza preliminare, che in genere arriva un annetto dopo un arresto. Gli avvocati, da parte loro, sottolineano un punto della riforma che per loro è fondamentale: le intercettazioni tra un legale e il suo assistito vanno cancellate. «Ne va della sacralità del diritto di difesa», dice Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere penali. 27 LEGALITA’DEMOCRATICA del 21/09/15, pag. 21 Migranti in terra di boss La ‘ndrangheta e l’affare delle forniture Inchiesta dell’Antimafia sul centro d’accoglienza I gestori: «Le ditte? Hanno l’ok del Prefetto» dal nostro inviato a Isola Capo Rizzuto (Crotone) Goffredo Buccini Scusi, attorno a voi c’è la ‘ndrangheta? Piccolo sobbalzo: «Non capisco cosa sta dicendo, eh!, mi scusi lei». Dico: date lavoro e speranze in una zona, tra Isola Capo Rizzuto e Crotone, povera e disperata... Sospiro profondo: «...eeeh, mi dispiace quando vedo dei disservizi». No, dicevo: la sentite la pressione della ‘ndrangheta, quindi? Lieve pallore: «...c’è una cultura retrò, ma io sono sereno». Lei però è di Isola. Sa chi sono gli Arena? «Li leggo sui giornali, ma mica li vedo in giro, eh! E poi, un cognome cosa mai significa? Il mio professore delle medie si chiamava Arena!». Sono i padrini di Isola, comandano fino a Crotone. Gente retrò? «Chiusa. Ma lei non è qui per parlare di queste cose, no? Perché non parliamo del Cara?». Rigido nella sua giacchetta azzurrina, Francesco Tipaldi, 33 anni, direttore del Cara di Sant’Anna, qui, sulla Statale Ionica 106 che ha scritto una parte terribile della propria storia con il sangue, non pronuncia mai la parola ‘ndrangheta: ma non ha poi tutti i torti. Un Cara — un Centro di accoglienza per richiedenti asilo — può essere molte cose. Per gli investigatori antimafia di Catanzaro è un affare degli Arena. Questa, almeno, è la tesi di un’indagine ancora riservata (e da negare in via ufficiale) sui tentativi di infiltrazione nei servizi e nelle forniture che la Confraternita della Misericordia, gestore in convenzione del centro d’accoglienza, affida a imprese locali. Ghibli 2 (nome non casuale, la prima inchiesta Ghibli smantellò la parte militare del clan) si è a lungo inabissata in qualche cassetto ma infine è riemersa come un fiume carsico e punta entro l’anno a incastrare una dozzina di colletti bianchi: gli affiliati occulti. Fosse servito un faro in più, l’ha acceso l’attentato dell’anno scorso ai furgoni della «Quadrifoglio», la ditta del consigliere comunale isolitano Pasquale Poerio che al Cara fornisce il catering. Su un tavolo opaco dove talvolta si confondono vittime e collusi (a rischio di cantonate), la torta è fatta dei milioni erogati dalla prefettura di Crotone per il mantenimento dei rifugiati, ma anche di assunzioni e voti (qui lavorano in 400, con l’indotto «ci fai eleggere un sindaco, se vuoi», dice una fonte) e forse di intese massoniche, contatti con deputati, aspirazioni a un posto in Parlamento. Ma un Cara come questo, la mattina in cui lo visitiamo, è molto altro ancora. È 1.200 anime (al massimo dovrebbero starcene 800) di una dozzina di etnie diverse, tutte in attesa di un destino che viene deciso nel settore blindato della commissione territoriale. Ernest, ghanese, mi dice in un inglese sincopato: «Il 25 tocca a me, voglio il foglio, senza un documento in Europa non sei un uomo». Mustafà fa i salti di gioia, il «foglio» l’ha appena preso, ride con un poliziotto: «Adesso vado a vivere a casa tua!». Un Cara mescola filo spinato e latte per i bambini, botte e carezze, prostituzione e redenzione. Mary, nigeriana, ci ha partorito la sua Testimony due mesi fa, appena arrivata: 28 domani escono, le hanno prese in uno Sprar, ricovero a misura di mamma e neonata. La Misericordia, fondata nel 1988 dal parroco di Isola, Edoardo Scordio, sarà pure diventata una calamita per arrampicatori, ma attira senza dubbio volontari e ragazzi generosi. Nei prefabbricati, che hanno sostituito i container, si arrangia una parvenza di vita, panni stesi, materassi a terra, «noi abbiamo i subsahariani, non gli ingegneri siriani». Issangae va di continuo in infermeria. È alto due metri, fissato con la pressione. L’hanno già bocciato, ha fatto ricorso, «in Gambia non ci torno, sono gay e mi ammazzano», dice, guardando il muro del Cie, il centro di espulsione appena riattivato. I migranti disegnano madri come madonne addolorate, nel laboratorio di pittura. Poi animano rivolte feroci, l’ultima il 13 luglio, con la 106 occupata, i lacrimogeni, i voli cancellati nell’aeroporto che sta proprio qui di fronte. «Qui adesso ti sembra il paradiso e dodici ore dopo scoppia l’inferno». Il 4 settembre sono arrivati in un colpo solo 800 eritrei e la sera ne sono scappati trecento. La chiave è Crotone. Non si capisce il Cara (che in realtà sta nel vicino territorio comunale di Isola) se non si capisce Crotone. Una città abbandonata dall’Italia dopo la chiusura delle sue fabbriche. Senza autostrada. Con una stazione da cui smontano i binari, tanto non ci arriva più nessuno tranne i «dublinanti», che nemmeno li prendono al Cara, perché il permesso di soggiorno lo hanno già e sono costretti dal regolamento di Dublino a tornare qui, alla questura d’arrivo, per rinnovarlo, bivaccando, nel frattempo, due, tre mesi in stazione. Peppino Vallone, sindaco pd di Crotone, dice che «la Misericordia fa business». Pare paradossale, ma il Cara è l’ultima cosa viva in questa terra morta. Il catering un tempo era crotonese. Il barista dell’aeroporto mi sussurra di «lamentele dei neri»: «Gli danno razioni da malati d’ulcera, vengono qui affamati». Noi vediamo in verità pietanze abbondanti (pasta, pollo, patatine, frutta), ma, chissà, la nostra visita non è certo a sorpresa. A domanda, nessuno si lagna. Ma un pachistano sorride enigmatico «Ogni stomaco è uno stomaco diverso». Pure l’uso di buoni da spendere solo dentro il Cara, in luogo del «pocket money» da dare ai migranti, è molto controverso, benché previsto dalla convenzione con la prefettura. Chiedere lumi è impossibile, il prefetto ci rifiuta il colloquio. Forte è la sensazione di un temporale in arrivo. Leonardo Sacco, governatore della confraternita e pupillo di don Scordio, non si fida dei giornalisti. Mi dirotta sul suo avvocato, Francesco Verri: il volto migliore che la confraternita possa offrire oggi. Verri parla con passione, toni franchi: «Non sono un legale di ‘ndrangheta, sono stato parte civile per Dodò», il bimbo ammazzato qui dalle pallottole della mafia. Sostiene che la Misericordia ha le carte in regola; che ogni assunzione ha l’avallo della prefettura. Ammette, sì, che i fornitori subiscono pressioni, «ma li ho sempre spinti a denunciare chiunque». Esclude quindi che teste di legno degli Arena abbiano lavorato o lavorino per il Cara? «No. Quel che posso dire è che la prefettura fa le sue indagini; se c’è un rischio, licenziamo, rescindiamo. Ma se questo percorso non fosse compiuto o fosse in itinere, io non lo so». Efficace. L’unica sfasatura è quando, per due volte, definisce «presunto boss» un mafioso conclamato (per sentenza) come il padrino