El Alamein - Marinai d`Italia

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El Alamein - Marinai d`Italia
Speciale Crociera ANMI - Costa Pacifica 2014
El Alamein
Tra i maghi in questione vanno annoverati anche i marinai del
piccolo piroscafo Pontinia, una carretta italiana di appena 715
tonnellate risalente al 1881 e inviata per tempo da Supermarina
nel porticciolo egiziano di Marsa Matruh, a ridosso del fronte,
con un carico di 535 tonnellate di munizioni, tutte sbarcate il 4 luglio e subito avviate al fronte dove giunsero, come abbiamo visto, appena in tempo.
A quella nave seguirono, fino a novembre, in quello stesso, bombardatissimo scalo, altre 319 navicelle, tra mercantili, motozattere e motovelieri, senza che un solo carico andasse perduto. Non
gran che diverso fu il discorso delle rotte d’altura. Nel luglio 1942
su 97.794 tonnellate di rifornimenti inviate via mare ne arrivarono a destinazione 91.491.
Ad agosto ci fu un calo (51.655 su 77.224), ma la fallita, ultima offensiva di Rommel, lanciata controvoglia il 30 di quel mese e interrotta il 2 settembre, non fu bloccata dalla mancanza di benzina e munizioni, come troppo spesso si dice ancora oggi, ma dalla fallita sorpresa e dal fatto che gli avversari erano, semplicemente, troppo forti. Lo dichiarò esplicitamente il Maresciallo tedesco Kesselring dopo la guerra e lo certificano i documenti dell’epoca. In effetti arrivò in tempo, cortesia della Regia Marina,
della Luftwaffe e della Regia Aeronautica, tutto quello che il leggendario (ma ormai esausto e malato, dopo un anno e mezzo di
vita randagia nel deserto) comandante dell’armata italo-tedesca
aveva chiesto, il 17 agosto, per attaccare a fine mese e alimentare una nuova offensiva fino al Nilo: 5.700 tonnellate di combustibili (destinati ad assicurare una riserva extra rispetto a quella
già esistente), 2.000 tonnellate di munizioni e 295 automezzi da
consegnare entro il 30 di quello stesso mese.
Oltre la gloria
di Enrico Cernuschi
E
l Alamein, “la battaglia dei soldati al sole”, come l’hanno
definita gli anglosassoni. Un scontro tra guerrieri, senza
praticamente civili intorno, quasi fosse un duello medievale, anzi l’ultimo torneo della vecchia Europa.
Deve esserci qualcosa di vero in questa definizione, scolpita
nell’immaginario collettivo e che appartiene non soltanto ai
cultori di storia, ma alla cultura di un qualsiasi cittadino di ogni
età e nazione. I francesi, per esempio, hanno fatto carte false
per poter dimostrare di essere stati anche loro della partita, a
fianco degli inglesi, contro i tedeschi e gli italiani. Parteciparono, infatti, con un reggimento di formazione, su un totale di 38
schierati dall’Inghilterra e dai suoi sudditi di tre continenti nel
corso di quella campagna combattuta tra il luglio e il novembre
1942. Si trattava, in non insolito connubio, di uomini della Legione Straniera in compagnia di marinai degaullisti, ma ci furono,
e qui si rende loro il dovuto onore. Tra quelle pietre e quelle
sabbie ci fu gloria per tutti. Nessuno può dire cosa sarebbe
successo se, nel corso della prima settimana di luglio, le scheletriche ed esauste forze italo-tedesche di Rommel (circa
15.000 uomini con un centinaio di carri contro 39.000 avversari
dotati di un numero triplo di veicoli corazzati, in maggioranza
grossi Grant made in USA) avessero compiuto, dopo l’incredibile serie di vittorie “impossibili” e di avanzate dei due mesi
precedenti, quell’ultimo miracolo.
