L`integrazione tra banche e imprese di
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L`integrazione tra banche e imprese di
GLI ASSETTI PARTECIPATIVI NEI PROCESSI DI INTEGRAZIONE TRA BANCHE E IMPRESE DI ASSICURAZIONE di Alessio Martelloni Dottore di ricerca in Diritto Pubblico dell’Economia e delle imprese Università di Pisa avvocato presso il servizio di Consulenza Legale di Banche Popolari Unite 1. Premessa Parlare di integrazione tra banche e imprese di assicurazioni avrebbe rappresentato, solo fino a pochi anni fa, un’autentica “eresia” e, ancora oggi, non manca chi la definisce come un vero e proprio “paradosso” dal momento che, si dice, ciascuna delle due tipologie in intrapresa economica “è regolata all’interno di un corpus organico che è espressamente orientato a preservare la c.d. separatezza dell’impresa regolata rispetto a tutte le altre attività” 1. Quanto al passato, è certamente vero che le due attività in discorso venivano considerate assolutamente estranee l’una dall’altra al punto che alle banche era vietata sia l’assunzione di partecipazioni in compagnie di assicurazione sia la produzione di prodotti assicurativi (divieto, quest’ultimo, che permane ancora oggi). In particolare, si intendeva evitare che le banche “si avvalessero delle attività a lungo termine in cui vengono investite le riserve tecniche tipiche dell’attività assicurativa per soddisfare fabbisogni di liquidità relativi alla gestione creditizia” 2. Non si riteneva, in aggiunta, che le Cfr. GIAMPAOLINO C. F., Bancassurance. Profili societari e antitrust, in G. ALPA, M. DE TILLA, S. PATTI (a cura di), Diritto dell’Economia, 2002, p. 309. 2 Cfr. M. QUAGIARIELLO, I rapporti tra banche e assicurazioni in Italia e in Europa: 1 banche avessero le competenze tecniche necessarie per svolgere adeguatamente l’attività assicurativa. Si diceva, inoltre, che l’attività assicurativa fosse priva del carattere di “finanziaretà”, tipico delle banche e delle imprese di investimento e che fosse, piuttosto, assimilabile ad un’attività di tipo industriale. Non è un caso che, ancor oggi, il dicastero competente in materia assicurativa non sia il Ministero dell’Economia e delle Finanze, bensì quello delle Attività Produttive (ex Ministero dell’Industria), con buona pace di chi, peraltro a ragione, invoca da anni l’emancipazione del comparto assicurativo da un simile “patrigno”. Già nel corso degli anni ottanta alcuni Paesi di ambito UE cominciarono a mettere in atto una vera e propria deregulation del settore assicurativo dando il via, anche formale, ai primi fenomeni di integrazione 3. Negli Stati Uniti l’assetto legislativo del Glass-Steagal Act del 1933 (noto anche come Banking Act), imperniato sulla separatezza tra banche e assicurazioni, cade nel 1999 con l’approvazione del GrammLeach-Bliley Act. Sul finire del secolo scorso, anche il legislatore comunitario ha cominciato a considerare i settori bancario, finanziario e assicurativo come appartenenti ad un unico macro-settore che è quello delle attività finanziarie. Il primo passo in tale direzione è stato fatto con la direttiva n. 26/95/CE (c.d. direttiva “post BCCI”) in tema di armonizzazione dei poteri di controllo delle autorità preposte alla vigilanza delle imprese finanziarie, tra le quali venivano annoverate anche le compagnie di assicurazione. Più di recente, si considerino, invece, la direttiva n. 65/2002/CE in tema di vendita a distanza di prodotti e servizi finanziari (termine con il quale si intendono identificare sia i prodotti bancari, sia quelli mobiliari sia, infine, quelli assicurativi) e, ovviamente, la direttiva sui conglomerati finanziari (n. 87/2002/CE). In Italia, purtroppo, la disciplina in tema di partecipazioni tra banche e assicurazioni è ancora poco chiara e, soprattutto, inserita in atti normativi distinti e scarsamente coordinati tra loro. Basti pensare, a titolo di esempio, che per avere contezza delle regole giuridiche in tema di assunzione di partecipazioni, da parte di compagnie di assicurazione, in istituti di credito occorre esaminare due veri e propri “ordinamenti settoriali” (quello bancario e quello assicurativo) per scoprire che gli stessi non sono affatto armonizzati tra loro. aspetti empirici e problemi di regolamentazione, in Rivista Bancaria, 2001, n. 4, p. 67. 3 Cfr. M. QUAGLIARIELLO, op. cit., p. 67. 