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risarcimento danni per responsabilità dell
RISARCIMENTO DANNI PER RESPONSABILITÀ
DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA E DECORRENZA DELLA
PRESCRIZIONE IN MATERIA FISCALE :
LA CASSAZIONE INTERVIENE E FA CHIAREZZA
Sommario: 1. Il problema affrontato dalla Corte di cassazione – 2. Responsabilità dell’Amministrazione
di fronte ai privati alla luce dei principi generali del diritto amministrativo.
1. IL PROBLEMA AFFRONTATO DALLA CORTE DI CASSAZIONE
Con la sentenza n. 16589 del 23 Maggio 2005, la Cassazione esprime il proprio orientamento in
materia di responsabilità dell’amministrazione finanziaria per presunta illegittima attivazione, nel caso di
specie, di procedura esecutiva nei confronti del privato a seguito di accertamento fiscale.
Nell’esaminare la questione, i giudici di legittimità hanno dovuto conseguentemente affrontare il
problema dell’eventuale risarcimento dei danni subiti dal cittadino, esecutato in carenza dei presupposti
di legge.
La Corte si è, altresì, espressa sulla decorrenza della prescrizione in ambito tributario, dando
così una risposta ad elementari esigenze di certezza dei rapporti giuridici.
Ma andiamo per ordine.
La prima delle due questioni oggetto di pronuncia merita particolare approfondimento, giacché
ogni contribuente sottoposto ad esecuzione forzata potrebbe, nell’ipotesi di successiva pronuncia che
censuri il comportamento del soggetto pubblico, proporre istanza tesa ad ottenere il ristoro dei danni
subiti a seguito dell’illegittimo operato di cui si è detto.
Facilmente comprensibili sarebbero le conseguenze: le amministrazioni agenti potrebbero in
ogni momento – a seguito di pronuncia giurisdizionale sfavorevole – trovarsi costrette a corrispondere
svariate somme al privato a titolo di risarcimento dei danni subiti (sotto forma di danno emergente e, in
presenza dei presupposti, di lucro cessante).
Siffatto scenario potrebbe suggerire l’adozione di due diverse linee di comportamento:
a) l’Amministrazione agisce comunque in via esecutiva, qualora sia convinta di aver
legittimamente operato, pur essendo consapevole del rischio di cui si è detto innanzi;
b) l’Amministrazione non attiva le procedure esecutive, in attesa della
completa definizione della questione in via giurisdizionale, dando così luogo ad una sorta di
“paralisi” nel proprio operato, con tutti i risvolti immaginabili in materia di danni per l’erario e di
perdita di efficacia nell’azione deterrente in ambito tributario.
Con l’adozione della pronuncia n. 16589 del 2005, la Suprema Corte ha di fatto scongiurato i
rischi legati alla scelta dell’ipotesi sub b), il cui verificarsi avrebbe sicuramente conferito sensibili
vantaggi al privato, ma avrebbe in pratica vanificato l’operato dell’amministrazione finanziaria in un
settore particolarmente delicato e complesso quale è quello fiscale.
E’ chiaro che la decisione della Cassazione trova fondamento in argomentazioni di carattere
squisitamente giuridico; pare tuttavia facilmente comprensibile anche la valenza “metagiuridica” della
statuizione.
Restringendo i confini del commento agli aspetti esclusivamente legati al diritto, occorre da
subito precisare che il ragionamento dei giudici di ultima istanza risulta sicuramente condivisibile.
Sfuggirebbe, infatti, ai canoni della logica condannare al risarcimento dei danni un soggetto che
abbia posto in essere una condotta improntata al rispetto della legittimità; condotta che – nel caso posto
all’attenzione dei giudici – aveva ricevuto l’avallo dell’allora Intendente di Finanza.
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Non può, dunque, rilevare - ai fini del riconoscimento di responsabilità per illecito aquiliano - il
fatto che successivamente il comportamento dell’amministrazione sia stato ritenuto non conforme a
quanto previsto dalla legge.
Come correttamente sottolineato dalla Corte, l’azione va giudicato nel momento in cui è stata
posta in essere.
