Televisione e alienazione

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Televisione e alienazione
Televisione e alienazione
Di Gianantonio Valli - 22/08/2005
Questa razza di casa nostra [...] è dura a morire e qualche volta si risveglia bruscamente. Bisognava impedire quel risveglio. Da qui i negri, da qui le
naturalizzazioni in massa di ghetti interi, l'abbrutimento per mezzo dei quotidiani, della radio, della pornografia e della pubblicità, dell'idolatria del
ricco, dell'adorazione dell'orpello, la beatificazione del pugile e della ballerina nuda, tutta questa fiera che sa di polvere e carta d'Armenia e nella
quale passeggia docilmente una generazione inebetita, assordata dai giradischi e dalle orchestre dei maneggi, sussultante fra i petardi, a bocca aperta
davanti alle sirene e ai mostri, con la gola secca, gli occhi opachi, senza tregua in movimento dentro questa kermesse senza baldorie, in questa ressa
senza sguardi, sognando vagamente un'eterna scoraggiante domenica che sarebbe stata tutta la loro vita. Questo era l'antifascismo.
Maurice Bardèche, L'uovo di Colombo, 1952
Oggi sono essenzialmente i media stampati ed elettronici a plasmare le nostre attitudini percettive, a stabilizzare criteri di senso collettivi che ci
consentono la comprensione del presente e che fungono da costante contesto di riferimento per orientare anche la nostra esperienza personale [...]
Altrettanto evidente dovrebbe essere l'inconsistenza della linea di demarcazione fra democrazia e totalitarismo che i teorici del pluralismo tentano di
tracciare assumendo come discriminanti delle nozioni tanto deboli quanto ambigue di autonomia dell'opinione pubblica e di policentrismo dei mezzi di
comunicazione di massa. Contro le tesi classiche del pluralismo democratico, l'indagine scientifica e l'esperienza storica sembrano provare che
l'efficacia persuasoria dei massmedia opera assai più in profondità nei paesi a democrazia pluralistica (e a economia di mercato) che non nei paesi
totalitari.
Danilo Zolo, Il principato democratico, 1992
La televisione e gli altri media elettronici hanno cambiato la base delle attività umane. Ci possiamo permettere di ripetere questa ovvietà, visto che
anche i critici più acuti della società odierna non sono pienamente coscienti dei cambiamenti che questo comporta per le nostre relazioni cognitive,
emotive e funzionali con il nuovo ambiente globale prodotto dai media.
Derrick de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, 1995
Come che sia, la base della potenza americana sta, in larghissima parte, nel dominio del mercato mondiale delle comunicazioni. L'ottanta per cento
delle parole e delle immagini che circolano nel mondo provengono dagli Stati Uniti.
Zbigniew Brzezinski, 15 dicembre 1990
Distruggeremo la vostra cultura come abbiamo distrutto la nostra.
il conduttore (ebreo americano) Jay Leno, in uno spot per l'European Super Channel della NBC
La parte del laudator temporis acti è sempre imbarazzante, ma l'approdo di una rincorsa ossessiva dello sviluppo scientifico e tecnologico è il vicolo
cieco di un nichilismo triviale. Come recitava una vecchia canzone d[el cantautore Franco] Battiato: «Più diventa tutto inutile, e più credi che sia vero,
e il giorno della Fine non ti servirà l'inglese».
Roberto Zavaglia, Nanotecnologo - Il mestiere del futuro, 1997
Quello che in Occidente chiamiamo pensiero è il prodotto della resistenza del cervello al flusso dell'informazione.
Derrick de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, 1995
--------------------------------------------------------Se teniamo presente l'influenza enormemente più vasta e incisiva del Piccolo Schermo rispetto al grande del cinema e la possibilità di essere messi in
contatto in ogni momento con l'immaginario collettivo televisivo ci è gioco capire come, col passare degli anni, i moduli comportamentali televisivi
abbiano rivoluzionato e plasmato, e stiano tuttora plasmando, lo psichismo dell'uomo in modo molto più profondo che non il cinema.
«Per la prima volta nella nostra storia» – scrive l'americano Jeff Greenfield – «è possibile rispondere alla domanda "Chi ha fatto l'America?": la
televisione». «In a very real sense» – continua John O'Connor, docente di Storia al New Jersey Institute of Technology e co-direttore del periodico Film
& History – «television is American Culture, in senso letterale la televisione è la civiltà dell'America».
A differenza di quanto possa pensare taluno dei meglio-intenzionati oppositori del Sistema Mondialista, come non esistono armi «neutre» rispetto alle
strutture sociali e ai Sistemi di Valori in cui sono nate, non esiste neppure la neutralità della Scienza (e tantomeno ancora della Scienza moderna,
portatrice di una propria morale totalitario-progressista perfettamente inscrivibile in quella giudaico-cristiana, di cui anzi è legittima figlia) né, a
maggior ragione, la neutralità della Tecnologia e delle tecniche. La Tecnologia, come la conosciamo oggi e come è stato dimostrato da studiosi quali il
primo Jeremy Rifkin – e da noi stessi in Lo specchio infranto – è un fenomeno storico generato da una certa precisa idea della natura, da una certa
precisa idea del progresso, da specifici ideali sociali e da specifiche aspirazioni sui fini della vita umana e del cosmo, ideali ed aspirazioni di chiara
ascendenza giudaico-cristiana. E ciò non solo sotto il profilo ideologico-morale, ma anche dal lato «pratico».
Ma c'è qualcosa di ancor più terribile e «non-umano»: più ancora della Scienza, le Tecniche infatti non sono e non sono mai state strumenti inerti,
governabili a piacimento dai loro inventori o direttori pro-tempore (di qui la profonda diffidenza ellenica per la techné). Più ancora della Scienza –
quadro di riferimento che lascia pur sempre all'uomo un'autonomia spirituale – la Tecnologia ha una sua logica, una logica ancor più impersonale che
non solo contrasta e distrugge i suoi nemici, cioè le logiche e i Sistemi di Valori che le si oppongono, ma entra in conflitto perfino con le ideostrutture
che l'hanno giustificata sul piano sia filosofico che emozionale, potenziandola su quello fattuale (cristianesimo, marxismo, capitalismo, democrazia).
Quanto a due brevissimi esempi, oltretutto esplicatisi in epoca ancora «tranquilla», prima cioè dello scoppio della rivoluzione concettuale baconiana,
basti pensare all'introduzione della polvere da sparo nelle contese guerresche, che comportò il declino del potere della cavalleria medioevale e il
sovvertimento delle tecniche costruttivo-architetturali. Basti pensare a come l'introduzione della semplice staffa abbia, ancor prima, reso possibile, col
maggiore e decisivo potere di offesa conferito all'uomo a cavallo, l'affermazione dell'universo feudale, innestandone le strutture socio-politiche sulle
strutture ideazionali della trifunzionalità indoeuropea.
E tale discorso vale ancor più per i media. Essi non sono semplici canali di trasmissione tra due o più ambienti; poco o nulla conta, nella genesi dei più
profondi mutamenti sociali (psico-esistenziali), la qualità delle informazioni. I media sono in realtà, al di là di ogni presunzione faustiana e di ogni
futuristica brama di dominio, «ambienti in se stessi e per se stessi». Svincolati da umana volontà, col tempo essi seguono una loro logica intrinseca,
comportando conseguenze che, indipendentemente dalla sostanza del messaggio, sono non solo quasi sempre imprevedibili ai «controllori» di turno,
ma in ogni caso eversive dell'ordine in cui sono nati.
Ben rilevano infatti Daniel Yergin e Joseph Stanislaw: «Dopo gli sconvolgimenti delle guerre mondiali, delle rivoluzioni e della depressione, assistiamo
oggi al processo di rinascita di un'economia globale. Così come nell'Ottocento il motore a vapore e il telegrafo hanno reso il mondo più piccolo,
l'odierna tecnologia sta tornando a erodere distanze e confini. Questa volta però gli effetti di tale fenomeno sono molto più globali, non escludendo
nessun paese o comunità. La tendenza in atto appare evidente sotto molti aspetti. Il numero di passeggeri di voli internaziomnali è passato da 75
milioni nel 1970 a 409 nel 1996. Tra il 1976 e il 1996 il costo di una telefonata di tre minuti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna è passato in termini
reali da circa otto dollari a trentasei centesimi, e il numero di telefonate internazionali è passato da 3,2 miliardi del 1985 a 20,2 miliardi del 1996. Oggi
il mondo vede gli stessi film e spettacoli; dai satelliti rimbalzano le stesse notizie e informazioni, creando istantaneamente un vocabolario comune per
qualsiasi evento».
Del tutto immatura e volpinamente fuorviante è quindi la dichiarazione di David Sarnoff, presidente della RCA Radio Corporation of America e nel 1926
creatore della prima rete radio americana, la NBC National Broadcasting Company (anche la CBS, seconda rete radiotelevisiva, viene fondata da
ebrei), attivo sionista, membro del direttivo della Educational Alliance, primo socio onorario del Weizmann Institute of Science, nonché alto dirigente
dello Jewish Theological Seminary: «Siamo troppo propensi a fare degli strumenti tecnologici i capri espiatori dei peccati di coloro che li maneggiano.
In se stessi i prodotti della scienza moderna non sono né buoni né cattivi: è il modo in cui vengono usati che ne determina il valore».
Tale opinione, da una parte naturalmente diffusasi tra le masse moderne, dall'altra ad arte predicata da tecnici superficiali o interessati, viene
aspramente criticata da Marshall McLuhan: «Proprio nulla nella frase di Sarnoff regge ad un esame appena attento», nonché viene definita, con
incisiva semplicità, «la voce dell'attuale sonnambulismo». O anche, con immagine altrettanto felice: i media moderni sono ormai diventati, per tutti
coloro – e sono la maggioranza – che ne hanno accettato l'influenza in modo docile e subliminale, «prigioni senza mura per gli uomini che ne fanno
uso». «Il medium è il messaggio», suona l'abusato, spesso non capito e male interpretato motto del sociologo canadese: l'impatto della forma
comunicativa, indipendentemente da ogni bontà o meno delle intenzioni e del contenuto, oltrepassa cioè sempre e comunque la sostanza del
messaggio; l'estrinsecità prevale sull'intrinsecità.
Certo i media non crescono né si sviluppano nel vuoto; varie forze sociali, politiche ed economiche favoriscono lo sviluppo di alcune tecnologie,
nonché i loro usi e configurazioni (nulla è più chiaro al proposito della storia del cinema). E tuttavia, al di là di ogni volontà, la Tecnica stessa si
svincola, nel tempo, dai suoi «direttori», imponendo dapprima profonde ristrutturazioni ad alcune articolazioni societarie, portando poi alla
ristrutturazione, coerente coi nuovi moduli, dell'intera società.
Quando poi tale ristrutturazione si muova nel senso della Weltanschauung di quei «direttori» – dei loro desideri e delle loro aspirazioni di dominio
finanziario, politico e ideologico – l'osservatore rischia di non scorgere o di sottovalutare la logica sistemica che ne sta alla base, illuminando in modo
eccessivo il ruolo dei promotori, addebitando loro la genesi dei mutamenti, rischiando di trovarsi spiazzato nell'analisi del fenomeno e di fronte alle
obiezioni dei laudatori della Modernità. D'altra parte e al contrario, supervalutando asetticamente la logica del Sistema – dando cioè indebita
importanza alla speculazione sociologica e mettendo in secondo piano la ricerca storica e ideologica – l'osservatore rischia di perdersi nell'astrattezza.
In realtà, se certo esiste una logica sistemica, se esiste un Sistema auto-sostenentesi ed ormai impersonale nella sua struttura di fondo, esistono
anche non solo influenze, azioni e retroazioni di tipo cibernetico, non solo «teste pensanti» che, se pure non più dirigenti, del Sistema sono i regolatori
e i custodi, i difensori ed i giudici. Esiste soprattutto la consapevolezza della genealogia profonda del Sistema, genealogia che, prima che tecnica e
settoriale, è storica e ideologica, quindi spirituale e religiosa.
Quanto alla televisione, i suoi veri portati, finora non avvertiti dai giubilanti spettatori e funzionali a chi delle strutture mentali della Modernità è stato il
promotore, cioè il Popolo Santo, consiste: 1. nell'appiattimento delle esperienze (più spietato di noi, scrive Daniel J. Boorstin: «Come la stampa cinque
secoli or sono iniziò a democratizzare l'istruzione, così la televisione democratizzerà l'esperienza»), 2. nell'indifferentismo, cioè nella perdita del senso
del valore della notizia, 3. nella distruzione delle differenze tra i popoli, 4. nella distruzione di tutte le vecchie strutture di luogo o, più chiaramente, di
tutte le precedenti strutture di relazione, e non solo tra gli individui od i popoli, ma tra l'uomo e il suo ambiente (Umwelt: ciò che sta immediatamente
intorno), tra l'uomo e il mondo (Welt), tra l'uomo e il Cosmo. In un'unica espressione: consiste nel condurre al compimento finale la separazione
dell'uomo dalla Natura che si è primamente fondata sull'antico, eterno odio giudaico per Questo Mondo.
A simili conclusioni giunge Joshua Meyrowitz, docente di Comunicazione all'Università del New Hampshire: «La mia teoria sostiene che questa
ristrutturazione delle occasioni e delle rappresentazioni sociali è stata, almeno in parte, all'origine delle recenti tendenze sociali, comprese la
confusione dei concetti di infanzia e maturità, la fusione delle nozioni di mascolinità e femminilità e l'abbassamento degli eroi politici al livello del
cittadino medio [...] Riunendo tanti tipi di persone nello stesso "luogo", i media elettronici hanno favorito la confusione di molti ruoli sociali un tempo
distinti. Dunque, i media elettronici ci influenzano non tanto coi loro contenuti, ma modificando la "geografia situazionale" della vita sociale».
La confusione dei ruoli, con l'abbattimento delle antiche istituzioni e la formazione di nuovi centri direttivi e di strutture più omogenee, investe le
religioni, le gerarchie, la famiglia, i sessi, le razze, le differenze nazionali, il rapporto pubblico-privato, la semantica, i concetti stessi: comporta
l'eversione di ogni precedente strutturazione umana. Nulla di strano che l'espressione «politically correct» sia nata nel Paese di Dio; non a caso quella
confusione dei ruoli detta «androginia situazionale» ha partorito proprio là termini neutri quali chairperson (persona che presiede), meno «offensivo»
di chairwoman (presidentessa) e di chairman. La banalizzazione dell'esistenza, la volgarizzazione dei vissuti, il senso d'impotenza, intercambiabilità e
inutilità personale, la mancanza di ruoli definiti – tutto ciò ne consegue. I nuovi media aboliscono i concetti di sfere maschili o femminili, di capanne o
edifici particolari, di luoghi sacri o profani. Il mutamento del rapporto tra luogo fisico e luogo sociale investe ogni ruolo e persona. Per la maggioranza
il mondo diviene senza senso perché, per la prima volta nella storia, il mondo è privo di «luogo» e di «centro».
Ma la perdita di luogo e la mancanza di centro, la scomparsa delle articolazioni sociali all'interno di società intercambiabili e sostanzialmente identiche
(fenomeno che investe in misura infinitamente minore i regolatori/mediatori/manipolatori di quelle società), la mancanza di individuazione personale e
di gerarchia sociale fanno precipitare la massima parte degli esseri umani – i più fragili, insicuri e bisognosi di solidarietà da parte dei connazionali –
nell'anomia, nel solipsismo, nella disperazione. Porsi «oltre il senso del luogo» comporta, data la natura umana com'è stata plasmata in milioni di anni,
il porsi oltre ogni senso, perdere ogni senso, ogni coordinata non solo spaziale ma temporale, societaria, familiare, psichica e mentale.
Noi non concordiamo col retorico, criminale quesito/incitamento di Francesco Remotti: «Ma è proprio poi necessario avere un'identità nel nostro
mondo?». Noi non siamo – non vogliamo essere – quei transhumants ebraici, quei vagabonds de l'univers staffilati da Henri Labroue, e neppure quei
tecno-allucinati «nuovi nomadi» cantati da Arianna Dagnino. Noi non siamo – non vogliamo essere – quegli «irrevocabili figli di Babele» cantati dal
sociologo Guy Scarpetta in Eloge du cosmopolitisme. Non vogliamo esserlo perché sappiamo – dalla personale esperienza e dall'insegnamento dei
padri che or è mezzo secolo caddero, armi in pugno, per contrastare la decadenza dell'uomo – che l'esserlo comporta il disfacimento delle qualità più
vere e sofferte dell'essere umano. Solo un puro nichilista può apprezzare la «fortuna dell'esilio», solo un puro nichilista può venir confortato da una
condizione psico-sociale in cui si abbia l'agio, come predica Scarpetta, di «fare scoppiare le identità e l'appartenenza», da una condizione il cui punto
di riferimento primario sono gli USA, paese modello, «rete attraverso le maglie della quale si può [sempre] sfuggire».
***
Un'indagine del Congresso riferisce che l'americano medio degli ultimi anni Ottanta consuma un quarto dell'esistenza da sveglio guardando la
televisione e che, per i figli, la sola attività che prende più tempo della TV è il sonno. Altri studi rivelano che le famiglie con redditi inferiori ai diecimila
dollari guardano la TV in media 47 ore e 3 minuti settimanali, mentre quelle con redditi superiori a trentamila restano davanti al teleschermo 47 ore e
50 minuti. Le abitudini televisive sono quindi sostanzialmente uniformi per ceto sociale, mentre la differenza concerne i gruppi di età. Gli adolescenti
sono quelli che guardano meno la TV, con una media di «sole» 22 ore e 30 minuti (oltre tre ore al giorno); gli individui oltre i 55 anni toccano invece
le 35 ore e 6 minuti (cinque ore al giorno). Il bambino della più recente TV generation guarda, fra i tre e i cinque anni, la TV per 54 ore (quasi otto ore
quotidiane). Prima dell'inizio del ciclo scolare our boy assorbe quindi 5000-5500 ore di TV, per un quinto pubblicitarie; prima di terminare le medie ha
riempito la vita con oltre 20.000 ore di Piccolo Schermo.
Anche in Italia il consumo di televisione è vertiginosamente aumentato: gli «adulti» (sopra gli undici anni) passano davanti al video quasi quattro ore
al giorno; i ragazzi sotto gli undici, qualcosa di più. In dettaglio, quanto alle ore di esposizione ripartite nelle quattro classi 0-2, 3-4, 5-6 e oltre 6, le
percentuali concernenti i ragazzi (6-13 anni), gli adolescenti (14-19 anni) e gli adulti sono: 26, 52, 18 e 4; 32, 52, 14 e 3; 42, 45, 11 e 2. Il che
significa che il Piccolo Schermo intrattiene soprattutto individui delle età più basse. Dopo il sonno e il lavoro, il guardare la televisione è la terza
grande attività dell'uomo – soprattutto del minore – moderno.
Oltre a due effetti di rilevanza individuale: 1â la caduta verticale della capacità di fissare l'attenzione per più di un certo tempo (se a un buon
insegnante occorre anche un'ora per sviluppare un dato argomento, gli spazi televisivi obbligati di novanta secondi troncano quello stesso argomento
in modo irreparabile) e 2â la perdita di interesse per la lettura – aspetti che coinvolgono per mimetismo inconscio (vale a dire per l'inconscia
occupazione degli spazi mentali ad opera non solo delle immagini ma dell'intera atmosfera televisiva che foggia l'Umwelt dell'uomo moderno) anche
persone che fruiscono della TV per tempi ben sotto la media – l'esposizione allo «sbarramento» delle immagini televisive hanno due rilevanti effetti
sociali:
3â il conformismo applicato e 4â l'ignoranza generalizzata. Se del primo è Marie Winn ad affermare che il Piccolo Schermo influenza necessariamente
le abitudini di gioco dei ragazzi, per cui un giovane che non conosce i suoi programmi ha difficoltà a farsi degli amici o ad entrare a far parte della
banda del quartiere e può diventare, papale papale, «lo scemo del condominio», della seconda si fa paladino il tecnocrate Nicholas Negroponte
(fondatore e direttore del Media Lab del MIT): «La maggior parte dei bambini americani non fa differenza tra il Baltico e i Balcani, non sa chi erano i
visigoti e ignora dove abitava Luigi XIV. E con questo? Perché sarebbe così importante? Sapevate voi che Reno è a ovest di Los Angeles?».
Un quinto effetto è 5â la distorsione del tempo e dello spazio indotta nei cervelli. Essa rende vaghe e irreali le sensazioni e, al contempo, rivendica a
sé un maggiore grado di realtà. Se da un lato favorisce l'effetto gregario, indebolisce dall'altro le relazioni con chi ci sta intorno, poiché riduce, e
talvolta elimina, le normali occasioni per comunicare. Come quindi stupirci che siano proprio gli americani ad avere il senso più ottuso dell'irrealtà, nei
confronti dell'essere umano e del mondo?
Infatti, se la televisione è una «ladra di tempo», inchiodando per ore i ragazzi ed escludendoli da attività che sul lungo periodo sono indubbiamente
assai più importanti per il loro sviluppo, altrettanto gravi sono quindi altre distorsioni. Come scrive John Condry: «Per lo più, l'attenzione del bambino
non si fissa, perché il materiale è facilmente comprensibile. I bambini capiscono qualcosa del contenuto dei singoli programmi, ma non alla stessa
maniera degli adulti. Ad esempio, non capiscono le sequenze lunghe e hanno una comprensione ridotta delle motivazioni e delle intenzioni dei singoli
personaggi. Non sono capaci di trarre deduzioni da un'azione cui non assistono direttamente, cioè da un'azione sottintesa ma non esplicitamente
mostrata [...] La televisione non li informa sul mondo, anzi spesso li disinforma. La televisione non è concepita per fornire ai bambini informazioni
circa il mondo reale. Quando viene usata per questo scopo, fa un pessimo lavoro. La TV moderna, specie nel modo in cui viene attualmente utilizzata
negli Stati Uniti, ha un unico obiettivo: vendere merci. La televisione è fondamentalmente uno strumento commerciale. I suoi valori sono i valori del
mercato; la sua struttura e i suoi contenuti rispecchiano tale obiettivo [...] La cosa davvero assurda è che la TV non mostra mai nessuno intento a
lavorare per guadagnare le ricchezze che ostenta. Non esiste alcun legame fra il lavoro e la vita. I bambini, che preferiscono la soluzione più rapida ai
problemi, cercano la bella vita così come la definisce la televisione, vale a dire possedere tante cose, ma non sanno come procurarsele. E come
potrebbe essere diversamente? Mostrar gente che lavora, per la televisione è una bestemmia, uno spreco di tempo! Rende la TV noiosa, e ciò
sarebbe inammissibile. In televisione ogni momento dev'essere emozionante, ogni avvenimento deve attrarre l'attenzione».
