Incontri con i/le docenti per un`educazione di genere e alle pari

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Incontri con i/le docenti per un`educazione di genere e alle pari
Incontri con i/le docenti per un'educazione di genere e alle pari opportunità
A cura di Barbara Mapelli*
Nella normale quotidianità del fare scuola la proposta educativa si presenta – rispetto alle
differenze di genere – solitamente neutrale, come se si considerassero irrilevanti tali
differenze.
Confondendo quindi la necessità e il diritto di ognuno all’uguaglianza con l’altrettanto
importante necessità e diritto a veder rispettate le proprie diversità, unica e reale garanzia di
un’effettiva uguaglianza.
E quella di genere è la differenza originaria.
Dall’Enciclopedia filosofica Bompiani, voce Identità di genere (a cura di Barbara Mapelli)
“Consapevolezza più o meno chiara di appartenenza all’uno o all’altro sesso, categoria
centrale del senso di sé della soggettività moderna. Definisce la molteplicità di caratteristiche
e comportamenti che vengono associati ai concetti di mascolinità e femminilità e alle loro
differenze reali o supposte. Si tratta quindi della costruzione di sapere sociale, delle
rappresentazioni pratiche intorno alla differenza sessuale, attraverso le quali il soggetto si
percepisce e viene percepito (…). L’identità di genere non appare quindi espressione di
differenze naturali, bensì prodotto storicamente determinato, passibile quindi di mutamento
(…)”
I mutamenti delle identità sessuate, le percezioni e autopercezioni di quel che significa
essere, diventare una donna o un uomo, sono fenomeni di straordinaria entità, che
caratterizzano le culture e le pratiche sociali del contemporaneo, dopo millenni di sostanziale
immobilità e di dominio dell’un sesso sull’altro, e possiedono una valenza trasformativa che
forse noi stesse e noi stessi, che la viviamo, stentiamo a riconoscere in tutta la sua
importanza.
La categoria interpretativa genere, d’altronde, è propriamente categoria che interpreta,
analizza e offre visibilità al cambiamento e storicamente nasce nel momento in cui le donne
avviano la radicale trasformazione del loro essere nel mondo. La novità delle nuove
presenze femminili è tale che le tradizionali forme di lettura del reale non possono percepire
né raccontare l’entità del cambiamento, occorre ‘si inventi’, di fronte all’assolutamente nuovo,
qualcosa di altrettanto nuovo.
Ma se ciò che caratterizza il genere è appunto la sua capacità di interpretazione e
descrizione del mutare legato ai soggetti sessuati, l’altra principale qualità di questo
approccio culturale è il fatto di essere relazionale, di costringere lo sguardo e la sensibilità
conoscitiva di chi osserva individui e società in quest’ottica a comprendere che il mutamento,
inizialmente legato alla volontà e iniziativa delle sole donne, a decenni di distanza non può
ormai che riguardare, se pure in forme diverse, ambedue i sessi.
E’ impensabile immaginare una realtà, sociale, privata, professionale, nella quale cambi una
componente e l’altra mantenga le stesse posizioni e le stesse percezioni di sé nel contesto e
nella relazione.
Le donne sono cambiate e costringono gli uomini a mutare a loro volta e ovunque, anche se
taluni tentano con finta innocenza di pensare che tutto sia come prima, mentre altri, anche se
ancora pochi, stanno iniziando a comprendere che le nuove libertà femminili non
*
Pedagogista, studiosa delle tematiche relative a educazione e culture di genere, insegna presso la Facoltà di Scienze della
Formazione dell’Università di Milano Bicocca
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necessariamente significano perdita di potere, ma piuttosto possibilità di conquista di nuove
libertà anche per gli uomini.
“(…) In tempi più recenti e riconoscendo il proprio debito alla ricerca femminista, nasce la
riflessione maschile sulla propria identità di genere, innanzitutto nei paesi di cultura
anglosassone e in seguito, con diffusione ancora modesta, anche in Italia. La categoria
genere consente agli studiosi di definire il maschile come parzialità e relazionalità con il
femminile, superando l’immagine universale e metastorica della maschilità e offrendo agli
uomini strumenti di trasformazione: ‘l’idea che la maschilità sia una costruzione sociale,
soggetta al mutamento storico, non deve essere intesa come una perdita, come qualcosa
che è portato via agli uomini, ci offre qualcosa di straordinariamente prezioso: l’azione e la
capacità di agire, gli uomini individualmente e collettivamente possono cambiare (Michael S.