E’ in quella fase che occorre prestare attenzione al rispetto dei principi che devono ispirare
qualsiasi procedura amministrativa, soprattutto se foriera di conseguenze in sede di giudizio di
esecuzione.
Da quanto sopra deriva che la valutazione sulla presenza o meno degli elementi soggettivi ed
oggettivi caratterizzanti la fattispecie di cui all’art. 2043 del c.c. deve essere effettuata con riguardo al
periodo in cui l’operato del soggetto pubblico ha trovato concreta esplicazione.
In altre parole, l’alea legata all’esito del successivo giudizio dinanzi al giudice tributario non può
avere l’estrema conseguenza di produrre una responsabilità per illecito a carico dell’amministrazione che
- occorre sempre ribadirlo - ha a suo tempo fondato il proprio agire su valutazioni ritenute
giuridicamente valide al momento della decisione di presentare ricorso, nel caso di cui trattasi, alla
procedura esecutiva.
Diversa sarebbe sicuramente stata l’opinione dei giudici qualora gli stessi avessero ravvisato una
sorta di “temerarietà” dell’amministrazione nel porre in essere una procedura - a maggior ragione se
esecutiva - ictu oculi contraria alla legge.
La decisione tiene quindi nel dovuto conto l’animus che ha guidato il comportamento del
soggetto pubblico; non essendo ravvisabile la presenza di dolo o colpa, a nulla rileva - naturalmente ai
fini di una azione ex art. 2043 del codice civile - il fatto che i giudici tributari abbiano successivamente
ritenuto non legittimo l’accertamento fiscale a carico del contribuente.
V’è da aggiungere che l’obbligazione tributaria richiede, per sua natura, particolare tempestività
ed efficacia nell’esecuzione; ciò sia con riguardo alla funzione deterrente cui si è fatto cenno in
precedenza, sia in relazione alla indifferibile necessità di far affluire nel più breve tempo possibile nelle
casse del pubblico erario quelle somme dovute dai contribuenti in forza degli accertamenti fiscali e delle
correlate procedure esecutive.
Occorre, altresì, rammentare che i pubblici funzionari responsabili di mancata attivazione delle
procedure – anche coattive – di riscossione dei crediti tributari divengono passibili (naturalmente al pari
dei funzionari che operano in settori pubblici diversi) di giudizio di responsabilità per danno nei
confronti del pubblico erario.
Non si vede, di conseguenza, come possa l’amministrazione finanziaria limitare (rectius: bloccare)
il proprio operato in attesa che la questione oggetto di controversia venga definita una volta per tutte
con pronuncia avente efficacia di giudicato.
Con questo non s’intende certo dimenticare l’effetto penalizzante che ha per l’attività del
contribuente un qualsivoglia accertamento fiscale, soprattutto se seguito da esecuzione forzata.
Effetto che sarà ancor meno tollerabile nell’ipotesi in cui l’attività intrapresa dal fisco venga in
seguito giudizialmente riconosciuta illegittima.
Tuttavia, le esigenze di tutela del privato dal punto di vista del ristoro del danno subito non
possono creare immobilismo nell’amministrazione finanziaria, il cui peculiare e delicato ruolo non può
di certo essere condizionato dal timore di una successiva statuizione che annulli quanto in precedenza
realizzato rispettando i canoni di buona fede.
De jure condendo, si potrebbe valutare una forma particolare di indennizzo (a patto che non sia di
entità risibile) in un certo qual modo satisfattivo delle esigenze del privato, oggetto di accertamento ed
esecuzione dichiarati in seguito illegittimi1.
La previsione di un risarcimento parrebbe invece eccessivamente severa e senza dubbio
“intimidatoria” per l’amministrazione “incolpevole”.
Se non correttamente interpretato, il ricorso all’indennizzo potrebbe tuttavia segnare un passo indietro rispetto agli effetti
positivi legati all’introduzione del risarcimento del danno.
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La decisione della Cassazione ha tentato di conciliare le opposte esigenze, anche se non ha
potuto, in ultima analisi, non tenere conto dell’interesse pubblico alla puntuale e tempestiva
realizzazione dell’obbligazione tributaria.
