L`integrazione tra banche e imprese di

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L`integrazione tra banche e imprese di
GLI ASSETTI PARTECIPATIVI NEI PROCESSI DI INTEGRAZIONE
TRA BANCHE E IMPRESE DI ASSICURAZIONE
di Alessio Martelloni
Dottore di ricerca in Diritto Pubblico dell’Economia e delle imprese
Università di Pisa
avvocato presso il servizio di Consulenza Legale di Banche Popolari Unite
1. Premessa
Parlare di integrazione tra banche e imprese di assicurazioni
avrebbe rappresentato, solo fino a pochi anni fa, un’autentica “eresia” e,
ancora oggi, non manca chi la definisce come un vero e proprio
“paradosso” dal momento che, si dice, ciascuna delle due tipologie in
intrapresa economica “è regolata all’interno di un corpus organico che è
espressamente orientato a preservare la c.d. separatezza dell’impresa regolata rispetto a
tutte le altre attività” 1.
Quanto al passato, è certamente vero che le due attività in discorso
venivano considerate assolutamente estranee l’una dall’altra al punto che
alle banche era vietata sia l’assunzione di partecipazioni in compagnie di
assicurazione sia la produzione di prodotti assicurativi (divieto,
quest’ultimo, che permane ancora oggi). In particolare, si intendeva
evitare che le banche “si avvalessero delle attività a lungo termine in cui vengono
investite le riserve tecniche tipiche dell’attività assicurativa per soddisfare fabbisogni di
liquidità relativi alla gestione creditizia” 2. Non si riteneva, in aggiunta, che le
Cfr. GIAMPAOLINO C. F., Bancassurance. Profili societari e antitrust, in G.
ALPA, M. DE TILLA, S. PATTI (a cura di), Diritto dell’Economia, 2002, p. 309.
2 Cfr. M. QUAGIARIELLO, I rapporti tra banche e assicurazioni in Italia e in Europa:
1
banche avessero le competenze tecniche necessarie per svolgere
adeguatamente l’attività assicurativa. Si diceva, inoltre, che l’attività
assicurativa fosse priva del carattere di “finanziaretà”, tipico delle banche
e delle imprese di investimento e che fosse, piuttosto, assimilabile ad
un’attività di tipo industriale. Non è un caso che, ancor oggi, il dicastero
competente in materia assicurativa non sia il Ministero dell’Economia e
delle Finanze, bensì quello delle Attività Produttive (ex Ministero
dell’Industria), con buona pace di chi, peraltro a ragione, invoca da anni
l’emancipazione del comparto assicurativo da un simile “patrigno”.
Già nel corso degli anni ottanta alcuni Paesi di ambito UE
cominciarono a mettere in atto una vera e propria deregulation del settore
assicurativo dando il via, anche formale, ai primi fenomeni di
integrazione 3. Negli Stati Uniti l’assetto legislativo del Glass-Steagal Act
del 1933 (noto anche come Banking Act), imperniato sulla separatezza tra
banche e assicurazioni, cade nel 1999 con l’approvazione del GrammLeach-Bliley Act.
Sul finire del secolo scorso, anche il legislatore comunitario ha
cominciato a considerare i settori bancario, finanziario e assicurativo
come appartenenti ad un unico macro-settore che è quello delle attività
finanziarie. Il primo passo in tale direzione è stato fatto con la direttiva n.
26/95/CE (c.d. direttiva “post BCCI”) in tema di armonizzazione dei
poteri di controllo delle autorità preposte alla vigilanza delle imprese
finanziarie, tra le quali venivano annoverate anche le compagnie di
assicurazione. Più di recente, si considerino, invece, la direttiva n.
65/2002/CE in tema di vendita a distanza di prodotti e servizi finanziari
(termine con il quale si intendono identificare sia i prodotti bancari, sia
quelli mobiliari sia, infine, quelli assicurativi) e, ovviamente, la direttiva
sui conglomerati finanziari (n. 87/2002/CE).
In Italia, purtroppo, la disciplina in tema di partecipazioni tra
banche e assicurazioni è ancora poco chiara e, soprattutto, inserita in atti
normativi distinti e scarsamente coordinati tra loro. Basti pensare, a titolo
di esempio, che per avere contezza delle regole giuridiche in tema di
assunzione di partecipazioni, da parte di compagnie di assicurazione, in
istituti di credito occorre esaminare due veri e propri “ordinamenti
settoriali” (quello bancario e quello assicurativo) per scoprire che gli
stessi non sono affatto armonizzati tra loro.
aspetti empirici e problemi di regolamentazione, in Rivista Bancaria, 2001, n. 4, p. 67.