Vista esterna
del Sacrario tedesco
(Foto E. Cernuschi)
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L’unico dato certo è contenuto nel diario del generale Franz Halder, capo di Stato Maggiore dell’Esercito tedesco e testimone
d’accusa, a Norimberga, contro i superstiti del governo e del
partito nazista. Il 30 giugno 1942 l’allora capo dell’Oberkommando des Heeres scrisse, invero, che non era prevista, dopo la presa del Canale di Suez, un’ulteriore avanzata verso Levante. Soltanto l’invio di colonne italiane a sud, lungo il Nilo, in direzione
dell’Etiopia, e la possibile occupazione di Aden, nello Yemen, a
opera di paracadutisti tedeschi. Queste operazioni, tuttavia, non
sarebbero state che un “battere i pagliericci all’aria”, termine da
caserma germanico analogo al nostro “vasetto”. In altre parole
un semplice esercizio di propaganda in quanto la guerra, a quel
punto, sarebbe finita. La logica dello Stato Maggiore tedesco era
impeccabile. Una volta perso l’immenso porto e ancoraggio di
Suez eventuali truppe britanniche e imperiali asserragliate nel
Sinai, in Palestina e in Medio Oriente non avrebbero potuto contare che sugli scali del Golfo Persico, nessuno dei quali era in
grado di scaricare, nel 1942 e nel 1943, più di poche centinaia di
tonnellate al giorno di carichi secchi. Pretendere di alimentare
anche un solo corpo d’armata (da opporre, a sua volta, a un’armata italo-tedesca liberamente rifornita via mare attraverso
Alessandria) lungo quel collo di bottiglia e oltre 2.000 chilometri
di strade e deserti, dall’Iraq fino alla linea del fronte, era un assurdo sia in termini logistici sia politici.
Sopra, la corte d’onore del Sacrario italiano:
il cippo in ricordo della Regia Marina,
sotto, l’entrata del Cimitero di guerra britannico
(Foto E. Cernuschi)
Il Monumento italiano
a ricordo della celebre
“Quota 33”
(Foto E. Cernuschi)
Tutta la guerra nel Mediterraneo, pertanto, fu giocata in quei
giorni.
Ripresisi dallo shock e confidenti nella propria netta superiorità
(oltre che rinforzati da trecento ulteriori, grossi carri nuovi di zecca in compagnia di due divisioni fresche appena giunte dalla
Gran Bretagna dopo tre mesi di navigazione passando dal Capo
di Buona Speranza, visto che la Regia Marina e la Regia Aeronautica avevano chiuso il Canale di Sicilia sin dal giugno 1940) gli
inglesi si fecero, a loro volta, sotto, tra il 10 e il 27 luglio, nel tentativo “di schiacciare la testa del serpente”. Se fossero riusciti a
distruggere in campo aperto le poche truppe italiane e tedesche
la partita si sarebbe ribaltata. Ci andarono vicino.
Come scrisse Paolo Caccia Dominioni (testimone oculare e futuro artefice del Sacrario di El Alamein), “…gli inglesi, pensando a
un inizio di ritirata, hanno subito lanciato un attacco con forti aliquote di carri. Rommel riceve ora una comunicazione dal suo comando d’artiglieria: tutte le munizioni esaurite. Ma Rommel, che
in queste situazioni ha quasi un potere da stregone, tira fuori una
batteria del gruppo Zech che riesce, con i pochi proiettili superstiti, a bloccare l’avanzata inglese. Una specie di miracolo. Altri
due minuti di insistenza, e i carri inglesi potevano tranquillamente avanzare come in una passeggiata pacifica, con le botole delle torrette aperte e i carristi seduti fuori, a prendersi il fresco con
la pipa accesa”.