storico Nicola Arena. Ovviamente, un lapsus casuale. E raro: perché in Calabria quasi nulla si dice per caso. (1 - continua) 29 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 21/09/15, pag. 16 Ue, nella bozza del vertice multe da 6500 euro per ogni profugo rifiutato Settimana decisiva sulle quote,si va verso un voto a maggioranza per superare il no dei paesi dell’Est Kerry:100mila in Usa nel 2017 ALBERTO D’ARGENIO ROMA . È la settimana decisiva per capire se l’Europa sarà in grado di mettere fine al caos rifugiati, ma ancora una volta all’appuntamento i governi arrivano spaccati. Per costringere il fronte dell’Est ad accettare la solidarietà tra partner, spunta l’ipotesi di far pagare alle capitali egoiste 6.500 euro per ogni richiedent e asilo scaricato alle cure degli altri paesi dell’Unione. E mentre John Kerry annuncia che nel 2017 gli Usa ospiteranno fino a 100mila rifugiati, in Europa si va verso un voto a maggioranza che metterà nell’angolo l’ex blocco sovietico, uno shock politico inevitabile dopo le scelte sul filo della xenofobia di leader come l’ungherese Orbàn. Domani a Bruxelles si riuniscono i ministri degli interni dei Ventotto, mercoledì toccherà ai leader. Sul tavolo la proposta della Commissione di ripartire tra tutti, dopo una prima tranche di 40mila richiedenti asilo, altri 120mila migranti arrivati in Italia, Grecia e Ungheria. Contro le quote restano Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Lettonia. Scontato che questa volta, dopo il flop della scorsa settimana, si andrà al voto per mettere in minoranza i ribelli, ma per limitare i danni po-litici si cerca di tenere a bordo almeno Varsavia, la capitale dal peso specifico maggiore. Ieri gli ambasciatori dei Ventotto hanno lavorato fino a tardi per limare le conclusioni del Consiglio Interni. Per permettere al governo di Ewa Kopacz di rientrare salvando la faccia in piena campagna elettorale (lo spauracchio è il ritorno al potere del partito estremista di Jaroslaw Kaczynski), verrà annacquata l’obbligatorietà delle quote: tutti saranno vincolati dal voto, anche a maggioranza, ma il numero di rifugiati siriani o eritrei che ogni governo dovrà accogliere non sarà più quello stabilito con criteri vincolanti dalla Commissione, ma sarà deciso dai ministri in una nota allegata alle conclusioni. Anche se le cifre ricalcheranno quelle calcolate da Bruxelles, i governi contrari potranno dire ai propri elettori di non essersi fatti imporre quote dall’Unione, bensì di averle accettate volontariamente. Inoltre il blocco dell’Est eviterà il precedente di un sistema automatico vincolante in vista della battaglia di ottobre, quando Bruxelles cercherà di rendere permanente il meccanismo delle quote per emendare il regolamento di Dublino che ad oggi lascia ogni Paese da solo nel gestire i migranti. Per evitare il fuggi fuggi registrato a luglio, con molti governi che hanno preso un numero irrisorio di rifugiati nella redistribuzione dei primi 40mila, si pensa a un sistema sanzionatorio per chi cercherà di sfilarsi. La proposta originaria di Bruxelles prevedeva che una nazione potesse esimersi in cambio di una multa pari allo 0,002 del Pil, ma l’idea non piaceva alla Germania (la Merkel non vuole permettere a nessuno di sottrarsi alla solidarietà) e a Italia e Francia, eticamente e politicamente contrarie a scambi soldimigranti. Per venire incontro a Berlino, ieri si discuteva se sostituire l’esenzione totale con la possibilità di chiedere, dietro motivi comprovati, di sottrarsi dal prendersi carico di un numero di richiedenti asilo fino al 30% della quota nazionale. In cambio il governo in questione dovrebbe pagare 6.500 euro a migrante rifiutato (la Polonia con 20 milioni 30 potrebbe scaricare 3000 rifugiati). I richiedenti asilo saranno assorbiti dagli altri paesi, ai quali andranno i soldi della “sanzione”. Ieri sera questa soluzione è stata al centro della discussione, ma resta l’ostilità di molti paesi a permettere ai leader estremisti di pagare anziché salvare famiglie in fuga dall’inferno siriano. Gli ambasciatori torneranno sul punto oggi, quindi la palla passerà ai ministri. Si discute poi cosa fare dei 54mila migranti che l’Ungheria potrebbe ricollocare tra i partner Ue ma che Orbàn, pur di opporsi alle quote, si terrà in casa. O saranno aumentate le quote in favore di Italia e Grecia (al momento 39mila e 50mila da ricollocare), oppure saranno “congelati” per essere prelevati in futuro da chi si troverà in emergenza (Slovenia, Croazia, Austria). Non è ancora chiaro a cosa porterà il summit di mercoledì. L’auspicio è che i ministri domani chiudano sulle quote per permettere ai leader di ritrovare un linguaggio comune e attutire lo strappo guardando ai punti sui quali c’è accordo. Per questo i premier parleranno di un pacchetto di assistenza alla Grecia, dove la gestione dei migranti è al collasso, e di un sostegno economico a Turchia, Giordania e Libano, che ospitano milioni di siriani. Si parlerà anche di una strategia di lungo termine sulla Siria (ieri il ministro Pinotti ha detto che sono 87 i foreign fighters collegati all’Italia). Eppure sembra difficile che i leader solidali, a partire da Merkel, Renzi e Hollande, non si scontrino con quelli estremisti, Orbàn in testa. del 21/09/15, pag. 10 Vertice Ue, intesa vicina sulle quote E gli Usa: ne accoglieremo 100 mila Bozza di compromesso: sì alla redistribuzione fra gli Stati, senza obbligo Marzo Zatterin Entrano in scena gli «amici della presidenza» e spunta una bozza di compromesso con cui si prova a salvare la faccia dell’Europa solidale davanti alla drammatica ondata migratoria. Il Lussemburgo, guida dell’Ue per il semestre, ha assemblato una ricetta per sdoganare il principio che porta alla redistribuzione 120 mila profughi fra (quasi) tutti gli stati dell’Unione, eliminando ogni elemento vincolante suggerito dalla Commissione. Centrale nel caso il ruolo dell’Ungheria. Ha rinunciato alla quota di migranti da cedere e s’è detta disposta a prenderne in carico sino a 2353. Volontariamente, come gli altri frenatori dell’Est. Così ha liberato 54 mila posti che potrebbero finire in una riserva, pensata inizialmente per Italia e Grecia (da cui dovrebbero partire gli altri 66 mila), ma aperta per aiutare le capitali del fronte sud-orientale. Si sta cercando di non votare, di non formalizzare la palese spaccatura fra i Ventotto. Dopo lo scacco di una settimana fa, domani si ritrovano a Bruxelles i ministri degli Interni Ue. Devono approvare l’impegno di ripartire 120 mila profughi, per consenso o maggioranza qualificata. Arrivare alla conta e isolare Praga, Bratislava e Bucarest, sarebbe tuttavia pericoloso, soprattutto perché mercoledì i ventotto leader si rincontrano a cena proprio con l’idea di discutere una politica estera per limitare i flussi migratori. La mossa di Kerry Frau Merkel chiede azione e i più vogliono seguirla. Sarebbe anche una replica alla mossa solidale dell'amministrazione Obama, che ieri ha rivelato l’intenzione di alzare il numero dei rifugiati da accogliere sino a 100 mila nel 2017 (da 