3 Cfr. M. QUAGLIARIELLO, op. cit., p. 67.
2
2. La partecipazione delle assicurazioni nel capitale delle banche secondo
l’ordinamento assicurativo
Fin dalla prima regolamentazione organica dei controlli sul settore
assicurativo, il principio di esclusività dell’oggetto sociale delle imprese di
assicurazione era stato scolpito a chiare lettere dal legislatore primario del
nostro Paese che aveva espressamente previsto all’art. 130 del Regio
Decreto n. 63 del 4 gennaio 1925 – recante il primo Regolamento per
l’esercizio delle assicurazioni private – il divieto per “ogni impresa di
assicurazione, di riassicurazione, di capitalizzazione e di risparmio di fare operazioni
estranee all’esercizio di dette industrie”.
Secondo la discutibile interpretazione (tuttavia unanimemente
condivisa) dell’articolo 130 citato e, soprattutto, in assenza di una
specifica norma che disciplinasse l’assunzione di partecipazioni di
controllo delle imprese di assicurazione in altre società, da esso si faceva
discendere l’impossibilità per le imprese di assicurazione non solo di
esercitare direttamente le attività “estranee” al loro oggetto sociale, ma
anche di esercitarle per il tramite di società controllate.
Una simile lacuna normativa (e, conseguentemente, una simile
interpretazione estensiva dell’art. 130 citato) è durata fintanto che non è
stata emanata la legge 9 gennaio 1991 n. 20 recante “norme sul controllo delle
partecipazioni di imprese o enti assicurativi e in imprese o enti assicurativi”. Più in
particolare, l’art. 4 della legge stabilisce, al primo comma, che le imprese
e gli enti assicurativi “non possono assumere partecipazioni di controllo in altre
società quando queste esercitino attività diverse da quelle consentite alle stesse imprese
di assicurazione” dall’art. 5, comma 2, della legge 295/1978 (per le
assicurazioni contro i danni) e dall’art. 4, comma 2, della legge 742/1986
(per le assicurazioni sulla vita). Tali ultime norme, a loro volta,
prevedevano (e prevedono tutt’oggi) che le imprese di assicurazione
possono esercitare, oltre all’attività tipicamente assicurativa, soltanto le
attività e le operazioni “connesse” a tali attività.
Prima di interrogarci sul senso e la portata dell’aggettivo
“connesse” e sulla conseguente possibilità o meno di ritenere l’attività
bancaria connessa a quella assicurativa, pare opportuno mettere in
evidenza che l’art. 4, comma 1, in commento ha introdotto un’equazione
(divieto di esercitare direttamente una attività uguale divieto ad esercitarla
per il tramite di controllate) che non risponde ad alcuna logica giuridicoeconomica, nel senso che “dal fatto che le imprese di assicurazione debbano
limitare il loro oggetto all’esercizio delle attività assicurative e di quelle che alle
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medesime sono connesse non discende necessariamente, in assenza di un’esplicita
statuizione come quella in esame, che le imprese di assicurazione possano assumere
partecipazioni di controllo solo in società che esercitano attività connesse…In altre
parole…non possono essere equiparati l’esercizio dell’attività e la detenzione di
partecipazioni [..] e dal divieto del primo non si può ricavare il divieto della seconda”
4
. Tuttavia, come ha osservato lo stesso Autore appena citato, l’art. 4,
comma 1, rappresenta un “dato normativo ormai inserito nel nostro ordinamento
e con il quale è necessario fare i conti”.
E allora, a voler fare questi conti, l’interprete deve necessariamente
partire dal concetto di attività “connesse” all’attività assicurativa
indirettamente richiamato dall’art. 4 della legge 20 per poi verificare se tra
queste vi rientri o meno l’attività bancaria.
Della problematica si sono occupati sia alcuni autorevoli Autori (in
primis Renzo Costi e Alessandro Nigro) sia lo stesso Isvap che, nel
commentare, nell’ambito della propria Circolare n. 150 del 21 febbraio
1991 (emanata, quindi, all’indomani della legge 20 e poi ripresa dalla
Circolare n. 250 del 1995 che poco o nulla aggiunge alla stessa) aveva
avuto modo di chiarire che la finalità dell’art. 4, comma 1, della legge in
commento consiste nella tutela della stabilità della compagnia di
assicurazione attuata mediante un vincolo di destinazione del patrimonio
della compagnia medesima in attività assicurative o, comunque, connesse
alle stesse. Quanto al concetto di “attività connessa” l’Isvap ritiene che lo
stesso si traduca nell’esistenza, da valutare in concreto e caso per caso, di
“relazioni di accessorietà, strumentalità e funzionalità all’attività assicurativa”, con
la conseguenza che se prima dell’intervento dell’Isvap il concetto da
chiarire era solo uno (quello di connessione, appunto), dopo l’intervento
dell’Organo di vigilanza i concetti da spiegare diventano addirittura tre
(accessorietà, strumentalità e funzionalità). Quello che appare invece
chiaro dalla Circolare n. 150 è che l’esistenza di una connessione tra
l’attività della controllata (rectius, aspirante controllata) e l’attività
assicurativa deve essere dimostrata in concreto e caso per caso e “non già
in via meramente ipotetica e astratta”.