Allo scopo tutto è buono, a partire dalla presentazione ossessiva della violenza. Ma se l'onnipervadenza della violenza le conferisce un «valore
morale», altri aspetti vengono martellati a foggiare le coscienze. I valori strumentali dell'essere «belli», «giovanili», «sexy», «capaci» e «furbi» (di
gran lunga meno citati/vantati sono l'«essere coraggiosi», «coerenti» e il «saper perdonare») servono a conseguire i due massimi valori terminali
della Modernità: la «felicità» e il «riconoscimento da parte della società» (anche l'«eguaglianza» e l'«amicizia» vengono posti, sia nella fiction che negli
spot pubblicitari, in netto secondo piano).
La moralità di un'azione viene inoltre sempre più a dipendere da chi la compie, la correttezza o meno di un comportamento viene riferita non a quel
comportamento in sé, ma al personaggio che lo agisce: «A quanto pare» – conclude Condry – «gli spettatori di un programma hanno a disposizione
diverse strutture morali, a seconda della loro familiarità con i personaggi. I giudizi morali di persone che non hanno familiarità con essi, pare,
vengono dati in base ad una scala di moralità ideale, senza tener conto della simpatia dei personaggi stessi. Ben diversi, invece, i giudizi morali di
persone che hanno familiarità con i personaggi, che li "conoscono" o nutrono sentimenti positivi o negativi nei loro riguardi. Ciò che non è ammissibile
per le persone che ci stanno antipatiche è perfettamente accettabile da parte di coloro che amiamo». L'oggettiva 6â induzione di una doppia morale
(tanto cara, del resto, alle ideocrazie comunista e giudaica) è allora il sesto degli aspetti devastanti la psiche dell'uomo.
Per quanto concerne infine la mondializzazione (la «democratizzazione» cantata da Boorstin!) delle «esperienze», gravissimi appaiono 7â la
distruzione delle culture e l'appiattimento delle civiltà su di un unico modello psico-sociale, quello del demoliberalismo/giudaismo. Riguardo ai bambini
delle ultime generazioni, ben scrive Marina D'Amato: «Si assiste per la prima volta nella storia dell'umanità alla diffusione di miti uguali per bambini di
paesi e culture diversi. Gli stessi cartoni e gli stessi telefilm sono diffusi infatti in molti paesi del mondo contemporaneamente. Non esistono al
momento attuale ricerche che indaghino comparativamente su questo fenomeno, e quindi non è possibile intervenire con opinioni in merito che non
siano puramente ipotetiche. Ma si può ipotizzare che con le generazioni degli anni Ottanta e Novanta, che a livello planetario stanno crescendo con lo
stesso scenario fantastico, psicologi e antropologi dovranno fare i conti considerando questa variabile».
Per secoli le fiabe sono state, con le leggende e le storie, parti essenziali di ogni realtà culturale, della quale si proponevano come esemplificatrici di
miti, valori, simboli e comportamenti. Sempre la socializzazione dei giovani è passata attraverso il racconto degli eventi accaduti «prima», capaci di
fornire sia paradigmi e strumenti d'azione per l'esperienza quotidiana, sia risposte per i fini ultimi della vita. Il mito, nelle sue diverse accezioni, ha
sempre avuto una funzione di guida e riferimento, passando, da elemento religioso e cultuale, a informare da una parte poesia ed arte, dall'altra
storia e morale. Anche la fiaba, trasposizione popolare di mitologemi e modalità di trasmissione culturale tra le più efficaci, è stata per millenni, in
forme diverse secondo il diverso psichismo dei popoli, depositaria della cultura, che ritrasmetteva ad ogni sua riproposizione. Per millenni essa ha
fatto sì che i processi interiori venissero esteriorizzati e resi comprensibili attraverso i personaggi e gli eventi della vicenda. Oggi, con l'avvento della
televisione multirete e la contestuale diffusione mondiale del mezzo, si assiste, continua la studiosa, «ad un fenomeno nuovo, perché gli stessi episodi
di commedie seriali, di telefilm o di cartoni intrattengono bambini brasiliani, francesi, statunitensi, giapponesi e persino cinesi... È lecito pensare che
per la prima volta nella storia dell'uomo si possa andare verso una sorta di "omogeneizzazione culturale"? Siamo entrati da questa via nel villaggio
globale ipotizzato da McLuhan? L'ideologia dei giovani del Novanta avrà a che fare con questo processo di socializzazione che la televisione sta
operando oggi?».
«È infatti evidente» – commenta Alberto Ostidich – «che, con l'azione incessante e coordinata di immagini e suoni, l'agìto [e non lo spettatore quale
attore e sceglitore del programma] venga a subire ciò che gli vien presentato come informazione, suggerimento, esempio, o altro; e la sua
disponibilità ad accettarlo come valido ed oggettivo, ossia a coglierne acriticamente il messaggio, cresce nella misura in cui diminuiscono le sue difese
inibitorie – immerso com'egli si trova in una realtà dove interagiscono toni suadenti ed effetti speciali, brio e relax, zapping e pensiero episodico.
Immagini e suoni, inoltre, si avvalgono di forme non mediate per descrivere l'insieme, recepito come "vero", e quel loro succedersi, rapido e
incalzante, imprime nello spettatore sensazioni tali da ridurre molto, assai spesso, o addirittura annullare ogni capacità analitica da parte sua. Se poi
consideriamo che il destinatario del "messaggio" altri non è se non un individuo racchiuso ed isolato in una abitazione arredata in serie, e del tutto
simile a quella di milioni di altri individui dagli stessi suoi orari di lavoro, pausa-pranzo, trasporto, etc.; che si tratta di un individuo con evasioni
programmate, divertimenti e ferie organizzate; alle prese con gli identici, soliti "problemi quotidiani" di tanti e tanti altri, alle prese, soprattutto, con la
mancanza di una propria vita interiore; ebbene, risulterà facile che quest'essere massificato e spotizzato vada a confluire, a seconda dei casi o delle
situazioni, nella fascia degli sportivi, delle casalinghe pulitodipendenti, dei giovani, degli uomini che non debbono chiedere mai [personaggi-tipo di una
campagna pubblicitaria], etc.; fasce verso cui sono distintamente indirizzate le varie forme di "acquisto del consumatore"... nel senso che è
quest'ultimo ad essere di fatto acquistato».
Come per il cinema, uno degli aspetti più rilevanti dell'Operazione Piccolo Schermo – la diffusione cioè dei paradigmi mondialisti praticata dai Regimi
di Occupazione Democratica imposti dopo il conflitto mondiale – si lega strettamente all'antirazzismo del Sistema, all'esaltazione della società
multiculturale come massima ed anzi unica espressione possibile dell'essenza umana, alla raffigurazione del crogiolo multirazziale come Sommo
Bene. Nulla serve di più, allo scopo, delle fittizie «famiglie» multicolori di serial tipo Diff'rent Strokes, «Arnold», o Webster (id.), o Small Wonder,
«Super Vicky». Nel primo, prototipo di tutti gli altri, il protagonista, un ragazzino nero particolarmente odioso interpretato dal venticinquenne Gary
Coleman cui un morbo renale ha «donato» un eterno aspetto infantile, viene adottato da una coppia di bianchi dell'alta borghesia newyorkese. Con lui,
in una casa elegante e dotata di domestica bianca, vive un «fratello» più grande, anch'egli negro adottato. I problemi affrontati in ogni episodio
riguardano i contrasti del Nostro con gli altri e con il mondo esterno, che la saggezza e la bontà del padre riescono di solito a ricomporre. La
«saggezza» di Arnold, le sue analisi delle situazioni sono talmente proverbiali da costituire uno stereotipo; le sue espressioni di rammarico, di gioia o
di meraviglia vengono talmente esaltate dai tratti del viso da sembrare una maschera (gli spettatori devono conoscere il mondo non dall'interazione
con esso, non dagli specifici contesti storico-sociali o dal particolare comportamento dei diversi gruppi razziali, ma unicamente dalle smorfie dei
protagonisti, smorfie uguali per il bianco come per il negro, per il giallo come per il meticcio). Il viso del protagonista mette in risalto ancor più la
diversità razziale dei «genitori» e contribuisce a creare nella retina (e nel cervello) dello spettatore l'immagine dell'integrazione totale.
L'elemento che caratterizza i tre serial, secondo anche la D'Amato, «è quello dell'adozione di un "essere" diverso. Il fatto che famiglie bianche di
media e alta borghesia adottino un bambino nero è un messaggio esplicito di integrazione razziale e di disponibilità a ridurre fino ad annullare la
distanza sociale. Il problema del pregiudizio etnico viene così affrontato e risolto nel migliore [e più falso] dei modi, la commedia annienta la distanza
sociale, paradossalmente esaltando le diversità. Infatti, in tutti i serial esaminati, i genitori hanno un aspetto che denuncia la loro origine WASP,
detentori di buone posizioni sociali [...] di attività lavorative gratificanti, di mogli emancipate, gradevoli, intraprendenti».
Nella massima parte di tali spettacoli la quotidianità prevale sul mondo dell'avventura, caratterizzandosi per la perdita dell'eccezionale e il predominio
dell'intimismo sentimentale: il minimalismo la fa da sovrano. La quotidianità offerta non è mai drammatica e si basa sulla contrapposizione
dell'elemento interno con quello esterno, perturbatore ed imprevedibile, con lo scioglimento della vicenda in un'apoteosi di riassicurazione, finale
ampiamente prevedibile fin dall'inizio. L'amicizia, l'affetto, l'amore sono gli elementi più frequenti; il conflitto sostituisce la guerra che, quando
compare, è in relazione a cartoni tipo Robotech e Transformers (anche tali guerre sono sempre e solo azioni di difesa nei confronti di attacchi esterni,
che minacciano la sempre pacifica esistenza dei «nostri»). La famiglia, cioè il contesto più scontato del piccolo teleutente, non viene comunque
pressoché mai rappresentata nella sua dimensione «normale»: non esiste la famiglia biologica, composta da padre, madre e figli (e, perché no, anche
nonni). La famiglia televisiva è invece un'unità atipica, fatta di volta in volta di padre e di figli, di madre e di bambini, di genitori separati o di vedovi,
talvolta risposati fra loro, di nonni e di nipoti (l'unico esempio di famiglia «normale», nota caustica la D'Amato, è la mostruosa Famiglia Addams).
Nuovi schemi vengono instillati nel software della mente e nell'hardware delle reti neuronali, categorie di valori non solo differenti da quelle del
plurimillenario vivere dei popoli, ma proprio nuove modalità di pensiero. L'incessante flusso di immagini e suoni relega la parola tra i ferrivecchi,
poiché tutto può essere percepito anche senza l'audio (si pensi che, se nel Medioevo una persona-tipo entrava in contatto con una quarantina di
immagini «finte» – affreschi, dipinti ed icone – nel corso di tutta una vita, oggi la stessa viene assalita da qualcosa come 400.000 immagini al giorno).
All'aumento di importanza della comunicazione non-verbale segue quindi la resa della parola, poiché il significato di tutte le azioni può essere dedotto
senza difficoltà anche dalle sole espressioni e dai gesti: «La fisiognomica ha un ruolo fondamentale, i volti sono degli universali simbolici. La collera,
l'ira, la dolcezza, la bontà, la cattiveria, l'invidia sono atteggiamenti irrevocabilmente definiti dai segni che definiscono, pietrificandoli, tutti i
personaggi. In questo contesto la vista ridiventa infinitamente più importante dell'udito, l'espressione diviene assolutamente più significativa delle
parole, l'ambiente quasi inutile».
In questo contesto che privilegia l'azione e la suggestione, non ha più spazio la riflessione, nessuna cittadinanza l'argomentazione, nessuna possibilità
la ragione.
Come hanno documentato Marie Winn e Allan Bloom, la TV ha effetti oltremodo perniciosi sia sull'educazione che sull'istruzione dei ragazzi. Il costante
calo di voti degli studenti USA viene messo da molti in chiara correlazione con l'aumento del numero dei possessori di televisione dal 1950. È inoltre
nell'autunno 1974 che un sondaggio indica che per la prima volta la maggioranza degli americani si abbevera, per conoscere il mondo, più alla
televisione che ai quotidiani. La storia non offre altri esempi di Stati all'apogeo della potenza il cui livello culturale medio sia declinato così in fretta e
con tanta profondità. Quattro soli dati tra i mille che potremmo citare: 42 studenti su cento dell'Università di Miami non hanno la minima idea di dove
sia Londra; quasi 50, di fronte a una carta muta degli USA, non sanno trovare Chicago; uno su due non ha mai sentito nominare Moby Dick, uno dei
romanzi fondanti della letteratura americana; due cittadini su tre non sanno indicare, nell'ottobre 1993, in quale continente si trovi la Somalia, terreno
di caccia ai riottosi seguaci del generale Aidid per gli elicotteri clintoniani (da giugno ad ottobre, per inciso, a fronte della morte di un'ottantina di
militari onusici vengono uccisi 6-8000 somali; nella sola maxi-sparatoria del 3 ottobre gli americani, presi dal panico, mitragliano indiscriminatamente
la folla, uccidendo – a fronte delle duecento vittime ufficialmente ammesse – oltre mille persone, tra cui centinaia di donne e bambini).
Netta è la contrapposizione tra l'approccio televisivo al sapere e quello offerto dalla scrittura, tra l'uomo-non-verbale della televisione (homo videns, lo
dice Giovanni Sartori, sottolineando come il Piccolo Schermo, producendo immagini passive, cancelli i concetti e atrofizzi «la nostra capacità astraente
e con essa tutta la nostra capacità di capire») e l'uomo-tipografico del libro (che da parte nostra potremmo, con un pizzico di parzialità in suo favore,
dire tout court homo sapiens); netta è la contrapposizione tra il mondo dell'intelligenza simultanea, che opera «sui dati simultanei e per così dire
sinottici (come gli stimoli visivi, che si presentano in gran numero nello stesso momento, e tra i quali è difficile stabilire un ordine) e quindi ignora il
tempo» e richiede un basso grado di governo (Raffaele Simone) e quello dell'intelligenza sequenziale, che opera sulla successione degli stimoli e li
dispone in linea, astraendoli, analizzandoli e articolandoli gerarchicamente.
Come si esprime Neil Postman: «Nella scuola due grandi tecnologie si scontrano, senza possibilità di compromesso, per conseguire il controllo dei
cervelli degli studenti. Da una parte sta il mondo della parola stampata, che punta sulla logica, i rapporti di successione, la storia, l'esposizione,
l'obiettività, il distacco, la disciplina. Dall'altra, il mondo della televisione, imperniato sulla fantasia, il racconto, la contemporaneità, la simultaneità,
l'intimità, la gratifica immediata e la rapida risposta emotiva. A sei anni i bambini sono già profondamente condizionati dalla televisione. A scuola
fanno conoscenza col mondo della parola stampata e si instaura una specie di guerra psichica, in cui i feriti sono molti: i bambini che non possono o
non vogliono imparare a leggere, i bambini che non riescono ad organizzare il pensiero nemmeno nella struttura logica di una semplice frase, i
bambini che non sono capaci di seguire una lezione o una spiegazione verbale per più di pochi minuti. Sono un disastro, ma non perché siano stupidi.
Sono un disastro perché è in corso una guerra dei media e loro sono dalla parte sbagliata, almeno per il momento».
La televisione, continua il neurofisiologo Herbert Krugman in Memory without recall, exposure without perception, "Memoria senza ricordo, esposizione
senza percezione", «insegna al bambino piccolo a "imparare a imparare" in un modo molto particolare, in qualche misura prima che sia in grado di
parlare e, in molte famiglie di bassa condizione socio-economica o in società semi-analfabete, prima ancora che abbia mai visto un libro. Così il
bambino impara a imparare con occhiate veloci. In seguito, se il bambino vive in una società in cui si richiede la capacità di leggere, egli confronta il
nuovo strumento per "imparare a imparare" con le abitudini acquisite in precedenza dalla TV. Si sforza di comprendere i caratteri con occhiate veloci.
Non funziona. Imparare a leggere è difficile, faticoso, e arriva come un fulmine a ciel sereno, in molti casi intollerabile».
I bambini che guardano la televisione molte ore al giorno – aggiunge l'olandese Cees Koolstra dell'Università di Leida, sottolineando di avere
riscontrato in loro più difficoltà dei loro coetanei nella comprensione di testi scritti e nell'organizzazione del linguaggio – pensano per schermate, come
facessero zapping col pensiero, percependo la realtà non come un tutto organico, ma come un insieme di immagini accostate a caso, non come una
serie di eventi connessi da cause ed effetti. In più, tali bambini sono meno creativi di chi dedica il tempo libero alla lettura, sono più impoveriti nel
gioco simbolico, fondamentale per lo sviluppo cognitivo. Diversi studi hanno ormai dimostrato che i ritmi rapidi e spezzati, le dissolvenze, gli zoom e la
musica ad alto volume abbassano la soglia di attenzione. L'abitudine alla comunicazione per immagini, e quindi a tempi di attenzione brevissimi, rende
gli scolari insofferenti ai ritmi esplicativi, piuttosto lenti, di una lezione dalla cattedra; i programmi densi di stimoli eccitativi ne aumentano i
comportamenti impulsivi, le emozioni forti li allontanano da una vera comprensione degli eventi, spingendoli a rispondere ai problemi senza pensare
più che tanto.
Significativamente, all'enorme aumento della varietà degli stimoli uditivi che veicolano messaggi e della tipologia delle immagini visive corrisponde un
graduale e sempre più rapido arrestarsi, in tutto il mondo, del decremento dell'analfabetismo e all'aumento dell'analfabetismo di ritorno: «Stiamo
tornando a una dominanza dell'orecchio e della visione non-alfabetica, e le giovani generazioni sono un'avanguardia di questa migrazione a ritroso. Il
passaggio dalla dominanza dell'orecchio a quella dell'occhio, conseguente alla nascita della scrittura, era apparso un progresso definitivo, e ora invece
si mostra come una delle fasi di un pendolo», una fase in cui l'uomo ha forse «rinunciato a una conquista evolutiva che la scrittura aveva stimolato,
per fare un passo indietro. È quasi come se si lasciasse da parte la visione alfabetica – un medium pieno di trensioni e di "fatica" – per tornare a
media più naturali, più primitivi, di minor grado di governo» (Raffaele Simone).
Sempre a prescindere dall'intrinsecità delle cose trasmesse, i media che veicolano le notizie vengono generalmente percepiti dall'uomo come supporti
neutrali di accumulo e trasmissione di «dati» obiettivi; non viene cioè considerata nel giusto peso la loro natura di elaboratori di un'informazione che
viene sempre e comunque pre-disposta dal cameraman e dal regista. Il Piccolo Schermo agisce sull'inconscio grazie al suo linguaggio particolare,
poiché il funzionamento degli strumenti di ripresa è molto diverso da quello dell'occhio umano: la telecamera non riprende mai quello che lo
spettatore vedrebbe se fosse davvero sul posto. L'occhio opera sui campi lunghi, offre continuità di azione e panoramiche complete, eventualmente
scendendo sui dettagli in un secondo tempo. La telecamera invece riprende, indugiandovi innaturalmente, soprattutto i particolari, poiché i dettagli
attirano maggiormente l'attenzione dello spettatore. Non solo: essa può essere posta in modo da deformare o persino celare la realtà: due
inquadrature diverse di una piazza riempita da scioperanti, nota Focus, possono far sembrare la manifestazione un successo o un fallimento.
L'impressione di vedere gli avvenimenti coi propri occhi può poi essere accresciuta in diversi modi. Nei collegamenti in diretta i rumori di fondo, anche
se forti, vengono solitamente conservati, anche se le diverse piste del sonoro permetterebbero di eliminarli. Inoltre, il conduttore può interrogare
dallo studio l'inviato sul posto, inducendo lo spettatore a far sue le domande a questo rivolte. Tale effetto è ancora più evidente se il presentatore è
posto davanti a uno schermo dal quale le immagini arrivano in diretta: l'identificazione di chi guarda da casa è completa, la censura invisibile è
completa, essendo fatta implicita, interiorizzata negli occhi, ricreata e persino voluta dal cervello dello spettatore (altro, quindi, che «finestra sul
mondo»!).
L'idea del medium «neutrale» deriva in effetti dall'alfabetizzazione, che ci fa considerare la stampa come il medium informativo tipico, ove è il lettore
ad agire da elaboratore, e cioè da soggetto attivo. Per intendere una sequenza di parole, cioè una successione di neri segni grafici su una superficie,
l'uomo deve infatti trasformarli attivamente in immagini mentali; la lettura richiede al lettore di ricreare da sé il mondo del testo nella sua mente,
ricostruendo da sé e dentro di sé il contenuto dell'informazione. Quando leggiamo, scrive Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan, dobbiamo creare
«un senso interiore»: «Oltre ad essere il materiale di cui è fatta la nostra immaginazione, la lettura è anche il principale strumento grazie a cui
possiamo mantenere il controllo di un processo immaginativo destinato a nutrirsi di libri nel corso della vita. Durante la lettura di una sequenza di
lettere prefissate la mente è libera di prendere autonome decisioni. È anzi addirittura plausibile che l'idea stessa di Io individuale e di senso d'identità
derivi in primo luogo dalla lettura».
Solo chi può sviluppare un proprio punto di vista è, invero, a tutti gli effetti un agente libero: «Con la TV, però, il punto di vista è al di fuori, e vi
guarda dentro attraverso un fascio di elettroni [...] Quando il mondo occidentale era regolato solo dai libri, c'erano un "dentro" e un "fuori" per le
nostre esperienze psicologiche. Il dominio esterno era pubblico, collettivo, stabile, affidabile ed oggettivo, era istituzionalizzato dalla legge,
dall'istruzione e dalla scienza. Il dominio interno della mente, per ognuno di noi, rimaneva privato, personale e soggettivo [...] La TV fornisce [invece]
un tipo di realtà "mentale" al di fuori del corpo e della mente. Mentre guardate la TV, se la vostra mente non si mette a vagare, se non avete in mano
il telecomando, le immagini dello schermo si sostituiscono alle vostre. Partecipate all'immaginario collettivo, al pensiero collettivo che essa vi offre. In
televisione, le immagini non provengono da esperienza personale, ma dal lavoro di una équipe di produzione professionale, spesso fortemente
influenzata dalle statistiche e dalle indagini di mercato».