Di opinione parzialmente diversa rispetto a quella del Collegio che ha giudicato il caso sin qui
prospettato sono stati i giudici della I Sezione della Corte (Sentenza n. 13801 del 23 Luglio 2004).
Il caso riguardava la richiesta di risarcimento dei danni formulata nei confronti del Comune di
Milano, che aveva notificato ad un privato un provvedimento lesivo successivamente annullato in sede
di autotutela.
Nel proporre la domanda giudiziale, il cittadino sosteneva di aver dovuto affrontare determinate
spese legali per ottenere l’annullamento di cui si è detto; i giudici di merito avevano risposto in senso
negativo, sulla base dell’assunto che tali spese, riferendosi ad un procedimento di carattere
amministrativo, non potevano dare luogo ad un danno risarcibile.
I giudici di legittimità si sono invece mostrati di avviso diverso, poiché hanno riconosciuto in
astratto la possibilità di prevedere un risarcimento dei danni a favore del privato che abbia sopportato
spese legali per attivare un procedimento teso ad ottenere la rimozione di un atto illegittimamente
adottato da parte di un soggetto pubblico.
Rinviando la questione al giudice di merito, la Corte ha chiesto un accertamento concreto sulla
presenza o meno dei requisiti di carattere soggettivo propri dell’illecito aquiliano; solo in presenza di tali
requisiti (non essendo sufficiente accertare la mera illegittimità dell’atto annullato) sarà possibile
riconoscere il risarcimento - a titolo di danno ingiusto - delle spese legali affrontate per ottenere la
rimozione del provvedimento.
Nell’introdurre la disamina di tale ultima questione, si è parlato di “opinione parzialmente
diversa” dei giudici della I Sezione rispetto a quelli della III. Per meglio precisare, l’unica parziale
diversità sta nel fatto che la I Sezione - nel caso riguardante il Comune di Milano - ha esplicitamente
sottolineato l’astratta possibilità di risarcire i danni subiti dal privato per illecito aquiliano commesso
dall’amministrazione.
Si badi bene: solo in presenza di illecito aquiliano, e non nell’ipotesi di semplice adozione senza dolo o colpa - di un provvedimento successivamente riconosciuto illegittimo.
Ed allora, stando così le cose, si può identificare una sorta di filo rosso che lega le due sentenze;
anche i giudici della III Sezione hanno - seppure implicitamente - riconosciuto la risarcibilità dei danni
sopportati dal privato in conseguenza di illecito aquiliano dell’amministrazione che abbia dato origine
ad un provvedimento successivamente dichiarato illegittimo.
Il presupposto è costituito dalla presenza di un comportamento colposo o doloso ex art. 2043
del c.c..
Nel caso esaminato, i giudici della III Sezione hanno giudicato lecita la condotta dei funzionari
pubblici, avuto riguardo al momento della notifica degli accertamenti fiscali nei confronti del privato.
La linea di continuità tra le due pronunce è, quindi, evidente; prima di attribuire al privato una
somma a titolo di risarcimento per i danni subiti, occorre per forza di cose verificare la presenza o
meno del nesso di causalità tra il comportamento (illecito) del soggetto pubblico ed il pregiudizio per il
cittadino.
Clamore ha di recente suscitato una decisione della Corte d’Appello di Caltanissetta2.
Nella fattispecie, i giudici di merito hanno riconosciuto l’obbligo per lo Stato di risarcire i danni
sopportati dai contribuenti obbligati a pagare una imposta illegittima in quanto contrastante con quanto
stabilito dall’ordinamento comunitario.
Il diritto ad ottenere il risarcimento si prescrive nel termine di cinque anni, anche nell’ipotesi in
cui il termine di decadenza per la richiesta di rimborso sia inferiore.
La Corte d’Appello precisa che il privato non può rifiutare il pagamento dell’imposta “a priori”,
bensì chiedere in seguito il rimborso della medesima (introdotta in violazione del diritto comunitario)
ed il risarcimento del danno causato dal comportamento dello Stato non in linea con i dettami europei.
E’ evidente che tale sentenza esamina la problematica della responsabilità dell’Amministrazione
finanziaria prendendo spunto da una situazione particolare; i giudici censurano, infatti, non tanto un
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Trattasi della sentenza n. 214 del 26 Luglio 2005.