70 mila). L’annuncio è stato dato a 31 Berlino dal segretario di Stato John Kerry, dopo una serie di incontri col governo tedesco. «Questa decisione - ha spiegato il capo della diplomazia Usa - è in linea con la miglior tradizione americana di come una terra che offre sempre altre possibilità ed è un segnale di speranza». Perché il summit europeo possa essere costruttivo, si deve disinnescare la miccia dei 120 mila. «Anche a costo di annacquare le proposte della Commissione», suggerisce una fonte. Inevitabile che ai rappresentanti permanenti dei ventotto presso l’Unione sia toccata una domenica di lavoro. Hanno discusso a fondo le due pagine della bozza di conclusioni scritte dai lussemburghesi per i ministri degli Interni e le 25 del testo legale in annesso per la redistribuzione. E’ qui che sono apparsi «gli amici della presidenza», i circa venti stati che vorrebbero una politica realmente solidale per accogliere i migranti e andare oltre l’emergenza. Fra giovedì e venerdì «è stato possibile risolvere le principali questioni», suggerisce il testo visto da «La Stampa». Restano punti d’attrito e il risultato è aperto. Eppure a tarda sera non mancavano segni di ottimismo. La riserva Budapest rinuncia a cedere i 54 mila che la Commissione le ha assegnato sulla carta il 9 settembre. Lo fa per non essere costretta ad attrezzare gli hot spot, i centri d’accoglienza all’europea, dice un diplomatico. Per assegnare la quota magiara la presidenza propone di pensare subito a Italia e Grecia. Oppure di creare una dote per il futuro nell’Europa sudorientale, strada che risulta raccogliere più favori. Eleggibili: Austria, Bulgaria, Romania, Croazia, Grecia, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Italia. Niente vincoli La presidenza ha soppresso le chiavi di distribuzioni (pil etc.) delineate dalla Commissione, ma ha tenuto i numeri sulle attribuzioni. Così otterrebbe lo stesso risultato senza creare precedenti e su base volontaria. Il buy out La proposta di Juncker stabiliva che, in circostanze speciali, le capitali potessero astenersi dall’ospitare e pagare lo 0,002% del pil come contributo agli altri. Adesso la bozza elimina il fattore straordinario e stabilisce che si possa comprare la non ospitalità, in misura del 30% della quota. Al costo di 6500 euro per profugo non preso, la somma che l’Ue versa a chi invece li accoglie. Quasi una multa. Hotspot C’è pressione su Italia e Grecia. Devono assicurare che chi arriva sia identificato e registrato secondo norma. Tedeschi, francesi, olandesi, belgi e austriaci chiedono garanzie, soprattutto per evitare flussi secondari, cioè che questo o quel paese lasci passare i migranti. Vanno inaugurati "senza ritardi", si legge nella bozza di conclusioni degli Interni. Ma allo sherpa di Berlino ieri non bastava. Nessuno si fida sino in fondo delle autorità elleniche. E nemmeno delle nostre. del 21/09/15, pag. 10 Salviamo la libertà di movimento in Europa L’emergenza migranti rischia di bloccare uno dei principali motori di crescita dell’Unione: la possibilità di spostarsi liberamente tra Stati. 32 Oggi ogni 100 cittadini comunitari, solo 3 risiedono in un Paese diverso da quello di origine di Ilaria Maselli Si stava meglio quando si stava peggio, si sente dire troppo spesso. E invece no, perché quando si stava peggio gli emigrati italiani abitavano nelle baracche della provincia di Charleroi, dove oggi atterrano gli aerei di Ryanair, e venivano mandati a lavorare nelle miniere in Belgio in cambio di carbone. Cinquant’anni dopo gli accordi bilaterali sul modello gastarbeiter – lavoratori ospiti – l’architettura dei flussi migratori in Europa è assai cambiata. Per cominciare, non si parla più di “migrazione” ma di “mobilità”, quando a spostarsi è un cittadino comunitario. E questa possibilità di spostarsi in un altro Paese dell’Unione europea è uno dei diritti cardine della cittadinanza europea. L’arrivo dei rifugiati in queste settimane potrebbe creare il casus belli per limitare la libertà di circolazione sul Continente. La difficile situazione finanziaria della Grecia prima, e la crisi dei rifugiati subito dopo, hanno messo a dura prova la tenuta dell’integrazione europea nel corso degli ultimi mesi. Il passo dalla controversia sulla distribuzione delle di rifugiati nei diversi Paesi alla richiesta di limitazioni al diritto di circolazione può essere breve. E, come diceva Giulio Andreotti, a pensar malesi fa peccato, ma spesso ci si indovina. I segnali purtroppo non mancano: l’Ungheria di Viktor Orbàan che blocca i treni verso l’Austria, la Danimarca limita quelli verso la Germania. E, più esplicita di tutte, la proposta del ministro degli Interni della Gran Bretagna Theresa May di limitare l’arrivo dei cittadini dell’Unione europea a quelli che hanno già un lavoro, insieme al primo ministro Belga Charles Michel dopo il mancato attentato sul treno Amsterdam-Parigi. Diciamolo chiaro: il problema nell’Ue è che di mobilità tra paesi ce n’ è troppo poca e non troppa! I dati non sono facili da reperire, ma secondo dati Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione europea, aggiornati al 2012, ogni 100 cittadini comunitari, soltanto 3 risiedono in un Paese diverso da quello di origine. Il tre per cento equivale all’incirca a 15 milioni di persone su un totale di 500, più o meno come se tutta l’Olanda fosse abitata da europei di ogni genere, eccetto gli olandesi. Sono molti? Per slegare la risposta a questa domanda da considerazioni soggettive, è utile guardare agli Stati Uniti, dove lo stock di residenti in uno stato diverso da quello di provenienza ammonta al 30 per cento, ben 10 volte il dato europeo. Il paragone regge ovviamente fino a un certo punto, in quanto gli Stati Uniti sono un paese federale a tutti gli effetti i cui cittadini parlano la stessa lingua. Eppure il dato è utile per capire che la retorica sull’emergenza mobilità non è supportata da riscontri concreti. A essere di proporzioni limitate non è poi soltanto lo stock ma anche il flusso: secondo gli stessi dati, a spostarsi oltre i propri confini ogni anno sono all’incirca 1,5 milioni di persone sui 28 Stati membri, una quantità di persone inferiore a quella degli abitanti di una città di piccola taglia come Praga. Stupisce quindi la proposta del ministro inglese May dopo che l’ufficio per il budget ha dovuto rivedere al rialzo le stime sulla crescita del Pil per il 20152016 proprio in reazione all’aumento dei flussi in arrivo. E in Italia? Si sente sempre più spesso parlare di fuga di cervelli da noi, specie in direzione della Germania, Paese in cui i dati sull’occupazione sono ad oggi particolarmente incoraggianti. Sempre nel 2012, circa 60.000 italiani hanno lasciato il paese per ricollocarsi in un altro stato europeo. Poco più degli abitanti di Rieti! Le statistiche tedesche analizzate da Benjaamin Elsner e Klaus Zimmermann mostrano che il flusso netto di cittadini provenienti dai Paesi cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) è stato di 20.000 unità nel 2010 e di 40.000 nel 2011. 