***
Le confuse particelle d'informazione lanciateci dal Piccolo Schermo e concernenti il nostro mondo problematico, complesso ed estremamente vario,
non rappresentano alcunché di vicino al reale. Non è con gli spezzoni sincopati d'immagini accompagnati da commenti artefatti, che possiamo
avvicinarci alla realtà. Quanti dei telespettatori dell'esecuzione, il 1â febbraio 1968, del «povero giovane» Van Lem, ufficiale dei Vietcong celato dietro
il nome di battaglia di Bay Lop, da parte del generale Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia di Saigon, conoscono i retroscena del fatto? L'esecuzione,
ripresa dal fotografo Eddie Adams dell'Associated Press e dal cameraman sudvietnamita Vo Suu della NBC, viene trasmessa il giorno seguente col
titolo Rough Justice on a Saigon Street, "Giustizia sommaria in una via di Saigon", ed entra nei libri di storia. Enorme è l'impressione sul pubblico,
nonostante i ritocchi compiuti onde evitare agli spettatori il fiotto di sangue che sprizza dalla testa del condannato. Quanti condividono i termini, usati
da Stanley Karnow per Loan, di «spietato ufficiale», «spietata repressione» e «ben poca magnanimità», e della riduttiva qualifica di «uomo sospetto di
appartenere al Vietcong» per il terrorista? Molti, certo. Quasi tutti, forse. Ma quanti sanno che, poco prima, il «povero giovane» cui salta la testa sotto
l'impatto della pallottola aveva brutalmente assassinato diverse persone, tra cui un poliziotto, sua moglie e i tre bambini, ai quali non era stata
concessa l'eguale fortuna di avere a disposizione una squadra di cameramen, cadendo per questo in un eterno oblio? (rintracciata trent'anni dopo dal
settimanale People, ben confessa ad Adams la propria gratitudine Nguyen Thi Lop, vedova di Van Lem: «Senza la sua foto mio marito sarebbe
scomparso nel nulla»).
Ciò che le immagini fanno realmente, è invero, con le parole di Jeffrey Mander, «rendere il mondo tanto confuso, grossolano e spento quanto lo
stesso mezzo televisivo». Al posto del silenzio, della completezza dell'informazione, della meditazione permessa dal libro e dalla ricerca, spesso non
facile, di una esaustiva documentazione, ci sono nella televisione frastuono, frammentazione, suggestione e tecniche di persuasione, esplicita o più o
meno occulta, facenti leva sulle caratteristiche sensoriali e mentali più basse dell'essere umano. Con la sua sola presenza, e a maggior ragione col
vibrare delle onde elettromagnetiche, la televisione minaccia la sacrosanta autonomia che l'essere umano ha faticosamente acquisito grazie al
leggere-scrivere.
Sempre più arduo, quando non impossibile per chi non abbia la mente – e il cervello – pre-strutturati, si fa il pensiero meditato e lineare, logico e
consequenziale. Come rileva lo psichiatra Vittorino Andreoli, la televisione, in particolar modo quella commerciale, porta a smarrire la parola,
disorganizza e de-struttura il pensiero (soprattutto nei giovani), massacra non solo e non tanto i programmi trasmessi ai suoi fini, quanto la più
profonda capacità di coerenza dell'essere umano, la sostituisce con l'evocazione (passiva) di «punti» meramente suggestivi – spot – e schegge
telefilmiche. «Ogni storia» – scrive Andreoli – «è frammentata dal produttore per inserirvi spot, la vera motivazione dell'impresa televisiva, e dal
singolo per la curiosità di verificare gli altri canali [...] Le immagini sono più efficaci del linguaggio verbale, sia perché sono immediate, sia perché
suscitano emozioni forti. Una foto è generalmente più espressiva di una parola e ancor più di un suono e di un rumore. Nello zapping si uniscono i due
codici di comunicazione e l'insieme ricorda un caleidoscopio parlante, con variazioni di colore, di toni e di vocaboli urlati o sussurrati [...] Se
confrontato con il sistema della Scolastica e dunque con il procedere per gradi e per regole fisse (il sillogismo, la metafora, la sineddoche), lo zapping
appare follia, schizofrenia appunto. Un disturbo che si caratterizza per la dissociazione logico-verbale e per la mancanza di qualsiasi coerenza
razionale [...] Lo zapping ha tre possibilità: ordinarsi in categorie della mente preformate (innate) o di formazione storica, o riflettersi senza elaborare
nulla. La mente in quest'ultimo caso è passiva e si azzera non appena lo stimolo si spegne. La constatazione è che il giovane d'oggi non funziona per
sistemi: non rispetta le sequenze né della logica razionale né di altre logiche. Come se tutto si accumulasse senza ordine. Rimane naturalmente la
facoltà di pronunciare parole, suoni, di usare espressioni mimiche: insomma di comunicare per zapping. I giovani d'oggi sono abilissimi nell'evocare,
ma incapaci di costruire periodi. Come se le strutture della mente si fossero fermate e, appunto, dissociate».
E all'italiano si affianca De Kerckhove (nel saggio dal significativo titolo Il corpo tecnologico): «Quando si legge un romanzo, la parola scritta è
interiorizzata e questa interiorizzazione è anche la condizione di appartenenza al Sé e di organizzazione della coscienza personale. La coscienza
individuale non esiste senza questa appropriazione dell'immaginario e la riappropriazione dell'immaginario dipende dallo sviluppo della storia della
letteratura, che è fondamentale per l'educazione dell'immaginario privato degli individui: leggere romanzi, poesie, è una forma di riappropriazione di
sé stessi. Ma quando appaiono la fotografia, il cinema e soprattutto la televisione, tutto cambia [...] È con la televisione che si completa la rivoluzione
dell'esteriorizzazione totale del principio d'immaginazione, portato all'esterno della mente, su di uno schermo». «Tra tutti i sistemi di scrittura» –
continua il canadese in La civilizzazione video-cristiana – «l'alfabeto fonetico è quello che favorisce maggiormente la messa in circolazione dei concetti.
Questo implica che le attività cerebrali incoraggiate dalla scrittura e dalla lettura alfa-fonetiche ci allontanino doppiamente dall'esperienza sensoriale
immediata, innanzitutto con la rappresentazione e poi con la concettualizzazione a cui questa rappresentazione rinvia».
Analizzando il contrasto o, meglio, la radicale alternativa tra parola ed immagine, uno studio inglese compiuto su un campione di quarantamila
persone, pubblicato nell'autunno 1994 dalla rivista scientifica Nature rileva lo strapotere del medium televisivo nei confronti, ad esempio, della
radiofonia (e tanto più nei confronti della parola scritta). Conviene maggiormente – chiedono gli autori – ad un uomo politico che vuol dare di sé
un'immagine suadente, servirsi più della radio o del Piccolo Schermo? L'ovvia risposta – ne concorderà il lettore – è la seconda: in televisione, a meno
di evenienze del tutto singolari, legate soprattutto a chi lancia il messaggio, le bugie passano più inosservate, sicché lo spettatore si lascia convincere
più facilmente. E la differenza tra i media non dipende dal tipo di pubblico che segue i programmi, perché, nel caso della radio, una stessa persona
rileva più facilmente se chi parla afferma il falso o non è convincente. A governare l'imbonimento televisivo è infatti il meccanismo dello sfruttamento
dell'attenzione selettiva: il concentrarsi dello spettatore su stimoli particolari, accompagnato dallo «spegnimento», più o meno radicale, degli altri. Sul
Piccolo Schermo passano così in netto secondo piano i segnali verbali (le parole, il loro numero, la lunghezza delle frasi), travolti o perfino sostituiti da
quelli vocali (il modo con cui le parole sono pronunciate, l'intensità della voce, le pause, le esitazioni) e da quelli visivi emessi durante la
comunicazione (presentazione globale, sguardo, movimento del corpo, espressione del viso).
Inoltre, rileva Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell'Età Evolutiva, a differenza che per la vita reale, ove quando guardiamo un gruppo di
persone o un paesaggio percepiamo soltanto una parte del quadro visivo con la fovea – cioè con quel punto della retina in cui la visione raggiunge la
maggiore acutezza – percependo il resto con la meno nitida visione periferica, quando guardiamo il teleschermo «poichè esso è di piccole dimensioni,
noi percepiamo l'intera immagine con l'acuta visione della fovea: in questo modo, mancando la visione periferica, la nostra attenzione per l'immagine
televisiva aumenta e, aumentando l'attenzione, tende ad aumentare anche il rilievo che noi diamo alle immagini che stiamo guardando. Un secondo
fattore è legato al movimento. La nostra attenzione di spettatori dipende anche dalla quantità di movimento presente sullo schermo: un ritmo veloce
ha in linea di massima l'effetto di aumentare il livello di attenzione. Movimenti rapidi, musica incalzante o forte producono uno stato di allerta del
sistema nervoso».
Col passare del tempo, tale ipercinesia comporta però conseguenze sgradite di affaticamento, calo dell'attenzione cosciente e intorpidimento: «In più
dell'80% delle persone il cervello ha un ritmo alfa durante l'ascolto prolungato, si verifica cioè una condizione cerebrale di rilassamento prossima al
dormiveglia in cui i muscoli sono rilassati e gli occhi atonici. A quel punto gli stimoli provenienti dal teleschermo possono assumere una valenza
irreale, simile al sogno. Questo spiega quella sorta di trance in cui cadono molti spettatori dopo un'ora o più di esposizione al teleschermo. E può
spiegare anche la funzione ipnotica della TV, la difficoltà a "staccarsi" dallo schermo e il fatto che su alcuni la televisione agisce come un sonnifero».
Dal punto di vista neurofisiologico l'attenzione è stata studiata misurando i tipi di onde cerebrali che si attivano quando uno stimolo viene inviato da un
certo centro piuttosto che da un altro e attraverso un certo canale sensoriale piuttosto che un altro. Nell'area corticale in cui lo stimolo viene
decodificato, ad esempio, si verificano particolari modificazioni elettro-chimiche, dovute all'entrata in gioco della formazione reticolare e del talamo,
due centri nervosi da cui dipendono le caratteristiche degli stati di vigilanza. Come rileva De Kerckhove: «Alcuni generi di attività concertate e
praticate a lungo incoraggiano delle specializzazioni selettive, che si inscrivono e si consolidano nell'insieme relativamente flessibile del cervello e di
tutto il sistema nervoso, soprattutto nella prima infanzia».
Sono i «nuclei della base» – la sostanza reticolare ed il talamo – a determinare gli stati di attivazione della corteccia, cioè uno stato di maggiore o
minore attenzione a questo o a quello stimolo; attraverso un complesso gioco di azione/retroazione, essi aprono però i canali preferenziali per gli
stimoli non tanto in modo autonomo, quanto in seguito alla superiore «decisione» della corteccia di prestare al mondo esterno un particolare tipo di
attenzione. Attraverso tali meccanismi la coscienza, cioè la risultante sistemica dell'attività integrata di ogni singolo centro nervoso, tale per i miliardi
di eventi che l'hanno strutturata quale unicum irripetibile, può 1. focalizzarsi su un certo aspetto del mondo esterno, 2. vagare senza un punto fisso di
interesse o 3. trovarsi in uno stato di confusione nel quale gli stimoli si accavallano in continuazione e l'attenzione fluttua anarchicamente.
È stato in tal modo osservato, rileva il fisiologo Alberto Oliverio, che se si presta attenzione ad un unico canale sensoriale – quello uditivo nel caso
della radio – tutti gli altri stimoli vengono tagliati fuori, per cui l'ascoltatore ha modo di rilevare, e analizzare criticamente a dovere, le pause, le
inflessioni della voce, i tentennamenti e le ripetizioni, tutte cose che spesso «spiazzano» chi vuol far credere qualcosa di falso. Nel caso del Piccolo
Schermo, invece, l'abile mentitore ha tutto il modo di distrarre lo spettatore, in quanto questi si sofferma «naturalmente» sullo sguardo accattivante di
quello, magari sul tic che lo "fa personaggio", sul modo in cui è vestito, etc., trascurando le caratteristiche intrinseche del messaggio uditivo.
Inoltre, «spettacolarità e ritmi delle trasmissioni creano condizioni di facile credibilità e favoriscono il formarsi di opinioni che sono razionali solo in
apparenza [...] La nostra mente, infatti, è caratterizzata da strategie che le consentono di rispondere rapidamente a una particolare situazione sulla
base di un giudizio di massima, ma questo giudizio va rivisto e corretto attraverso una logica meno "intuitiva", il che non è generalmente possibile
quando i tempi sono molto rapidi, come negli show televisivi in cui succedono "tante cose", una serie di eventi e testimonianze che di continuo
propongono nuovi problemi, senza lasciare il tempo di affrontare razionalmente un problema posto all'inizio».
In particolare nel campo della pubblicità (ma non meno in quello dei notiziari giornalistici), a prescindere dall'incredibile alluvione di vacuità e
(apparenti) insensatezze, si «sparano» senza problemi immagini velocissime con continui mutamenti di scena che provocano una «conoscenza
involontaria» attraverso un autistico aumento dell'attività cerebrale (in uno spot della Pontiak l'immagine più lunga fu di un secondo e mezzo, la più
breve di un quarto di secondo!). È indispensabile, quando ci si proponga di catturare l'attenzione dei telespettatori, rispettare una precisa
cronodinamica fatta di ritmi rapidi, di frasi semplici e brevi, di immagini che colpiscono immediatamente la fantasia e i sentimenti, è indipensabile
limitare quando non escludere esplicitamente il processo logico.
Ben commenta, attraverso un suo personaggio, il romanziere John Fowles: «Per qualche minuto parlammo di cinema. Avevo l'impressione che
continuasse a recitare. Mi ascoltava fissando il suo bicchiere e scuotendo i cubetti di ghiaccio, con deferenza innaturale come se avesse preferito
chiacchierare con la hostess. Poi ricominciò a parlare di televisione, della sua natura effimera, della "quantità sbalorditiva di puttanate" che i suoi
programmi contenevano. Era un trauma, o un tormento, per il quale ero passato anch'io; la tirannide di un pubblico di massa, la necessità di eliminare
istinto, cultura, finezze e tante altre cose per arrivare alla verità basilare della condizione umana: che la maggioranza è ignorante e vuol essere
trattata da idiota, o almeno è per questo che paga. Gli spettatori sono coglioni, come mi disse sinteticamente una volta un famoso regista di
Hollywood, e i coglioni odiano l'intelligenza».
Come sottolinea compiaciuto uno dei «maghi» del palinsesto, l'ex anarchico sessantottino Carlo Freccero, già direttore della programmazione di Italia
1 e nel 1996 sinistro direttore di Raidue, «per avvincere il maggior numero di spettatori per il maggior tempo possibile, la TV deve domandare uno
sforzo mentale minimale». La maggior parte delle tecniche televisive affonda infatti le radici nello sfruttamento e nell'inversione di una tendenza
umana con basi emotive: l'interesse per i momenti salienti. Con ciò non solo suggerendo implicitamente l'inutilità dello sforzo, dell'applicazione e della
fatica personale ai fini della crescita informativa/intellettuale (e quindi in ogni caso morale), ma anche trascurando o relegando in secondo piano ogni
sfumatura psicologica e l'incredibile, meravigliosa complessità della vita.
Occorre quindi da parte nostra avere sempre presente tutta la profondità della confessione di Bob Silberberg, che va perfino al di là di ogni
manipolazione specificamente politica (anche se fare di una persona uno zombi è un fatto, ovviamente, politico): «L'errore più grave consiste nel
credere che noi in televisione lavoriamo per produrre programmi. Ciò è assolutamente falso. Benché le trasmissioni siano il nostro prodotto visibile, in
realtà le grandi reti televisive americane lavorano per produrre telespettatori» (corsivo nostro). Dovere dello spettatore, oltre certo che lasciarsi
educare alla way of life americana, è quindi in primo luogo (od in ultima istanza) dimostrarsi, attraverso il consumo dei prodotti offertigli in così calda
abbondanza, concretamente solidale col Sistema che di tale way of death ha fatto il suo marchio e il suo vanto. Nulla quindi di più naturale che la
produzione di telespettatori, adescati da programmi totalmente coinvolgenti nella loro irrealtà, debba essere affinata dai necessari «consigli per gli
acquisti».
È proprio per questa ragione che negli otto anni in cui rimane alla Casa Bianca, Reagan blocca con veto ogni proposta di legge tesa a limitare la
presenza oraria delle interruzioni pubblicitarie nei programmi per ragazzi (l'ultima proposta, respinta pochi giorni prima della scadenza del suo
mandato, prevede limitazioni assai modeste: un massimo di dieci minuti e mezzo ogni ora durante i weekend e di dodici minuti nei giorni feriali). Due
anni dopo, ottobre 1990, in seguito ad un contrastato voto favorevole del Senato, anche il Congresso finisce però per approvare quel provvedimento.
Ma il nuovo presidente Bush, dopo aver minacciato di porre il veto in nome del Primo Emendamento (quello introdotto a tutela della libertà di parola)
e visto che la proposta gode ormai di un largo appoggio tra insegnanti, genitori, psicologi e del clero più illuminato, deve lasciarla passare
(dissociandosi col rifiuto di firmarla).
Nonostante l'opposizione di Bush possa far pensare che le nuove norme comportino una radicale riforma del settore in questione, esse non
costituiscono tuttavia nulla di rivoluzionario né di illuminato. La nuova legge, in vigore dal 1991 pur senza la firma presidenziale, non fa infatti che un
riferimento marginale ai program-lenght commercials (comunicati commerciali che hanno la stessa durata dei programmi per ragazzi) e a quei
prodotti in cui spettacolo e pubblicità sono fusi indissolubilmente.
I program-lenght commercials cui la legge non applica limitazioni sono per lo più programmi di cartoni animati. I loro personaggi sono, come per il
cinema, anche giocattoli di successo, albi a fumetti, magliette, spugne e saponi, scarpe e sandali, dischi e orchestrine, presenti nell'inesauribile
galassia del merchandising. I più redditizi sono The Simpsons, New Kids On The Block e soprattutto, per i più piccoli, Teenage Mutant Ninja Turtles,
mostruose tartarughe extraterrestri nomate Michelangelo, Leonardo, Raffaello e Donatello. Il mercato mondiale dei prodotti su licenza dell'«industria
dei sogni» passa dai poco più di dieci miliardi di dollari del 1980 ai ben sessantacinque del 1989. Il 90% delle licenze riguarda immagini prodotte nel
Paese di Dio e, al contrario di quanto è accaduto agli inizi degli anni Ottanta, oggi si punta solo su personaggi e programmi già affermati nel circuito
elettronico multimediale.
Di Roberto Giammanco è una prima conclusione sull'onnipervadenza del medium televisivo che dietro la frenesia operativo/ideazionale non rivela
però un sano movimento, la differenza, la vita, ma il pullulare della putrefazione, il movimento della decomposizione incessante: «Con l'avvento del
mercato multimediale sono cadute tutte le barriere tra fiction, informazione, programmi per adulti o per ragazzi, elettorali o seriali. Ciò, inutile dirlo
non significa che non esistono più mercati specifici [...] La totalità del mercato, nel suo complesso modo di produzione sociale, esige che tutti i suoi
prodotti siano intercambiabili perché regolati da obiettivi unicamente promozionali, indissolubilmente sincronizzati. La circolazione delle merci esige
una frenetica pluralità, ma teme come nient'altro la diversità».
La televisione potenzia il consumatore universale che sonnecchia in ogni esemplare di uomo moderno, quel tipo sociale ormai ridotto ad «eroe» che
prolunga la sua esistenza solo nel plurale: come pubblico che ascolta ed acquista o, ancor più astrattamente, come «richiesta di informazione» e
«quota di partecipazione». «Avanguardia dell'umanità», gli States investono il loro cittadino – il loro utente/usato – con una miriade di immagini:
12.000 quotidiani e altrettanti periodici riempiono di foto rutilanti le edicole, 20.000 cinema proiettano per ore ventiquattro fotogrammi al secondo di
inquadrature audiovisive, 30.000 negozi noleggiano milioni di chilometri di videonastri, centosessanta milioni di televisori diffondono immagini per una
media di sette ore giornaliere ciascuno.
«Icone» – commenta Luigi Allori – «feticci, informazione, pubblicità, spettacolo, arte: le immagini sono l'"altra vita" di noi tutti, forse più vera, o
verosimigliante, di quella primaria. Sono palcoscenico, giornale, specchio, guida, documento, veicolo, immaginazione, messaggio, imbonimento,
propaganda, manipolazione, compagnia, babysitter, solitudine, sapere, ignoranza».
All'età di sessantacinque anni, l'americano medio ha inoltre assorbito, frammezzo a tale caos di immagini televisive, due milioni di annunci pubblicitari.
Se a questi si assommano poi quelli radiofonici, quelli sui quotidiani, i periodici e i cartelli stradali, le dimensioni del sovraccarico simbolico, e quindi
dello svuotamento del simbolo, non hanno precedenti nella storia dell'umanità. «I freni sono così pochi» – scrive al proposito Postman – « che si può
parlare di una forma di violenza culturale, sancita da una ideologia che conferisce una supremazia senza limiti al progresso tecnologico ed è
indifferente al disfacimento della tradizione».
La televisione, nota il tedesco Bernd Guggenberger, fa parte «del mondo del denaro di carta e degli alberi di plastica, delle società-fantasma e dei
matrimoni per prova, dei piani bellici e della simulazione di volo, dei valori-limite e dei contatori geiger. Quando natura e valori, attività e unioni, volo
e decisione, rischio e pericolo vengono simulati, in queste condizioni non è dunque normale simulare la vita stessa, per mezzo della televisione, e
tutta la scala dei sentimenti e delle sensazioni, finché l'illusione riempirà i vuoti della vita?». La televisione determina l'essere e il non-essere,
l'esistenza sociale e l'indifferenza. Ciò che penetra nel cuore e nel cervello delle masse deve prima passare attraverso l'obiettivo. Solo la televisione
crea oggi una dimensione pubblica, nel senso che essa fornisce definitivamente ad una persona o ad un avvenimento il valore di notizia. Essa ha la
massima competenza di accredito, cui nessuno dei media minori può sottrarsi. L'attestato di nobiltà lo concedono oggi i moderatori delle grandi
trasmissioni con molto pubblico: «Da tempo permettiamo che, cacciata la precedente, una nuova aristocrazia la faccia da padrone sullo schermo e noi
concediamo, a questo fior fiore dei media, dei privilegi che hanno tolto di mezzo i privilegi di nascita del passato e ogni rossore pudico sul viso [...] La
televisione è il potere culturale imperiale, che adegua tutto a se stesso, dal cerimoniale delle visite del papa fino ai giochi infantili, dalle abitudini
alimentari della famiglia media fino alla retorica e alla drammaturgia dei dibattiti parlamentari. La televisione crea uomini e temi, decide, in misura
che non ha precedenti storici, delle possibilità creative, individuali, vitali e sociali».