Kimmel)’ “ (tratto da, Enciclopedia filosofica Bompiani, Identità di genere, cit.)
Introdurre la prospettiva di genere nelle culture e pratiche educative significa assumere la
consapevolezza che né i soggetti né i contenuti che si incontrano e si scambiano nella
scuola sono neutri, bensì sessuati, portatori quindi di esperienze e saperi differenti, che
riguardano diverse traiettorie biografiche individuali e collettive. Storie millenarie di soggetti e
società che hanno conosciuto e proposto (imposto) diversi destini a donne e uomini,
interiorizzati da ciascuno, anche nel contemporaneo, che ha visto, soprattutto dopo il
Movimento delle donne, mutare le identità e le relazioni tra i due generi.
L’acquisizione di queste consapevolezze ha conseguenze (o dovrebbe averle) personali ed
educative, riguarda per ciascuno il proprio essere e percepirsi come soggetto sessuato,
donna o uomo, riguarda il proprio essere e percepirsi nella relazione pedagogica,
nell’incontro coi saperi.
Tutto questo comporta la necessità del partire da sé per avviare un differente modo di fare
scuola e la valutazione della caratteristica di radicalità propria di una pedagogia di genere.
Chi insegna e apprende a riconoscersi come soggetto sessuato, portatore/trice anche
nell’esperienza educativa della propria storia come donna o uomo, storia individuale,
irriducibile a ogni altra, ma che affonda radici profonde nelle storie diverse dell’uno e l’altro
genere, diviene innanzitutto ricercatore/trice di sé, rispetto al cambiamento che trova dentro
e fuori la scuola, che muta i sessi e le generazioni.
Un cambiamento cui non basta adeguarsi, ma rispetto al quale occorre avere
consapevolezza su quanto possa mutare anche chi è adulto/a, perché è questa
consapevolezza che avvia alla comprensione dei nuovi e delle nuove al mondo, con le
proposte e i bisogni che le loro vite chiedono (anche se spesso non sanno formulare la
domanda) ma possono anche offrire. Questa stessa consapevolezza avvia, può avviare, a
una revisione critica dei saperi, che divengono vitali e quindi momento possibile, vero di
scambio, solo nel momento in cui trovano luogo e senso nelle vite ed esperienze delle
persone.
Vivere dunque una relazione pedagogica sessuata, con la consapevolezza che offrono le
narrazioni collettive e individuali di genere, le storie delle generazioni, e di ciascuno/a, può
insegnare ad adulte/i, ai e alle giovani, che l’essere donne e uomini non è solo un
destino, ma una vocazione e un desiderio, che sviluppa realtà per tutta la vita. Ma solo
se si apprende che il proprio essere e appartenere a un genere è senz’altro un fatto
individuale, che si realizza però e si colloca nel mondo e in una realtà più grande, in cui i
cambiamenti di ciascuna/o sono in relazione di continuo scambio con il mutare collettivo di
culture e ruoli dei due sessi. Occorre comprendere questi mutamenti per sapervi collocare il
progetto di sé, il proprio divenire donna o uomo, ma non solo, per sentirsi anche capaci di
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trasformazione, soggetti attivi che sanno influire sul progetto di mondo. Attraverso quello che
un’educazione di genere soprattutto ha insegnato e può continuare a insegnare,
nell’apprendere condiviso tra docenti e discenti, donne e uomini differenti anche perché di
diverse generazioni: che tutto ciò che si pensa e dice, pur nel rigore della ricerca che
riconduce ogni parola e ogni scelta alla responsabilità del soggetto, al suo vissuto, alla sua
storia, è una delle possibili interpretazioni della realtà e del sapere, che può, deve imparare a
convivere con altre.
Una concezione delle diversità – che dal genere si allarga ad altre differenze – che declina
nell’unico modo possibile nel contemporaneo la sostanza dell’uguaglianza e insegna non
solo che si può essere differenti e uguali, ma che le differenze rappresentano più ricche
risorse per ciascuno, per divenire sé stessi, e segnano di significato i percorsi della crescita
e dentro i saperi.