La conseguenza di una simile impostazione è che non si potrà dire,
ad esempio e per quello che qui interessa, che l’attività bancaria è, di per
sé, connessa all’attività assicurativa e che, pertanto, le imprese di
4
Cfr. R. COSTI, Il Gruppo bancario e assicurativo: il quadro istituzionale,
in F. CESARINI e R. VARALDO (a cura di), Banche e assicurazioni. Rapporti e
prospettive di sviluppo, UTET, 1992, p. 15.
4
assicurazione sono sempre e comunque legittimate ad assumere
partecipazioni di controllo nelle banche. Al contrario, occorrerà che
l’Isvap valuti in concreto la ricorrenza o meno di un rapporto di
funzionalità (più che di strumentalità o accessorietà) tra l’attività di quella
impresa di assicurazione e l’attività di quella banca. Tale impostazione,
peraltro, risulta assolutamente coerente con quanto disposto dal secondo
comma dell’art. 4 della legge 20, a mente del quale “la connessione tra
l’attività assicurativa e quella esercitata dalla società controllata può risultare da un
programma di attività richiesto dall’Istituto per la vigilanza delle assicurazioni private
e di interesse collettivo (ISVAP) alla società controllante”.
Ad una conclusione diversa, peraltro criticata aspramente dalla
dottrina citata 5, sembrava essere giunto il Senato che – in un ordine del
giorno approvato il 19 dicembre 1990 durante i lavori che hanno portato
all’emanazione della legge n. 20/1991 – aveva invitato il governo “a
riconoscere ai sensi dell’art. 4 del disegno di legge in approvazione che l’attività
assicurativa è connessa a quella bancaria”. Se le ragioni “politiche” di una
simile affermazione erano chiarissime (si voleva evitare alle imprese di
assicurazione italiane svantaggi competitivi nei confronti delle omologhe
società comunitarie), altrettanto evidente era l’antigiuridicità di tale
affermazione definita da Costi addirittura “contra legem nel momento in cui
postula una connessione necessaria fra attività assicurativa e attività bancaria” che
renderebbe di fatto impossibile (o almeno irrilevante) quel controllo in
concreto della connessione che la legge demanda all’Isvap al secondo
comma dell’art. 4 in discorso. Tutt’al più, si potrebbe affermare che
l’attività bancaria è attività “connettibile”, a seguito di giudizio ex post
dell’Isvap medesimo, a quella assicurativa. L’Organo di vigilanza
assicurativa diventa quindi l’unico (e l’ultimo) arbitro del giudizio di
connessione di cui alla legge 20/1991. Esso governa i processi
partecipativi attivati dalla stessa legge e “autorizzando, negando
l’autorizzazione o imponendo riduzioni e dismissioni, provvede a rendere compatibili
le scelte aziendali con gli obiettivi di vigilanza e, in altri termini, a coniugare al meglio
le ragioni della libertà con quelle dell’autorità, il pubblico col privato interesse” 6.
Se questa della “connettibità” dell’attività bancaria a quella
assicurativa può essere ormai considerata la tesi accolta da gran parte
della dottrina e, soprattutto, dall’Isvap, non è mancato chi,
Cfr. R. COSTI, op. cit., p. 16.
Cfr. L. DESIDERIO, Banche e assicurazioni, in G. ALPA, M. DE TILLA, S.
PATTI (a cura di), op. cit., p. 361.
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autorevolmente, ha definito una simile interpretazione dell’articolo 4
della legge 20/1991 come una vera e propria forzatura 7. Anzi, a detta di
tale Autore si tratterebbe di una “triplice forzatura”.
La prima forzatura sarebbe quella di aver arbitrariamente sostituito
– nelle norme sull’oggetto sociale delle assicurazioni cui fa rinvio, come
abbiamo osservato, l’art. 4 citato (si tratta, lo rammento, dell’art. 5,
comma 2, della legge 295/1978 e dell’art. 4, comma 2, della legge
742/1986) – la locuzione “attività connesse” a quella di “operazioni
connesse”, effettivamente utilizzata dalle stesse.