2 2. La partecipazione delle assicurazioni nel capitale delle banche secondo l’ordinamento assicurativo Fin dalla prima regolamentazione organica dei controlli sul settore assicurativo, il principio di esclusività dell’oggetto sociale delle imprese di assicurazione era stato scolpito a chiare lettere dal legislatore primario del nostro Paese che aveva espressamente previsto all’art. 130 del Regio Decreto n. 63 del 4 gennaio 1925 – recante il primo Regolamento per l’esercizio delle assicurazioni private – il divieto per “ogni impresa di assicurazione, di riassicurazione, di capitalizzazione e di risparmio di fare operazioni estranee all’esercizio di dette industrie”. Secondo la discutibile interpretazione (tuttavia unanimemente condivisa) dell’articolo 130 citato e, soprattutto, in assenza di una specifica norma che disciplinasse l’assunzione di partecipazioni di controllo delle imprese di assicurazione in altre società, da esso si faceva discendere l’impossibilità per le imprese di assicurazione non solo di esercitare direttamente le attività “estranee” al loro oggetto sociale, ma anche di esercitarle per il tramite di società controllate. Una simile lacuna normativa (e, conseguentemente, una simile interpretazione estensiva dell’art. 130 citato) è durata fintanto che non è stata emanata la legge 9 gennaio 1991 n. 20 recante “norme sul controllo delle partecipazioni di imprese o enti assicurativi e in imprese o enti assicurativi”. Più in particolare, l’art. 4 della legge stabilisce, al primo comma, che le imprese e gli enti assicurativi “non possono assumere partecipazioni di controllo in altre società quando queste esercitino attività diverse da quelle consentite alle stesse imprese di assicurazione” dall’art. 5, comma 2, della legge 295/1978 (per le assicurazioni contro i danni) e dall’art. 4, comma 2, della legge 742/1986 (per le assicurazioni sulla vita). Tali ultime norme, a loro volta, prevedevano (e prevedono tutt’oggi) che le imprese di assicurazione possono esercitare, oltre all’attività tipicamente assicurativa, soltanto le attività e le operazioni “connesse” a tali attività. Prima di interrogarci sul senso e la portata dell’aggettivo “connesse” e sulla conseguente possibilità o meno di ritenere l’attività bancaria connessa a quella assicurativa, pare opportuno mettere in evidenza che l’art. 4, comma 1, in commento ha introdotto un’equazione (divieto di esercitare direttamente una attività uguale divieto ad esercitarla per il tramite di controllate) che non risponde ad alcuna logica giuridicoeconomica, nel senso che “dal fatto che le imprese di assicurazione debbano limitare il loro oggetto all’esercizio delle attività assicurative e di quelle che alle 3 medesime sono connesse non discende necessariamente, in assenza di un’esplicita statuizione come quella in esame, che le imprese di assicurazione possano assumere partecipazioni di controllo solo in società che esercitano attività connesse…In altre parole…non possono essere equiparati l’esercizio dell’attività e la detenzione di partecipazioni [..] e dal divieto del primo non si può ricavare il divieto della seconda” 4 . Tuttavia, come ha osservato lo stesso Autore appena citato, l’art. 4, comma 1, rappresenta un “dato normativo ormai inserito nel nostro ordinamento e con il quale è necessario fare i conti”. E allora, a voler fare questi conti, l’interprete deve necessariamente partire dal concetto di attività “connesse” all’attività assicurativa indirettamente richiamato dall’art. 4 della legge 20 per poi verificare se tra queste vi rientri o meno l’attività bancaria. Della problematica si sono occupati sia alcuni autorevoli Autori (in primis Renzo Costi e Alessandro Nigro) sia lo stesso Isvap che, nel commentare, nell’ambito della propria Circolare n. 150 del 21 febbraio 1991 (emanata, quindi, all’indomani della legge 20 e poi ripresa dalla Circolare n. 250 del 1995 che poco o nulla aggiunge alla stessa) aveva avuto modo di chiarire che la finalità dell’art. 4, comma 1, della legge in commento consiste nella tutela della stabilità della compagnia di assicurazione attuata mediante un vincolo di destinazione del patrimonio della compagnia medesima in attività assicurative o, comunque, connesse alle stesse. Quanto al concetto di “attività connessa” l’Isvap ritiene che lo stesso si traduca nell’esistenza, da valutare in concreto e caso per caso, di “relazioni di accessorietà, strumentalità