Questo partire da sé, che riguarda innanzitutto i/le docenti, ma diviene una proposta per
stabilire nuove relazioni e pratiche educative impone la necessità di un ripensamento
radicale di sé come soggetto e come soggetto in educazione, un ripensamento che mi
sembra identifichi la natura e il significato dell’assunzione della prospettiva di genere
nell’essere e fare scuola. Un percorso che nasce innanzitutto da un processo di
consapevolezza dell’insegnante, di sé come persona e professionista sessuata; della
permeabilità del proprio privato e professionale, contro ogni presunto e preteso rigore di
neutralità, distacco e pseudoscientificità, che trasmette falsi idoli a studentesse e studenti,
un’immagine di neutralità di persone e saperi che non appartiene alla realtà e costruisce una
pedagogia dell’inganno.
Questo significa, da parte del e della docente il non possedere la consapevolezza, o
rifiutarla, del proprio essere sessuato, di un’appartenenza di genere che non si abbandona
entrando nell’aula, è un patrimonio di consapevolezza, competenza e formazione soprattutto
personale, di una cura di sé non solo professionale, che dà senso, può dare senso anche
all’esserci in educazione. La cultura di genere, ripeto, non è solo un’aggiunta di contenuti ai
tradizionali programmi, ma uno sguardo che parte, deve partire dal sé di ogni docente,
donna o uomo che insegna, e questo vuol ben dire qualcosa, perché in classe si porta la
propria storia ed è una storia diversa se si è uomo o donna, ed è una ricchezza
riconoscerlo, per sé e per gli altri, è una risorsa da vivere e condividere.
Anche se non è facile per un’insegnante, sia donna che uomo, accettare questa realtà e
praticarla nel suo lavoro educativo: significa mettersi in discussione come persona e come
professionista, imparare a vedere e accettare il proprio cambiamento per imparare a
vedere e accettare quello altrui, quello di chi è molto diverso e diversa perché molto
giovane. Eppure ciascuno ripercorrendo la propria storia può valutare quanto è mutata e
mutato, quanto sono cambiati anche i valori di riferimento, le culture, le credenze anche in
noi, ed è questa valutazione della nostra diversità in divenire che ci rende competenti (ed è
una competenza, io credo, indispensabile per chi insegna) nel comprendere, imparare ad
accompagnare nel suo divenire anche la diversità altrui. Ma è difficile, ripeto, per questo
la tematica di genere si presenta in tutta la sua radicalità, a differenza di altre educazioni,
poiché coinvolge e rimette in discussione tutta la persona, oltre ai saperi tradizionali su cui si
basa il prestigio, il significato tradizionale dell’essere insegnante. E’ quella che ho spesso
definito una pedagogia del coraggio.
Un percorso, che non è, per l’insegnante, un semplice accrescimento di sapere e
professionalità, ma un mutamento profondo, che nella sua radicalità rimette in discussione
fino in fondo la persona, le sue scelte, il suo rapporto con la professione e il sapere. Solo se
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questa persona si avvia al processo di trasformazione di percezione di sé, sguardo sugli altri
e sulle altre, sul mondo, che induce il pensarsi e percepirsi come soggetto sessuato,
consapevolmente e intenzionalmente, come atto di responsabilità, nei confronti del proprio
progetto biografico, come atto di presenza attiva nel mondo, come processo di conoscenza e
autoconoscenza, costruzione di sapere e interpretazione del reale.
I modelli maschili e femminili e l’educazione dei generi
C’è una metafora che usa Bauman in un suo testo recentissimo, Intervista sull’identità, che
probabilmente non ci dice nulla di nuovo, ma offre un immagine suggestiva del formarsi
dell’identità nella contemporaneità. Un tempo, lui dice, l’identità si poteva rappresentare
come un puzzle che stava tutto in una scatola e l’immagine del risultato finale era data, si
trattava quindi di trovare i pezzi per ricostruirla e anche se ce n’erano di difettosi, il tentativo
era quello di avvicinarsi il più possibile a quell’immagine. Ora si possiedono dei pezzi, altri si
ambisce ad averli, ma le immagini cui si cerca di avvicinarsi sono plurime e, aggiungo io e lo
abbandono, sono in continuo mutamento, così le composizioni che si cerca di costruire della
propria identità, non solo non hanno un’immagine predefinita, ma essa non è mai raggiunta,
mai data una volta per tutte, più immagini, che si inseguono nel tempo, convivono e si
sovrappongono.