La seconda forzatura, sempre secondo Nigro, consisterebbe nel far
dire all’art. 4 ciò che esso non dice. Ed infatti tale norma non stabilisce,
ad onor del vero, che le imprese di assicurazione possono assumere
partecipazioni di controllo in altre società quando queste ultime
esercitino attività assicurative e/o attività connesse a quelle assicurative,
ma dice una cosa ben diversa, vale a dire che le imprese di assicurazione
non possono assumere partecipazioni di controllo in altre società quando
tali società esercitino attività diverse da quelle consentite alle imprese di
assicurazione. Il che equivarrebbe a dire, secondo Nigro, che “le imprese di
assicurazione possono assumere partecipazioni di controllo solo in società che esercitano
attività che esse imprese di assicurazione possono direttamente esercitare” 8. L’art. 4
della legge del novantuno, quindi, costituirebbe l’espressione “della
specifica volontà del legislatore di estendere alle partecipazioni lo stesso vincolo disposto
all’oggetto” riprendendo, di fatto, quella malsana equazione che, come è
stato osservato più sopra, si era andata diffondendo tra gli interpreti
dell’art. 130 del vecchio Regolamento del 1925. Secondo tale Autore,
insomma, la norma in discorso andrebbe interpretata nel senso che le
attività della società partecipata debbano necessariamente rientrare fra
quelle esercitabili direttamente dalla compagnia di assicurazione. Ne
consegue, quindi, che, siccome è pacifico che le imprese di assicurazione
non possono esercitare direttamente l’attività bancaria, dovrebbe essere
altrettanto pacifico che esse non possono assumere il controllo di
banche.
La terza e, forse, più importante forzatura individuata da Nigro
sarebbe quella di aver considerato connessione fra due attività (quella
bancaria e quella assicurativa) quella che, invece, connessione in senso
Cfr. A. NIGRO, L’integrazione fra attività bancaria e attività assicurativa, in Diritto
della Banca e del Mercato Finanziario, 1997, n. 2, p. 191.
8 Cfr. A. NIGRO, op. cit., p. 188.
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proprio (e cioè un rapporto di subordinazione economico-funzionale)
non è.
La assai affascinante e acuta ricostruzione di Nigro, tuttavia, mi
pare parta da una individuazione erronea della “teoria avversaria”. Infatti
né l’Isvap, né coloro che, più o meno implicitamente, ne hanno avallato
le conclusioni (Costi) hanno mai parlato di una connessione necessaria
(da fare, cioè, ex ante) tra attività bancaria e attività assicurativa cui Nigro
sembra fare (implicito) riferimento nel portare avanti le sue
argomentazioni. Essi, per contro, hanno sempre parlato di una
connettibilità mai scontata, bensì da valutare caso per caso.
Per quanto assolutamente evidente, è bene precisare che quanto
sin qui osservato a proposito delle indubbie difficoltà ad ammettere che
l’attività bancaria sia connessa o connettibile con quella assicurativa
aveva in mente e partiva dall’art. 4 della legge 20/1991 e si riferiva,
pertanto, alle sole partecipazioni di controllo detenibili dalle imprese di
assicurazione.
Un discorso del tutto diverso deve essere svolto, per contro, con
riferimento alle partecipazioni non di controllo che, invece, costituisce
una normalissima modalità con cui le imprese di assicurazione gestiscono
le risorse finanziarie raccolte mediante la riscossione dei premi ed
incontrano, pertanto, solo i limiti imposti dalla normativa di vigilanza in
materia di riserve. Come è stato osservato, “l’investimento in partecipazioni
(non di controllo, ndr) è pertanto previsto dalla legge quale attività tipica
dell’impresa di assicurazioni, ossia è considerata attività legalmente connessa a quella
assicurativa” 9. Una dimostrazione, per così dire, empirica di ciò la
rinveniamo nelle “Istruzioni per la compilazione del modello da
utilizzare per le comunicazioni dovute ai sensi dell’art. 5 della legge 9
gennaio 1991 n. 20” allegate alla Circolare Isvap n. 250 del 20 giugno
1995 dove si prevede che la compagnia possa segnalare all’autorità di
vigilanza la detenzione di tutta una serie di partecipazioni di minoranza
in una gamma piuttosto variegata di società (si va dalle società
finanziarie, alle banche, alle aziende industriali) 10.
9 Cfr. C. F. GIAMPAOLINO, Bancassurance. Profili societari e antitrust, in G.
ALPA, M. DE TILLA, S. PATTI (a cura di), op. cit., p. 312.