e funzionalità all’attività assicurativa”, con la conseguenza che se prima dell’intervento dell’Isvap il concetto da chiarire era solo uno (quello di connessione, appunto), dopo l’intervento dell’Organo di vigilanza i concetti da spiegare diventano addirittura tre (accessorietà, strumentalità e funzionalità). Quello che appare invece chiaro dalla Circolare n. 150 è che l’esistenza di una connessione tra l’attività della controllata (rectius, aspirante controllata) e l’attività assicurativa deve essere dimostrata in concreto e caso per caso e “non già in via meramente ipotetica e astratta”. La conseguenza di una simile impostazione è che non si potrà dire, ad esempio e per quello che qui interessa, che l’attività bancaria è, di per sé, connessa all’attività assicurativa e che, pertanto, le imprese di 4 Cfr. R. COSTI, Il Gruppo bancario e assicurativo: il quadro istituzionale, in F. CESARINI e R. VARALDO (a cura di), Banche e assicurazioni. Rapporti e prospettive di sviluppo, UTET, 1992, p. 15. 4 assicurazione sono sempre e comunque legittimate ad assumere partecipazioni di controllo nelle banche. Al contrario, occorrerà che l’Isvap valuti in concreto la ricorrenza o meno di un rapporto di funzionalità (più che di strumentalità o accessorietà) tra l’attività di quella impresa di assicurazione e l’attività di quella banca. Tale impostazione, peraltro, risulta assolutamente coerente con quanto disposto dal secondo comma dell’art. 4 della legge 20, a mente del quale “la connessione tra l’attività assicurativa e quella esercitata dalla società controllata può risultare da un programma di attività richiesto dall’Istituto per la vigilanza delle assicurazioni private e di interesse collettivo (ISVAP) alla società controllante”. Ad una conclusione diversa, peraltro criticata aspramente dalla dottrina citata 5, sembrava essere giunto il Senato che – in un ordine del giorno approvato il 19 dicembre 1990 durante i lavori che hanno portato all’emanazione della legge n. 20/1991 – aveva invitato il governo “a riconoscere ai sensi dell’art. 4 del disegno di legge in approvazione che l’attività assicurativa è connessa a quella bancaria”. Se le ragioni “politiche” di una simile affermazione erano chiarissime (si voleva evitare alle imprese di assicurazione italiane svantaggi competitivi nei confronti delle omologhe società comunitarie), altrettanto evidente era l’antigiuridicità di tale affermazione definita da Costi addirittura “contra legem nel momento in cui postula una connessione necessaria fra attività assicurativa e attività bancaria” che renderebbe di fatto impossibile (o almeno irrilevante) quel controllo in concreto della connessione che la legge demanda all’Isvap al secondo comma dell’art. 4 in discorso. Tutt’al più, si potrebbe affermare che l’attività bancaria è attività “connettibile”, a seguito di giudizio ex post dell’Isvap medesimo, a quella assicurativa. L’Organo di vigilanza assicurativa diventa quindi l’unico (e l’ultimo) arbitro del giudizio di connessione di cui alla legge 20/1991. Esso governa i processi partecipativi attivati dalla stessa legge e “autorizzando, negando l’autorizzazione o imponendo riduzioni e dismissioni, provvede a rendere compatibili le scelte aziendali con gli obiettivi di vigilanza e, in altri termini, a coniugare al meglio le ragioni della libertà con quelle dell’autorità, il pubblico col privato interesse” 6. Se questa della “connettibità” dell’attività bancaria a quella assicurativa può essere ormai considerata la tesi accolta da gran parte della dottrina e, soprattutto, dall’Isvap, non è mancato chi, Cfr. R. COSTI, op. cit., p. 16. Cfr. L. DESIDERIO, Banche e assicurazioni, in G. ALPA, M. DE TILLA, S. PATTI (a cura di), op. cit., p. 361. 