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questa pretesa impossibile soltanto perché Mussolini aveva imposto, a sua volta, di accontentare i tedeschi in ogni modo. Il dittatore italiano, d’altra parte, non era più lo stesso uomo. Come
ha raccontato Franco Bandini nel proprio documentatissimo
“Claretta”, il capo del governo italiano, dopo l’ultima fiammata
rappresentata dalle celebrazioni della Battaglia navale di Pantelleria del 15 giugno 1942, era stato trovato riverso per terra, con
le mani strette sul ventre, in un’aviorimessa dell’aeroporto del
Tatoi, presso Atene, il 20 luglio 1942, da due avieri al ritorno da un
viaggio in Libia. La notizia si sparse in tutt’Europa con la velocità
del lampo, tanto che lo stesso interessato la definì, in seguito,
“un romanzo giallo, anzi giallissimo”. Resta il fatto che, da allora
in poi, la volontà dell’uomo non fu più la stessa, mentre il cinismo
prese a prevalere sull’intuito portandolo, passo dopo passo, fino
all’appuntamento con la morte, il 28 aprile 1945, assieme alla
propria sventurata amante.
Neppure dall’altra parte del fronte, tuttavia, le cose avevano un
andamento limpido. La lungamente preparata e attesa, grande
offensiva inglese destinata a inchiodare e distruggere, una volta
per tutte, l’armata italo-tedesca di Rommel attestata a El Alamein era, infatti, un incontro truccato.
fronte, ovvero più del 50% del totale complessivo di quei giorni,
fa fare a quest’affermazione, assai ingenerosa verso gli stessi,
sfortunati “Tommies” mandati spensieratamente nel tritacarne
del deserto, la figura della favola della volpe e l’uva. Il 2 novembre, infine, in preda alla più nera disperazione (Churchill aveva,
infatti, il siluro facile nei confronti dei generali perdenti, ovvero
tutti i predecessori di Montgomery, dal 1940 in poi) il comandante britannico scatenò un’ulteriore, micidiale spallata contro
il solo settore nord della linea avversaria. Fu un attacco ispirato a criteri di mera forza bruta e di superiorità materiale lanciato a testa bassa, stile Grande Guerra.
Alla fine di quella giornata la logoratissima 15ª Panzer-Division
cedette di schianto lungo la Cresta Kidney e il fronte italo-tedesco fu spezzato. Non diversamente sarebbero andate le cose, un
mese dopo, lungo il Don quando, il 18 dicembre 1942, dopo più di
una settimana di inutili, sanguinosi e continui attacchi in massa
scatenati dai russi lungo il fronte dell’8ª Armata italiana in Russia (l’ARMIR), il 318° Reggimento di fanteria tedesco, inserito da
tempo nello schieramento della Divisione Cosseria cedette, improvvisamente, spezzando la linea, dando così inizio ad una ritirata, se possibile, ancora più tragica.
Non paghi di una superiorità nell’ordine di più di due a uno quanto a truppe, carri armati e artiglierie, i britannici scatenarono, infatti, il proprio grande attacco, il 23 ottobre 1942, con la controassicurazione in tasca del prossimo sbarco, angloamericano, nel
Nordafrica francese fissato per l’8 novembre successivo. Comunque fossero andate le cose, pertanto, il nemico avrebbe abbandonato di corsa l’Egitto per ripiegare in Tunisia, data la materiale impossibilità per l’Asse di alimentare contemporaneamente due fronti in Africa. Il piano del generale Bernard Law Montgomery, assai poco fantasioso, precedeva una Canne del XX secolo, avvolgendo da nord e da sud la linea avversaria. Gli andò
male. Per nove giorni di fila tutti gli attacchi britannici e imperiali fallirono. A nord contro lo schieramento italo-tedesco e a sud
conto le quattro minuscole divisioni italiane Folgore, Pavia, Brescia e Bologna, forti ciascuna (sulla carta) di 7.000 uomini l’una
mentre le quattro contrapposte grandi unità (7ª Corazzata, 44ª
Fanteria, 50ª Fanteria e 4ª Indiana) del XIII Corpo d’armata inglese allineavano ognuna, a tabella, 13.600 soldati.