10 Nella stessa direzione si può citare il 5° considerando della direttiva n.
95/26/CE (c.d. direttiva post BCCI) sull’armonizzazione dei poteri di vigilanza e
controllo sulle imprese finanziarie, incluse quelle assicurative, il quale recita “considerando
che il solo fatto di acquisire una percentuale significativa del capitale di una società non costituisce una
7
3. (segue) e secondo quello bancario
Assai più chiara, almeno oggi, è la disciplina dettata nell’ambito
dell’ordinamento bancario a proposito della possibilità per le imprese di
assicurazione di detenere partecipazioni (anche di controllo) nel capitale
delle banche.
La normativa di riferimento, in questo caso, è rinvenibile nel Testo
Unico Bancario (TUB) agli articoli 19-24, raggruppati nel Capo terzo del
Titolo II intitolato, per l’appunto “Partecipazione al capitale delle banche”. In
particolare, la disposizione che rileva ai nostri fini è l’art. 19 il quale
subordina l’acquisizione a qualsiasi titolo di partecipazioni rilevanti (e, in
ogni caso, quelle superiori al 5% del capitale della banca)
all’autorizzazione dell’Organo di vigilanza. Tale autorizzazione, precisa il
terzo comma dell’art. 19, è necessaria anche per l’acquisizione del
controllo della società che già detiene partecipazioni rilevanti in una
banca ai sensi del primo comma.
Inoltre, per quello che maggiormente interessa in questa sede, la
norma in esame fissa, al comma 6, un principio (c.d. principio di
“separatezza banca-industria”) in base al quale i soggetti che, anche
attraverso società controllate 11, svolgono “in misura rilevante” attività di
impresa in settori non bancari né finanziari, non possono essere
autorizzati ad acquistare partecipazioni superiori al 15% del capitale di
una banca o di una capogruppo non banca o, comunque, il controllo
delle stesse.
Prima dell’entrata in vigore del TUB, la normativa di riferimento in
tema di partecipazione al capitale degli enti creditizi era contenuta nella
legge n. 287 del 1990 (c.d. legge antitrust) il cui art. 27 riproduceva, grosso
modo, i contenuti dell’attuale art. 19 citato. Una delle differenze più
importanti, tuttavia, tra la vecchia e la nuova normativa era rappresentata
proprio dalla diversa disciplina del principio di separatezza bancaindustria. Infatti, sebbene l’art. 19 del TUB mantenga il divieto (già
previsto all’art. 27, comma 6, della legge antitrust) di autorizzare
partecipazioni superiori al 15% del capitale della banca, esso allarga la
cerchia dei soggetti nei confronti dei quali opera tale divieto. Infatti,
partecipazione da prendere in considerazione ai fini della presente direttiva se tale acquisizione viene
effettuata quale investimento temporaneo e non consente di esercitare un’influenza sulla struttura e la
politica finanziaria dell’impresa”.
11 La nozione di “controllo” rilevante ai fini dell’applicazione della normativa in
discorso viene fornita all’art. 23 del TUB medesimo.
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mentre, come è stato messo in evidenza, l’attuale divieto si applica ai
soggetti che svolgono in misura rilevante attività di impresa in settori
non bancari né finanziari, l’art. 27, comma 6, citato includeva nel divieto
tutti i soggetti “diversi dagli enti creditizi e dalle società o enti finanziari”.
La differenza, specie ai nostri fini (vale a dire, per valutare
l’applicazione o meno del divieto in questione anche alle imprese di
assicurazione) può sembrare irrilevante, ma non lo è. La circostanza che
nella vecchia norma si facesse riferimento a dei soggetti e non a delle
attività, infatti, rendeva assai più arduo argomentare, di fronte a quel dato
normativo, l’inclusione delle imprese di assicurazione tra le “società o enti
finanziari”. Nonostante una simile difficoltà, non era mancato chi, già
sotto la vigenza dell’art. 27, comma 6, citato, aveva autorevolmente
sostenuto (sia pure ammettendo la parziale forzatura di tale
interpretazione, che traeva origine e spunto non già dal testo di legge ma
dai “convincimenti emersi nel corso dei lavori preparatori” alla legge antitrust) che
“nella nozione di enti finanziari accolta dall’art. 27 n. 6 siano ricomprese anche le
compagnie di assicurazione e che, pertanto, le autorità creditizie (e in particolare
l’organo di vigilanza) potranno autorizzare queste ultime ad assumere partecipazioni
di controllo negli enti creditizi senza violare la norma dettata dal predetto art. 27 n.