5 6 5 autorevolmente, ha definito una simile interpretazione dell’articolo 4 della legge 20/1991 come una vera e propria forzatura 7. Anzi, a detta di tale Autore si tratterebbe di una “triplice forzatura”. La prima forzatura sarebbe quella di aver arbitrariamente sostituito – nelle norme sull’oggetto sociale delle assicurazioni cui fa rinvio, come abbiamo osservato, l’art. 4 citato (si tratta, lo rammento, dell’art. 5, comma 2, della legge 295/1978 e dell’art. 4, comma 2, della legge 742/1986) – la locuzione “attività connesse” a quella di “operazioni connesse”, effettivamente utilizzata dalle stesse. La seconda forzatura, sempre secondo Nigro, consisterebbe nel far dire all’art. 4 ciò che esso non dice. Ed infatti tale norma non stabilisce, ad onor del vero, che le imprese di assicurazione possono assumere partecipazioni di controllo in altre società quando queste ultime esercitino attività assicurative e/o attività connesse a quelle assicurative, ma dice una cosa ben diversa, vale a dire che le imprese di assicurazione non possono assumere partecipazioni di controllo in altre società quando tali società esercitino attività diverse da quelle consentite alle imprese di assicurazione. Il che equivarrebbe a dire, secondo Nigro, che “le imprese di assicurazione possono assumere partecipazioni di controllo solo in società che esercitano attività che esse imprese di assicurazione possono direttamente esercitare” 8. L’art. 4 della legge del novantuno, quindi, costituirebbe l’espressione “della specifica volontà del legislatore di estendere alle partecipazioni lo stesso vincolo disposto all’oggetto” riprendendo, di fatto, quella malsana equazione che, come è stato osservato più sopra, si era andata diffondendo tra gli interpreti dell’art. 130 del vecchio Regolamento del 1925. Secondo tale Autore, insomma, la norma in discorso andrebbe interpretata nel senso che le attività della società partecipata debbano necessariamente rientrare fra quelle esercitabili direttamente dalla compagnia di assicurazione. Ne consegue, quindi, che, siccome è pacifico che le imprese di assicurazione non possono esercitare direttamente l’attività bancaria, dovrebbe essere altrettanto pacifico che esse non possono assumere il controllo di banche. La terza e, forse, più importante forzatura individuata da Nigro sarebbe quella di aver considerato connessione fra due attività (quella bancaria e quella assicurativa) quella che, invece, connessione in senso Cfr. A. NIGRO, L’integrazione fra attività bancaria e attività assicurativa, in Diritto della Banca e del Mercato Finanziario, 1997, n. 2, p. 191. 8 Cfr. A. NIGRO, op. cit., p. 188. 7 6 proprio (e cioè un rapporto di subordinazione economico-funzionale) non è. La assai affascinante e acuta ricostruzione di Nigro, tuttavia, mi pare parta da una individuazione erronea della “teoria avversaria”. Infatti né l’Isvap, né coloro che, più o meno implicitamente, ne hanno avallato le conclusioni (Costi) hanno mai parlato di una connessione necessaria (da fare, cioè, ex ante) tra attività bancaria e attività assicurativa cui Nigro sembra fare (implicito) riferimento nel portare avanti le sue argomentazioni. Essi, per contro, hanno sempre parlato di una connettibilità mai scontata, bensì da valutare caso per caso. Per quanto assolutamente evidente, è bene precisare che quanto sin qui osservato a proposito delle indubbie difficoltà ad ammettere che l’attività bancaria sia connessa o connettibile con quella assicurativa aveva in mente e partiva dall’art. 4 della legge 20/1991 e si riferiva, pertanto, alle sole partecipazioni di controllo detenibili dalle imprese di assicurazione. Un discorso del tutto diverso deve essere svolto, per contro, con riferimento alle partecipazioni non di controllo che, invece, costituisce una normalissima modalità con cui le imprese di assicurazione gestiscono le risorse finanziarie raccolte mediante la riscossione dei premi ed incontrano, pertanto, solo i limiti imposti dalla normativa di vigilanza in materia di riserve. Come è stato osservato, “l’investimento in partecipazioni (non di controllo, ndr) è pertanto previsto dalla legge quale attività tipica dell’impresa di assicurazioni, ossia è considerata attività legalmente connessa a quella assicurativa” 9. Una dimostrazione, per così dire, empirica di ciò la rinveniamo nelle “Istruzioni per la compilazione del modello da utilizzare per le comunicazioni dovute ai sensi dell’art. 5 della legge 9 gennaio 1991 n. 20” allegate alla Circolare Isvap n. 250 del 20 giugno 1995 dove si prevede che la compagnia possa segnalare all’autorità di vigilanza la detenzione di tutta una serie di partecipazioni di minoranza in una gamma piuttosto variegata di società (si va dalle società finanziarie, alle banche, alle aziende industriali) 10. 9 Cfr. C. F. GIAMPAOLINO, Bancassurance. Profili societari e antitrust, in G. ALPA, M. DE TILLA, S. PATTI (a cura di), op. cit., p. 312. 