In seguito, nel tentativo di giustificarsi, i generali britannici
avrebbero scritto che l’attacco a sud era stato soltanto una
finta, ma il totale della perdite da loro subite in quel tratto del
Lo sfondamento del 2 novembre, contrastato con successo, nel
corso delle successive 24 ore, dalla Divisione corazzata Littorio,
fu poi ulteriormente aggravato da una successione di assurdi ordini e contrordini, tutti contradditori e diramati direttamente da
Berlino, e dalla decisione, presa a freddo, come avrebbe documentato, nel 1970, il generale Giuseppe Mancinelli), “nei lontanissimi uffici dello Stato Maggiore di DELEASE” (il Comando Superiore del Regio Esercito in Africa Settentrionale) di mandare
soltanto il giorno 3, alla spicciolata e senza organizzazione, gli
autocarri e i rimorchi (che pure c’erano) necessari per salvare
le truppe italiane appiedate e in corso di ripiegamento, combattendo, attraverso il deserto.
Fu l’ennesima, inutile tragedia pagata con 20.000 prigionieri che
avrebbero potuto essere risparmiati. Costretta a ripiegare, ma
ancora viva e vitale, l’armata corazzata italo-tedesca (o, meglio,
le Divisioni Centauro (corazzata) e Trieste assieme ad aliquote
della Pistoia e delle divisioni Ariete, Bologna e Littorio) sconfisse poi seccamente, il 14 dicembre 1942, a Maaten el Giofer, nella Sirtica, la 7ª Divisione corazzata e la 2ª Neozelandese scongiurando qualsiasi minaccia d’accerchiamento. La campagna in
Africa Settentrionale sarebbe così continuata, in Tunisia, fino al
MUSEO DI EL ALAMEIN
Sopra, le bandiere delle nazioni coinvolte in quella campagna;
a destra, un dettaglio dell’enorme plastico che ricorda
la notte d’Alessandria, con i modelli delle navi da battaglia
Valiant e Queen Elizabeth e del cacciatorpediniere Jervis
e nella pagina accanto, uniformi della Regia Marina
(Foto E. Cernuschi)
In settembre furono sbarcate 77.526 tonnellate su 98.965 imbarcate, mentre i numeri d’ottobre furono, rispettivamente, 46.738 e
83.695. Il momento d’oro era però già passato, specialmente una
volta considerata la media mensile di oltre 600.000 tonnellate
messe a terra a Suez ogni 30 giorni dalla macchina logistica statunitense (titolare, dal luglio 1941, di più del 50% dei rifornimenti
dell’Ottava Armata britannica e di metà del tonnellaggio utilizzato su quella rotta).
Appartiene, invece, al regno rarefatto dell’alta politica la pretesa tedesca, formulata il 23 settembre 1942, di ricevere in Africa,
ogni mese, 120.000 tonnellate a pena dell’abbandono di quel
continente. In realtà le forze dell’Asse ricevettero sempre una
media costante di 65.000 t mensili tra il 1940 e il 1943, ovvero il
massimo che i porti potevano ricevere, per tacere della capacità
dei depositi e della movimentazione, su gomma e rotaie, di quel
teatro d’operazioni. Chiedere, improvvisamente, il doppio di tutto significava soltanto voler nascondere, piuttosto male, la volontà di piantare tutto e di attestarsi il prima possibile (come in
effetti aveva previsto, pochi giorni prima, il Comando Supremo
germanico) sulle rassicuranti linee terrestri degli Appennini e
delle Alpi, essendo l’iniziativa strategica passata ormai alla coalizione avversaria. Accettare, a parole, quella richiesta impossibile innescò, da allora in poi, una macchinetta propagandistica
di grande efficacia a beneficio dei vertici tedeschi, ma piuttosto
indecente nei confronti dei soldati, dei marinai e degli aviatori
germanici e italiani che stavano combattendo e morendo sul
mare e a El Alamein. Il Maresciallo Ugo Cavallero, serio tecnico
della guerra, fu costretto a sorridere, senza poter replicare, a
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13 maggio 1943 quando la I Armata italiana del Generale Giovanni Messe si sarebbe arresa, presso Hammamet, due giorni dopo
la cessazione di ogni resistenza a opera della sorella 5ª Armata
tedesca del generale Hans-Jürgen von Arnim.