6” 12. Tale interpretazione, per quanto debba essere considerata
positivamente e apprezzata alla luce di quelli che sarebbero stati i futuri
sviluppi della norma in discorso, appariva, nel momento in cui era stata
proposta, non troppo convincente 13 e, soprattutto, non adeguatamente
suffragata dalla lettera dell’art. 27 citato.
Sulla base della stessa linea interpretativa dell’Autore citato,
peraltro, anche il decreto del Ministro del Tesoro del 5 giugno 1991,
aveva disposto, per via amministrativa e senza alcun appiglio nella
legislazione primaria (modus operandi, questo, che era stato giustamente
criticato da una parte della dottrina 14) che “gli enti e le società che hanno per
oggetto l’esercizio dell’attività assicurativa, vanno assimilati, ai fini della presente
Cfr. R. COSTI, op. cit., p. 11.
Colpisce, in particolare, il procedere “ondivago” dell’autore che, appena
poche righe prima del passo citato aveva sostenuto che “come si può constatare, in nessuna
delle molte nozioni di ente e società finanziari presenti nel nostro ordinamento l’attività assicurativa
viene ricompresa fra le attività finanziarie, neppure in quelle più recenti e destinate probabilmente a
individuare definitivamente la categoria degli enti finanziari diversi dagli enti creditizi e da quelli di
mercato mobiliare”.
14 Cfr. A. PATRONI GRIFFI, Assicurazioni e banche: intreccio di attività e intreccio di
controlli, in Assicurazioni, 1992, p. 37.
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disciplina, a quelli finanziari”. A questo “inconveniente” 15 aveva posto
rimedio il D. Lgs. n. 481/1992 che, modificando il comma 4 della legge
antitrust, aveva demandato al CICR i criteri di attuazione della regola
(posta dallo stesso comma 4) di separatezza tra banca e industria,
legittimando in sede di legislazione primaria l’intervento normativo di
secondo livello. Conseguentemente il CICR, con delibera del 19 aprile
1993, aveva stabilito che “alle attività finanziarie è assimilata l’attività
assicurativa”, ponendo così fine al tortuoso cammino normativo e, ancor
più, esegetico, che aveva preceduto tale delibera.
Il complesso iter appena descritto ha poi trovato organica
sistemazione nel già citato art. 19, comma 6, del TUB che, come è stato
opportunamente osservato ha reso “più duttile il principio di separatezza tra
banca e industria” 16, aprendo un varco alla possibilità di escludere le
compagnie di assicurazione dal divieto di separatezza
in esso
contemplato.
La disposizione va letta, per completezza, congiuntamente al
comma 9 del medesimo art. 19 in cui si stabilisce che “la Banca d’Italia, in
conformità delle deliberazioni del CICR, emana disposizioni attuative del presente
articolo”. Ebbene, sulla base di tale comma e della citata delibera CICR del
19 aprile 1993 la Banca d’Italia ha espressamente stabilito, nell’ambito
della Istruzioni di vigilanza per le banche, che, ai fini dell’applicazione
dell’art. 19, comma 6, del TUB “per le attività finanziarie va fatto riferimento
alle attività indicate nell’art. 1, comma 2, lett. f) del T.U.; ad esse è assimilata
l’attività assicurativa” 17.
Le ragioni che stanno alla base di un simile révirement del legislatore
risiedono, da un lato, nel tentativo di non sottoporre le imprese di
assicurazione italiane ad una normativa più restrittiva rispetto a quella di
altri Paesi dell’Unione Europea che avrebbe rischiato di alterare il
delicato equilibrio concorrenziale tra le nostre imprese assicurative e
quelle degli altri Stati membri e, dall’altro, nella “convinzione che la corsa ad
ostacoli verso l’obiettivo della privatizzazione (fra l’altro) di parte consistente delle
Cfr. A. PATRONI GRIFFI, Commento all’articolo 19 del Testo Unico Bancario, in
F. BELLI, G. CONTENTO, A. PATRONI GRIFFI, M. PORZIO, V. SANTORO (a
cura di), Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Zanichelli Editore, 2003, p. 304,
nota numero 49.
16 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le partecipazioni al capitale delle banche, in Banca Borsa
e Titoli di Credito, 1994, I, p. 285 ss.
17 Cfr. Titolo II, Capitolo 1, Sezione II, par. 6 delle vigenti Istruzioni di vigilanza
per le banche emanate dalla Banca d’Italia.
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partecipazioni delle banche richiedesse – a patto di non votarla all’insuccesso – un
alleggerimento dei confini tra banca e industria” 18.