10 Nella stessa direzione si può citare il 5° considerando della direttiva n. 95/26/CE (c.d. direttiva post BCCI) sull’armonizzazione dei poteri di vigilanza e controllo sulle imprese finanziarie, incluse quelle assicurative, il quale recita “considerando che il solo fatto di acquisire una percentuale significativa del capitale di una società non costituisce una 7 3. (segue) e secondo quello bancario Assai più chiara, almeno oggi, è la disciplina dettata nell’ambito dell’ordinamento bancario a proposito della possibilità per le imprese di assicurazione di detenere partecipazioni (anche di controllo) nel capitale delle banche. La normativa di riferimento, in questo caso, è rinvenibile nel Testo Unico Bancario (TUB) agli articoli 19-24, raggruppati nel Capo terzo del Titolo II intitolato, per l’appunto “Partecipazione al capitale delle banche”. In particolare, la disposizione che rileva ai nostri fini è l’art. 19 il quale subordina l’acquisizione a qualsiasi titolo di partecipazioni rilevanti (e, in ogni caso, quelle superiori al 5% del capitale della banca) all’autorizzazione dell’Organo di vigilanza. Tale autorizzazione, precisa il terzo comma dell’art. 19, è necessaria anche per l’acquisizione del controllo della società che già detiene partecipazioni rilevanti in una banca ai sensi del primo comma. Inoltre, per quello che maggiormente interessa in questa sede, la norma in esame fissa, al comma 6, un principio (c.d. principio di “separatezza banca-industria”) in base al quale i soggetti che, anche attraverso società controllate 11, svolgono “in misura rilevante” attività di impresa in settori non bancari né finanziari, non possono essere autorizzati ad acquistare partecipazioni superiori al 15% del capitale di una banca o di una capogruppo non banca o, comunque, il controllo delle stesse. Prima dell’entrata in vigore del TUB, la normativa di riferimento in tema di partecipazione al capitale degli enti creditizi era contenuta nella legge n. 287 del 1990 (c.d. legge antitrust) il cui art. 27 riproduceva, grosso modo, i contenuti dell’attuale art. 19 citato. Una delle differenze più importanti, tuttavia, tra la vecchia e la nuova normativa era rappresentata proprio dalla diversa disciplina del principio di separatezza bancaindustria. Infatti, sebbene l’art. 19 del TUB mantenga il divieto (già previsto all’art. 27, comma 6, della legge antitrust) di autorizzare partecipazioni superiori al 15% del capitale della banca, esso allarga la cerchia dei soggetti nei confronti dei quali opera tale divieto. Infatti, partecipazione da prendere in considerazione ai fini della presente direttiva se tale acquisizione viene effettuata quale investimento temporaneo e non consente di esercitare un’influenza sulla struttura e la politica finanziaria dell’impresa”. 11 La nozione di “controllo” rilevante ai fini dell’applicazione della normativa in discorso viene fornita all’art. 23 del TUB medesimo. 8 mentre, come è stato messo in evidenza, l’attuale divieto si applica ai soggetti che svolgono in misura rilevante attività di impresa in settori non bancari né finanziari, l’art. 27, comma 6, citato includeva nel divieto tutti i soggetti “diversi dagli enti creditizi e dalle società o enti finanziari”. La differenza, specie ai nostri fini (vale a dire, per valutare l’applicazione o meno del divieto in questione anche alle imprese di assicurazione) può sembrare irrilevante, ma non lo è. La circostanza che nella vecchia norma si facesse riferimento a dei soggetti e non a delle attività, infatti, rendeva assai più arduo argomentare, di fronte a quel dato normativo, l’inclusione delle imprese di assicurazione tra le “società o enti finanziari”. Nonostante una simile difficoltà, non era mancato chi, già sotto la vigenza dell’art. 27, comma 6, citato, aveva autorevolmente sostenuto (sia pure ammettendo la parziale forzatura di tale interpretazione, che traeva origine e spunto non già dal testo di legge ma dai “convincimenti emersi nel corso dei lavori preparatori” alla legge antitrust) che “nella nozione di enti finanziari accolta dall’art. 27 n. 6 siano ricomprese anche le compagnie di assicurazione e che, pertanto, le autorità creditizie (e in particolare l’organo di vigilanza) potranno autorizzare queste ultime ad assumere partecipazioni di controllo negli enti creditizi senza violare la norma dettata dal predetto art. 27 n. 6” 12. Tale interpretazione, per quanto debba essere considerata positivamente e apprezzata alla