Ma all'illusione – a parte quegli spiriti liberi che, pur consci degli attuali rapporti di forza e della presunta irreversibilità del Sistema, restano fedeli
sempre e comunque all'insegnamento dei Padri sugli spalti del realismo e dell'antidemocrazia – c'è qualcuno che riesce a sottrarsi. E quel qualcuno
sono proprio gli artefici, i promotori di quell'illusione, gli appartenenti alla classe A dell'huxleyano Brave New World. È ancora Guggenberger ad
illuminarci con linguaggio pregnante: «Ciò che comincia a delinearsi sono i contorni di una nuova divisione di classe contro quella diagnosticata da Karl
Marx, che era soprattutto incomparabilmente più "innocua", se non altro perché non costrinse al silenzio definitivo l'"arma della critica", l'unica vera, e
propria, "forza del debole", che può volgersi in superiorità. Ciò che si va delineando è un disfacimento del corpo sociale tra i pochi attuali suoi fautori e
la grigia massa dei "manipolati", tra gli affannati utilizzatori e i massacratori del tempo, divertimento-dipendenti e sempre bisognosi di distrazione, tra
chi non ha mai tempo e chi ne ha sempre, tra gli attivi e i passivi, tra i pochi potenti produttori di realtà ed i molti consumatori di questa "realtà di
seconda mano"».
È ancora l'antica, sempre nuova conferma dell'impossibilità logica, dell'immoralità filosofica e dell'inganno pratico della democrazia.
Conoscere se stessi ed il mondo, pensare ed agire con coerenza sono le attività più faticose – e più nobili – che la vita permette all'uomo. La
televisione, a prescindere dal cosa, esercita una così forte attrazione proprio perché non richiede, democraticamente, né lavoro fisico né sforzo
mentale. «Fatica e durezza» – ribadisce Guggenberger – «sono ormai virtù non previste in una comunità del divertimento teleservita. I promotori dei
programmi di massa patteggiano in modo palese con le nostre inclinazioni più basse: con la nostra pigrizia e la nostra seducibilità. Ci si può
veramente mostrare inorriditi di fronte al costante aumento della criminalità violenta e allo stesso tempo non trovar niente da ridire sul fatto che noi
adattiamo la generazione che ci segue, fin dalla prima infanzia, sistematicamente, ad un mondo in cui delitto e assassinio rappresentano la massima
attrazione».
Non esiste divoratore di avvenimenti più affamato del Piccolo Schermo, non esiste istituzione socialmente più distruttiva della televisione, non esiste
caricatura più mordace della famiglia di quella che la ritrae raccolta in posizione allineata di fronte al tubo catodico. Nient'altro insidia più
potentemente il valore e l'essenza della famiglia e dell'amicizia, della particolarità regionale, dell'orgoglio razziale e della trasparenza politica. Nulla
ostacola di più la mente umana, nella serena valutazione di un fatto, quanto l'assidua consumazione di divertimento e di spezzoni «informativi» offerti
dai video-media. Chi cerca le sensazioni e le finzioni offerte (imposte) dal Piccolo Schermo è perso per i problemi del mondo reale.
Il solipsismo, l'alienazione, il disfarsi di quei legami interpersonali che formano la struttura non solo di una ridotta comunità, ma di un'intera società –
che sono quella comunità e quella società – sono stati, se pure non generati, ricreati e potenziati dal mezzo televisivo. Ancora più allucinanti sono le
prospettive: in Giappone, nel piccolo centro di Higashi-Hikoma, interamente sottoposto a telecollegamento via cavo, i bambini non vanno più a scuola
(il maestro insegna per televisione), il medico visita i pazienti nello stesso modo, le casalinghe fanno la spesa per televideo, le famiglie «dialogano»
l'una con l'altra elettronicamente. Ognuno è chiuso nel suo mondo soffice, fatto di suoni e colori, senza asperità, senza contatti umani. Ognuno
costruisce il suo mondo, dissociato da quello di ogni altro.
È addirittura il liberale Alberto Pasolini Zanelli, cantore tra i massimi della Bontà del Paese di Dio, a notare, trattando di quella Droga Virtuale che
avanza in tutti i campi, ci abbraccia e ci soffoca, che «l'America, il mondo si fanno al tempo stesso più sfacciati e più furtivi, l'irrealtà elettronica è una
tentazione pigra ma potenzialmente avvelenata. Già l'impoverimento e la rarefazione del dialogo hanno ridotto a due principali le occasioni e le forme
di concetto fra gli individui: il sesso e la ginnastica. Se le Realtà Virtuali invadono anche questi campi, si può avverare l'incubo di una società ridotta al
solipsismo più o meno onirico, a scrivere, leggere, guardare, "sentire" le cose invece di farle. Il teleschermo come sostituto della vita, lo svuotamento
ulteriore delle comunità naturali o storiche (la famiglia, la piazza, il bar, il luogo di lavoro) da parte di quello che qualcuno esalta come il "nuovo stare
assieme". Tante Comunità Virtuali in cui si faccia capo unicamente a tastiere che alla fine sono sempre più cieche».
Chi vuole al contrario un cittadino attivo, aperto e responsabile; chi vuole che i giovani si impegnino, si pongano mete comunitarie, lavorino alla
propria maturazione e si prendano seriamente (perché solo in tal modo imparano a rispettare e a prendere sul serio anche gli altri); chi vuole
sottrarre al termine democrazia la sostanza, distorta e imprigionata da due millenni in un mefitico fonema, e abbandonare, guscio vuoto, mero fiato di
voce, il vocabolo; chi vuole restare fedele, con slancio supremo d'amore, alla memoria dei Padri – chi voglia opporsi e distruggere nei fondamenti
l'illusione democratica, la truffa democratica, il cancro democratico – chi vuole questo complesso inscindibile di cose, è credibile solo se combatte con
la massima consequenzialità ciò che più di tutto si oppone, sul piano concreto, alla formazione di queste posizioni e capacità: l'egemonia psicologica e
culturale della televisione.
***
In ultima analisi il pericolo operativo che deriva dalla televisione è delineato dalla sua assoluta neutralità e volgarità. Da un lato, il processo di
involgarimento è funzionale al raggiungimento del maggior numero possibile di spettatori, attuando una spinta verso il basso dei contenuti delle
trasmissioni, in una spirale demoniaca di azioni e retro-azioni che abbassano non solo la cultura e l'intelletto dell'essere umano, ma anche e
soprattutto la sua coscienza. Dall'altro, il fatto che il potere industriale/finanziario – cioè chi impegna il denaro e sponsorizza i programmi – si
interessa a tutto, meno che a «che cosa» viene trasmesso (all'interno, ovviamente, dei limiti ideologici fissati/riconosciuti dal Sistema), fa della
televisione il medium-zero. Se i programmi vengono costruiti attorno al prodotto/messaggio da sponsorizzare, va da sé che non esistono messaggi
all'infuori del prodotto/messaggio sponsorizzato.
Va da sé, scrive Maurizio Naj, che i programmi finiscono allora tendenzialmente con l'assomigliarsi tra loro, «annullando la differenza tra lo stare
spento o acceso del televisore, che (per pigrizia o necessità di una presenza) ovviamente resterà acceso. Non ci sarà più la scelta di vedere "quel
programma" ma, più semplicemente, si guarderà "la televisione"». Similare giudizio esprime il regista Brian De Palma: «La televisione è la cosa più
pericolosa che il capitalismo abbia creato, una macchina educatrice che ti fornisce un insieme di valori completamente defunti e moralmente
deprecabili. Almeno per ora nessuno ti obbliga ad accendere la TV e nemmeno a possederla: abbiamo la possibilità teorica di evitare il lavaggio del
cervello. Ma è difficile, quando te lo fanno fin dal primo giorno di vita. Devi avere un forte controllo su te stesso per riuscire a rifiutare queste cose».
Con la televisione si compie l'aspirazione più segreta del Sogno Americano: al di là dei miti del successo e dell'autorealizzazione, la molla psicologica
è ancora la frustrazione giudaica (e quindi cristiana) che obbliga l'uomo alla ricerca/creazione di un Mondo Nuovo che non abbia le asperità, le
incoerenze, le contraddizioni, il dolore di questo. È l'antico, sempre nuovo odio per il reale e quindi l'antico, sempre nuovo odio per l'uomo com'è, coi
suoi fallimenti, le sue durezze e le sue crudeltà certamente, ma altrettanto certamente con le sue migliori qualità: il senso del reale; la freddezza
intellettuale che rifiuta ogni suadente, sensoriale velo mistificante; il controllo di se stessi; l'accettazione, serena ed attiva, dei limiti insiti nella propria
natura; il riconoscimento della sacralità del Cosmo, autarchica essenza.
Con la televisione, certo nelle attuali strutture e con gli attuali condizionamenti economici, ma altrettanto certamente sotto qualsivoglia diverso cielo, si
realizza – per fortuna non del tutto, viste le resistenze opposte dal mondo reale – l'Incubo Americano (e quindi cristiano e quindi ancora giudaico) del
Mondo Nuovo, incubo che, prima di incarnarsi nel mondo hard orwelliano, è il «morbido» Mondo Nuovo huxleyano. Il teleschermo ha un impatto
talmente diretto ed onnipervasivo sul sistema nervoso e sulle emozioni – e un effetto talmente ridotto sulla mente – che la maggior parte
dell'elaborazione delle informazioni è in effetti opera sua, e non dello spettatore.
Non c'è, in tali processi, tempo sufficiente – né volontà – perché lo spettatore possa integrare su base pienamente cosciente le informazioni ricevute.
Ribadisce la tedesca Hertha Sturm, studiosa dei massmedia: «Il rapido mutare delle immagini presentate menoma la verbalizzazione. Tra esse ci
sono mutamenti non decodificati dell'angolo di osservazione, imprevedibili oscillazioni dall'immagine al testo e dal testo all'immagine. Di fronte al
rapido mutare delle immagini presentateci e alla loro accelerazione, lo spettatore è letteralmente trascinato da un'immagine all'altra. Ciò esige
costantemente nuovi e inattesi adattamenti alle stimolazioni percettive. Di conseguenza lo spettatore non è più in grado di tenere il passo e rinuncia
ad una codifica interiore. Abbiamo scoperto che, quando questo accade, l'individuo agisce e reagisce con un innalzamento di eccitazione fisiologica
che a sua volta si traduce in una riduzione di comprensione. Lo spettatore diventa, per così dire, vittima di una forza esterna, di una rapida
sequenzializzazione audio-visiva».
La programmazione televisiva è deliberatamente concepita per impedire reazioni verbalizzate; tutto si traduce in un'immane operazione di
condizionamento subliminale, in una rimozione delle capacità di riflessione personale e di autodeterminazione. A differenza del libro, lo schermo
televisivo è una struttura rigorosamente prescrittiva, poiché in un colpo solo incornicia le dimensioni di tutto quello che c'è da vedere e focalizza
l'occhio e l'attenzione dello spettatore, condizionando completamente le modalità di elaborazione e destinazione dell'informazione.
È al contrario, pienamente coerente coi postulati spersonalizzanti della sua ideologia religiosa, l'arcivescovo milanese Carlo Maria Martini ad esplicitare
nel 1991, nell'incredibile scimmiottamento francescano della pastorale sul medium televisivo, le attese che muovono ogni progressista: «Laudato sii
mio Signore con tutte le tue creature / specialmente fratello televisore / che riempie ore delle nostre giornate / ed è bello e irradiante con grande
splendore / e di te Altissimo porta significazione». È un suo sodale stonacato, il socialista don Gianni Baget Bozzo, a sociologizzare l'afflato mistico del
porporato: «La televisione libera da molte cose, è la nuova Bibbia dei poveri, perché dando visione a tutti eleva anche gli incolti e svolge la sua
funzione capitale di far crescere la coscienza dei singoli», «la TV è un mezzo innocente».
Ancor più lirico è il sillogismo teologico di don Tonino Lasconi, «esperto di media», sul bollettino della Conferenza Episcopale Italiana Servizio
Informazioni Religiose: «È necessario affermare che questa abbondanza di informazione è bella: conoscere una cosa in più è sempre meglio che
conoscere una cosa in meno. Se Dio è colui che sa tutto, più informazioni si raggiungono e più si diventa simili a lui, come ci è stato comandato».
Lentamente, inesorabilmente, e del tutto coerentemente con l'impostazione delle cose, il moderno mondo cattolico, con le parole del nostro Lasconi,
getta la spugna di fronte al progredire del Mostro: «La Chiesa è sempre restia ai cambiamenti. Ogni novità, in quanto novità, va respinta. Invece io
credo che un mondo senza TV sarebbe un mondo più povero. Basta insegnare alla gente come guardarla. È una realtà di oggi e demonizzarla è
assurdo [...] È sterile invitare le famiglie a spegnere o a razionare la televisione. È velleitario esortare gli operatori dell'informazione televisiva ad
essere profondi, oggettivi, pacati, perché sarebbe come invitarli a non farsi ascoltare».
Nessun codice di regolamentazione, quindi, nessuna esortazione all'auto-regolamentazione, nessun progetto educativo né del pubblico né, tantomeno,
degli operatori, cui è lecito, e spetta, fare il loro «dovere» professionale. Con l'eterna, criminale buona fede illuminista il Lasconi, palesandosi
oltretutto ignorante di cibernetica e di scienza dei sistemi, sostiene che è inutile e ipocrita accusare la TV di essere un elemento di disgregazione.
Come sempre, le colpe risiedono altrove: «Il bombardamento quotidiano delle famiglie dagli schermi accesi non è un aspetto negativo in sé. È
necessario che la famiglia unita, armoniosa, ricca di interessi veda i programmi "in compagnia" tra genitori e figli, e sappia scegliere quelli migliori e
dedichi tempo e spazio ad altre attività» (inutile dire che ciò che non esiste, ciò che va costruito e che proprio la TV impedisce di costruire, sono tale
unità, armoniosità ed interessi).
A nulla valgono allora, di fronte all'ubiquitaria accettazione di tale professione di fede, i distinguo compiuti dal Lasconi in articulo mortis, in margine al
peana innalzato al Piccolo Schermo: «È dovere prendere coscienza che questa grandinata di informazioni, così efficaci e penetranti, se subita
passivamente e acriticamente produce pensiero debole, cervello frastornato, giudizi superficiali, bisogni inventati, debolezza cronica di fronte ai
discorsi vuoti sulla bocca di volti affascinanti». Come possa il comune mortale non venir frastornato dall'imbonimento televisivo, come possa resistere
al quotidiano lavaggio del cervello, il Nostro deve ancora spiegarcelo.
Qualcuno che ha vissuto un po' prima il trionfo del ciclope bruto si esprime però in modo diverso dai tre fidenti religiosi, come il producer in Network,
«Quinto potere», rivolto ad una collega: «Tu sei l'incarnazione della televisione, indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia. Tutta la vita è ridotta
al comune pietrisco della banalità. Guerra, assassinio, morte – tutto è lo stesso per te, come bottiglie di birra, e la vita di tutti i giorni è una commedia
corrotta. Arrivi persino a frantumare le sensazioni del tempo e dello spazio in frazioni di secondo e in replay istantanei. Sei la follia».
E pienamente controbatte l'aspirazione dei tre cristiani suddetti, vacuizzante dell'intelletto umano, il drammaturgo tedesco Botho Strauss: «Il regime
della comunicazione telecratica è insieme la meno cruenta delle dittature e il più completo dei totalitarismi. Non ha bisogno di far rotolare delle teste,
le rende superflue».
Ma l'Avvento del Regno – la Fine della Storia, l'Uscita dal Mondo Corrotto, l'Allucinazione della Realtà Virtuale – può essere reso possibile soltanto
attraverso la deprivazione dell'io personale:
1. Eliminare la conoscenza di se stessi – la Coscienza – rendendo impossibile la distinzione tra naturale ed artificiale. Solo l'introspezione, la
conoscenza dei propri limiti, della propria fragilità e delle proprie possibilità, dei propri sensi e della propria umana strutturazione fisio-psichica
permettono di affrontare il mondo esterno.
2. Abolire i termini di confronto col passato – la Memoria – che non tanto va criticato, quanto ignorato, giusta l'insegnamento di Isaia, LV 17: «Ecco,
infatti, io sto per creare cieli nuovi e terra nuova! Il passato non sarà più ricordato, non verrà più in mente». Come si può infatti criticare un qualcosa
che, anzi, non è mai esistito?
3. Tenere gli uomini separati l'uno dall'altro, anche all'interno della famiglia, riducendo la comunicazione interpersonale grazie ad uno stile di vita che
enfatizzi, incoraggi ed obblighi alla separatezza facendo coltivare unicamente i propri hobbies, le proprie fantasie, i propri interessi, i propri appetiti
individualistici.
4. Unificare, distorcere ed appiattire l'esperienza permessa dai sensi, da un lato incoraggiando l'«esperienza» mentale a spese di quella sensoriale,
dall'altro guidando questa, pur sempre ineliminabile, in aree ristrette del comportamento (vedi l'esasperazione del sesso a discapito della totalità dei
sensi e della psiche).
5. Tenere occupate le menti con pensieri, e soprattutto immagini, preordinati di qualsiasi tipo (il contenuto è meno importante del fatto che la mente
sia riempita), in un mondo che valorizza la velocità e non la profondità, cosicché non siano più disponibili spazi mentali «vuoti», che possano
permettere una riflessione autogestita.
6. Incoraggiare l'uso della droga a livello sociale, incoraggiare ogni tipo di devianza, giustificare un tasso «fisiologico» di criminalità, «offrire» modelli
umani e stili di vita «alternativi», promuovere incessantemente «liberazioni», contenendo in tal modo ogni possibile manifestazione di rivolta ad un
mero livello individuale.
7. Centralizzare la conoscenza e l'informazione, in modo che a rilasciare dati e notizie sia un'unica fonte «autorizzata», democraticamente
riconosciuta, solidalmente avallata e introiettata in quanto «legittima» (più che la distruzione dei libri in sé, la distruzione cioè di fonti alternative: è
questo il senso di Fahrenheit 451).
8. Ridefinire la felicità e il significato della vita secondo ideologie sempre più astratte, poiché qualunque cosa acquista un senso nel vuoto. Evitare le
filosofie del realismo, che portano i soggetti ad una coscienza incontrollabile dai Persuasori. Le filosofie cui meno si può resistere sono infatti quelle più
«razionali», e cioè più arbitrarie, quelle che acquistano un senso solo in rapporto a se stesse.
A livello di massa la televisione crea dipendenza. Per il modo con cui il segnale visivo viene elaborato nella mente, esso ribalta il rapporto tra capire e
vedere, ed anzi inibisce strutturalmente i processi cognitivi. «La televisione produce immagini e cancella i concetti; ma così atrofizza la nostra capacità
astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire [...] La riduzione-compressione è gigantesca: e quel che sparisce in quella compressione è
l'inquadramento del problema al quale le immagini si ascrivono. Perché l'immagine, sappiamo, è nemica dell'astrazione, mentre spiegare è svolgere
un discorso astratto. I problemi, ho detto più volte, non sono "visibili". E il visibile privilegiato della televisione è quello che "fa colpo" sui sentimenti e
sulle emozioni [...] Il visibile ci imprigiona nel visibile. Per l'uomo vedente (e basta) il non visto non esiste. L'amputazione è colossale. Ed è peggiorata
dal perché e dal come la televisione sceglie quel particolare visibile, tra cento o mille altri eventi egualmente degni di considerazione» (Giovanni
Sartori).
La televisione si propone dunque più come uno strumento per il lavaggio del cervello e per l'induzione dell'ipnosi che come qualcosa che possa
stimolare coscienti processi d'apprendimento. La televisione è una forma di deprivazione sensoriale, poiché provoca disorientamento, confusione,
incapacità di riflessione astratta e analitica, balbettio nella dimostrazione logica e nella deduzione razionale. Diminuisce negli spettatori la capacità di
distinguere il reale dal non reale (altro che lo slogan di Walter Cronkite «l'immagine non mente»!, altro che gli effetti prodotti sui radioascoltatori
dall'invasione marziana di Welles – suggestivi, peraltro, di un'invasione «nazista» del Paese di Dio – in quel lontano 30 ottobre 1938!), l'interno
dall'esterno, ciò che viene sperimentato personalmente da ciò che viene inculcato da fuori. Disorienta il senso del tempo, dello spazio, della storia,
della natura.
La televisione sopprime e sostituisce la creatività dell'immaginazione, incoraggia la passività collettiva (icastica è l'espressione USA per definire il
video-dipendente: couch potato, patata in poltrona) e addestra la gente ad accettare qualsiasi forma di autorità. È uno strumento di mutazione,
spegne le interiorità e trasforma le persone concrete, coi loro vissuti, la loro storia, le loro reticenze, le loro contraddizioni, la complessità tutta della
loro evoluzione spirituale e caratteriale, nell'effimero istantaneo delle loro immagini televisive. Con lo stimolare all'azione mentre simultaneamente la
sopprime, il Piccolo Schermo contribuisce infine a causare un'inquieta, afinalistica iperattività del sistema nervoso.
La televisione limita e circoscrive la conoscenza umana. Cambia il modo con cui gli uomini ricevono informazioni dal mondo. In luogo della naturale
ricezione multidimensionale, propone una ridottissima esperienza sensoriale, poiché diminuisce sia la quantità che la specie d'informazione che la
gente riceve. Mantenendo la coscienza entro i suoi canali, minuscola frazione dell'area naturale dell'informazione, induce l'uomo a credere di sapere di
più, quando sa invece sempre meno.
Con l'uniformare tutti entro i propri schemi e col centralizzare in sé l'esperienza, il tubo catodico prende il posto dell'ambiente. Accelera l'alienazione
dell'uomo dalla natura e perciò accelera la distruzione della natura. Distruggendo la natura, distrugge l'uomo, spingendolo ancor più dentro una realtà
artificiale già invadente.
Accresce, infine, la perdita della conoscenza personale, della coscienza personale e della Memoria storica dei popoli per mantenerne in vita una sola –
«Ci devo riflettere, ma forse l'unico modello di memoria esistente in Occidente è quello ebraico», conferma al confratello Wlodek Goldkorn l'olostorico
Saul Friedländer, già segretario di Nahum Goldmann e Shimon Peres – concentrando il potere dell'informazione, ed anzi l'informazione stessa, nelle
mani di un'élite ideo-tecno-industriale-commerciale.
Chi siano stati i preveggenti promotori di tale élite, chi siano stati e chi siano gli araldi, i portatori, gli allucinati missionari e gli zelanti difensori del
Sistema di Valori che ne ha sostanziato gli atti e distorto le menti, chi siano stati e chi siano i redditieri di quell'incubo rappresentato dal Sogno
Americano e dell'Unico Mondo, di quel Tempo della Fine – l'Et Qetz del Libro di Verità in Daniele XI 40 e X 21 – vantato e difeso per l'intero pianeta da
una miriade di manutengoli, lo sappiamo.