Il fatto che le compagnie di assicurazione possano, previa
autorizzazione della Banca d’Italia, detenere partecipazioni di controllo
nelle banche costituisce senza dubbio un passo importante nella
direzione di una sempre più stretta interconnessione tra i due settori del
mercato finanziario che, tuttavia, non ha spinto il legislatore ad includere
le compagnie di assicurazione nell’ambito dei gruppi bancari (né,
specularmene, le banche in quelli assicurativi). Infatti, dal combinato
disposto degli articoli 59 e 60 del TUB, emerge chiaramente che le
compagnie di assicurazione sono escluse dal perimetro del gruppo
bancario che è composto dalla banca italiana (o società finanziaria)
capogruppo e “dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa
controllate” 19 fra le quali, appunto, non vengono ricomprese le compagnie
di assicurazione. La ragione di una simile esclusione va ricercata, da un
lato, nella difficoltà, prima di tutto contabile, di includere le imprese di
assicurazione nell’ambito della vigilanza consolidata di cui all’art. 65 del
TUB medesimo e, dall’altro lato, nell’inevitabile ridimensionamento del
poteri (costituito) e delle prerogative dell’Organo di vigilanza assicurativa
che una simile inclusione avrebbe inevitabilmente comportato.
Se è possibile per le assicurazioni detenere il controllo delle
aziende di credito, a
maggior ragione sarà possibile acquisire
partecipazioni non di controllo. La materia viene regolata, oltre che
dall’art. 19, comma 1, del TUB anche dal già citato Capitolo delle
Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia le quali subordinano l’acquisto
di partecipazioni “rilevanti” (vale a dire, superiori al 5% del capitale
sociale della banca) in istituti di credito al rilascio di una preventiva
autorizzazione dell’Organo di vigilanza. In particolare, l’autorizzazione
va chiesta non solo al superamento della soglia (5%) che rende la
partecipazione “rilevante”, ma anche successivamente, ogni qualvolta
una certa operazione di acquisizione di azioni o quote di una banca
superi determinate soglie (10%, 15%, 20%, 33%, 50%) del capitale
sociale. Una volta richiesta l’autorizzazione alla detenzione del controllo,
non sarà necessario richiedere ulteriori autorizzazioni in caso di aumento
della partecipazione (ad esempio dal 60% al 70%).
18
19
Cfr. A. PATRONI GRIFFI, op. ult. cit., p. 303.
Cfr. art. 60 del TUB.
11
4. La partecipazione delle banche nelle imprese di assicurazione
La normativa che, nell’ambito dell’ordinamento bancario,
disciplina l’assunzione di partecipazioni da parte delle banche appare
assai più chiara e presenta meno criticità rispetto a quanto abbiamo avuto
occasione di puntualizzare in materia di partecipazione al patrimonio
delle banche.
L’assunzione di partecipazioni costituisce, per le banche come per
qualsiasi altro soggetto, una delle tante forme di finanziamento (che, sia
detto per inciso, se esercitato nei confronti del pubblico diventa attività
riservata alle banche e agli intermediari finanziari iscritti nell’Elenco
Speciale di cui all’art. 106 del TUB 20). Rispetto ad altre forme di
finanziamento, tuttavia, “l’acquisizione di partecipazioni comporta l’assunzione
di maggiori rischi connessi non solo con la circostanza che il rimborso dei diritti
patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai creditori ordinari, ma anche con la
possibile fluttuazione del valore delle azioni in relazione alle prospettive economiche
dell’impresa affidata” 21 22.
Per questo motivo, l’art. 53, comma 1, lett. c) annovera la tematica
delle partecipazioni detenibili dalle banche fra quelle oggetto del potere
di vigilanza regolamentare della Banca d’Italia, la quale ha provveduto a
disciplinare la subiecta materia nell’ambito delle più volte richiamate
Istruzioni di vigilanza per le banche le quali, proprio per cercare di
limitare al minimo i rischi cui abbiamo fatto cenno, aveva dettato,
accanto ad importanti limiti quantitativi alla possibilità per le banche di
20 L’attività di assunzione di partecipazioni non nei confronti del pubblico,
purché, però, in maniera prevalente rispetto ad eventuali altre attività, è riservata anch’
essa a soggetti iscritti in un’apposita sezione dell’Elenco Generale di cui all’art. 106 del
TUB (cfr. art. 113 del TUB medesimo).
21 Cfr. BANCA D’ITALIA, Istruzioni di vigilanza per le banche, Titolo IV,
Capitolo 9, Sezione 1, par. 1.