33 La tendenza è dunque al rialzo negli anni della crisi, ma i totali sono ben lontani da far pensare alla mobilità come soluzione agli squilibri occupazionali del continente. Le cifre sulla mobilità in Europa non giustificano quindi le proposte di limitare il diritto dei cittadini comunitari a spostarsi senza restrizioni, né tantomeno l’allarme della fuga dei cervelli. E anche se le cifre fossero diverse e gli allarmi fondati, sarebbe comunque impensabile cercare di trattenere quelli che si apprestano a partire, perché gli stessi italiani che fanno la fortuna delle università inglesi o delle aziende olandesi non otterrebbero risultati altrettanto brillanti in un contesto di elevata disoccupazione e scarsa meritocrazia. La mobilità va quindi favorita nell’ottica della circolazione dei cervelli: vanno attratti i talenti di altri paesi e allo stesso tempo bisogna mantenere i contatti con gli italiani fuori. Perché in un’economia trainata da servizi e tecnologie non si puo pensare che la presenza fisica sia indispensabile alla creazione di valore aggiunto. del 21/09/15, pag. 11 Mujica all’Europa: “I migranti? Una soluzione, non un problema” L’ex presidente uruguaiano a Expo per parlare di agricoltura Alberto Mattioli Nei suoi 80 anni di vita, l’uruguaiano José Alberto Mujica Cordano, per tutti «Pepe», è stato guerrigliero e ministro, prigioniero politico per 14 anni e Presidente della Repubblica per cinque, dal 2010 al 2015, durante i quali ha istituito il matrimonio gay, legalizzato la marijuana ed è diventato un’icona progressista mondiale. Era il «presidente campesino», che viveva nella sua fattoria invece che a Palazzo, si era autoassegnato uno stipendio di 800 euro al mese, rifiutava di mettersi la cravatta e si spostava su un vetusto Maggiolino. Mujica è a Milano per due giorni. Ieri, scortato da Andrea Olivero, viceministro delle Politiche agricole, ha visitato Expo e inaugurato la mostra su «Un orto nella rete», il progetto di agricoltura sociale di Snam. Di agricoltura sociale riparlerà anche oggi, sempre a Expo. Nel frattempo, ancora e sempre senza cravatta, ha dispensato battute e saggezza. Non tutti sono d’accordo con quel che dice, nessuno nega che lo dica con una simpatia travolgente. Presidente, Expo le è piaciuta? «Per ora ho visto poco, soprattutto molta gente. Però è importante il tema dell’agricoltura. Perché l’agricoltura è il cibo della gente. E se il cibo l’abbiamo, nessuno se ne cura; se manca, ce ne accorgiamo subito». Per questo è venuto a parlare di agricoltura sociale? «Certo. Ma bisogna prenderla un po’ alla lontana. Il primo esercito professionale fu istituito a Babilonia o a Baghdad, insomma da quelle parti. Il suo compito era quello di far pagare la tasse ai campesinos, ai contadini. E la storia è continuata così fino a oggi. Ora è arrivato il momento di restituire qualcosa ai contadini. Il problema è che siamo tutti urbanizzati nella testa. Così ovunque nel mondo la gente abbandona le campagne e va in città. Adesso bisogna urbanizzare le campagne, cioè portare lì i servizi sociali, gli ospedali, le scuole. Altrimenti in campagna non resterà nessuno». A proposito di gente che emigra: se fosse un dirigente europeo, cosa farebbe di fronte alle masse umane che premono alle frontiere? «Io credo che prima si deve cambiare la testa degli europei, perché capiscano che l’accoglienza non è una questione di solidarietà. Per secoli, l’Europa ha mandato i suoi 34 giovani a popolare il mondo. Adesso gli europei sono sempre più vecchi e fanno sempre meno figli. La popolazione attiva è ormai minoritaria. Quindi le strade possibili sono due. O il settore attivo della popolazione aumenta di molto la sua capacità di produrre ricchezza e di sopportare il peso fiscale, cosa che mi sembra improbabile...» Oppure? «Oppure i vecchi del futuro se la passeranno molto male. Per questo dico che è un problema di mentalità. Passato lo choc, prima gli europei capiranno che l’immigrazione non è solo un problema ma anche una possibilità e meglio sarà per tutti». Altro tema di giornata: il suo amico Francesco a Cuba. «È un’ottima cosa che abbia fatto questo viaggio. E non solo per il mondo cattolico. Francesco sta combattendo una battaglia per rompere i pregiudizi e abbattere le barriere. Il suo sforzo di ringiovanire la Chiesa fa bene alla Chiesa ma anche al mondo, è un tentativo di renderlo più giusto. Per questo simpatizzo con Papa Francesco. Anche se sono ateo». C’è chi dice che, quanto a stile di vita, lui si sia ispirato a lei. «Ma no! Chi conosceva Bergoglio prima che diventasse Papa sa bene come si comportava. Lui è così. Il suo modo di vivere non è uno spettacolo». Veniamo a lei. Cosa l’ha resa più fiero dei suoi cinque anni da Presidente? «Che nel mio Paese la povertà è diminuita». Ha qualche rimpianto? «Moltissimi. Come tutti, credo. Noi uomini sogniamo molto di più di quello che riusciamo a fare». Nei suoi anni in galera, qual è stato il momento peggiore? «Credo quando mi dissero che un compagno cui volevo bene era morto». Ultima domanda: viaggia ancora in Maggiolino? «Su quel Maggiolino io ci morirò. È talmente vecchio che potrei comprare i pezzi di ricambio in farmacia! D’altronde ormai sono vecchio anch’io, e un vecchio che va ai 150 all’ora è un pericolo per tutti. Visto che la mia macchina non fa più dei 70, sono tutti al sicuro. Ma in realtà di Maggiolini ne ho due. Uno è quello che mi fu regalato quando fui eletto Presidente». E l’altro? «L’altro è quello che avevo prima. Ma l’ho prestato a un amico». del 21/09/15, pag. 17 TURCHIA Barcone speronato 13 morti,4 bimbi ROMA. La Guardia costiera greca ha recuperato tra le onde il corpo di una bimba di 6 anni, alla deriva al largo dell’isola di Lesbo. La piccola, ancora senza nome, è una delle vittime delle tante tragedie che quasi ogni giorno e ogni notte ormai si consumano tra la Grecia e la Turchia. Solo ieri tredici persone sono morte annegatequattro erano bambini dopo che un traghetto turco ha urtato un barcone carico di migranti al largo della città portuale di Canakkale, nella Turchia occidentale. Mentre un altro barcone con 46 persone a bordo si è rovesciato nella notte tra sabato e domenica al largo di Lesbo: in 20 sono stati soccorsi dalla Guardia costiera greca, ma gli altri 26 risultano dispersi in mare. 35 Ma non accenna a diminuire neanche il flusso della rotta mediterranea verso le coste italiane. Oltre 2000 persone, soccorse nelle ultime ore tra la Libia e il Canale di Sicilia, sono sbarcate a Crotone, Reggio Calabria, Porto Empedocle. del 21/09/15, pag. 18 Alla Manzoni, nel cuore della città, quest’anno le due prime elementari composte solo da stranieri: qui l’integrazione funziona Nella scuola che sfida la Lega tutti i bambini del mondo BENEDETTA TOBAGI Mohamed Elvis dal Bangladesh, Maryam dall’Egitto, Youssef dalla Tunisia, Mihidu da Sri Lanka, Jinhong dalla Cina, Peace e Precious dalla Nigeria, Zohra dal Marocco, Sabina dalla Romania…per 35 bimbi che hanno iniziato la scuola lunedì scorso, l’“internazionale futura società” è già qui. Accade a Brescia (nono Comune in Italia per presenza