luce di quelli che sarebbero stati i futuri sviluppi della norma in discorso, appariva, nel momento in cui era stata proposta, non troppo convincente 13 e, soprattutto, non adeguatamente suffragata dalla lettera dell’art. 27 citato. Sulla base della stessa linea interpretativa dell’Autore citato, peraltro, anche il decreto del Ministro del Tesoro del 5 giugno 1991, aveva disposto, per via amministrativa e senza alcun appiglio nella legislazione primaria (modus operandi, questo, che era stato giustamente criticato da una parte della dottrina 14) che “gli enti e le società che hanno per oggetto l’esercizio dell’attività assicurativa, vanno assimilati, ai fini della presente Cfr. R. COSTI, op. cit., p. 11. Colpisce, in particolare, il procedere “ondivago” dell’autore che, appena poche righe prima del passo citato aveva sostenuto che “come si può constatare, in nessuna delle molte nozioni di ente e società finanziari presenti nel nostro ordinamento l’attività assicurativa viene ricompresa fra le attività finanziarie, neppure in quelle più recenti e destinate probabilmente a individuare definitivamente la categoria degli enti finanziari diversi dagli enti creditizi e da quelli di mercato mobiliare”. 14 Cfr. A. PATRONI GRIFFI, Assicurazioni e banche: intreccio di attività e intreccio di controlli, in Assicurazioni, 1992, p. 37. 12 13 9 disciplina, a quelli finanziari”. A questo “inconveniente” 15 aveva posto rimedio il D. Lgs. n. 481/1992 che, modificando il comma 4 della legge antitrust, aveva demandato al CICR i criteri di attuazione della regola (posta dallo stesso comma 4) di separatezza tra banca e industria, legittimando in sede di legislazione primaria l’intervento normativo di secondo livello. Conseguentemente il CICR, con delibera del 19 aprile 1993, aveva stabilito che “alle attività finanziarie è assimilata l’attività assicurativa”, ponendo così fine al tortuoso cammino normativo e, ancor più, esegetico, che aveva preceduto tale delibera. Il complesso iter appena descritto ha poi trovato organica sistemazione nel già citato art. 19, comma 6, del TUB che, come è stato opportunamente osservato ha reso “più duttile il principio di separatezza tra banca e industria” 16, aprendo un varco alla possibilità di escludere le compagnie di assicurazione dal divieto di separatezza in esso contemplato. La disposizione va letta, per completezza, congiuntamente al comma 9 del medesimo art. 19 in cui si stabilisce che “la Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, emana disposizioni attuative del presente articolo”. Ebbene, sulla base di tale comma e della citata delibera CICR del 19 aprile 1993 la Banca d’Italia ha espressamente stabilito, nell’ambito della Istruzioni di vigilanza per le banche, che, ai fini dell’applicazione dell’art. 19, comma 6, del TUB “per le attività finanziarie va fatto riferimento alle attività indicate nell’art. 1, comma 2, lett. f) del T.U.; ad esse è assimilata l’attività assicurativa” 17. Le ragioni che stanno alla base di un simile révirement del legislatore risiedono, da un lato, nel tentativo di non sottoporre le imprese di assicurazione italiane ad una normativa più restrittiva rispetto a quella di altri Paesi dell’Unione Europea che avrebbe rischiato di alterare il delicato equilibrio concorrenziale tra le nostre imprese assicurative e quelle degli altri Stati membri e, dall’altro, nella “convinzione che la corsa ad ostacoli verso l’obiettivo della privatizzazione (fra l’altro) di parte consistente delle Cfr. A. PATRONI GRIFFI, Commento all’articolo 19 del Testo Unico Bancario, in F. BELLI, G. CONTENTO, A. PATRONI GRIFFI, M. PORZIO, V. SANTORO (a cura di), Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Zanichelli Editore, 2003, p. 304, nota numero 49. 16 Cfr. G.F. CAMPOBASSO, Le partecipazioni al capitale delle banche, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1994, I, p. 285 ss. 17 Cfr. Titolo II, Capitolo 1, Sezione II, par. 6 delle vigenti Istruzioni di vigilanza per le banche emanate dalla Banca d’Italia. 