Tutto questo è probabilmente ovvio e intuibile e sta alla base di quel che si deve pensare per
chi come noi ora pensa all’educazione. E tanto più evidente appare tutto quanto detto se si
aggiunge a questa immagine un’ulteriore complessità o profondità di visione, dando sesso a
queste identità del contemporaneo, chiamandole donne, uomini, forse ad essere più raffinati,
introducendo variazioni alla semplice binarietà del femminile e maschile, ma per comodità
limitiamoci a questa.
Vediamo allora qualcosa in più: vediamo che il tempo in cui viviamo offre e al contempo
chiede di attenersi a modelli del maschile e del femminile appunto, non solo molteplici,
mutevoli e cangianti, o in contraddizione tra loro, ma assolutamente opposti.
Abbiamo sotto agli occhi i corpi delle veline, vallette, mogli di calciatori, corpi esposti come
ormai usa dire, ma anche i corpi quasi inesistenti, evanescenti delle anoressiche, i loro
grandi occhi che sembrano mangiarsi i visi. Corpi anch’essi esposti e si tratta nell’uno e
nell’altro caso di corpi che dicono di sé, corpi che sono superfici di significazione,
raccontano storie, stratificazioni di narrazioni che hanno costruito culture e che già ne
suggeriscono il superamento, corpi che dettano norme, non direttamente nominate ma
straordinariamente vincolanti. E vi è poi, sempre per le donne, la mai risolta ambiguità tra
maternità e lavoro, in un paese come il nostro che ancora retoricamente incensa la donna
madre, anzi ancora le donne spesso possono conquistare protagonismo sociale e politico,
trovare voce udibile attraverso il loro essere madri. Le madri contro lo smog di Milano, e i
padri? E non basta essere donne e uomini per essere contro lo smog? Ancora il riferimento
alla maternità crea un simbolico potente, suggestivo, evocativo, quelle madri, le madri sono
le madri di tutti, la madre di ciascuno. Non intendo certamente togliere valore alla maternità,
ma a questa retorica non corrisponde alcuna difesa reale della maternità e allora per ogni
donna si pone il dilemma mai risolto tra maternità, lavoro o anche, più semplicemente, tempo
per sé, di donna. Un dilemma che si trasforma in accumulo di sensi di colpa, irrisolvibili,
poiché la nostra società dice a ogni donna che è una cattiva madre se lavora troppo o
semplicemente dà valore, centralità al suo lavoro, ma le dice anche che è una cattiva
lavoratrice quando si occupa (troppo?) dei suoi figli. Due immagini opposte, irrisolte, a cui
ciascuna dà soluzioni personali, ricorrendo molto spesso ad altre donne, ma senza mai
sanare a fondo le lacerazioni che questa dicotomia oppositiva crea. E nel compito
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dell’educare, nell’orientare le giovani donne al proprio futuro questa tematica risulta cruciale,
poiché condiziona scelte, imagini di sé, propositi.
Le cose si fanno difficili anche per gli uomini, anche qui i corpi maschili ci insegnano molto. E
ci insegnano, come quelli femminili, che i corpi sono discorso, pratiche discorsive attraverso
le quali ciascuno e ciascuna interpreta il personaggio, o i personaggi, che ha deciso di
indossare, che sono a loro volta interpretazione personale di quel che la cultura, la società
vive, propone, impone, regola e norma. Allora l’esposizione maschile mostra le immagini del
potere, ancora giacca e cravatta, in ossequio all’uomo grigio che ha dominato sul Novecento,
ma anche i corpi muscolosi, ‘palestrati’ si dice, il metrosexual, la più recente invenzione che
ereditiamo dall’America naturalmente: corpo muscoloso ma non troppo, glabro, rivestito delle
marche più prestigiose, eterosessuale (ma questo poco importa, perché il vero oggetto del
suo desiderio è lui stesso) e grande consumatore di prodotti estetici e anche di cure
estetiche. Al contempo, però, si moltiplica l’orrore, tutto maschile, per gli omosessuali,
l’omofobia, la paura in realtà che possa mostrare falle la propria di virilità. Mi fermo qui ma le
ricerche e le letterature sociologiche e psicologiche sono molto ricche ormai di analisi
rispetto a questi nuovi maschili, alla pluralità cercata e scelta che investe finalmente anche
questo genere, ma che si fa, nondimeno, anch’essa, come nel caso delle donne, confusa e
normativa al tempo stesso. Ricerche sociologiche e psicologiche dicevo, ma certamente non
c’è molto nella letteratura e pratica pedagogica. Eppure è difficile crescere, diventare
donne e uomini, o continuare a diventarlo, senza aiuto, guida, direzione proposta, suggerita,
tra queste immagini che si sovrappongono, si oppongono. E vi è anche una novità, sempre
per gli uomini, soprattutto giovani: cominciano anche loro ad ammalarsi di anoressia, un
territorio, finora, di sofferenza esclusivamente femminile.