di stranieri, 36mila su 196mila), nella primaria “Manzoni”, un vecchio edificio ai margini del quartiere del Carmine. Le strade eleganti del centro distano pochi minuti, come pure i casermoni dell’ex zona operaia di via Milano e il trambusto della Stazione. Già regno di ladri e puttane, da vent’anni è uno dei quartieri più multietnici d’Europa (metà dei residenti sono stranieri di 60 nazionalità diverse), oggetto di tesi e studi scientifici. La mattina, mezz’ora prima dell’ingresso, il cortile comincia a riempirsi di bimbi: il prescuola non c’è ancora, ma i genitori lavorano. Poi la processione di mamme: sari, qualche djellaba e ogni foggia di velo (uno solo integrale, però). Tuniche svolazzanti su pantaloni colorati, le pakistane stanno tra di loro. Un bimbo di sette anni col turbante dei sikh. Sembra una periferia di Parigi o Londra, o una vecchia pubblicità di Benetton. La Manzoni è diventata un “caso” perché nelle due prime tutti gli alunni sono stranieri ( sebbene alcuni abbiano cittadinanza italiana), ma la situazione matura da anni: i genitori italiani, spaventati dalla crescente concentrazione di stranieri, sono fuggiti nelle paritarie di zona o in altri distretti, accelerando il processo. Come invertire questa polarizzazione, o far rispettare i “tetti” di cui parla Salvini? Gli stranieri sono colonne portanti dell’economia e i loro bambini hanno diritto di studiare. Privare i genitori italiani della facoltà di scegliere la scuola dei figli? Varca i cancelli la terza mamma con quattro bambini: ecco i tassi di natalità che faranno dell’Italia intera un Paese multietnico. Non è un “caso”, questo, ma un laboratorio in cui osservare uno spaccato del futuro, le sfide che pone, le buone pratiche per affrontarle. Dopo aver cantato insieme, i bambini di prima siedono per gli esercizi preparatori alla scrittura. «Vanno ad annate come il vino, fermo o frizzante» scherza Rebecca, coordinatrice d’istituto, «quest’anno sono calmi per fortuna ». Si respira un’aria serena, ma la situazione è complicata. «Posso andare in bagno?» chiede con un filo di voce Viktoria, ucraina: l’ha appena imparato. Insieme a Maksim, bielorusso, è una dei sei nuovi allievi che non sanno l’italiano; 32 in tutto, distribuiti sui cinque anni, ma ne arriveranno ancora. La competenza linguistica degli altri è disomogenea. In questi casi, si usa distaccare un docente per una decina d’ore la settimana: insegna la lingua a piccoli gruppi mentre gli altri fanno storia o italiano, e in ore come musica o ginnastica si sta tutti insieme, mi spiega Eugenio, maestro dall’82, per molti anni “alfabetizzatore” alla Manzoni. Funziona, ma costa. Per ora non c’è nulla: il provveditorato comunicherà le risorse stanziate dal Miur tra ottobre e novembre, dicono. Anche se le richieste sono state presentate già la scorsa primavera, elaborate d’intesa con i Centri Territoriali per l’Integrazione, ideati 11 anni fa da 36 una maestra bresciana al provveditorato. Purtroppo, mi spiega un’addetta, i fondi l’anno scorso erano solo la metà rispetto al 2003-2005, anche se nel frattempo gli stranieri sono triplicati. Per di più, l’organico delle tre primarie di Brescia centro è stato ridotto. I genitori fuggono anche per questo: le maestre devono star dietro a tutti e un bambino italiano, temono, “perderebbe tempo”. Le risorse del Comune, che pure s’impegna molto, si sono assottigliate: sono mancati i soldi per portare i bimbi in piscina. Davvero “tagliare le tasse è di sinistra” se si toglie ossigeno ai sindaci, sulla pelle dei più deboli? Qui il disagio sociale è palpabile. Solo 12 neoarrivati sono iscritti alla mensa: costa troppo. Tanti vengono da famiglie povere, figli di operai non specializzati (nel bresciano lo è uno straniero su 5), sottoccupati, senza lavoro. Sono i nuovi ragazzi della scuola di Barbiana. L’istituzione non è più classista e autoritaria come ai tempi di don Milani, anzi, cerca di colmare i divari: non chiedono ai genitori risme e carta igienica, spiega la dirigente, ma usano la coperta cortissima dei fondi per pagare uscite scolastiche e materiali, a discapito di altro. Le lavagne interattive sono una chimera: ce n’è una sola. Spesso le maestre contribuiscono di tasca propria. A Brescia, per fortuna, c’è una forte la rete di solidarietà. Oratori come S. Faustino e S. Giovanni o centri d’aggregazione giovanili come “Carmen Street” dei padri maristi sono aperti a tutti, musulmani inclusi. I volontari vanno a prendere i bambini alle 16:30 e li tengono fino a sera, offrendo sport, giochi, l’assistenza sui compiti che i genitori non saprebbero dare. Qui i piccoli allievi della Manzoni possono mescolarsi agli italiani: fondamentale per una vera integrazione, che non è solo parlare la lingua. In questo senso, la scuola primaria ha un’altra ricaduta sociale importante. I maestri, infatti, “educano” di fatto anche molti genitori stranieri. Rischia di suonare razzista, ma sono alcuni di loro a creare i maggiori problemi, confessa Eugenio: la mamma nigeriana convinta che i maschietti vadano sempre serviti, il papà che mette mano alla cinghia. Le maestre Barbara S. e Maria T. ricordano l’opera paziente di persuasione sui genitori musulmani che non accettavano la mescolanza tra maschi e femmine o non volevano mandare la figlia in piscina, le mediazioni sull’uso del velo per le più piccole. Servono tempo, pazienza, apertura. E risorse. In attesa che dall’alto si ricordino di loro, gli insegnanti vivono il lavoro come una missione. Fanno le nozze coi fichi secchi: percorsi condivisi bambini-genitori, laboratori sulla cucina e le favole dal mondo, didattica conversazionale; l’anno scorso con le quinte (una sola bambina italiana) hanno persino fatto un musical. Mostrano spezzoni del loro “Grease” alla festa d’accoglienza per i genitori dei nuovi arrivati; ce n’è più della metà: un buon risultato. Tra loro un’ex allieva dominicana: oggi ventottenne, ha iscritto qui la prima figlia, «perché sono bravissimi». Certo, alcune zone della città non sono più linde e tranquille come vent’anni fa, ma a Brescia, a dispetto delle polemiche leghiste, l’integrazione funziona, e la scuola ha fatto la differenza. Uscita dalla Manzoni, ai tavolini di un bar del centro vedo un crocchio multietnico di adolescenti. Il maestro Eugenio si ferma, scherza con un ragazzo di colore, suo ex allievo. Era un bambino tolto alla famiglia, mi spiega (la Manzoni ha nel bacino d’utenza anche due istituti per minori in affido): poteva diventare un “caso”, invece sta benissimo e ha appena iniziato le superiori. I problemi non affrontati alle primarie si ripropongono alle medie, amplificati. Il fenomeno delle “gang” qui non esiste ancora. I problemi sono grandi, i dilemmi continui. Vogliamo governare la complessità, investendo in buone pratiche sul modello di Brescia e altre realtà, oppure – tra tagli mascherati e speculazione sulla paura - scivolare verso i divari abissali della società statunitense? 37 SOCIETA’ del 21/09/15, pag. 31 Lo rivela uno studio: le tribù di abitudinari e viaggiatori sono contrapposte dal Neolitico.