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comportamento di un funzionario costituente illecito ex art. 2043 del c.c., bensì la scelta “politica” di
esigere un tributo in contrasto con il diritto vigente nell’Unione Europea.
La prospettiva di lettura è sicuramente diversa, anche se la condanna dello Stato al risarcimento
del danno non può certo passare sotto silenzio agli occhi dei contribuenti.
Nel caso esaminato, i giudici siciliani si occupano anche della questione della prescrizione (viene
previsto il termine di cinque anni per la proposizione dell’azione risarcitoria).
Interessante è - per inciso - notare che la Corte svincola l’istanza tesa ad ottenere il risarcimento
da quella finalizzata al rimborso (soggetta ad un termine di decadenza più breve). La diversità dei due
profili viene giustamente considerata dal Collegio giudicante.
La pronuncia sul termine di prescrizione consente di introdurre il discorso sulla seconda
problematica affrontata dai giudici della III Sezione della Corte di cassazione nella sentenza n. 16589 del
2005 oggetto del presente commento.
Nel caso in esame, il soggetto sottoposto a procedura esecutiva aveva assunto come dies a quo, ai
fini della proposizione dell’azione di risarcimento del danno nei confronti dell’Amministrazione
procedente, la data della sentenza della Commissione Tributaria Centrale, che si era pronunciata molti
anni dopo la notifica degli avvisi d’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Il contribuente fondava tale ragionamento sulla considerazione che l’illecito posto in essere dal
soggetto pubblico si configurava come “permanente” e, quindi, idoneo a produrre effetti lesivi fino alla
dichiarazione d’illegittimità dell’accertamento (coincidente con la pronuncia della Commissione
Tributaria Centrale).
La prescrizione doveva, quindi, decorrere dal giorno in cui i giudici tributari avevano posto fine
al presunto illecito.
Il ricorrente aveva, inoltre, rappresentato l’impossibilità di agire dinanzi al giudice ordinario per
il risarcimento dei danni subiti a seguito del comportamento dell’Amministrazione in ossequio al
principio della pregiudiziale amministrativa, secondo cui il presupposto dell’avvio del giudizio
sull’eventuale condotta illecita dei funzionari pubblici era costituito dalla definizione del giudizio
tributario.
Le argomentazioni sulla decorrenza della prescrizione prospettate dal contribuente sono ritenute
infondate dai giudici della Suprema Corte.
In primo luogo, i giudici precisano che il privato doveva proporre azione per il risarcimento del
danno sin dal momento dell’attivazione della procedura esecutiva; la presunta condotta illecita si è
concretizzata in quel particolare momento (ed in quel momento si è esaurita), senza protrarsi nel tempo.
E’ quindi errato parlare d’illecito permanente, dispiegante i propri effetti addirittura sino alla
pronuncia finale dei giudici tributari (come sostenuto dal ricorrente).
Con riguardo, invece, all’asserita impossibilità di agire dinanzi al giudice ordinario sino alla
definizione del giudizio in sede tributaria, la Corte sottolinea che la questione della presunta
responsabilità extracontrattuale dell’Amministrazione per notifica di atti di accertamento illegittimi
poteva benissimo essere proposta sin dal momento del verificarsi dei danni.
Al più, il giudice ordinario avrebbe potuto sospendere il giudizio in attesa della definizione del
contenzioso tributario in merito alla sussistenza o meno dell’obbligazione fiscale.
Non vi era, quindi, alcuna situazione ostativa alla proposizione dell’azione legale da parte del
privato, che non poteva ad libitum individuare un diverso termine iniziale di prescrizione.
2. RESPONSABILITÀ
DELL’AMMINISTRAZIONE DI FRONTE AI PRIVATI ALLA LUCE DEI
PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO
La disamina della sentenza della Corte di cassazione offre lo spunto per proporre un
parallelismo tra la responsabilità dell’amministrazione finanziaria in materia tributaria e la responsabilità
della pubblica amministrazione in qualsiasi altro settore di competenza.