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Il compimento del Regno
La distruzione dell'uomo attraverso la televisione.
Questa razza di casa nostra [...] è dura a morire e qualche volta si risveglia bruscamente. Bisognava impedire quel risveglio. Da qui i negri, da qui le
naturalizzazioni in massa di ghetti interi, l'abbrutimento per mezzo dei quotidiani, della radio, della pornografia e della pubblicità, dell'idolatria del
ricco, dell'adorazione dell'orpello, la beatificazione del pugile e della ballerina nuda, tutta questa fiera che sa di polvere e carta d'Armenia e nella
quale passeggia docilmente una generazione inebetita, assordata dai giradischi e dalle orchestre dei maneggi, sussultante fra i petardi, a bocca aperta
davanti alle sirene e ai mostri, con la gola secca, gli occhi opachi, senza tregua in movimento dentro questa kermesse senza baldorie, in questa ressa
senza sguardi, sognando vagamente un'eterna scoraggiante domenica che sarebbe stata tutta la loro vita. Questo era l'antifascismo.
Maurice Bardèche, L'uovo di Colombo, 1952
Oggi sono essenzialmente i media stampati ed elettronici a plasmare le nostre attitudini percettive, a stabilizzare criteri di senso collettivi che ci
consentono la comprensione del presente e che fungono da costante contesto di riferimento per orientare anche la nostra esperienza personale [...]
Altrettanto evidente dovrebbe essere l'inconsistenza della linea di demarcazione fra democrazia e totalitarismo che i teorici del pluralismo tentano di
tracciare assumendo come discriminanti delle nozioni tanto deboli quanto ambigue di autonomia dell'opinione pubblica e di policentrismo dei mezzi di
comunicazione di massa. Contro le tesi classiche del pluralismo democratico, l'indagine scientifica e l'esperienza storica sembrano provare che
l'efficacia persuasoria dei massmedia opera assai più in profondità nei paesi a democrazia pluralistica (e a economia di mercato) che non nei paesi
totalitari.
Danilo Zolo, Il principato democratico, 1992
La televisione e gli altri media elettronici hanno cambiato la base delle attività umane. Ci possiamo permettere di ripetere questa ovvietà, visto che
anche i critici più acuti della società odierna non sono pienamente coscienti dei cambiamenti che questo comporta per le nostre relazioni cognitive,
emotive e funzionali con il nuovo ambiente globale prodotto dai media.
Derrick de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, 1995
Come che sia, la base della potenza americana sta, in larghissima parte, nel dominio del mercato mondiale delle comunicazioni. L'ottanta per cento
delle parole e delle immagini che circolano nel mondo provengono dagli Stati Uniti.
Zbigniew Brzezinski, 15 dicembre 1990
Distruggeremo la vostra cultura come abbiamo distrutto la nostra.
il conduttore (ebreo americano) Jay Leno, in uno spot per l'European Super Channel della NBC
La parte del laudator temporis acti è sempre imbarazzante, ma l'approdo di una rincorsa ossessiva dello sviluppo scientifico e tecnologico è il vicolo
cieco di un nichilismo triviale. Come recitava una vecchia canzone d[el cantautore Franco] Battiato: «Più diventa tutto inutile, e più credi che sia vero,
e il giorno della Fine non ti servirà l'inglese».
Roberto Zavaglia, Nanotecnologo - Il mestiere del futuro, 1997
Quello che in Occidente chiamiamo pensiero è il prodotto della resistenza del cervello al flusso dell'informazione.
Derrick de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, 1995
Se teniamo presente l'influenza enormemente più vasta e incisiva del Piccolo Schermo rispetto al grande del cinema e la possibilità di essere messi in
contatto in ogni momento con l'immaginario collettivo televisivo ci è gioco capire come, col passare degli anni, i moduli comportamentali televisivi
abbiano rivoluzionato e plasmato, e stiano tuttora plasmando, lo psichismo dell'uomo in modo molto più profondo che non il cinema.
«Per la prima volta nella nostra storia» – scrive l'americano Jeff Greenfield – «è possibile rispondere alla domanda "Chi ha fatto l'America?": la
televisione». «In a very real sense» – continua John O'Connor, docente di Storia al New Jersey Institute of Technology e co-direttore del periodico Film
& History – «television is American Culture, in senso letterale la televisione è la civiltà dell'America».
A differenza di quanto possa pensare taluno dei meglio-intenzionati oppositori del Sistema Mondialista, come non esistono armi «neutre» rispetto alle
strutture sociali e ai Sistemi di Valori in cui sono nate, non esiste neppure la neutralità della Scienza (e tantomeno ancora della Scienza moderna,
portatrice di una propria morale totalitario-progressista perfettamente inscrivibile in quella giudaico-cristiana, di cui anzi è legittima figlia) né, a
maggior ragione, la neutralità della Tecnologia e delle tecniche. La Tecnologia, come la conosciamo oggi e come è stato dimostrato da studiosi quali il
primo Jeremy Rifkin – e da noi stessi in Lo specchio infranto – è un fenomeno storico generato da una certa precisa idea della natura, da una certa
precisa idea del progresso, da specifici ideali sociali e da specifiche aspirazioni sui fini della vita umana e del cosmo, ideali ed aspirazioni di chiara
ascendenza giudaico-cristiana. E ciò non solo sotto il profilo ideologico-morale, ma anche dal lato «pratico».
Ma c'è qualcosa di ancor più terribile e «non-umano»: più ancora della Scienza, le Tecniche infatti non sono e non sono mai state strumenti inerti,
governabili a piacimento dai loro inventori o direttori pro-tempore (di qui la profonda diffidenza ellenica per la techné). Più ancora della Scienza –
quadro di riferimento che lascia pur sempre all'uomo un'autonomia spirituale – la Tecnologia ha una sua logica, una logica ancor più impersonale che
non solo contrasta e distrugge i suoi nemici, cioè le logiche e i Sistemi di Valori che le si oppongono, ma entra in conflitto perfino con le ideostrutture
che l'hanno giustificata sul piano sia filosofico che emozionale, potenziandola su quello fattuale (cristianesimo, marxismo, capitalismo, democrazia).
Quanto a due brevissimi esempi, oltretutto esplicatisi in epoca ancora «tranquilla», prima cioè dello scoppio della rivoluzione concettuale baconiana,
basti pensare all'introduzione della polvere da sparo nelle contese guerresche, che comportò il declino del potere della cavalleria medioevale e il
sovvertimento delle tecniche costruttivo-architetturali. Basti pensare a come l'introduzione della semplice staffa abbia, ancor prima, reso possibile, col
maggiore e decisivo potere di offesa conferito all'uomo a cavallo, l'affermazione dell'universo feudale, innestandone le strutture socio-politiche sulle
strutture ideazionali della trifunzionalità indoeuropea.
E tale discorso vale ancor più per i media. Essi non sono semplici canali di trasmissione tra due o più ambienti; poco o nulla conta, nella genesi dei più
profondi mutamenti sociali (psico-esistenziali), la qualità delle informazioni. I media sono in realtà, al di là di ogni presunzione faustiana e di ogni
futuristica brama di dominio, «ambienti in se stessi e per se stessi». Svincolati da umana volontà, col tempo essi seguono una loro logica intrinseca,
comportando conseguenze che, indipendentemente dalla sostanza del messaggio, sono non solo quasi sempre imprevedibili ai «controllori» di turno,
ma in ogni caso eversive dell'ordine in cui sono nati.
Ben rilevano infatti Daniel Yergin e Joseph Stanislaw: «Dopo gli sconvolgimenti delle guerre mondiali, delle rivoluzioni e della depressione, assistiamo
oggi al processo di rinascita di un'economia globale. Così come nell'Ottocento il motore a vapore e il telegrafo hanno reso il mondo più piccolo,
l'odierna tecnologia sta tornando a erodere distanze e confini. Questa volta però gli effetti di tale fenomeno sono molto più globali, non escludendo
nessun paese o comunità. La tendenza in atto appare evidente sotto molti aspetti. Il numero di passeggeri di voli internaziomnali è passato da 75
milioni nel 1970 a 409 nel 1996. Tra il 1976 e il 1996 il costo di una telefonata di tre minuti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna è passato in termini
reali da circa otto dollari a trentasei centesimi, e il numero di telefonate internazionali è passato da 3,2 miliardi del 1985 a 20,2 miliardi del 1996. Oggi
il mondo vede gli stessi film e spettacoli; dai satelliti rimbalzano le stesse notizie e informazioni, creando istantaneamente un vocabolario comune per
qualsiasi evento».
Del tutto immatura e volpinamente fuorviante è quindi la dichiarazione di David Sarnoff, presidente della RCA Radio Corporation of America e nel 1926
creatore della prima rete radio americana, la NBC National Broadcasting Company (anche la CBS, seconda rete radiotelevisiva, viene fondata da
ebrei), attivo sionista, membro del direttivo della Educational Alliance, primo socio onorario del Weizmann Institute of Science, nonché alto dirigente
dello Jewish Theological Seminary: «Siamo troppo propensi a fare degli strumenti tecnologici i capri espiatori dei peccati di coloro che li maneggiano.
In se stessi i prodotti della scienza moderna non sono né buoni né cattivi: è il modo in cui vengono usati che ne determina il valore».
Tale opinione, da una parte naturalmente diffusasi tra le masse moderne, dall'altra ad arte predicata da tecnici superficiali o interessati, viene
aspramente criticata da Marshall McLuhan: «Proprio nulla nella frase di Sarnoff regge ad un esame appena attento», nonché viene definita, con
incisiva semplicità, «la voce dell'attuale sonnambulismo». O anche, con immagine altrettanto felice: i media moderni sono ormai diventati, per tutti
coloro – e sono la maggioranza – che ne hanno accettato l'influenza in modo docile e subliminale, «prigioni senza mura per gli uomini che ne fanno
uso». «Il medium è il messaggio», suona l'abusato, spesso non capito e male interpretato motto del sociologo canadese: l'impatto della forma
comunicativa, indipendentemente da ogni bontà o meno delle intenzioni e del contenuto, oltrepassa cioè sempre e comunque la sostanza del
messaggio; l'estrinsecità prevale sull'intrinsecità.
Certo i media non crescono né si sviluppano nel vuoto; varie forze sociali, politiche ed economiche favoriscono lo sviluppo di alcune tecnologie,
nonché i loro usi e configurazioni (nulla è più chiaro al proposito della storia del cinema). E tuttavia, al di là di ogni volontà, la Tecnica stessa si
svincola, nel tempo, dai suoi «direttori», imponendo dapprima profonde ristrutturazioni ad alcune articolazioni societarie, portando poi alla
ristrutturazione, coerente coi nuovi moduli, dell'intera società.
Quando poi tale ristrutturazione si muova nel senso della Weltanschauung di quei «direttori» – dei loro desideri e delle loro aspirazioni di dominio
finanziario, politico e ideologico – l'osservatore rischia di non scorgere o di sottovalutare la logica sistemica che ne sta alla base, illuminando in modo
eccessivo il ruolo dei promotori, addebitando loro la genesi dei mutamenti, rischiando di trovarsi spiazzato nell'analisi del fenomeno e di fronte alle
obiezioni dei laudatori della Modernità. D'altra parte e al contrario, supervalutando asetticamente la logica del Sistema – dando cioè indebita
importanza alla speculazione sociologica e mettendo in secondo piano la ricerca storica e ideologica – l'osservatore rischia di perdersi nell'astrattezza.
In realtà, se certo esiste una logica sistemica, se esiste un Sistema auto-sostenentesi ed ormai impersonale nella sua struttura di fondo, esistono
anche non solo influenze, azioni e retroazioni di tipo cibernetico, non solo «teste pensanti» che, se pure non più dirigenti, del Sistema sono i regolatori
e i custodi, i difensori ed i giudici. Esiste soprattutto la consapevolezza della genealogia profonda del Sistema, genealogia che, prima che tecnica e
settoriale, è storica e ideologica, quindi spirituale e religiosa.
Quanto alla televisione, i suoi veri portati, finora non avvertiti dai giubilanti spettatori e funzionali a chi delle strutture mentali della Modernità è stato il
promotore, cioè il Popolo Santo, consiste: 1. nell'appiattimento delle esperienze (più spietato di noi, scrive Daniel J. Boorstin: «Come la stampa cinque
secoli or sono iniziò a democratizzare l'istruzione, così la televisione democratizzerà l'esperienza»), 2. nell'indifferentismo, cioè nella perdita del senso
del valore della notizia, 3. nella distruzione delle differenze tra i popoli, 4. nella distruzione di tutte le vecchie strutture di luogo o, più chiaramente, di
tutte le precedenti strutture di relazione, e non solo tra gli individui od i popoli, ma tra l'uomo e il suo ambiente (Umwelt: ciò che sta immediatamente
intorno), tra l'uomo e il mondo (Welt), tra l'uomo e il Cosmo. In un'unica espressione: consiste nel condurre al compimento finale la separazione
dell'uomo dalla Natura che si è primamente fondata sull'antico, eterno odio giudaico per Questo Mondo.
A simili conclusioni giunge Joshua Meyrowitz, docente di Comunicazione all'Università del New Hampshire: «La mia teoria sostiene che questa
ristrutturazione delle occasioni e delle rappresentazioni sociali è stata, almeno in parte, all'origine delle recenti tendenze sociali, comprese la
confusione dei concetti di infanzia e maturità, la fusione delle nozioni di mascolinità e femminilità e l'abbassamento degli eroi politici al livello del
cittadino medio [...] Riunendo tanti tipi di persone nello stesso "luogo", i media elettronici hanno favorito la confusione di molti ruoli sociali un tempo
distinti. Dunque, i media elettronici ci influenzano non tanto coi loro contenuti, ma modificando la "geografia situazionale" della vita sociale».
La confusione dei ruoli, con l'abbattimento delle antiche istituzioni e la formazione di nuovi centri direttivi e di strutture più omogenee, investe le
religioni, le gerarchie, la famiglia, i sessi, le razze, le differenze nazionali, il rapporto pubblico-privato, la semantica, i concetti stessi: comporta
l'eversione di ogni precedente strutturazione umana. Nulla di strano che l'espressione «politically correct» sia nata nel Paese di Dio; non a caso quella
confusione dei ruoli detta «androginia situazionale» ha partorito proprio là termini neutri quali chairperson (persona che presiede), meno «offensivo»
di chairwoman (presidentessa) e di chairman. La banalizzazione dell'esistenza, la volgarizzazione dei vissuti, il senso d'impotenza, intercambiabilità e
inutilità personale, la mancanza di ruoli definiti – tutto ciò ne consegue. I nuovi media aboliscono i concetti di sfere maschili o femminili, di capanne o
edifici particolari, di luoghi sacri o profani. Il mutamento del rapporto tra luogo fisico e luogo sociale investe ogni ruolo e persona. Per la maggioranza
il mondo diviene senza senso perché, per la prima volta nella storia, il mondo è privo di «luogo» e di «centro».
Ma la perdita di luogo e la mancanza di centro, la scomparsa delle articolazioni sociali all'interno di società intercambiabili e sostanzialmente identiche
(fenomeno che investe in misura infinitamente minore i regolatori/mediatori/manipolatori di quelle società), la mancanza di individuazione personale e
di gerarchia sociale fanno precipitare la massima parte degli esseri umani – i più fragili, insicuri e bisognosi di solidarietà da parte dei connazionali –
nell'anomia, nel solipsismo, nella disperazione. Porsi «oltre il senso del luogo» comporta, data la natura umana com'è stata plasmata in milioni di anni,
il porsi oltre ogni senso, perdere ogni senso, ogni coordinata non solo spaziale ma temporale, societaria, familiare, psichica e mentale.
Noi non concordiamo col retorico, criminale quesito/incitamento di Francesco Remotti: «Ma è proprio poi necessario avere un'identità nel nostro
mondo?». Noi non siamo – non vogliamo essere – quei transhumants ebraici, quei vagabonds de l'univers staffilati da Henri Labroue, e neppure quei
tecno-allucinati «nuovi nomadi» cantati da Arianna Dagnino. Noi non siamo – non vogliamo essere – quegli «irrevocabili figli di Babele» cantati dal
sociologo Guy Scarpetta in Eloge du cosmopolitisme. Non vogliamo esserlo perché sappiamo – dalla personale esperienza e dall'insegnamento dei
padri che or è mezzo secolo caddero, armi in pugno, per contrastare la decadenza dell'uomo – che l'esserlo comporta il disfacimento delle qualità più
vere e sofferte dell'essere umano. Solo un puro nichilista può apprezzare la «fortuna dell'esilio», solo un puro nichilista può venir confortato da una
condizione psico-sociale in cui si abbia l'agio, come predica Scarpetta, di «fare scoppiare le identità e l'appartenenza», da una condizione il cui punto
di riferimento primario sono gli USA, paese modello, «rete attraverso le maglie della quale si può [sempre] sfuggire».
***
Un'indagine del Congresso riferisce che l'americano medio degli ultimi anni Ottanta consuma un quarto dell'esistenza da sveglio guardando la
televisione e che, per i figli, la sola attività che prende più tempo della TV è il sonno. Altri studi rivelano che le famiglie con redditi inferiori ai diecimila
dollari guardano la TV in media 47 ore e 3 minuti settimanali, mentre quelle con redditi superiori a trentamila restano davanti al teleschermo 47 ore e
50 minuti. Le abitudini televisive sono quindi sostanzialmente uniformi per ceto sociale, mentre la differenza concerne i gruppi di età. Gli adolescenti
sono quelli che guardano meno la TV, con una media di «sole» 22 ore e 30 minuti (oltre tre ore al giorno); gli individui oltre i 55 anni toccano invece
le 35 ore e 6 minuti (cinque ore al giorno). Il bambino della più recente TV generation guarda, fra i tre e i cinque anni, la TV per 54 ore (quasi otto ore
quotidiane). Prima dell'inizio del ciclo scolare our boy assorbe quindi 5000-5500 ore di TV, per un quinto pubblicitarie; prima di terminare le medie ha
riempito la vita con oltre 20.000 ore di Piccolo Schermo.
Anche in Italia il consumo di televisione è vertiginosamente aumentato: gli «adulti» (sopra gli undici anni) passano davanti al video quasi quattro ore
al giorno; i ragazzi sotto gli undici, qualcosa di più. In dettaglio, quanto alle ore di esposizione ripartite nelle quattro classi 0-2, 3-4, 5-6 e oltre 6, le
percentuali concernenti i ragazzi (6-13 anni), gli adolescenti (14-19 anni) e gli adulti sono: 26, 52, 18 e 4; 32, 52, 14 e 3; 42, 45, 11 e 2. Il che
significa che il Piccolo Schermo intrattiene soprattutto individui delle età più basse. Dopo il sonno e il lavoro, il guardare la televisione è la terza
grande attività dell'uomo – soprattutto del minore – moderno.
Oltre a due effetti di rilevanza individuale: 1â la caduta verticale della capacità di fissare l'attenzione per più di un certo tempo (se a un buon
insegnante occorre anche un'ora per sviluppare un dato argomento, gli spazi televisivi obbligati di novanta secondi troncano quello stesso argomento
in modo irreparabile) e 2â la perdita di interesse per la lettura – aspetti che coinvolgono per mimetismo inconscio (vale a dire per l'inconscia
occupazione degli spazi mentali ad opera non solo delle immagini ma dell'intera atmosfera televisiva che foggia l'Umwelt dell'uomo moderno) anche
persone che fruiscono della TV per tempi ben sotto la media – l'esposizione allo «sbarramento» delle immagini televisive hanno due rilevanti effetti
sociali:
3â il conformismo applicato e 4â l'ignoranza generalizzata. Se del primo è Marie Winn ad affermare che il Piccolo Schermo influenza necessariamente
le abitudini di gioco dei ragazzi, per cui un giovane che non conosce i suoi programmi ha difficoltà a farsi degli amici o ad entrare a far parte della
banda del quartiere e può diventare, papale papale, «lo scemo del condominio», della seconda si fa paladino il tecnocrate Nicholas Negroponte
(fondatore e direttore del Media Lab del MIT): «La maggior parte dei bambini americani non fa differenza tra il Baltico e i Balcani, non sa chi erano i
visigoti e ignora dove abitava Luigi XIV. E con questo? Perché sarebbe così importante? Sapevate voi che Reno è a ovest di Los Angeles?».
Un quinto effetto è 5â la distorsione del tempo e dello spazio indotta nei cervelli. Essa rende vaghe e irreali le sensazioni e, al contempo, rivendica a
sé un maggiore grado di realtà. Se da un lato favorisce l'effetto gregario, indebolisce dall'altro le relazioni con chi ci sta intorno, poiché riduce, e
talvolta elimina, le normali occasioni per comunicare. Come quindi stupirci che siano proprio gli americani ad avere il senso più ottuso dell'irrealtà, nei
confronti dell'essere umano e del mondo?
Infatti, se la televisione è una «ladra di tempo», inchiodando per ore i ragazzi ed escludendoli da attività che sul lungo periodo sono indubbiamente
assai più importanti per il loro sviluppo, altrettanto gravi sono quindi altre distorsioni. Come scrive John Condry: «Per lo più, l'attenzione del bambino
non si fissa, perché il materiale è facilmente comprensibile. I bambini capiscono qualcosa del contenuto dei singoli programmi, ma non alla stessa
maniera degli adulti. Ad esempio, non capiscono le sequenze lunghe e hanno una comprensione ridotta delle motivazioni e delle intenzioni dei singoli
personaggi. Non sono capaci di trarre deduzioni da un'azione cui non assistono direttamente, cioè da un'azione sottintesa ma non esplicitamente
mostrata [...] La televisione non li informa sul mondo, anzi spesso li disinforma. La televisione non è concepita per fornire ai bambini informazioni
circa il mondo reale. Quando viene usata per questo scopo, fa un pessimo lavoro. La TV moderna, specie nel modo in cui viene attualmente utilizzata
negli Stati Uniti, ha un unico obiettivo: vendere merci. La televisione è fondamentalmente uno strumento commerciale. I suoi valori sono i valori del
mercato; la sua struttura e i suoi contenuti rispecchiano tale obiettivo [...] La cosa davvero assurda è che la TV non mostra mai nessuno intento a
lavorare per guadagnare le ricchezze che ostenta. Non esiste alcun legame fra il lavoro e la vita. I bambini, che preferiscono la soluzione più rapida ai
problemi, cercano la bella vita così come la definisce la televisione, vale a dire possedere tante cose, ma non sanno come procurarsele. E come
potrebbe essere diversamente? Mostrar gente che lavora, per la televisione è una bestemmia, uno spreco di tempo! Rende la TV noiosa, e ciò
sarebbe inammissibile. In televisione ogni momento dev'essere emozionante, ogni avvenimento deve attrarre l'attenzione».