È la “rivalità” più antica dell’uomo Nomadi o stanziali dalla preistoria non siamo mai cambiati MARINO NIOLA SONO PASSATI dodicimila anni, ma gli uomini sono rimasti quelli di una volta. Divisi in due tribù. Nomadi e sedentari. Esploratori e abitudinari. Proprio come all’inizio del Neolitico. Alla faccia della globalizzazione, della mobilità no limits, dei voli low cost e del turismo di massa. A dirlo è uno studio di Kdd Lab dell’Università di Pisa, condotto insieme all’Istituto di scienze e tecnologie dell’informazione del Cnr pisano e al Centro di ricerca sulle reti complesse Barabasi Lab di Budapest e Boston. I risultati sono stati appena pubblicati su Nature Communications . Gli scienziati hanno incrociato una mole imponente di dati, i cosiddetti Big Data, sulla mobilità umana. Che vanno dalle tracce Gps delle nostre automobili al traffico telefonico di centinaia di migliaia di persone, i cui movimenti sono stati monitorati nell’arco di vari mesi. Lo scopo dell’indagine era di confrontare il raggio di mobilità ricorrente, vale a dire quello relativo ai soli spostamenti quotidiani, per esempio tra l’abitazione e l’ufficio, con il raggio di azione totale, cioè l’insieme di tutti i nostri transfer, grandi e piccoli, abituali e occasionali. Ebbene, i ricercatori hanno scoperto che le persone tendono naturalmente a dividersi in due tipologie antropologiche ben distinte. Ciascuna con i suoi usi e costumi. Con i suoi totem e tabù. Il primo gruppo è quello degli abitudinari, soprannominati anche i ritornanti. Perché hanno la tendenza a tornare sempre sui propri passi. La loro è una territorialità limitata. Non amano le deviazioni, fanno ogni giorno la stessa strada e se possono frequentano sempre gli stessi locali. Una vita a chilometro zero. Colazione al solito bar, giornale preso al volo all’edicola sotto casa, palestra di quartiere, spesa nel supermercato più vicino. E la domenica a pranzo da mammà. O, quando osano, nella trattoria fuori porta, dove li conoscono da una vita e non c’è nemmeno bisogno di ordinare, tanto i camerieri hanno in memoria gusti e disgusti del cliente. Sedotti e forse anche sedati dal solito tran tran, i ripetenti sono sempre alla ricerca di consuetudini e di certezze. Per loro la routine non ha niente di negativo. Significa né più né meno di quel che dice la parola stessa, che viene dal francese route e vuol dire strada battuta. Un percorso collaudato che non c’è ragione di abbandonare e che diventa un placebo esistenziale. L’altra tipologia umana è quella degli esploratori. La cui mobilità ricorrente è solo una minima parte di quella complessiva. Che si dirama di qua e di là e cambia continuamente. Al centro ci sono gli spostamenti obbligati, casa-lavoro e ritorno. Ma intorno a questo nucleo, gli itinerari dei globetrotter si allungano in tutte le direzioni, fino a formare una stella con un numero di raggi potenzialmente infinito. E soprattutto imprevedibile. Perché se c’è una cosa che fa venire l’orticaria al tipo explorer, è il già fatto e il già visto. Al minimo accenno di routine l’anima nomade si sente chiusa in una gabbia. E l’unica cosa che desidera è evadere per rimettersi on the road. E dire che le due tribù si ignorano è quasi un eufemismo. In realtà non si prendono neanche di striscio. E sembra proprio che non si piacciano. La loro differenza e diffidenza 38 reciproca arriva fino alle soglie dell’apartheid. Gli scienziati parlano di omofilia sociale per definire l’inclinazione endogamica delle due orde. Sia quella inerziale dei pantofolai, che vivono sempre con il freno a mano tirato e frequentano i loro simili. Sia quella dei giramondo che sono perennemente ed esclusivamente connnessi con altri giramondo. Come dire che chi si somiglia si piglia. E non è tutto. Perché dopo aver mappato accuratamente i comportamenti del popolo nomade e di quello sedentario, il team di ricerca ha sviluppato un modello matematico in grado di simulare la nostra mobilità. Nonché di prevedere e prevenire l’impatto delle nostre scelte, sia individuali sia di gruppo, in materia di inquinamento ambientale, di consumo energetico e di pianificazione urbana. Come dice Fosca Giannotti del Cnr, con questi strumenti di rilevazione e di proiezione saremo in grado di programmare meglio il nostro futuro. Per esempio di capire se una infrastruttura viaria serve davvero o se è una cattedrale nel deserto. Quello che balza agli occhi degli osservatori dell’uomo è che millenni di sedentarizzazione non sono riusciti a cambiarci del tutto. E meno che meno a cancellare quell’istinto nomade che, secondo il grande scrittore inglese Bruce Chatwin, modella carsicamente il carattere di molti individui. Evidentemente né la rivoluzione agricola, né quella industriale, né tantomeno la massiccia urbanizzazione di oggi sono riuscite a fermarci del tutto. Anche se non ci muoviamo in carovane ma in caravan. Non andiamo più in giro con la tenda ma con Be Welcome. Nomadi digitali in cerca di una vita di quelle che non si sa mai. 39 BENI COMUNI/AMBIENTE del 21/09/15, pag. 17 Infrastrutture. Uno studio di Ref Ricerche evidenzia il gap nella gestione del servizio rispetto l’Europa L’acqua ha bisogno di più risorse Nel 2014 investiti 1,8 miliardi ma la spesa dovrebbe triplicare Una corsa ad ostacoli che colmare il gap infrastrutturale che nel settore idrico integrato ci separa dall’Europa. Tra gli ostacoli principali c’è il nodo dei finanziamenti che negli ultimi anni ha avuto un andamento altalenante: lo scorso anno sono ritornati a quota 1,8 miliardi (+14% rispetto al 2011) mentre nel 2013 si erano fermati a circa 1,4 miliardi. Un rimbalzo non sufficiente per raggiungere gli oltre 1,9 miliardi del 2008, l’anno migliore nel recente passato. Di questi fondi meno di un terzo, circa 430 milioni, proviene da contributi pubblici. Ma queste risorse che nel corso degli ultimi anni hanno avuto un trend al ribasso. Questo il quadro che emerge da uno studio, realizzato dal Laboratorio servizi pubblici locali di Ref Ricerche in collaborazione con Utilitalia, che oggi viene presentato nel corso di una tavola rotonda che si svolge a porte chiuse. Saranno presenti i vertici di multiutility e multiservizi, banche e fondi. Il tema dei lavori riguarda il rapporto tra regole, piani di sviluppo e investimenti. Investimenti che nonostante gli alti e bassi soddisfano Donato Berardi, partner di Ref Ricerche e direttore del laboratorio. «Il ritorno a 1,8 miliardi è un segnale che conferma il giudizio positivo degli investitori per le regole espresse dall’Aeegsi - spiega -. Ma il fabbisogno reale è molto maggiore e gli investimenti dovrebbero triplicare perché solo così potremmo recuperare quei deficit infrastrutturali che ci separano dagli altri paesi europei». Basta scorrere i dati degli investimenti per abitante/anno. Nel nostro paese nel 2014 si è arrivati a 34 euro contro i 120-80 di Regno Unito e Usa. Il male dell’Italia è quello di una rete che fa acqua, dove solo gli operatori più grandi, quelli che servono oltre un milione di abitanti, riescono a fare degli investimenti, circa