Per sua natura, il diritto amministrativo si propone di disciplinare l’attività provvedimentale di
carattere pubblico; allo stesso modo, oggetto di interesse della materia è la determinazione del tipo e
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grado di responsabilità dell’amministrazione che ponga in essere un comportamento lesivo degli
interessi del privato.
La discussione sul punto fra gli operatori del diritto è sempre stata particolarmente ampia.
In tale sede ci si limiterà ad offrire una breve panoramica delle questioni sul tappeto e degli
orientamenti attualmente seguiti.
In primo luogo, v’è da dire che il problema da risolvere è sempre stato rappresentato dalla
necessità di evitare di riconoscere all’amministrazione una sorta di semi-immunità, giustificabile –
secondo alcuni – dal peculiare ruolo di tutela dell’interesse pubblico esercitato.
Inutile rammentare che le opinioni prevalenti negli ultimi anni sono sempre più ferme nel
disconoscere la citata semi-immunità, in nome di una maggiore tutela e garanzia del cittadino ed in linea
con il rispetto del principio generale della certezza del diritto, che non può di sicuro giustificare
eccezioni particolarmente vantaggiose per il soggetto pubblico.
Secondo i principi generali, l’individuazione di un’eventuale responsabilità della pubblica
amministrazione per illecito aquiliano non può prescindere da un’approfondita analisi sull’elemento
soggettivo.
Come noto, con la sentenza n. 500 del 1999 la Corte di cassazione ha superato il tradizionale
orientamento in materia di accertamento della colpa dell’amministrazione.
Prima di tale pronuncia, la colpa era legata intimamente all’emissione del provvedimento
illegittimo ed alla sua esecuzione, a prescindere dalla tipologia del vizio inficiante il provvedimento.
L’esecuzione di un atto amministrativo dava, quindi, automaticamente luogo a colpa.
Omettendo di ripresentare, in questa sede, il complesso iter che ha portato alla svolta del 1999,
si può brevemente ricordare che con la sentenza n. 500 la Cassazione ha ritenuto indispensabile
l’accertamento del dolo o della colpa della pubblica amministrazione.
Non vi è quindi colpa “a prescindere” (legata cioè all’emanazione del provvedimento
illegittimo), bensì necessità di accertare la presenza o meno dei requisiti appena citati dal punto di vista
dell’elemento soggettivo.
Non basta allora la semplice illegittimità del provvedimento amministrativo, occorrendo invece
la valutazione del tipo di colpa imputabile all’Amministrazione; indizio rilevante della colpa in questione
può, ad esempio, essere rappresentato dal mancato rispetto delle regole di buona amministrazione e
correttezza, che devono connotare l’esercizio della funzione amministrativa in ogni momento ed in
qualsiasi contesto, onde evitare la creazione di situazioni meramente arbitrarie.
Il timore di conferire posizioni di vantaggio in capo al soggetto pubblico non deve però tradursi
nel mantenimento del regime di responsabilità oggettiva, affrancato da valutazioni sulla presenza o
meno della colpa o del dolo.
L’innovativo orientamento della Cassazione del 1999 tiene anche conto di un’altra questione.
L’ampliamento della tutela anche agli interessi legittimi non può penalizzare eccessivamente
l’Amministrazione, creando innumerevoli situazioni suscettibili di risarcimento.
In altre parole, ad una maggiore tutela del privato (che può agire anche per violazione
dell’interesse legittimo) deve di contro corrispondere una maggiore rigorosità nell’accertamento della
responsabilità della pubblica amministrazione (ravvisabile, come detto, solamente in presenza di
condotta colposa o dolosa).
Il problema posto è strettamente collegato alla possibilità di stabilire entro quali confini
attribuire al soggetto pubblico l’illecito operato dei soggetti dipendenti.
Taluni ritengono riferibili all’amministrazione soltanto gli atti posti in essere dai funzionari
nell’esercizio dei compiti propri dell’ente; resterebbero, di conseguenza, esclusi gli atti adottati al solo
scopo di danneggiare altri soggetti nonché le fattispecie costituenti reato (il responsabile sarebbe il
soggetto in quanto tale e non come longa manus dell’Amministrazione).