Allo scopo tutto è buono, a partire dalla presentazione ossessiva della violenza. Ma se l'onnipervadenza della violenza le conferisce un «valore
morale», altri aspetti vengono martellati a foggiare le coscienze. I valori strumentali dell'essere «belli», «giovanili», «sexy», «capaci» e «furbi» (di
gran lunga meno citati/vantati sono l'«essere coraggiosi», «coerenti» e il «saper perdonare») servono a conseguire i due massimi valori terminali
della Modernità: la «felicità» e il «riconoscimento da parte della società» (anche l'«eguaglianza» e l'«amicizia» vengono posti, sia nella fiction che negli
spot pubblicitari, in netto secondo piano).
La moralità di un'azione viene inoltre sempre più a dipendere da chi la compie, la correttezza o meno di un comportamento viene riferita non a quel
comportamento in sé, ma al personaggio che lo agisce: «A quanto pare» – conclude Condry – «gli spettatori di un programma hanno a disposizione
diverse strutture morali, a seconda della loro familiarità con i personaggi. I giudizi morali di persone che non hanno familiarità con essi, pare,
vengono dati in base ad una scala di moralità ideale, senza tener conto della simpatia dei personaggi stessi. Ben diversi, invece, i giudizi morali di
persone che hanno familiarità con i personaggi, che li "conoscono" o nutrono sentimenti positivi o negativi nei loro riguardi. Ciò che non è ammissibile
per le persone che ci stanno antipatiche è perfettamente accettabile da parte di coloro che amiamo». L'oggettiva 6â induzione di una doppia morale
(tanto cara, del resto, alle ideocrazie comunista e giudaica) è allora il sesto degli aspetti devastanti la psiche dell'uomo.
Per quanto concerne infine la mondializzazione (la «democratizzazione» cantata da Boorstin!) delle «esperienze», gravissimi appaiono 7â la
distruzione delle culture e l'appiattimento delle civiltà su di un unico modello psico-sociale, quello del demoliberalismo/giudaismo. Riguardo ai bambini
delle ultime generazioni, ben scrive Marina D'Amato: «Si assiste per la prima volta nella storia dell'umanità alla diffusione di miti uguali per bambini di
paesi e culture diversi. Gli stessi cartoni e gli stessi telefilm sono diffusi infatti in molti paesi del mondo contemporaneamente. Non esistono al
momento attuale ricerche che indaghino comparativamente su questo fenomeno, e quindi non è possibile intervenire con opinioni in merito che non
siano puramente ipotetiche. Ma si può ipotizzare che con le generazioni degli anni Ottanta e Novanta, che a livello planetario stanno crescendo con lo
stesso scenario fantastico, psicologi e antropologi dovranno fare i conti considerando questa variabile».
Per secoli le fiabe sono state, con le leggende e le storie, parti essenziali di ogni realtà culturale, della quale si proponevano come esemplificatrici di
miti, valori, simboli e comportamenti. Sempre la socializzazione dei giovani è passata attraverso il racconto degli eventi accaduti «prima», capaci di
fornire sia paradigmi e strumenti d'azione per l'esperienza quotidiana, sia risposte per i fini ultimi della vita. Il mito, nelle sue diverse accezioni, ha
sempre avuto una funzione di guida e riferimento, passando, da elemento religioso e cultuale, a informare da una parte poesia ed arte, dall'altra
storia e morale. Anche la fiaba, trasposizione popolare di mitologemi e modalità di trasmissione culturale tra le più efficaci, è stata per millenni, in
forme diverse secondo il diverso psichismo dei popoli, depositaria della cultura, che ritrasmetteva ad ogni sua riproposizione. Per millenni essa ha
fatto sì che i processi interiori venissero esteriorizzati e resi comprensibili attraverso i personaggi e gli eventi della vicenda. Oggi, con l'avvento della
televisione multirete e la contestuale diffusione mondiale del mezzo, si assiste, continua la studiosa, «ad un fenomeno nuovo, perché gli stessi episodi
di commedie seriali, di telefilm o di cartoni intrattengono bambini brasiliani, francesi, statunitensi, giapponesi e persino cinesi... È lecito pensare che
per la prima volta nella storia dell'uomo si possa andare verso una sorta di "omogeneizzazione culturale"? Siamo entrati da questa via nel villaggio
globale ipotizzato da McLuhan? L'ideologia dei giovani del Novanta avrà a che fare con questo processo di socializzazione che la televisione sta
operando oggi?».
«È infatti evidente» – commenta Alberto Ostidich – «che, con l'azione incessante e coordinata di immagini e suoni, l'agìto [e non lo spettatore quale
attore e sceglitore del programma] venga a subire ciò che gli vien presentato come informazione, suggerimento, esempio, o altro; e la sua
disponibilità ad accettarlo come valido ed oggettivo, ossia a coglierne acriticamente il messaggio, cresce nella misura in cui diminuiscono le sue difese
inibitorie – immerso com'egli si trova in una realtà dove interagiscono toni suadenti ed effetti speciali, brio e relax, zapping e pensiero episodico.
Immagini e suoni, inoltre, si avvalgono di forme non mediate per descrivere l'insieme, recepito come "vero", e quel loro succedersi, rapido e
incalzante, imprime nello spettatore sensazioni tali da ridurre molto, assai spesso, o addirittura annullare ogni capacità analitica da parte sua. Se poi
consideriamo che il destinatario del "messaggio" altri non è se non un individuo racchiuso ed isolato in una abitazione arredata in serie, e del tutto
simile a quella di milioni di altri individui dagli stessi suoi orari di lavoro, pausa-pranzo, trasporto, etc.; che si tratta di un individuo con evasioni
programmate, divertimenti e ferie organizzate; alle prese con gli identici, soliti "problemi quotidiani" di tanti e tanti altri, alle prese, soprattutto, con la
mancanza di una propria vita interiore; ebbene, risulterà facile che quest'essere massificato e spotizzato vada a confluire, a seconda dei casi o delle
situazioni, nella fascia degli sportivi, delle casalinghe pulitodipendenti, dei giovani, degli uomini che non debbono chiedere mai [personaggi-tipo di una
campagna pubblicitaria], etc.; fasce verso cui sono distintamente indirizzate le varie forme di "acquisto del consumatore"... nel senso che è
quest'ultimo ad essere di fatto acquistato».
Come per il cinema, uno degli aspetti più rilevanti dell'Operazione Piccolo Schermo – la diffusione cioè dei paradigmi mondialisti praticata dai Regimi
di Occupazione Democratica imposti dopo il conflitto mondiale – si lega strettamente all'antirazzismo del Sistema, all'esaltazione della società
multiculturale come massima ed anzi unica espressione possibile dell'essenza umana, alla raffigurazione del crogiolo multirazziale come Sommo
Bene. Nulla serve di più, allo scopo, delle fittizie «famiglie» multicolori di serial tipo Diff'rent Strokes, «Arnold», o Webster (id.), o Small Wonder,
«Super Vicky». Nel primo, prototipo di tutti gli altri, il protagonista, un ragazzino nero particolarmente odioso interpretato dal venticinquenne Gary
Coleman cui un morbo renale ha «donato» un eterno aspetto infantile, viene adottato da una coppia di bianchi dell'alta borghesia newyorkese. Con lui,
in una casa elegante e dotata di domestica bianca, vive un «fratello» più grande, anch'egli negro adottato. I problemi affrontati in ogni episodio
riguardano i contrasti del Nostro con gli altri e con il mondo esterno, che la saggezza e la bontà del padre riescono di solito a ricomporre. La
«saggezza» di Arnold, le sue analisi delle situazioni sono talmente proverbiali da costituire uno stereotipo; le sue espressioni di rammarico, di gioia o
di meraviglia vengono talmente esaltate dai tratti del viso da sembrare una maschera (gli spettatori devono conoscere il mondo non dall'interazione
con esso, non dagli specifici contesti storico-sociali o dal particolare comportamento dei diversi gruppi razziali, ma unicamente dalle smorfie dei
protagonisti, smorfie uguali per il bianco come per il negro, per il giallo come per il meticcio). Il viso del protagonista mette in risalto ancor più la
diversità razziale dei «genitori» e contribuisce a creare nella retina (e nel cervello) dello spettatore l'immagine dell'integrazione totale.
L'elemento che caratterizza i tre serial, secondo anche la D'Amato, «è quello dell'adozione di un "essere" diverso. Il fatto che famiglie bianche di
media e alta borghesia adottino un bambino nero è un messaggio esplicito di integrazione razziale e di disponibilità a ridurre fino ad annullare la
distanza sociale. Il problema del pregiudizio etnico viene così affrontato e risolto nel migliore [e più falso] dei modi, la commedia annienta la distanza
sociale, paradossalmente esaltando le diversità. Infatti, in tutti i serial esaminati, i genitori hanno un aspetto che denuncia la loro origine WASP,
detentori di buone posizioni sociali [...] di attività lavorative gratificanti, di mogli emancipate, gradevoli, intraprendenti».
Nella massima parte di tali spettacoli la quotidianità prevale sul mondo dell'avventura, caratterizzandosi per la perdita dell'eccezionale e il predominio
dell'intimismo sentimentale: il minimalismo la fa da sovrano. La quotidianità offerta non è mai drammatica e si basa sulla contrapposizione
dell'elemento interno con quello esterno, perturbatore ed imprevedibile, con lo scioglimento della vicenda in un'apoteosi di riassicurazione, finale
ampiamente prevedibile fin dall'inizio. L'amicizia, l'affetto, l'amore sono gli elementi più frequenti; il conflitto sostituisce la guerra che, quando
compare, è in relazione a cartoni tipo Robotech e Transformers (anche tali guerre sono sempre e solo azioni di difesa nei confronti di attacchi esterni,
che minacciano la sempre pacifica esistenza dei «nostri»). La famiglia, cioè il contesto più scontato del piccolo teleutente, non viene comunque
pressoché mai rappresentata nella sua dimensione «normale»: non esiste la famiglia biologica, composta da padre, madre e figli (e, perché no, anche
nonni). La famiglia televisiva è invece un'unità atipica, fatta di volta in volta di padre e di figli, di madre e di bambini, di genitori separati o di vedovi,
talvolta risposati fra loro, di nonni e di nipoti (l'unico esempio di famiglia «normale», nota caustica la D'Amato, è la mostruosa Famiglia Addams).
Nuovi schemi vengono instillati nel software della mente e nell'hardware delle reti neuronali, categorie di valori non solo differenti da quelle del
plurimillenario vivere dei popoli, ma proprio nuove modalità di pensiero. L'incessante flusso di immagini e suoni relega la parola tra i ferrivecchi,
poiché tutto può essere percepito anche senza l'audio (si pensi che, se nel Medioevo una persona-tipo entrava in contatto con una quarantina di
immagini «finte» – affreschi, dipinti ed icone – nel corso di tutta una vita, oggi la stessa viene assalita da qualcosa come 400.000 immagini al giorno).
All'aumento di importanza della comunicazione non-verbale segue quindi la resa della parola, poiché il significato di tutte le azioni può essere dedotto
senza difficoltà anche dalle sole espressioni e dai gesti: «La fisiognomica ha un ruolo fondamentale, i volti sono degli universali simbolici. La collera,
l'ira, la dolcezza, la bontà, la cattiveria, l'invidia sono atteggiamenti irrevocabilmente definiti dai segni che definiscono, pietrificandoli, tutti i
personaggi. In questo contesto la vista ridiventa infinitamente più importante dell'udito, l'espressione diviene assolutamente più significativa delle
parole, l'ambiente quasi inutile».
In questo contesto che privilegia l'azione e la suggestione, non ha più spazio la riflessione, nessuna cittadinanza l'argomentazione, nessuna possibilità
la ragione.
Come hanno documentato Marie Winn e Allan Bloom, la TV ha effetti oltremodo perniciosi sia sull'educazione che sull'istruzione dei ragazzi. Il costante
calo di voti degli studenti USA viene messo da molti in chiara correlazione con l'aumento del numero dei possessori di televisione dal 1950. È inoltre
nell'autunno 1974 che un sondaggio indica che per la prima volta la maggioranza degli americani si abbevera, per conoscere il mondo, più alla
televisione che ai quotidiani. La storia non offre altri esempi di Stati all'apogeo della potenza il cui livello culturale medio sia declinato così in fretta e
con tanta profondità. Quattro soli dati tra i mille che potremmo citare: 42 studenti su cento dell'Università di Miami non hanno la minima idea di dove
sia Londra; quasi 50, di fronte a una carta muta degli USA, non sanno trovare Chicago; uno su due non ha mai sentito nominare Moby Dick, uno dei
romanzi fondanti della letteratura americana; due cittadini su tre non sanno indicare, nell'ottobre 1993, in quale continente si trovi la Somalia, terreno
di caccia ai riottosi seguaci del generale Aidid per gli elicotteri clintoniani (da giugno ad ottobre, per inciso, a fronte della morte di un'ottantina di
militari onusici vengono uccisi 6-8000 somali; nella sola maxi-sparatoria del 3 ottobre gli americani, presi dal panico, mitragliano indiscriminatamente
la folla, uccidendo – a fronte delle duecento vittime ufficialmente ammesse – oltre mille persone, tra cui centinaia di donne e bambini).
Netta è la contrapposizione tra l'approccio televisivo al sapere e quello offerto dalla scrittura, tra l'uomo-non-verbale della televisione (homo videns, lo
dice Giovanni Sartori, sottolineando come il Piccolo Schermo, producendo immagini passive, cancelli i concetti e atrofizzi «la nostra capacità astraente
e con essa tutta la nostra capacità di capire») e l'uomo-tipografico del libro (che da parte nostra potremmo, con un pizzico di parzialità in suo favore,
dire tout court homo sapiens); netta è la contrapposizione tra il mondo dell'intelligenza simultanea, che opera «sui dati simultanei e per così dire
sinottici (come gli stimoli visivi, che si presentano in gran numero nello stesso momento, e tra i quali è difficile stabilire un ordine) e quindi ignora il
tempo» e richiede un basso grado di governo (Raffaele Simone) e quello dell'intelligenza sequenziale, che opera sulla successione degli stimoli e li
dispone in linea, astraendoli, analizzandoli e articolandoli gerarchicamente.
Ben si esprime Neil Postman: «Nella scuola due grandi tecnologie si scontrano, senza possibilità di compromesso, per conseguire il controllo dei
cervelli degli studenti. Da una parte sta il mondo della parola stampata, che punta sulla logica, i rapporti di successione, la storia, l'esposizione,
l'obiettività, il distacco, la disciplina. Dall'altra, il mondo della televisione, imperniato sulla fantasia, il racconto, la contemporaneità, la simultaneità,
l'intimità, la gratifica immediata e la rapida risposta emotiva. A sei anni i bambini sono già profondamente condizionati dalla televisione. A scuola
fanno conoscenza col mondo della parola stampata e si instaura una specie di guerra psichica, in cui i feriti sono molti: i bambini che non possono o
non vogliono imparare a leggere, i bambini che non riescono ad organizzare il pensiero nemmeno nella struttura logica di una semplice frase, i
bambini che non sono capaci di seguire una lezione o una spiegazione verbale per più di pochi minuti. Sono un disastro, ma non perché siano stupidi.
Sono un disastro perché è in corso una guerra dei media e loro sono dalla parte sbagliata, almeno per il momento».
La televisione, continua il neurofisiologo Herbert Krugman in Memory without recall, exposure without perception, "Memoria senza ricordo, esposizione
senza percezione", «insegna al bambino piccolo a "imparare a imparare" in un modo molto particolare, in qualche misura prima che sia in grado di
parlare e, in molte famiglie di bassa condizione socio-economica o in società semi-analfabete, prima ancora che abbia mai visto un libro. Così il
bambino impara a imparare con occhiate veloci. In seguito, se il bambino vive in una società in cui si richiede la capacità di leggere, egli confronta il
nuovo strumento per "imparare a imparare" con le abitudini acquisite in precedenza dalla TV. Si sforza di comprendere i caratteri con occhiate veloci.
Non funziona. Imparare a leggere è difficile, faticoso, e arriva come un fulmine a ciel sereno, in molti casi intollerabile».
I bambini che guardano la televisione molte ore al giorno – aggiunge l'olandese Cees Koolstra dell'Università di Leida, sottolineando di avere
riscontrato in loro più difficoltà dei loro coetanei nella comprensione di testi scritti e nell'organizzazione del linguaggio – pensano per schermate, come
facessero zapping col pensiero, percependo la realtà non come un tutto organico, ma come un insieme di immagini accostate a caso, non come una
serie di eventi connessi da cause ed effetti. In più, tali bambini sono meno creativi di chi dedica il tempo libero alla lettura, sono più impoveriti nel
gioco simbolico, fondamentale per lo sviluppo cognitivo. Diversi studi hanno ormai dimostrato che i ritmi rapidi e spezzati, le dissolvenze, gli zoom e la
musica ad alto volume abbassano la soglia di attenzione. L'abitudine alla comunicazione per immagini, e quindi a tempi di attenzione brevissimi, rende
gli scolari insofferenti ai ritmi esplicativi, piuttosto lenti, di una lezione dalla cattedra; i programmi densi di stimoli eccitativi ne aumentano i
comportamenti impulsivi, le emozioni forti li allontanano da una vera comprensione degli eventi, spingendoli a rispondere ai problemi senza pensare
più che tanto.
Significativamente, all'enorme aumento della varietà degli stimoli uditivi che veicolano messaggi e della tipologia delle immagini visive corrisponde un
graduale e sempre più rapido arrestarsi, in tutto il mondo, del decremento dell'analfabetismo e all'aumento dell'analfabetismo di ritorno: «Stiamo
tornando a una dominanza dell'orecchio e della visione non-alfabetica, e le giovani generazioni sono un'avanguardia di questa migrazione a ritroso. Il
passaggio dalla dominanza dell'orecchio a quella dell'occhio, conseguente alla nascita della scrittura, era apparso un progresso definitivo, e ora invece
si mostra come una delle fasi di un pendolo», una fase in cui l'uomo ha forse «rinunciato a una conquista evolutiva che la scrittura aveva stimolato,
per fare un passo indietro. È quasi come se si lasciasse da parte la visione alfabetica – un medium pieno di trensioni e di "fatica" – per tornare a
media più naturali, più primitivi, di minor grado di governo» (Raffaele Simone).
Sempre a prescindere dall'intrinsecità delle cose trasmesse, i media che veicolano le notizie vengono generalmente percepiti dall'uomo come supporti
neutrali di accumulo e trasmissione di «dati» obiettivi; non viene cioè considerata nel giusto peso la loro natura di elaboratori di un'informazione che
viene sempre e comunque pre-disposta dal cameraman e dal regista. Il Piccolo Schermo agisce sull'inconscio grazie al suo linguaggio particolare,
poiché il funzionamento degli strumenti di ripresa è molto diverso da quello dell'occhio umano: la telecamera non riprende mai quello che lo
spettatore vedrebbe se fosse davvero sul posto. L'occhio opera sui campi lunghi, offre continuità di azione e panoramiche complete, eventualmente
scendendo sui dettagli in un secondo tempo. La telecamera invece riprende, indugiandovi innaturalmente, soprattutto i particolari, poiché i dettagli
attirano maggiormente l'attenzione dello spettatore. Non solo: essa può essere posta in modo da deformare o persino celare la realtà: due
inquadrature diverse di una piazza riempita da scioperanti, nota Focus, possono far sembrare la manifestazione un successo o un fallimento.
L'impressione di vedere gli avvenimenti coi propri occhi può poi essere accresciuta in diversi modi. Nei collegamenti in diretta i rumori di fondo, anche
se forti, vengono solitamente conservati, anche se le diverse piste del sonoro permetterebbero di eliminarli. Inoltre, il conduttore può interrogare
dallo studio l'inviato sul posto, inducendo lo spettatore a far sue le domande a questo rivolte. Tale effetto è ancora più evidente se il presentatore è
posto davanti a uno schermo dal quale le immagini arrivano in diretta: l'identificazione di chi guarda da casa è completa, la censura invisibile è
completa, essendo fatta implicita, interiorizzata negli occhi, ricreata e persino voluta dal cervello dello spettatore (altro, quindi, che «finestra sul
mondo»!).
L'idea del medium «neutrale» deriva in effetti dall'alfabetizzazione, che ci fa considerare la stampa come il medium informativo tipico, ove è il lettore
ad agire da elaboratore, e cioè da soggetto attivo. Per intendere una sequenza di parole, cioè una successione di neri segni grafici su una superficie,
l'uomo deve infatti trasformarli attivamente in immagini mentali; la lettura richiede al lettore di ricreare da sé il mondo del testo nella sua mente,
ricostruendo da sé e dentro di sé il contenuto dell'informazione. Quando leggiamo, scrive Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan, dobbiamo creare
«un senso interiore»: «Oltre ad essere il materiale di cui è fatta la nostra immaginazione, la lettura è anche il principale strumento grazie a cui
possiamo mantenere il controllo di un processo immaginativo destinato a nutrirsi di libri nel corso della vita. Durante la lettura di una sequenza di
lettere prefissate la mente è libera di prendere autonome decisioni. È anzi addirittura plausibile che l'idea stessa di Io individuale e di senso d'identità
derivi in primo luogo dalla lettura».
Solo chi può sviluppare un proprio punto di vista è, invero, a tutti gli effetti un agente libero: «Con la TV, però, il punto di vista è al di fuori, e vi
guarda dentro attraverso un fascio di elettroni [...] Quando il mondo occidentale era regolato solo dai libri, c'erano un "dentro" e un "fuori" per le
nostre esperienze psicologiche. Il dominio esterno era pubblico, collettivo, stabile, affidabile ed oggettivo, era istituzionalizzato dalla legge,
dall'istruzione e dalla scienza. Il dominio interno della mente, per ognuno di noi, rimaneva privato, personale e soggettivo [...] La TV fornisce [invece]
un tipo di realtà "mentale" al di fuori del corpo e della mente. Mentre guardate la TV, se la vostra mente non si mette a vagare, se non avete in mano
il telecomando, le immagini dello schermo si sostituiscono alle vostre. Partecipate all'immaginario collettivo, al pensiero collettivo che essa vi offre. In
televisione, le immagini non provengono da esperienza personale, ma dal lavoro di una équipe di produzione professionale, spesso fortemente
influenzata dalle statistiche e dalle indagini di mercato».