15 10 partecipazioni delle banche richiedesse – a patto di non votarla all’insuccesso – un alleggerimento dei confini tra banca e industria” 18. Il fatto che le compagnie di assicurazione possano, previa autorizzazione della Banca d’Italia, detenere partecipazioni di controllo nelle banche costituisce senza dubbio un passo importante nella direzione di una sempre più stretta interconnessione tra i due settori del mercato finanziario che, tuttavia, non ha spinto il legislatore ad includere le compagnie di assicurazione nell’ambito dei gruppi bancari (né, specularmene, le banche in quelli assicurativi). Infatti, dal combinato disposto degli articoli 59 e 60 del TUB, emerge chiaramente che le compagnie di assicurazione sono escluse dal perimetro del gruppo bancario che è composto dalla banca italiana (o società finanziaria) capogruppo e “dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate” 19 fra le quali, appunto, non vengono ricomprese le compagnie di assicurazione. La ragione di una simile esclusione va ricercata, da un lato, nella difficoltà, prima di tutto contabile, di includere le imprese di assicurazione nell’ambito della vigilanza consolidata di cui all’art. 65 del TUB medesimo e, dall’altro lato, nell’inevitabile ridimensionamento del poteri (costituito) e delle prerogative dell’Organo di vigilanza assicurativa che una simile inclusione avrebbe inevitabilmente comportato. Se è possibile per le assicurazioni detenere il controllo delle aziende di credito, a maggior ragione sarà possibile acquisire partecipazioni non di controllo. La materia viene regolata, oltre che dall’art. 19, comma 1, del TUB anche dal già citato Capitolo delle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia le quali subordinano l’acquisto di partecipazioni “rilevanti” (vale a dire, superiori al 5% del capitale sociale della banca) in istituti di credito al rilascio di una preventiva autorizzazione dell’Organo di vigilanza. In particolare, l’autorizzazione va chiesta non solo al superamento della soglia (5%) che rende la partecipazione “rilevante”, ma anche successivamente, ogni qualvolta una certa operazione di acquisizione di azioni o quote di una banca superi determinate soglie (10%, 15%, 20%, 33%, 50%) del capitale sociale. Una volta richiesta l’autorizzazione alla detenzione del controllo, non sarà necessario richiedere ulteriori autorizzazioni in caso di aumento della partecipazione (ad esempio dal 60% al 70%). 18 19 Cfr. A. PATRONI GRIFFI, op. ult. cit., p. 303. Cfr. art. 60 del TUB. 11 4. La partecipazione delle banche nelle imprese di assicurazione La normativa che, nell’ambito dell’ordinamento bancario, disciplina l’assunzione di partecipazioni da parte delle banche appare assai più chiara e presenta meno criticità rispetto a quanto abbiamo avuto occasione di puntualizzare in materia di partecipazione al patrimonio delle banche. L’assunzione di partecipazioni costituisce, per le banche come per qualsiasi altro soggetto, una delle tante forme di finanziamento (che, sia detto per inciso, se esercitato nei confronti del pubblico diventa attività riservata alle banche e agli intermediari finanziari iscritti nell’Elenco Speciale di cui all’art. 106 del TUB 20). Rispetto ad altre forme di finanziamento, tuttavia, “l’acquisizione di partecipazioni comporta l’assunzione di maggiori rischi connessi non solo con la circostanza che il rimborso dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai creditori ordinari, ma anche con la possibile fluttuazione del valore delle azioni in relazione alle prospettive economiche dell’impresa affidata” 21 22. Per questo motivo, l’art. 53, comma 1, lett. c) annovera la tematica delle partecipazioni detenibili dalle banche fra quelle oggetto del potere di vigilanza regolamentare della Banca d’Italia, la quale ha provveduto a disciplinare la subiecta materia nell’ambito delle più volte richiamate Istruzioni di vigilanza per le banche le quali, proprio per cercare di limitare al minimo i rischi cui abbiamo fatto cenno, aveva dettato, accanto ad importanti limiti quantitativi alla possibilità per le banche di 20 L’attività di assunzione di partecipazioni non nei confronti del pubblico, purché, però, in maniera prevalente rispetto ad eventuali altre attività, è riservata anch’ essa a soggetti iscritti in un’apposita sezione dell’Elenco Generale di cui all’art. 106 del TUB (cfr. art. 113 del TUB medesimo). 21 Cfr. BANCA D’ITALIA, Istruzioni di vigilanza per le banche, Titolo IV, Capitolo 9, Sezione 1, par. 1. 