L’orientamento dominante considera inscindibile il rapporto di immedesimazione tra funzionari
ed Amministrazione: gli atti e provvedimenti adottati sono in ogni caso riferibili al soggetto pubblico,
fatte salve le conseguenze personali di carattere penale.
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La pubblica amministrazione risponde, quindi, ai sensi dell’art. 2043 del codice civile,
nell’ipotesi in cui ai terzi sia stato procurato un danno ingiusto; questi ultimi potranno agire contro
l’amministrazione o contro i dipendenti.
Nell’individuare i presupposti costituenti la responsabilità dell’Amministrazione, gli organi
giudicanti hanno sempre tenuto presente l’indirizzo espresso dai giudici comunitari, costantemente
ispirato al rispetto del principio di cui all’art. 288, comma 2, del Trattato sull’Unione Europea3.
La prevalenza dei principi di carattere generale non ha, tuttavia, impedito il formarsi di alcune
opinioni ispirate a posizioni particolarmente innovative nel vasto panorama in cui s’inserisce la
problematica della responsabilità della pubblica amministrazione.
Di particolare interesse, al riguardo, è la questione della responsabilità amministrativa “da
contatto”, che ricorre allorché l’atto lesivo della sfera giuridica del privato viene adottato al termine di
un procedimento amministrativo, in cui si è stabilito un contatto qualificato (sotto forma di rapporto
giuridico) tra il privato e l’amministrazione.
La violazione che dà luogo al risarcimento è di carattere procedimentale, venendo meno la
garanzia dell’affidamento del privato sulla legittimità dell’azione amministrativa.
Tale ragionamento ha come corollario quello di riconoscere a siffatta responsabilità
dell’amministrazione natura contrattuale, con tutto ciò che ne deriva in termini di onere della prova, che
i giudici amministrativi hanno riconosciuto gravare in capo all’amministrazione, debitrice della
prestazione nei confronti del privato.
La giurisprudenza ha, tuttavia, tenuto conto della possibile presenza di un errore scusabile
dell’amministrazione; l’eventuale adozione di atti illegittimi può, infatti, essere la conseguenza di una
situazione di incertezza sulla disciplina applicabile (si pensi alle ipotesi di conflitti giurisprudenziali,
mancata uniformità di interpretazione della normativa di riferimento, novità della questione o
contraddittorietà della normativa vigente).
L’accertamento giudiziale di responsabilità in capo all’amministrazione ha come conseguenza il
riconoscimento del risarcimento del danno subito dal privato.
L’opinione dominante in giurisprudenza considera presupposto indispensabile del risarcimento
l’annullamento dell’atto amministrativo, per una serie di motivazioni tra le quali si può, ad esempio,
citare quella basata sul fatto che il riconoscimento del termine di prescrizione per l’azione di
risarcimento darebbe luogo ad elusione del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto
pregiudizievole, con tutte le conseguenze in materia di certezza dei rapporti giuridici, sub judice per un
periodo eccessivo di tempo.
Anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha riconosciuto la pregiudizialità dell’azione di
annullamento rispetto a quella risarcitoria4.
Medesimo orientamento hanno la giurisprudenza amministrativa ed i giudici della Corte di
cassazione5, secondo i quali solo l’annullamento dell’atto amministrativo consente il riconoscimento del
danno ingiusto per il privato.
Del resto, il giudice ordinario non potrebbe disapplicare l’atto lesivo; ciò sarebbe possibile solo
in caso di conoscenza dell’atto in via incidentale e non come oggetto di giudizio principale sulla
presenza o meno di un pregiudizio per il privato.
Una volta accertata la violazione subita, il soggetto danneggiato potrà ottenere il risarcimento
del danno per equivalente oppure in forma specifica.
Nella prima ipotesi, il privato percepisce una somma di denaro che dovrebbe costituire il giusto
ristoro del pregiudizio subito a seguito della commissione dell’illecito da parte dell’Amministrazione.
Trattasi di tutela di carattere surrogatorio, dal momento che il danneggiato deve “accontentarsi”
di un bene (il denaro) diverso da quello che avrebbe voluto ottenere.