***
Le confuse particelle d'informazione lanciateci dal Piccolo Schermo e concernenti il nostro mondo problematico, complesso ed estremamente vario,
non rappresentano alcunché di vicino al reale. Non è con gli spezzoni sincopati d'immagini accompagnati da commenti artefatti, che possiamo
avvicinarci alla realtà. Quanti dei telespettatori dell'esecuzione, il 1â febbraio 1968, del «povero giovane» Van Lem, ufficiale dei Vietcong celato dietro
il nome di battaglia di Bay Lop, da parte del generale Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia di Saigon, conoscono i retroscena del fatto? L'esecuzione,
ripresa dal fotografo Eddie Adams dell'Associated Press e dal cameraman sudvietnamita Vo Suu della NBC, viene trasmessa il giorno seguente col
titolo Rough Justice on a Saigon Street, "Giustizia sommaria in una via di Saigon", ed entra nei libri di storia. Enorme è l'impressione sul pubblico,
nonostante i ritocchi compiuti onde evitare agli spettatori il fiotto di sangue che sprizza dalla testa del condannato. Quanti condividono i termini, usati
da Stanley Karnow per Loan, di «spietato ufficiale», «spietata repressione» e «ben poca magnanimità», e della riduttiva qualifica di «uomo sospetto di
appartenere al Vietcong» per il terrorista? Molti, certo. Quasi tutti, forse. Ma quanti sanno che, poco prima, il «povero giovane» cui salta la testa sotto
l'impatto della pallottola aveva brutalmente assassinato diverse persone, tra cui un poliziotto, sua moglie e i tre bambini, ai quali non era stata
concessa l'eguale fortuna di avere a disposizione una squadra di cameramen, cadendo per questo in un eterno oblio? (rintracciata trent'anni dopo dal
settimanale People, ben confessa ad Adams la propria gratitudine Nguyen Thi Lop, vedova di Van Lem: «Senza la sua foto mio marito sarebbe
scomparso nel nulla»).
Ciò che le immagini fanno realmente, è invero, con le parole di Jeffrey Mander, «rendere il mondo tanto confuso, grossolano e spento quanto lo
stesso mezzo televisivo». Al posto del silenzio, della completezza dell'informazione, della meditazione permessa dal libro e dalla ricerca, spesso non
facile, di una esaustiva documentazione, ci sono nella televisione frastuono, frammentazione, suggestione e tecniche di persuasione, esplicita o più o
meno occulta, facenti leva sulle caratteristiche sensoriali e mentali più basse dell'essere umano. Con la sua sola presenza, e a maggior ragione col
vibrare delle onde elettromagnetiche, la televisione minaccia la sacrosanta autonomia che l'essere umano ha faticosamente acquisito grazie al
leggere-scrivere.
Sempre più arduo, quando non impossibile per chi non abbia la mente – e il cervello – pre-strutturati, si fa il pensiero meditato e lineare, logico e
consequenziale. Come rileva lo psichiatra Vittorino Andreoli, la televisione, in particolar modo quella commerciale, porta a smarrire la parola,
disorganizza e de-struttura il pensiero (soprattutto nei giovani), massacra non solo e non tanto i programmi trasmessi ai suoi fini, quanto la più
profonda capacità di coerenza dell'essere umano, la sostituisce con l'evocazione (passiva) di «punti» meramente suggestivi – spot – e schegge
telefilmiche. «Ogni storia» – scrive Andreoli – «è frammentata dal produttore per inserirvi spot, la vera motivazione dell'impresa televisiva, e dal
singolo per la curiosità di verificare gli altri canali [...] Le immagini sono più efficaci del linguaggio verbale, sia perché sono immediate, sia perché
suscitano emozioni forti. Una foto è generalmente più espressiva di una parola e ancor più di un suono e di un rumore. Nello zapping si uniscono i due
codici di comunicazione e l'insieme ricorda un caleidoscopio parlante, con variazioni di colore, di toni e di vocaboli urlati o sussurrati [...] Se
confrontato con il sistema della Scolastica e dunque con il procedere per gradi e per regole fisse (il sillogismo, la metafora, la sineddoche), lo zapping
appare follia, schizofrenia appunto. Un disturbo che si caratterizza per la dissociazione logico-verbale e per la mancanza di qualsiasi coerenza
razionale [...] Lo zapping ha tre possibilità: ordinarsi in categorie della mente preformate (innate) o di formazione storica, o riflettersi senza elaborare
nulla. La mente in quest'ultimo caso è passiva e si azzera non appena lo stimolo si spegne. La constatazione è che il giovane d'oggi non funziona per
sistemi: non rispetta le sequenze né della logica razionale né di altre logiche. Come se tutto si accumulasse senza ordine. Rimane naturalmente la
facoltà di pronunciare parole, suoni, di usare espressioni mimiche: insomma di comunicare per zapping. I giovani d'oggi sono abilissimi nell'evocare,
ma incapaci di costruire periodi. Come se le strutture della mente si fossero fermate e, appunto, dissociate».
E all'italiano si affianca De Kerckhove (nel saggio dal significativo titolo Il corpo tecnologico): «Quando si legge un romanzo, la parola scritta è
interiorizzata e questa interiorizzazione è anche la condizione di appartenenza al Sé e di organizzazione della coscienza personale. La coscienza
individuale non esiste senza questa appropriazione dell'immaginario e la riappropriazione dell'immaginario dipende dallo sviluppo della storia della
letteratura, che è fondamentale per l'educazione dell'immaginario privato degli individui: leggere romanzi, poesie, è una forma di riappropriazione di
sé stessi. Ma quando appaiono la fotografia, il cinema e soprattutto la televisione, tutto cambia [...] È con la televisione che si completa la rivoluzione
dell'esteriorizzazione totale del principio d'immaginazione, portato all'esterno della mente, su di uno schermo». «Tra tutti i sistemi di scrittura» –
continua il canadese in La civilizzazione video-cristiana – «l'alfabeto fonetico è quello che favorisce maggiormente la messa in circolazione dei concetti.
Questo implica che le attività cerebrali incoraggiate dalla scrittura e dalla lettura alfa-fonetiche ci allontanino doppiamente dall'esperienza sensoriale
immediata, innanzitutto con la rappresentazione e poi con la concettualizzazione a cui questa rappresentazione rinvia».
Analizzando il contrasto o, meglio, la radicale alternativa tra parola ed immagine, uno studio inglese compiuto su un campione di quarantamila
persone, pubblicato nell'autunno 1994 dalla rivista scientifica Nature rileva lo strapotere del medium televisivo nei confronti, ad esempio, della
radiofonia (e tanto più nei confronti della parola scritta). Conviene maggiormente – chiedono gli autori – ad un uomo politico che vuol dare di sé
un'immagine suadente, servirsi più della radio o del Piccolo Schermo? L'ovvia risposta – concorderà il lettore – è la seconda: in televisione, a meno di
evenienze del tutto singolari, legate soprattutto a chi lancia il messaggio, le bugie passano più inosservate, sicché lo spettatore si lascia convincere più
facilmente. E la differenza tra i media non dipende dal tipo di pubblico che segue i programmi, perché, nel caso della radio, una stessa persona rileva
più facilmente se chi parla afferma il falso o non è convincente. A governare l'imbonimento televisivo è infatti il meccanismo dello sfruttamento
dell'attenzione selettiva: il concentrarsi dello spettatore su stimoli particolari, accompagnato dallo «spegnimento», più o meno radicale, degli altri. Sul
Piccolo Schermo passano così in netto secondo piano i segnali verbali (le parole, il loro numero, la lunghezza delle frasi), travolti o perfino sostituiti da
quelli vocali (il modo con cui le parole sono pronunciate, l'intensità della voce, le pause, le esitazioni) e da quelli visivi emessi durante la
comunicazione (presentazione globale, sguardo, movimento del corpo, espressione del viso).
Inoltre, rileva Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dell'Età Evolutiva, a differenza che per la vita reale, ove quando guardiamo un gruppo di
persone o un paesaggio percepiamo soltanto una parte del quadro visivo con la fovea – cioè con quel punto della retina in cui la visione raggiunge la
maggiore acutezza – percependo il resto con la meno nitida visione periferica, quando guardiamo il teleschermo «poichè esso è di piccole dimensioni,
noi percepiamo l'intera immagine con l'acuta visione della fovea: in questo modo, mancando la visione periferica, la nostra attenzione per l'immagine
televisiva aumenta e, aumentando l'attenzione, tende ad aumentare anche il rilievo che noi diamo alle immagini che stiamo guardando. Un secondo
fattore è legato al movimento. La nostra attenzione di spettatori dipende anche dalla quantità di movimento presente sullo schermo: un ritmo veloce
ha in linea di massima l'effetto di aumentare il livello di attenzione. Movimenti rapidi, musica incalzante o forte producono uno stato di allerta del
sistema nervoso».
Col passare del tempo, tale ipercinesia comporta però conseguenze sgradite di affaticamento, calo dell'attenzione cosciente e intorpidimento: «In più
dell'80% delle persone il cervello ha un ritmo alfa durante l'ascolto prolungato, si verifica cioè una condizione cerebrale di rilassamento prossima al
dormiveglia in cui i muscoli sono rilassati e gli occhi atonici. A quel punto gli stimoli provenienti dal teleschermo possono assumere una valenza
irreale, simile al sogno. Questo spiega quella sorta di trance in cui cadono molti spettatori dopo un'ora o più di esposizione al teleschermo. E può
spiegare anche la funzione ipnotica della TV, la difficoltà a "staccarsi" dallo schermo e il fatto che su alcuni la televisione agisce come un sonnifero».
Dal punto di vista neurofisiologico l'attenzione è stata studiata misurando i tipi di onde cerebrali che si attivano quando uno stimolo viene inviato da
un certo centro piuttosto che da un altro e attraverso un certo canale sensoriale piuttosto che un altro. Nell'area corticale in cui lo stimolo viene
decodificato, ad esempio, si verificano particolari modificazioni elettro-chimiche, dovute all'entrata in gioco della formazione reticolare e del talamo,
due centri nervosi da cui dipendono le caratteristiche degli stati di vigilanza. Come rileva De Kerckhove: «Alcuni generi di attività concertate e
praticate a lungo incoraggiano delle specializzazioni selettive, che si inscrivono e si consolidano nell'insieme relativamente flessibile del cervello e di
tutto il sistema nervoso, soprattutto nella prima infanzia».
Sono i «nuclei della base» – la sostanza reticolare ed il talamo – a determinare gli stati di attivazione della corteccia, cioè uno stato di maggiore o
minore attenzione a questo o a quello stimolo; attraverso un complesso gioco di azione/retroazione, essi aprono però i canali preferenziali per gli
stimoli non tanto in modo autonomo, quanto in seguito alla superiore «decisione» della corteccia di prestare al mondo esterno un particolare tipo di
attenzione. Attraverso tali meccanismi la coscienza, cioè la risultante sistemica dell'attività integrata di ogni singolo centro nervoso, tale per i miliardi
di eventi che l'hanno strutturata quale unicum irripetibile, può 1. focalizzarsi su un certo aspetto del mondo esterno, 2. vagare senza un punto fisso di
interesse o 3. trovarsi in uno stato di confusione nel quale gli stimoli si accavallano in continuazione e l'attenzione fluttua anarchicamente.
È stato in tal modo osservato, rileva il fisiologo Alberto Oliverio, che se si presta attenzione ad un unico canale sensoriale – quello uditivo nel caso
della radio – tutti gli altri stimoli vengono tagliati fuori, per cui l'ascoltatore ha modo di rilevare, e analizzare criticamente a dovere, le pause, le
inflessioni della voce, i tentennamenti e le ripetizioni, tutte cose che spesso «spiazzano» chi vuol far credere qualcosa di falso. Nel caso del Piccolo
Schermo, invece, l'abile mentitore ha tutto il modo di distrarre lo spettatore, in quanto questi si sofferma «naturalmente» sullo sguardo accattivante di
quello, magari sul tic che lo "fa personaggio", sul modo in cui è vestito, etc., trascurando le caratteristiche intrinseche del messaggio uditivo.
Inoltre, «spettacolarità e ritmi delle trasmissioni creano condizioni di facile credibilità e favoriscono il formarsi di opinioni che sono razionali solo in
apparenza [...] La nostra mente, infatti, è caratterizzata da strategie che le consentono di rispondere rapidamente a una particolare situazione sulla
base di un giudizio di massima, ma questo giudizio va rivisto e corretto attraverso una logica meno "intuitiva", il che non è generalmente possibile
quando i tempi sono molto rapidi, come negli show televisivi in cui succedono "tante cose", una serie di eventi e testimonianze che di continuo
propongono nuovi problemi, senza lasciare il tempo di affrontare razionalmente un problema posto all'inizio».
In particolare nel campo della pubblicità (ma non meno in quello dei notiziari giornalistici), a prescindere dall'incredibile alluvione di vacuità e
(apparenti) insensatezze, si «sparano» senza problemi immagini velocissime con continui mutamenti di scena che provocano una «conoscenza
involontaria» attraverso un autistico aumento dell'attività cerebrale (in uno spot della Pontiak l'immagine più lunga fu di un secondo e mezzo, la più
breve di un quarto di secondo!). È indispensabile, quando ci si proponga di catturare l'attenzione dei telespettatori, rispettare una precisa
cronodinamica fatta di ritmi rapidi, di frasi semplici e brevi, di immagini che colpiscono immediatamente la fantasia e i sentimenti, è indipensabile
limitare quando non escludere esplicitamente il processo logico.
Ben commenta, attraverso un suo personaggio, il romanziere John Fowles: «Per qualche minuto parlammo di cinema. Avevo l'impressione che
continuasse a recitare. Mi ascoltava fissando il suo bicchiere e scuotendo i cubetti di ghiaccio, con deferenza innaturale come se avesse preferito
chiacchierare con la hostess. Poi ricominciò a parlare di televisione, della sua natura effimera, della "quantità sbalorditiva di puttanate" che i suoi
programmi contenevano. Era un trauma, o un tormento, per il quale ero passato anch'io; la tirannide di un pubblico di massa, la necessità di eliminare
istinto, cultura, finezze e tante altre cose per arrivare alla verità basilare della condizione umana: che la maggioranza è ignorante e vuol essere
trattata da idiota, o almeno è per questo che paga. Gli spettatori sono coglioni, come mi disse sinteticamente una volta un famoso regista di
Hollywood, e i coglioni odiano l'intelligenza».
Come sottolinea compiaciuto uno dei «maghi» del palinsesto, l'ex anarchico sessantottino Carlo Freccero, già direttore della programmazione di Italia
1 e nel 1996 sinistro direttore di Raidue, «per avvincere il maggior numero di spettatori per il maggior tempo possibile, la TV deve domandare uno
sforzo mentale minimale». La maggior parte delle tecniche televisive affonda infatti le radici nello sfruttamento e nell'inversione di una tendenza
umana con basi emotive: l'interesse per i momenti salienti. Con ciò non solo suggerendo implicitamente l'inutilità dello sforzo, dell'applicazione e della
fatica personale ai fini della crescita informativa/intellettuale (e quindi in ogni caso morale), ma anche trascurando o relegando in secondo piano ogni
sfumatura psicologica e l'incredibile, meravigliosa complessità della vita.
Occorre quindi da parte nostra avere sempre presente tutta la profondità della confessione di Bob Silberberg, che va perfino al di là di ogni
manipolazione specificamente politica (anche se fare di una persona uno zombi è un fatto, ovviamente, politico): «L'errore più grave consiste nel
credere che noi in televisione lavoriamo per produrre programmi. Ciò è assolutamente falso. Benché le trasmissioni siano il nostro prodotto visibile, in
realtà le grandi reti televisive americane lavorano per produrre telespettatori» (corsivo nostro). Dovere dello spettatore, oltre certo che lasciarsi
educare alla way of life americana, è quindi in primo luogo (od in ultima istanza) dimostrarsi, attraverso il consumo dei prodotti offertigli in così calda
abbondanza, concretamente solidale col Sistema che di tale way of death ha fatto il suo marchio e il suo vanto. Nulla quindi di più naturale che la
produzione di telespettatori, adescati da programmi totalmente coinvolgenti nella loro irrealtà, debba essere affinata dai necessari «consigli per gli
acquisti».
È proprio per questa ragione che negli otto anni in cui rimane alla Casa Bianca, Reagan blocca con veto ogni proposta di legge tesa a limitare la
presenza oraria delle interruzioni pubblicitarie nei programmi per ragazzi (l'ultima proposta, respinta pochi giorni prima della scadenza del suo
mandato, prevede limitazioni assai modeste: un massimo di dieci minuti e mezzo ogni ora durante i weekend e di dodici minuti nei giorni feriali). Due
anni dopo, ottobre 1990, in seguito ad un contrastato voto favorevole del Senato, anche il Congresso finisce però per approvare quel provvedimento.
Ma il nuovo presidente Bush, dopo aver minacciato di porre il veto in nome del Primo Emendamento (quello introdotto a tutela della libertà di parola)
e visto che la proposta gode ormai di un largo appoggio tra insegnanti, genitori, psicologi e del clero più illuminato, deve lasciarla passare
(dissociandosi col rifiuto di firmarla).
Nonostante l'opposizione di Bush possa far pensare che le nuove norme comportino una radicale riforma del settore in questione, esse non
costituiscono tuttavia nulla di rivoluzionario né di illuminato. La nuova legge, in vigore dal 1991 pur senza la firma presidenziale, non fa infatti che un
riferimento marginale ai program-lenght commercials (comunicati commerciali che hanno la stessa durata dei programmi per ragazzi) e a quei
prodotti in cui spettacolo e pubblicità sono fusi indissolubilmente.
I program-lenght commercials cui la legge non applica limitazioni sono per lo più programmi di cartoni animati. I loro personaggi sono, come per il
cinema, anche giocattoli di successo, albi a fumetti, magliette, spugne e saponi, scarpe e sandali, dischi e orchestrine, presenti nell'inesauribile
galassia del merchandising. I più redditizi sono The Simpsons, New Kids On The Block e soprattutto, per i più piccoli, Teenage Mutant Ninja Turtles,
mostruose tartarughe extraterrestri nomate Michelangelo, Leonardo, Raffaello e Donatello. Il mercato mondiale dei prodotti su licenza dell'«industria
dei sogni» passa dai poco più di dieci miliardi di dollari del 1980 ai ben sessantacinque del 1989. Il 90% delle licenze riguarda immagini prodotte nel
Paese di Dio e, al contrario di quanto è accaduto agli inizi degli anni Ottanta, oggi si punta solo su personaggi e programmi già affermati nel circuito
elettronico multimediale.
Di Roberto Giammanco è una prima conclusione sull'onnipervadenza del medium televisivo che dietro la frenesia operativo/ideazionale non rivela
però un sano movimento, la differenza, la vita, ma il pullulare della putrefazione, il movimento della decomposizione incessante: «Con l'avvento del
mercato multimediale sono cadute tutte le barriere tra fiction, informazione, programmi per adulti o per ragazzi, elettorali o seriali. Ciò, inutile dirlo
non significa che non esistono più mercati specifici [...] La totalità del mercato, nel suo complesso modo di produzione sociale, esige che tutti i suoi
prodotti siano intercambiabili perché regolati da obiettivi unicamente promozionali, indissolubilmente sincronizzati. La circolazione delle merci esige
una frenetica pluralità, ma teme come nient'altro la diversità».
La televisione potenzia il consumatore universale che sonnecchia in ogni esemplare di uomo moderno, quel tipo sociale ormai ridotto ad «eroe» che
prolunga la sua esistenza solo nel plurale: come pubblico che ascolta ed acquista o, ancor più astrattamente, come «richiesta di informazione» e
«quota di partecipazione». «Avanguardia dell'umanità», gli States investono il loro cittadino – il loro utente/usato – con una miriade di immagini:
12.000 quotidiani e altrettanti periodici riempiono di foto rutilanti le edicole, 20.000 cinema proiettano per ore ventiquattro fotogrammi al secondo di
inquadrature audiovisive, 30.000 negozi noleggiano milioni di chilometri di videonastri, centosessanta milioni di televisori diffondono immagini per una
media di sette ore giornaliere ciascuno.
«Icone» – commenta Luigi Allori – «feticci, informazione, pubblicità, spettacolo, arte: le immagini sono l'"altra vita" di noi tutti, forse più vera, o
verosimigliante, di quella primaria. Sono palcoscenico, giornale, specchio, guida, documento, veicolo, immaginazione, messaggio, imbonimento,
propaganda, manipolazione, compagnia, babysitter, solitudine, sapere, ignoranza».
All'età di sessantacinque anni, l'americano medio ha inoltre assorbito, frammezzo a tale caos di immagini televisive, due milioni di annunci
pubblicitari. Se a questi si assommano poi quelli radiofonici, quelli sui quotidiani, i periodici e i cartelli stradali, le dimensioni del sovraccarico
simbolico, e quindi dello svuotamento del simbolo, non hanno precedenti nella storia dell'umanità. «I freni sono così pochi» – scrive al proposito
Postman – « che si può parlare di una forma di violenza culturale, sancita da una ideologia che conferisce una supremazia senza limiti al progresso
tecnologico ed è indifferente al disfacimento della tradizione».
La televisione, nota il tedesco Bernd Guggenberger, fa parte «del mondo del denaro di carta e degli alberi di plastica, delle società-fantasma e dei
matrimoni per prova, dei piani bellici e della simulazione di volo, dei valori-limite e dei contatori geiger. Quando natura e valori, attività e unioni, volo
e decisione, rischio e pericolo vengono simulati, in queste condizioni non è dunque normale simulare la vita stessa, per mezzo della televisione, e
tutta la scala dei sentimenti e delle sensazioni, finché l'illusione riempirà i vuoti della vita?». La televisione determina l'essere e il non-essere,
l'esistenza sociale e l'indifferenza. Ciò che penetra nel cuore e nel cervello delle masse deve prima passare attraverso l'obiettivo. Solo la televisione
crea oggi una dimensione pubblica, nel senso che essa fornisce definitivamente ad una persona o ad un avvenimento il valore di notizia. Essa ha la
massima competenza di accredito, cui nessuno dei media minori può sottrarsi. L'attestato di nobiltà lo concedono oggi i moderatori delle grandi
trasmissioni con molto pubblico: «Da tempo permettiamo che, cacciata la precedente, una nuova aristocrazia la faccia da padrone sullo schermo e noi
concediamo, a questo fior fiore dei media, dei privilegi che hanno tolto di mezzo i privilegi di nascita del passato e ogni rossore pudico sul viso [...] La
televisione è il potere culturale imperiale, che adegua tutto a se stesso, dal cerimoniale delle visite del papa fino ai giochi infantili, dalle abitudini
alimentari della famiglia media fino alla retorica e alla drammaturgia dei dibattiti parlamentari. La televisione crea uomini e temi, decide, in misura
che non ha precedenti storici, delle possibilità creative, individuali, vitali e sociali».