22 Per un esame dei rischi legati a tale tipo di attività cfr. C. CLEMENTE, Commento all’art. 53 del Testo Unico Bancario, in F. CAPRIGLIONE (a cura di), Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Cedam, 2001, p. 407 nel quale si legge che “l’acquisizione da parte delle banche di partecipazioni al capitale di imprese assume rilievo, in un’ottica di vigilanza prudenziale, in quanto operazione che configura un particolare rischio che si collega, oltre al minor grado di liquidità di tali attività, alla circostanza che il rimborso dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai crediti, alla fluttuazione di valore delle azioni collegata al variare delle prospettive dell’impresa e agli andamenti del mercato e, infine, al collegamento che viene a realizzarsi con l’azienda bancaria che può minare la necessaria separatezza tra soggetto erogante e affidato compromettendo l’autonomia dell’ente creditizio”. 12 detenere partecipazioni in altre società, una serie di regole qualitative di non secondaria importanza. Quanto ai primi, le Istruzioni di vigilanza stabiliscono che il complesso delle partecipazioni e degli investimenti in immobili che le banche e i gruppi bancari possono effettuare non deve eccedere l’ammontare del patrimonio di vigilanza. Quanto alle seconde, invece, le istruzioni di vigilanza distinguono tra partecipazioni in “banche, società finanziarie, strumentali e in imprese di assicurazione”, da un lato, e partecipazioni in “imprese non finanziarie” dall’altro lato. Più in particolare e per quanto di più diretto interesse per la presente indagine ricognitiva, le Istruzioni di vigilanza citate stabiliscono che la detenzione da parte di banche di partecipazioni in imprese di assicurazione è subordinata alla preventiva autorizzazione della Banca d’Italia qualora l’ammontare della partecipazione superi una delle seguenti soglie: - il 10% ed il 20% del capitale della società partecipata, e in ogni caso il controllo; - il 10% del patrimonio di vigilanza della banca partecipante. Inoltre è previsto che le partecipazioni in imprese di assicurazione acquisiti da parte di gruppi bancari o banche non appartenenti ad un gruppi non superino il 40% del patrimonio di vigilanza (per ogni singola banca appartenente al gruppo, invece, tale limite è innalzato al 60%). 5. Conclusioni Da quanto sin qui brevemente messo in evidenza, pare potersi desumere che quella della partecipazioni delle e nelle banche è una materia che costituisce ancora oggi, almeno guardando alla lettera delle disposizioni rilevanti, un terreno piuttosto “paludoso” dove si sovrappongono una serie di regole, talvolta non facilmente coordinabili tra loro. E allora, per tornare a quanto riportato in apertura, il vero “paradosso” non è, almeno a giudizio di chi scrive, l’integrazione tra banche e assicurazioni. Esso è solo un fenomeno economico, del quale il legislatore deve semplicemente prendere atto al fine di valutare se ammetterlo, non ammetterlo o ammetterlo a certe condizioni. Il paradosso vero è costituito, semmai, dal fatto che per scoprire se e come è possibile procedere alla citata integrazione, l’interprete debba rifarsi a 13 due distinti corpus normativi (peraltro, come abbiamo visto, non sempre ben coordinati tra loro e che, al contrario, si pongono talvolta in netto contrasto le une con le altre). Sarebbe, mi sia consentito il paragone assolutamente “atecnico”, come se il legislatore avesse dettato, con riferimento al matrimonio, due distinte discipline normative (una per il marito e l’altra per la moglie) senza curarsi di collegarle tra di loro e, anzi, attribuendo all’uno certi diritti nell’ambito di una delle due discipline per poi negare il medesimo diritto nell’ambito dell’altra. Quello che, mi pare, si è perso di vista è che il diritto in generale (e il diritto dell’economia in particolare) dovrebbe agevolare l’interprete e gli operatori nella risoluzione giuridica delle problematiche di fatto che si presentano loro e non, come purtroppo accade anche con riferimento alla fattispecie che ci occupa, creare inutili duplicazioni normative che a nulla servono se non a fornire un cattivo esempio di legiferazione. Difetti di coordinamento a parte, comunque, non vi è dubbio che il riconoscimento anche normativo dell’integrazione tra i capitali delle banche e quelli delle imprese di assicurazione che abbiamo appena tentato di ripercorrere, ha costituito e costituisce, la premessa “normativa” dalla quale ha preso le mosse (sia pure molto timidamente) anche nel nostro Paese, un certo interesse per i conglomerati finanziari c.d. “misti”. 14