Nel secondo caso, il soggetto leso consegue il medesimo bene non ottenuto a causa del
comportamento lesivo del soggetto responsabile.
La norma citata recita: “in materia di responsabilità extracontrattuale la Comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni
ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.
4 Adunanza Plenaria del 26 Marzo 2004.
5 II Sezione, n. 4538 del 27 Marzo 2003.
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La questione diventa delicata allorché, con riguardo alla prima ipotesi, occorre stabilire l’esatta
quantificazione del danno attraverso l’utilizzo di parametri non lontani dalla realtà.
Fermo restando il ricorso – in caso di dubbio – alla valutazione in via equitativa ex art. 1226 del
c.c., occorre in primo luogo sottolineare che la giusta determinazione del danno risulta maggiormente
difficoltosa nelle ipotesi di lesione di interesse pretensivo e procedimentale.
Meno problemi desta il ristoro dei pregiudizi riguardanti interessi oppositivi.
Parallelamente, minori difficoltà si incontrano nella quantificazione del danno emergente,
mentre più delicati paiono i termini della questione nelle ipotesi di risarcimento del cosiddetto “lucro
cessante”, per ottenere il quale il privato dovrà dimostrare anche una mancata “espansione” della
propria sfera giuridica a seguito dell’adozione del provvedimento illegittimo.
Come si può facilmente dedurre da quanto sopra, il riconoscimento del principio del
risarcimento del danno ingiusto incontra tuttavia difficoltà di carattere pratico, soprattutto con riguardo
ad alcuni aspetti del problema, di certo significativi per il privato ma senza dubbio di difficile soluzione
per chi viene chiamato ad applicare in concreto i dettami giuridici.
Brevi considerazioni si possono, infine, fare su un ulteriore rilevante problema, cui si è
incidentalmente fatto cenno nell’affrontare la questione del previo annullamento dell’atto
amministrativo illegittimo: la prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
In primo luogo, occorre fare una precisazione: il termine è quinquennale, se si aderisce alla tesi
(prevalente) della natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione. Diversamente - e
cioè in caso di favor per la tesi contrattuale - si applicherebbe il termine ordinario decennale.
Il dies a quo coincide con la data in cui si ha la dichiarazione di illegittimità del provvedimento
lesivo, dal momento che da tale data, in ossequio al canone della necessaria pregiudizialità
amministrativa, il diritto al risarcimento dei danni può essere azionato.
In caso di richiesta di risarcimento per comportamento omissivo dell’amministrazione (ritardo
nell’adozione di un atto), il termine decorrerà dalla cessazione del citato comportamento.
La giurisprudenza si è, in ogni caso, preoccupata di individuare il dies a quo con riguardo alle
diverse tipologie di atti lesivi degli interessi del privato; la vastità degli atti amministrativi adottabili
rende, infatti, impraticabile una soluzione univoca.
Ciò che tuttavia rileva, dal punto di vista del privato, è l’utilizzo - nel percorso argomentativo
finalizzato all’individuazione, da parte degli operatori del diritto, del termine iniziale - di criteri che
tengano in debito conto le esigenze del singolo, senza per questo penalizzare il ruolo
dell’amministrazione ma, altresì, senza rendere difficoltoso ed incerto lo strumento risarcitorio, la cui
portata innovativa è ormai sotto gli occhi di tutti.
Rendere poco praticabile la strada maestra del diritto al risarcimento del danno per
responsabilità dell’amministrazione nei confronti del privato (inteso, a seconda dei casi, come
contribuente, destinatario di provvedimenti ampliativi o di qualsivoglia genere), significherebbe di fatto
“neutralizzare” la portata innovativa introdotta in via giurisprudenziale e legislativa negli ultimi anni.
Il ritorno allo status quo ante (e, cioè, alla intangibilità o alla semi immunità dell’amministrazione)
risulterebbe senza ombra di dubbio anacronistico e per nulla in linea con le recenti evoluzioni, ispirate –
giova sempre ricordarlo – dal diritto comunitario, i cui principi devono ormai sempre guidare l’azione di
chi quotidianamente applica le regole di diritto.
Dott. Giuseppe Vergoni
Dirigente Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
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