il 70% del totale. Il restante è ad appannaggio dei gestori medio-piccoli: qui c’è chi riesce a programmare interventi e altri con una capacità di spesa in conto capitale quasi nulla. «Il modello migliore, quello da adottare, è quello della “gestione unica di ambito” prevista nel decreto Sblocca Italia - aggiunge Berardi -. Si dovrebbe passare dalle oltre duemila gestioni di oggi a un centinaio di Ambito territoriale ottimale (Ato ndr), che potrebbero coincidere con le province». Percorrendo questa via si riuscirebbe a colmare il deficit nella depurazione, il carico trattato arriva solo all’79%, arrivare al 100% di copertura della popolazione per acquedotto. Senza dimenticare che ora le perdite della rete arrivano, in media, a più del 37% contro il 32% del 2008 con punte record vicine al 50% nel Sud. Non molto diversa la situazione nella depurazione dove i ritardi delle regioni ci possono costare, dal 2016, oltre 480 milioni di sanzioni comunitarie. Per smuovere le acque e raggiungere un livello di servizio idrico vicino agli standard europei, dice lo studio, si dovrebbe investire 5 miliardi l’anno. «Una volta recuperati i costi pregressi, per finanziare gli investimenti sarà sufficiente un aumento delle tariffe di un terzo in dieci anni» aggiunge il direttore. Quello del recupero dei costi del servizio da anni è un nodo spinoso perché da sempre nel Mezzogiorno, le tariffe sono state artificiosamente tenute al minimo senza contare la quota di evasione. 40 In condizioni a regime grazie alle nuove risorse si potrebbe mettere mano e ammodernare le infrastrutture (reti idriche, fognarie e impianti di depurazione) il cui valore pro capite è calcolato in 240 euro. Ben poca cosa rispetto ai 1.400 euro dell’Inghilterra. Piani d’investimento più coraggiosi non solo permetterebbero di recuperare il gap verso i paesi europei più avanzati ma darebbero in più una decisa spinta al Pil e all’occupazione. Ref stima che per ogni miliardo speso nel miglioramento del sistema idrico nazionale genera un aumento del Pil superiore ai due miliardi e porta alla creazione di circa 16mila nuovi posti di lavoro.«È il frutto di un’analisi prudenziale - aggiunge Berardi -. Con 90 euro per abitante l’anno si potrebbe arrivare nell’arco di un decennio a una crescita del Pil pari a 6-7 punti percentuali e alla creazione di 185mila occupati l’anno». Per il momento i Programmi d’intervento 2014-2017 dei principali gestori puntano su opere strategiche che migliorano la qualità del servizio. Su Roma (Ato 2)l’Acea prevede opere per 528 milioni, a Torino (Ato 3) la Smat adegua e potenzia le infrastrutture con 416 milioni. La Metropolitana Milanese nel capoluogo rinnova una parte della vecchia rete dell’acquedotto, delle fognature e alcune centrali con un piano da 200 milioni. A Genova l’Iren punta alla depurazione con oltre 210 milioni mentre l’Acquedotto pugliese punta al risanamento e potenziamento della rete. [email protected] Enrico Netti del 21/09/15, pag. 17 Entrate. A fine mese l’udienza al Consiglio di Stato sul metodo deciso dall’Authority Quattro anni di conflitti sul calcolo della tariffa Oltre ai tavoli di gestori e banche, il tema degli investimenti nelle reti e nelle infrastrutture idriche occupa stabilmente l’agenda dei giudici amministrativi, e la partita è in pieno corso. La parola decisiva tocca al Consiglio di Stato, che dopo il primo via libera dato dal Tar l’anno scorso dovrà decidere la sorte del metodo tariffario e, di conseguenza, quella dell’architettura costruita per tornare a coprire i progetti di investimento. Visto il ruolo di primo piano che ricopre, il “fronte giudiziario” non può essere dimenticato quando si prova a indovinare il futuro del servizio idrico e delle sue gestioni. Perché qualsiasi investimento nasce da una programmazione che si nutre ci certezze, e in questo campo le certezze mancano, a essere generosi, da quattro anni e mezzo. La storia infinita del braccio di ferro sul metodo tariffario nasce con il referendum del 2011, che in nome dell’«acqua pubblica» portò 26 milioni di italiani a cancellare la norma con cui si prevedeva la determinazione della tariffa anche sulla base «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Il presupposto referendario che non si potesse “fare business” sull’acqua ha polverizzato il vecchio «metodo normalizzato», che prevedeva una remunerazione standard degli investimenti (il 7%) e di conseguenza consentiva, in caso di condizioni favorevoli, di ottenere dagli utenti anche somme aggiuntive rispetto ai costi di ammortamento degli investimenti. All’apertura delle urne, insomma, il servizio idrico si è trovato privo di un parametro di sostegno economico e, vista la situazione, anche di un più generale quadro regolatorio. Il compito è stato allora affidato all’Autorità per l’energia elettrica e il gas che, dopo le ovvie difficoltà iniziali nel mettere piede in un settore completamente diverso da quelli di cui fino 41 ad allora si era occupata, si è attrezzata per riempire il vuoto e imboccare la via stretta tra due esigenze: rispettare l’esito del referendum, e non azzerare le possibilità di sviluppo di un servizio già caratterizzato da un cronico deficit di infrastrutture, come impone anche il principio europeo della «full cost recovery» in base al quale la tariffa deve coprire tutti i costi, investimenti compresi. Nasce da qui il nuovo metodo tariffario che, a farla semplice, poggia su due principi: il sostegno (determinato a posteriori) dei «costi effettivi» sostenuti per la gestione ordinaria e per gli investimenti e l’esigenza di garantire una programmazione con il fondo per i?«nuovi investimenti», pensato anche per garantire compensazioni per gli utenti in difficoltà economiche. Anche su questo nuovo impianto si è scatenata la polemica, che si è tradotta nei ricorsi: a marzo 2014 il Tar Lombardia ha “promosso” il nuovo metodo tariffario, ma la battaglia si è spostata al Consiglio di Stato, dove l’udienza è in programma a fine mese. Ma non fioriscono solo sulla tariffa le incertezze che continuano ad alzare ostacoli agli investimenti. Un altro fronte eternamente critico è rappresentato dalla geografia dei gestori: come per gli altri servizi a rete, fin dal 2011 è previsto il passaggio di tutte le competenze agli ambiti territoriali ottimali, anche con l’obiettivo di favorire la creazione di gestori più grandi, quindi più solidi sul piano economico, e dunque maggioramente in grado di offrire garanzie a chi finanzia gli investimenti. In sei Regioni su 15 a Statuto ordinario, però, i nuovi enti di governo non sono stati istituiti, al punto che il Governo ha attivato l’iter che può portare al commissariamento. E la stasi costa. Per capirlo basta andare con la mente a un altro tema idrico che in passato ha impegnato i giudici su su fino alla Corte costituzionale: quello della depurazione. Da gennaio l’Italia comincerà a pagare le multe europee per i buchi che ancora presenta in questo ambito, e che può colmare solo con nuovi investimenti. Gianni Trovati 42 ECONOMIA E LAVORO del 21/09/15, pag. 