Ma all'illusione – a parte quegli spiriti liberi che, pur consci degli attuali rapporti di forza e della presunta irreversibilità del Sistema, restano fedeli
sempre e comunque all'insegnamento dei Padri sugli spalti del realismo e dell'antidemocrazia – c'è qualcuno che riesce a sottrarsi. E quel qualcuno
sono proprio gli artefici, i promotori di quell'illusione, gli appartenenti alla classe A dell'huxleyano Brave New World. È ancora Guggenberger ad
illuminarci con linguaggio pregnante: «Ciò che comincia a delinearsi sono i contorni di una nuova divisione di classe contro quella diagnosticata da Karl
Marx, che era soprattutto incomparabilmente più "innocua", se non altro perché non costrinse al silenzio definitivo l'"arma della critica", l'unica vera, e
propria, "forza del debole", che può volgersi in superiorità. Ciò che si va delineando è un disfacimento del corpo sociale tra i pochi attuali suoi fautori e
la grigia massa dei "manipolati", tra gli affannati utilizzatori e i massacratori del tempo, divertimento-dipendenti e sempre bisognosi di distrazione, tra
chi non ha mai tempo e chi ne ha sempre, tra gli attivi e i passivi, tra i pochi potenti produttori di realtà ed i molti consumatori di questa "realtà di
seconda mano"».
È ancora l'antica, sempre nuova conferma dell'impossibilità logica, dell'immoralità filosofica e dell'inganno pratico della democrazia.
Conoscere se stessi ed il mondo, pensare ed agire con coerenza sono le attività più faticose – e più nobili – che la vita permette all'uomo. La
televisione, a prescindere dal cosa, esercita una così forte attrazione proprio perché non richiede, democraticamente, né lavoro fisico né sforzo
mentale. «Fatica e durezza» – ribadisce Guggenberger – «sono ormai virtù non previste in una comunità del divertimento teleservita. I promotori dei
programmi di massa patteggiano in modo palese con le nostre inclinazioni più basse: con la nostra pigrizia e la nostra seducibilità. Ci si può
veramente mostrare inorriditi di fronte al costante aumento della criminalità violenta e allo stesso tempo non trovar niente da ridire sul fatto che noi
adattiamo la generazione che ci segue, fin dalla prima infanzia, sistematicamente, ad un mondo in cui delitto e assassinio rappresentano la massima
attrazione».
Non esiste divoratore di avvenimenti più affamato del Piccolo Schermo, non esiste istituzione socialmente più distruttiva della televisione, non esiste
caricatura più mordace della famiglia di quella che la ritrae raccolta in posizione allineata di fronte al tubo catodico. Nient'altro insidia più
potentemente il valore e l'essenza della famiglia e dell'amicizia, della particolarità regionale, dell'orgoglio razziale e della trasparenza politica. Nulla
ostacola di più la mente umana, nella serena valutazione di un fatto, quanto l'assidua consumazione di divertimento e di spezzoni «informativi» offerti
dai video-media. Chi cerca le sensazioni e le finzioni offerte (imposte) dal Piccolo Schermo è perso per i problemi del mondo reale.
Il solipsismo, l'alienazione, il disfarsi di quei legami interpersonali che formano la struttura non solo di una ridotta comunità, ma di un'intera società –
che sono quella comunità e quella società – sono stati, se pure non generati, ricreati e potenziati dal mezzo televisivo. Ancora più allucinanti sono le
prospettive: in Giappone, nel piccolo centro di Higashi-Hikoma, interamente sottoposto a telecollegamento via cavo, i bambini non vanno più a scuola
(il maestro insegna per televisione), il medico visita i pazienti nello stesso modo, le casalinghe fanno la spesa per televideo, le famiglie «dialogano»
l'una con l'altra elettronicamente. Ognuno è chiuso nel suo mondo soffice, fatto di suoni e colori, senza asperità, senza contatti umani. Ognuno
costruisce il suo mondo, dissociato da quello di ogni altro.
È addirittura il liberale Alberto Pasolini Zanelli, cantore tra i massimi della Bontà del Paese di Dio, a notare, trattando di quella Droga Virtuale che
avanza in tutti i campi, ci abbraccia e ci soffoca, che «l'America, il mondo si fanno al tempo stesso più sfacciati e più furtivi, l'irrealtà elettronica è una
tentazione pigra ma potenzialmente avvelenata. Già l'impoverimento e la rarefazione del dialogo hanno ridotto a due principali le occasioni e le forme
di concetto fra gli individui: il sesso e la ginnastica. Se le Realtà Virtuali invadono anche questi campi, si può avverare l'incubo di una società ridotta al
solipsismo più o meno onirico, a scrivere, leggere, guardare, "sentire" le cose invece di farle. Il teleschermo come sostituto della vita, lo svuotamento
ulteriore delle comunità naturali o storiche (la famiglia, la piazza, il bar, il luogo di lavoro) da parte di quello che qualcuno esalta come il "nuovo stare
assieme". Tante Comunità Virtuali in cui si faccia capo unicamente a tastiere che alla fine sono sempre più cieche».
Chi vuole al contrario un cittadino attivo, aperto e responsabile; chi vuole che i giovani si impegnino, si pongano mete comunitarie, lavorino alla
propria maturazione e si prendano seriamente (perché solo in tal modo imparano a rispettare e a prendere sul serio anche gli altri); chi vuole
sottrarre al termine democrazia la sostanza, distorta e imprigionata da due millenni in un mefitico fonema, e abbandonare, guscio vuoto, mero fiato di
voce, il vocabolo; chi vuole restare fedele, con slancio supremo d'amore, alla memoria dei Padri – chi voglia opporsi e distruggere nei fondamenti
l'illusione democratica, la truffa democratica, il cancro democratico – chi vuole questo complesso inscindibile di cose, è credibile solo se combatte con
la massima consequenzialità ciò che più di tutto si oppone, sul piano concreto, alla formazione di queste posizioni e capacità: l'egemonia psicologica e
culturale della televisione.
***
In ultima analisi il pericolo che deriva dalla televisione è delineato dalla sua assoluta neutralità e volgarità. Da un lato, il processo di involgarimento è
funzionale al raggiungimento del maggior numero possibile di spettatori, attuando una spinta verso il basso dei contenuti delle trasmissioni, in una
spirale demoniaca di azioni e retro-azioni che abbassano non solo la cultura e l'intelletto dell'essere umano, ma anche e soprattutto la sua coscienza.
Dall'altro, il fatto che il potere industriale/finanziario – cioè chi impegna il denaro e sponsorizza i programmi – si interessa a tutto, meno che a «che
cosa» viene trasmesso (all'interno, ovviamente, dei limiti ideologici fissati/riconosciuti dal Sistema), fa della televisione il medium-zero. Se i
programmi vengono costruiti attorno al prodotto/messaggio da sponsorizzare, va da sé che non esistono messaggi all'infuori del prodotto/messaggio
sponsorizzato.
Va da sé, scrive Maurizio Naj, che i programmi finiscono allora tendenzialmente con l'assomigliarsi tra loro, «annullando la differenza tra lo stare
spento o acceso del televisore, che (per pigrizia o necessità di una presenza) ovviamente resterà acceso. Non ci sarà più la scelta di vedere "quel
programma" ma, più semplicemente, si guarderà "la televisione"». Similare giudizio esprime il regista Brian De Palma: «La televisione è la cosa più
pericolosa che il capitalismo abbia creato, una macchina educatrice che ti fornisce un insieme di valori completamente defunti e moralmente
deprecabili. Almeno per ora nessuno ti obbliga ad accendere la TV e nemmeno a possederla: abbiamo la possibilità teorica di evitare il lavaggio del
cervello. Ma è difficile, quando te lo fanno fin dal primo giorno di vita. Devi avere un forte controllo su te stesso per riuscire a rifiutare queste cose».
Con la televisione si compie l'aspirazione più segreta del Sogno Americano: al di là dei miti del successo e dell'autorealizzazione, la molla psicologica
è ancora la frustrazione giudaica (e quindi cristiana) che obbliga l'uomo alla ricerca/creazione di un Mondo Nuovo che non abbia le asperità, le
incoerenze, le contraddizioni, il dolore di questo. È l'antico, sempre nuovo odio per il reale e quindi l'antico, sempre nuovo odio per l'uomo com'è, coi
suoi fallimenti, le sue durezze e le sue crudeltà certamente, ma altrettanto certamente con le sue migliori qualità: il senso del reale; la freddezza
intellettuale che rifiuta ogni suadente, sensoriale velo mistificante; il controllo di se stessi; l'accettazione, serena ed attiva, dei limiti insiti nella propria
natura; il riconoscimento della sacralità del Cosmo, autarchica essenza.
Con la televisione, certo nelle attuali strutture e con gli attuali condizionamenti economici, ma altrettanto certamente sotto qualsivoglia diverso cielo,
si realizza – per fortuna non del tutto, viste le resistenze opposte dal mondo reale – l'Incubo Americano (e quindi cristiano e quindi ancora giudaico)
del Mondo Nuovo, incubo che, prima di incarnarsi nel mondo hard orwelliano, è il «morbido» Mondo Nuovo huxleyano. Il teleschermo ha un impatto
talmente diretto ed onnipervasivo sul sistema nervoso e sulle emozioni – e un effetto talmente ridotto sulla mente – che la maggior parte
dell'elaborazione delle informazioni è in effetti opera sua, e non dello spettatore.
Non c'è, in tali processi, tempo sufficiente – né volontà – perché lo spettatore possa integrare su base pienamente cosciente le informazioni ricevute.
Ribadisce la tedesca Hertha Sturm, studiosa dei massmedia: «Il rapido mutare delle immagini presentate menoma la verbalizzazione. Tra esse ci
sono mutamenti non decodificati dell'angolo di osservazione, imprevedibili oscillazioni dall'immagine al testo e dal testo all'immagine. Di fronte al
rapido mutare delle immagini presentateci e alla loro accelerazione, lo spettatore è letteralmente trascinato da un'immagine all'altra. Ciò esige
costantemente nuovi e inattesi adattamenti alle stimolazioni percettive. Di conseguenza lo spettatore non è più in grado di tenere il passo e rinuncia
ad una codifica interiore. Abbiamo scoperto che, quando questo accade, l'individuo agisce e reagisce con un innalzamento di eccitazione fisiologica
che a sua volta si traduce in una riduzione di comprensione. Lo spettatore diventa, per così dire, vittima di una forza esterna, di una rapida
sequenzializzazione audio-visiva».
La programmazione televisiva è deliberatamente concepita per impedire reazioni verbalizzate; tutto si traduce in un'immane operazione di
condizionamento subliminale, in una rimozione delle capacità di riflessione e di autodeterminazione. A differenza del libro, lo schermo televisivo è una
struttura rigorosamente prescrittiva, poiché in un colpo solo incornicia le dimensioni di tutto quello che c'è da vedere e focalizza l'occhio e l'attenzione
dello spettatore, condizionando completamente le modalità di elaborazione e destinazione dell'informazione.
Al contrario, pienamente coerente coi postulati spersonalizzanti della sua ideologia religiosa, l'arcivescovo milanese Carlo Maria Martini esplicita nel
1991, nell'incredibile scimmiottamento francescano della pastorale sul medium televisivo, le attese che muovono ogni progressista: «Laudato sii mio
Signore con tutte le tue creature / specialmente fratello televisore / che riempie ore delle nostre giornate / ed è bello e irradiante con grande
splendore / e di te Altissimo porta significazione». Al contempo un suo sodale stonacato, il socialista-berlusconico don Gianni Baget Bozzo,
sociologizza l'afflato mistico del porporato: «La televisione libera da molte cose, è la nuova Bibbia dei poveri, perché dando visione a tutti eleva anche
gli incolti e svolge la sua funzione capitale di far crescere la coscienza dei singoli [...] la TV è un mezzo innocente».
Ancora più lirico il sillogismo teologico di don Tonino Lasconi, «esperto di media», sul bollettino della Conferenza Episcopale Italiana Servizio
Informazioni Religiose: «È necessario affermare che questa abbondanza di informazione è bella: conoscere una cosa in più è sempre meglio che
conoscere una cosa in meno. Se Dio è colui che sa tutto, più informazioni si raggiungono e più si diventa simili a lui, come ci è stato comandato».
Lentamente, inesorabilmente, e del tutto coerentemente con l'impostazione delle cose, il moderno mondo cattolico, con le parole del nostro Lasconi,
getta la spugna di fronte al progredire del Mostro: «La Chiesa è sempre restia ai cambiamenti. Ogni novità, in quanto novità, va respinta. Invece io
credo che un mondo senza TV sarebbe un mondo più povero. Basta insegnare alla gente come guardarla. È una realtà di oggi e demonizzarla è
assurdo [...] È sterile invitare le famiglie a spegnere o a razionare la televisione. È velleitario esortare gli operatori dell'informazione televisiva ad
essere profondi, oggettivi, pacati, perché sarebbe come invitarli a non farsi ascoltare».
Nessun codice di regolamentazione, quindi, nessuna esortazione all'auto-regolamentazione, nessun progetto educativo né del pubblico né, tantomeno,
degli operatori, cui è lecito, e spetta, fare il loro «dovere» professionale. Con l'eterna, criminale buona fede illuminista il Lasconi, palesandosi
oltretutto ignorante di cibernetica e di scienza dei sistemi, sostiene che è ipocrita accusare la TV di essere un elemento di disgregazione. Come
sempre, le colpe sono altrove: «Il bombardamento quotidiano delle famiglie dagli schermi accesi non è un aspetto negativo in sé. È necessario che la
famiglia unita, armoniosa, ricca di interessi veda i programmi "in compagnia" tra genitori e figli, e sappia scegliere quelli migliori e dedichi tempo e
spazio ad altre attività» (inutile dire che ciò che non esiste, ciò che va costruito e che proprio la TV impedisce di costruire, sono tale unità, armoniosità
ed interessi).
A nulla valgono allora, di fronte all'ubiquitaria accettazione di tale professione di fede, i distinguo compiuti dal Lasconi in articulo mortis, in margine al
peana innalzato al Piccolo Schermo: «È dovere prendere coscienza che questa grandinata di informazioni, così efficaci e penetranti, se subita
passivamente e acriticamente produce pensiero debole, cervello frastornato, giudizi superficiali, bisogni inventati, debolezza cronica di fronte ai
discorsi vuoti sulla bocca di volti affascinanti». Come possa il comune mortale non venir frastornato dall'imbonimento televisivo, come possa resistere
al quotidiano lavaggio del cervello, il Nostro deve ancora spiegarcelo.
Qualcuno che ha vissuto un po' prima il trionfo del ciclope bruto si esprime però in modo diverso dai tre fidenti religiosi, come il producer in Network,
«Quinto potere», rivolto ad una collega: «Tu sei l'incarnazione della televisione, indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia. Tutta la vita è ridotta
al comune pietrisco della banalità. Guerra, assassinio, morte – tutto è lo stesso per te, come bottiglie di birra, e la vita di tutti i giorni è una commedia
corrotta. Arrivi persino a frantumare le sensazioni del tempo e dello spazio in frazioni di secondo e in replay istantanei. Sei la follia».
E pienamente controbatte l'aspirazione dei tre cristiani suddetti, vacuizzante dell'intelletto umano, il drammaturgo tedesco Botho Strauss: «Il regime
della comunicazione telecratica è insieme la meno cruenta delle dittature e il più completo dei totalitarismi. Non ha bisogno di far rotolare delle teste,
le rende superflue».
Ma l'Avvento del Regno – la Fine della Storia, l'Uscita dal Mondo Corrotto, l'Allucinazione della Realtà Virtuale – può essere reso possibile soltanto
attraverso la deprivazione dell'io personale:
1. Eliminare la conoscenza di se stessi – la Coscienza – rendendo impossibile la distinzione tra naturale ed artificiale. Solo l'introspezione, la
conoscenza dei propri limiti, della propria fragilità e delle proprie possibilità, dei propri sensi e della propria umana strutturazione fisio-psichica
permettono di affrontare il mondo esterno.
2. Abolire i termini di confronto col passato – la Memoria – che non tanto va criticato, quanto ignorato, giusta l'insegnamento di Isaia, LV 17: «Ecco,
infatti, io sto per creare cieli nuovi e terra nuova! Il passato non sarà più ricordato, non verrà più in mente». Come si può infatti criticare un qualcosa
che, anzi, non è mai esistito?
3. Tenere gli uomini separati l'uno dall'altro, anche all'interno della famiglia, riducendo la comunicazione interpersonale grazie ad uno stile di vita che
enfatizzi, incoraggi ed obblighi alla separatezza facendo coltivare unicamente i propri hobbies, le proprie fantasie, i propri interessi, i propri appetiti
individualistici.
4. Unificare, distorcere ed appiattire l'esperienza permessa dai sensi, da un lato incoraggiando l'«esperienza» mentale a spese di quella sensoriale,
dall'altro guidando questa, pur sempre ineliminabile, in aree ristrette del comportamento (vedi l'esasperazione del sesso a discapito della totalità dei
sensi e della psiche).
5. Tenere occupate le menti con pensieri, e soprattutto immagini, preordinati di qualsiasi tipo (il contenuto è meno importante del fatto che la mente
sia riempita), in un mondo che valorizza la velocità e non la profondità, cosicché non siano più disponibili spazi mentali «vuoti», che possano
permettere una riflessione autogestita.
6. Incoraggiare l'uso della droga a livello sociale, incoraggiare ogni tipo di devianza, giustificare un tasso «fisiologico» di criminalità, «offrire» modelli
umani e stili di vita «alternativi», promuovere incessantemente «liberazioni», contenendo in tal modo ogni possibile manifestazione di rivolta ad un
mero livello individuale.
7. Centralizzare la conoscenza e l'informazione, in modo che a rilasciare dati e notizie sia un'unica fonte «autorizzata», democraticamente
riconosciuta, solidalmente avallata e introiettata in quanto «legittima» (più che la distruzione dei libri in sé, la distruzione cioè di fonti alternative: è
questo il senso di Fahrenheit 451).
8. Ridefinire la felicità e il significato della vita secondo ideologie sempre più astratte, poiché qualunque cosa acquista un senso nel vuoto. Evitare le
filosofie del realismo, che portano i soggetti ad una coscienza incontrollabile dai Persuasori. Le filosofie cui meno si può resistere sono infatti quelle più
«razionali», e cioè più arbitrarie, quelle che acquistano un senso solo in rapporto a se stesse.
A livello di massa la televisione crea dipendenza. Per il modo con cui il segnale visivo viene elaborato nella mente, esso ribalta il rapporto tra capire e
vedere, ed anzi inibisce strutturalmente i processi cognitivi. «La televisione produce immagini e cancella i concetti; ma così atrofizza la nostra capacità
astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire [...] La riduzione-compressione è gigantesca: e quel che sparisce in quella compressione è
l'inquadramento del problema al quale le immagini si ascrivono. Perché l'immagine, sappiamo, è nemica dell'astrazione, mentre spiegare è svolgere
un discorso astratto. I problemi, ho detto più volte, non sono "visibili". E il visibile privilegiato della televisione è quello che "fa colpo" sui sentimenti e
sulle emozioni [...] Il visibile ci imprigiona nel visibile. Per l'uomo vedente (e basta) il non visto non esiste. L'amputazione è colossale. Ed è peggiorata
dal perché e dal come la televisione sceglie quel particolare visibile, tra cento o mille altri eventi egualmente degni di considerazione» (Giovanni
Sartori).
La televisione si propone dunque più come uno strumento per il lavaggio del cervello e per l'induzione dell'ipnosi che come qualcosa che possa
stimolare coscienti processi d'apprendimento. La televisione è una forma di deprivazione sensoriale, poiché provoca disorientamento, confusione,
incapacità di riflessione astratta e analitica, balbettio nella dimostrazione logica e nella deduzione razionale. Diminuisce negli spettatori la capacità di
distinguere il reale dal non reale (altro che lo slogan di Walter Cronkite «l'immagine non mente»!, altro che gli effetti prodotti sui radioascoltatori
dall'invasione marziana di Welles – suggestivi, peraltro, di un'invasione «nazista» del Paese di Dio – in quel lontano 30 ottobre 1938!), l'interno
dall'esterno, ciò che viene sperimentato personalmente da ciò che viene inculcato da fuori. Disorienta il senso del tempo, dello spazio, della storia,
della natura.
La televisione sopprime e sostituisce la creatività dell'immaginazione, incoraggia la passività collettiva (icastica è l'espressione USA per definire il
video-dipendente: couch potato, patata in poltrona) e addestra la gente ad accettare qualsiasi forma di autorità. È uno strumento di mutazione,
spegne le interiorità e trasforma le persone concrete, coi loro vissuti, la loro storia, le loro reticenze, le loro contraddizioni, la complessità tutta della
loro evoluzione spirituale e caratteriale, nell'effimero istantaneo delle loro immagini televisive. Con lo stimolare all'azione mentre simultaneamente la
sopprime, il Piccolo Schermo contribuisce infine a causare un'inquieta, afinalistica iperattività del sistema nervoso.
La televisione limita e circoscrive la conoscenza umana. Cambia il modo con cui gli uomini ricevono informazioni dal mondo. In luogo della naturale
ricezione multidimensionale, propone una ridottissima esperienza sensoriale, poiché diminuisce sia la quantità che la specie d'informazione che la
gente riceve. Mantenendo la coscienza entro i suoi canali, minuscola frazione dell'area naturale dell'informazione, induce l'uomo a credere di sapere di
più, quando sa invece sempre meno.
Con l'uniformare tutti entro i propri schemi e col centralizzare in sé l'esperienza, il tubo catodico prende il posto dell'ambiente. Accelera l'alienazione
dell'uomo dalla natura e perciò accelera la distruzione della natura. Distruggendo la natura, distrugge l'uomo, spingendolo ancor più dentro una realtà
artificiale già invadente.
Accresce, infine, la perdita della conoscenza personale, della coscienza personale e della Memoria storica dei popoli per mantenerne in vita una sola –
«Ci devo riflettere, ma forse l'unico modello di memoria esistente in Occidente è quello ebraico», conferma al confratello Wlodek Goldkorn l'olostorico
Saul Friedländer, già segretario di Nahum Goldmann e Shimon Peres – concentrando il potere dell'informazione, ed anzi l'informazione stessa, nelle
mani di un'élite ideo-tecno-industriale-commerciale.
Chi siano stati i preveggenti promotori di tale élite, chi siano stati e chi siano gli araldi, i portatori, gli allucinati missionari e gli zelanti difensori del
Sistema di Valori che ne ha sostanziato gli atti e distorto le menti, chi siano stati e chi siano i redditieri di quell'incubo rappresentato dal Sogno
Americano e dell'Unico Mondo, di quel Tempo della Fine – l'Et Qetz del Libro di Verità in Daniele XI 40 e X 21 – vantato e difeso per l'intero pianeta da
una miriade di manutengoli, lo sappiamo.
Gianantonio Valli
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