Lo sforzo inglese a El Alamein fu pagato con un inevitabile fiume
di sangue e con lo scioglimento – “disbanding” – in Egitto, dopo
la battaglia, dell’8ª e della 10ª Divisione Corazzata e della 44ª Divisione di Fanteria britanniche .Visto, però, che le stragi hanno
un costo, in primo luogo psicologico, e che gli uomini della truppa hanno l’abitudine di parlare tra loro, dall’autunno 1942 in poi i
soldati britannici e imperiali non avrebbero più sfondato; né in
Tunisia, né in Sicilia, né in Italia, né in Francia né, infine, in Germania limitandosi a seguire (beninteso sempre dopo numerose,
ulteriori, inutili e sempre costose cozzate contro il muro invalicabile rappresentato dal fuoco avversario) i successi degli statunitensi pagando, puntualmente, il correlato, grosso prezzo politico
nell’ambito della “strana alleanza” in corso con Washington e
con Mosca.
Oggi, dopo tanto tempo, restano il ricordo di quella battaglia tra
giganti, tre sacrari di grande gloria e profonda bellezza in quanto realizzati tutti nello spirito delle rispettive, e tra loro diverse,
culture, e una considerazione finale. Il mare non divide, ma unisce. Questa semplice realtà è ancora tabù presso i tedeschi,
quantomeno a giudicare dalla loro attuale politica europea, affatto continentale e francamente ostile alle realtà mediterranee.
In Italia questa stessa lezione fu compresa e praticata, ben prima della seconda guerra mondale, soltanto dalla Marina italiana, piccolo mondo elitario impermeabile rispetto al pressappochismo e alla sordità compiaciuta di tutte le classi politiche, nessuna esclusa, succedutesi a Roma dall’Unità fino ai giorni nostri.
In Gran Bretagna e, più in generale, presso gli anglosassoni, la
verità di cui sopra è, viceversa, data per scontata. La prova di
questo stato di cose è facilmente rintracciabile grazie a un’ultima, banale e clamorosa constatazione.
El Alamein è stata oggetto, in Italia, di migliaia di libri, di articoli e di film, alcuni dei quali importantissimi sia dal punto di vista
storico sia letterario e umano. Eppure nessuno ha mai pensato
di riportare la scritta, gigantesca, che domina l’entrata dell’austero cimitero di guerra britannico di El Alamein e che, da sola,
spiega davvero tutto: “WITHIN THIS CLOISTER ARE INSCRIBED
THE NAMES OF THE SOLDIERS AND AIRMEN OF THE BRITISH
COMMONWEALTH AND EMPIRE WHO DIED FIGHTING ON
LAND OR IN THE AIR WHERE TWO CONTINENTS MEET AND
TO WHOM THE FORTUNE OF WAR DENIED A KNOWN AND HONOURED GRAVE. WITH THEIR FELLOWS WHO REST IN THIS
CEMETERY, WITH THEIR COMRADES IN ARMS OF THE ROYALNAVY AND WITH THE SEAMEN OF THE MERCHANT NAVY
THEY PRESERVED FOR THE WEST THE LINK WITH THE EAST
AND TURNED THE TIDE OF THE WAR. 1939-1945”, ovvero: “In
questo chiostro sono incisi i nomi dei soldati e degli aviatori del
Commonwealth britannico e dell’Impero che morirono combattendo sulla terra e nel cielo dove questi due continenti s’incontrano e ai quali i casi della guerra negarono un nome e un’onorata sepoltura. Assieme ai loro compagni che riposano in questo cimitero e con i loro camerati in armi della Royal Navy e ai
marittimi della Marina mercantile essi salvarono per l‘occidente il collegamento con l’oriente e invertirono la marea della
guerra. 1939-1945”.
nnn
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