15 Allarme privacy per il Jobs Act l’Authority teme pioggia di ricorsi VALENTINA CONTE IL CASO ROMA. Che fine hanno fatto? Gli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act - ammortizzatori, politiche attive, semplificazioni, attività ispettive - sono stati approvati dal Consiglio dei ministri del 4 settembre. Ma da allora se n’è persa traccia. Incalzato, il governo da poco ne ha pubblicato i testi ufficiosi sul sito (e così anche il ministero del Lavoro). Si attendeva, spiegano da Palazzo Chigi, la firma del presidente della Repubblica. Mattarella in realtà li ha vergati quasi subito dopo averli ricevuti, in ritardo, il 14 settembre, dieci giorni dopo il varo e a un soffio dalla scadenza del 16. Ma i testi veri, ufficiali, non sono ancora pubblicati in Gazzetta ufficiale, dunque non sono in vigore. Com’è finita allora la vicenda dei controlli a distanza, la norma più dibattuta del pacchetto? A quanto pare, male per il Parlamento. Il governo ha tenuto la sua formulazione originaria di giugno, senza toccare nemmeno una virgola. E senza tenere conto delle raccomandazioni non solo delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, ma neanche dei caveat dell’Authority per la privacy nella doppia audizione parlamentare. Al punto che ora la stessa Authority, sin qui prudente in attesa dei testi definitivi, teme l’avanzare di un contenzioso infinito. I lavoratori che ritengono di essere stati spiati in violazione della loro privacy e per questo sanzionati o licenziati proveranno la carta difensiva dell’Autorità. Eventualità che non nasconde neanche Palazzo Chigi. «Il testo della norma richiama il codice della privacy, dunque non saranno fatti controlli di massa su tablet, portatili e smartphone, ma a campione », spiega un collaboratore del premier. «E l’Authority può intervenire come vuole, se ritiene ci sia un uso distorto dei dati, ma anche i lavoratori potranno farne ricorso». Un bel groviglio. La norma pare non ben scritta, i suoi buchi possono aprire voragini. Lo ha fatto capire in più occasioni lo stesso Garante per la privacy, Antonello Soro, che nel discorso sulla Relazione annuale, lo scorso 23 giugno, richiamava l’esigenza di «solide garanzie per evitare che i dati vengano usati “contro di noi”». Chiedendo una «cornice» di queste garanzie proprio al Parlamento. «Un più profondo monitoraggio di impianti e strumenti non deve tradursi in una indebita profilazione delle persone che lavorano», insisteva. Esortando a «coniugare l’esigenza di efficienza delle imprese con la tutela dei diritti». Parole cadute nel vuoto, mentre la tecnologia fa passi da gigante, con telecamere intelligenti e sistemi di geolocalizzazione sempre più potenti e intrusivi. Dove finisce il controllo, si chiederà il lavoratore, visto che il cellulare me lo porto a casa? E poi cosa controlli: a chi scrivo, con chi parlo, ma anche quello che dico su Skype, ad esempio? Confini laschi, non tracciati ma lasciati aperti dal Jobs Act. «Tanto rumore per nulla», scrive il senatore pd Pietro Ichino sul suo blog. Per 25 anni si sono usati cellulari, pc e gps aziendali - è il ragionamento - senza consenso dei sindacati né loro proteste. Senza casi giudiziali, né interventi dell’Authority. Il Garante gli risponde che non è un problema di sindacati, quanto di «effettiva estensione e pervasività di questi controlli». E di 43 utilizzo dei dati «per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro». La novità (e il punto) è questa. del 21/09/15, pag. 11 Evasione Oltre 91 miliardi sottratti all’erario, 40 solo di Iva Al Nord record di imposte non pagate. Il caso Imu ROMA L’evasione fiscale da sola, senza contare quindi quella sui contributi sociali (Inps, Inail), sottrae ogni anno alle casse pubbliche più di 91 miliardi di euro. I «valori più elevati di evasione si attestano nelle regioni settentrionali», perché sono le più ricche, mentre la più alta «propensione all’evasione» si riscontra nel Mezzogiorno. L’imposta più evasa è l’Iva, dove l’Italia è anche ai primi posti in Europa, battuta solo da Grecia, Slovacchia, Lituania e Romania. Tra le ditte individuali, i campioni dell’evasione sono i commercianti. Infine, nonostante si affermi che è difficilissimo evadere sugli immobili, esiste anche un’evasione sull’Imu. Questi i principali contenuti del «Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale», allegato alla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza approvato venerdì dal Consiglio dei ministri. Il rapporto previsto dalla legge di Stabilità 2013 e giunto quest’anno alla seconda edizione disegna una mappa dell’evasione dalla quale emerge tra l’altro come, nonostante gli sforzi fatti, si sia abbassato di poco negli ultimi dieci anni il livello di « tax gap », ovvero «la differenza tra l’ammontare del gettito teorico di ciascuna imposta e l’ammontare del gettito effettivamente riscosso». Secondo la tabella di pagina 61 del Rapporto, consultabile sul sito del ministero dell’Economia, il tax gap medio nel quinquennio 2001-2006 era di 93,5 miliardi all’anno, un valore sceso a 91,3 miliardi nel quinquennio 2007-2013, pari al 6,6% del Prodotto interno lordo. L’imposta più evasa resta l’Iva, che da sola sottrae alle casse del Fisco più di 40,2 miliardi di euro all’anno rispetto al gettito che si avrebbe senza evasione. Il mancato introito di Irpef e Ires viene calcolato insieme e dà una somma di quasi 44 miliardi mentre l’evasione sull’Irap è pari a 7,2 miliardi. Nel complesso il tax gap ammonta a circa 47,4 miliardi al Nord (il 54% del totale) , 24,4 miliardi al Centro (27%) e 19,5 miliardi al Sud (21%). Questo perché, dice la relazione, l’evasione «tende a concentrarsi maggiormente nelle aree del Nord dove si colloca anche la quota maggiore di valore aggiunto prodotto dal Paese». Quanto alla propensione a non pagare le tasse sono invece le regioni meridionali che «manifestano livelli più elevati di intensità di evasione, che in alcuni casi sfiora il 60% (60 centesimi di gettito evaso per ogni euro regolarmente versato)». Il rapporto contiene anche una stima del tax gap Irpef-Irap per le ditte individuali. A evadere di più sono i commercianti (27.644 euro l’imponibile medio non dichiarato) seguiti da lavoratori autonomi e professionisti (10.829 euro). Sorprendente, infine, il tax gap sull’Imu 2013: 5,6 miliardi, «pari al 28,5% del gettito Imu teorico». A livello regionale l’evasione è più elevata nel Mezzogiorno e minore nel resto d’Italia, «variando dal 40,5% del gettito teorico in Calabria al 12,6% in Valle d’Aosta». Il rapporto indica anche la quota di maggiori entrate derivanti da lotta all’evasione fiscale che deve andare a riduzione della pressione fiscale. Tenuto conto dei risultati ottenuti e dei limiti fissati dalla legge (deve trattarsi di entrate aggiuntive e permanenti) il bilancio è davvero magro. Per il 2015, infatti, le maggiori risorse rispetto agli incassi permanenti 44 ottenuti nel 2014 sono stimate in appena 143 milioni di euro. Se li suddividiamo per 40 milioni di contribuenti, fa tre euro e mezzo a testa. Enrico Marro 45