22 Per un esame dei rischi legati a tale tipo di attività cfr. C. CLEMENTE,
Commento all’art. 53 del Testo Unico Bancario, in F. CAPRIGLIONE (a cura di),
Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Cedam, 2001, p. 407 nel
quale si legge che “l’acquisizione da parte delle banche di partecipazioni al capitale di imprese
assume rilievo, in un’ottica di vigilanza prudenziale, in quanto operazione che configura un particolare
rischio che si collega, oltre al minor grado di liquidità di tali attività, alla circostanza che il rimborso
dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai crediti, alla fluttuazione di valore delle azioni
collegata al variare delle prospettive dell’impresa e agli andamenti del mercato e, infine, al collegamento
che viene a realizzarsi con l’azienda bancaria che può minare la necessaria separatezza tra soggetto
erogante e affidato compromettendo l’autonomia dell’ente creditizio”.
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detenere partecipazioni in altre società, una serie di regole qualitative di
non secondaria importanza.
Quanto ai primi, le Istruzioni di vigilanza stabiliscono che il
complesso delle partecipazioni e degli investimenti in immobili che le
banche e i gruppi bancari possono effettuare non deve eccedere
l’ammontare del patrimonio di vigilanza.
Quanto alle seconde, invece, le istruzioni di vigilanza distinguono
tra partecipazioni in “banche, società finanziarie, strumentali e in imprese di
assicurazione”, da un lato, e partecipazioni in “imprese non finanziarie”
dall’altro lato.
Più in particolare e per quanto di più diretto interesse per la
presente indagine ricognitiva, le Istruzioni di vigilanza citate stabiliscono
che la detenzione da parte di banche di partecipazioni in imprese di
assicurazione è subordinata alla preventiva autorizzazione della Banca
d’Italia qualora l’ammontare della partecipazione superi una delle
seguenti soglie:
- il 10% ed il 20% del capitale della società partecipata, e in
ogni caso il controllo;
- il 10% del patrimonio di vigilanza della banca partecipante.
Inoltre è previsto che le partecipazioni in imprese di assicurazione
acquisiti da parte di gruppi bancari o banche non appartenenti ad un
gruppi non superino il 40% del patrimonio di vigilanza (per ogni singola
banca appartenente al gruppo, invece, tale limite è innalzato al 60%).
5. Conclusioni
Da quanto sin qui brevemente messo in evidenza, pare potersi
desumere che quella della partecipazioni delle e nelle banche è una
materia che costituisce ancora oggi, almeno guardando alla lettera delle
disposizioni rilevanti, un terreno piuttosto “paludoso” dove si
sovrappongono una serie di regole, talvolta non facilmente coordinabili
tra loro.
E allora, per tornare a quanto riportato in apertura, il vero
“paradosso” non è, almeno a giudizio di chi scrive, l’integrazione tra
banche e assicurazioni. Esso è solo un fenomeno economico, del quale il
legislatore deve semplicemente prendere atto al fine di valutare se
ammetterlo, non ammetterlo o ammetterlo a certe condizioni. Il
paradosso vero è costituito, semmai, dal fatto che per scoprire se e come
è possibile procedere alla citata integrazione, l’interprete debba rifarsi a
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due distinti corpus normativi (peraltro, come abbiamo visto, non sempre
ben coordinati tra loro e che, al contrario, si pongono talvolta in netto
contrasto le une con le altre). Sarebbe, mi sia consentito il paragone
assolutamente “atecnico”, come se il legislatore avesse dettato, con
riferimento al matrimonio, due distinte discipline normative (una per il
marito e l’altra per la moglie) senza curarsi di collegarle tra di loro e, anzi,
attribuendo all’uno certi diritti nell’ambito di una delle due discipline per
poi negare il medesimo diritto nell’ambito dell’altra. Quello che, mi pare,
si è perso di vista è che il diritto in generale (e il diritto dell’economia in
particolare) dovrebbe agevolare l’interprete e gli operatori nella
risoluzione giuridica delle problematiche di fatto che si presentano loro e
non, come purtroppo accade anche con riferimento alla fattispecie che ci
occupa, creare inutili duplicazioni normative che a nulla servono se non a
fornire un cattivo esempio di legiferazione.
Difetti di coordinamento a parte, comunque, non vi è dubbio che
il riconoscimento anche normativo dell’integrazione tra i capitali delle
banche e quelli delle imprese di assicurazione che abbiamo appena
tentato di ripercorrere, ha costituito e costituisce, la premessa
“normativa” dalla quale ha preso le mosse (sia pure molto timidamente)
anche nel nostro Paese, un certo interesse per i conglomerati finanziari
c.d. “misti”.
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