E’ difficile, ripeto, muoversi in questa complessità senza una o più guide che risveglino,
direbbe Agostino, il maestro o la maestra interiore che è in noi, un’educazione, aggiungo io,
che renda per quanto possibile competenti e sapienti rispetto a queste immagini di
femminile e maschile, rispetto alla loro storia, formazione, significazione nel tempo e nelle
diverse culture.
E invece sembra prevalere in tutta la cultura sociale che domina anche i luoghi dell’educare,
una cultura dell’emergenza, emergenza continua, che ci urla nelle orecchie, ci affretta i
passi, le scelte e le decisioni, rende tutto urgente, immediato, senza pause. Impedisce,
questa cultura dell’emergenza, di pensare, di fermarsi a riflettere, darsi il proprio tempo, il
tempo della cura, di sé e degli altri e anche del mondo, invade i luoghi dell’educare,
sia i luoghi dell’interiorità di ognuno, sia i luoghi della relazione, anche tra generazioni,
e della comunicazione. Così alcuni eventi che si ripetono ossessivamente e sono segnali
non difficilmente comprensibili, vengono trattati, in nome della cultura dell’emergenza,
attraverso pratiche repressive e non interpretative, non creano così la possibilità di un
accumularsi di esperienze e di saperi.
E’ ovvio parlarne ma il cosiddetto bullismo è un fenomeno che ci dice e ci chiama a
un’interpretazione e alla necessità dell’educare, parla dei nuovi disagi maschili, della
mancanza di modelli comprensibili, condivisibili, o dell’eccesso di modelli non filtrati, non
interpretati insieme, criticati, resi discorso colto e possibilità di scambio. Per cui i ragazzi
scelgono la violenza, come affermazione di una virilità che è incerta, impaurita, ha timore
delle donne e del giudizio dei pari, sceglie il contro tipo del debole per affermare la propria
dominanza, misera e sofferente. Non hanno questi ragazzi modelli educativi del proprio
genere, a scuola gli uomini non ci sono o sono molto pochi, comunque ormai le scuole
sono luoghi, reali e simbolici, di donne, e non credo che vi sia alcun motivo per rallegrarsi
di questo, e poi i padri, che al di là della nuova retorica, delle nuove paternità appunto,
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vede una realtà indubbiamente in cambiamento ma fatta ancora molto di silenzi e di
assenze. E’ questo senz’altro un territorio dell’educare, del pensare e riflettere insieme, del
trasformare in cultura condivisa, perché divenga anche bene personale, i mutamenti che
creano disagio, disorientamento e sofferenza, e poi violenza, se lasciati a sé stessi senza
discorsi e pratiche che li nominino non solo come dolore individuale, ma come percorso
collettivo, nel quale ognuno, in una storia condivisa, può trovare luogo per la propria unicità.
E anche qui una novità di genere: come prima per l’anoressia maschile, il bullismo è ormai
diventato, se pure minoritario, anche fenomeno agito da ragazze. Smentendo anche in
questo caso retoriche accreditate, che ripetono il mito della non violenza femminile. Di
nuovo, con ogni probabilità, gli eventi che si ripetono ci dicono di una mancanza di
trasmissione generazionale ed educativa tra donne del cambiamento, una profonda
ignoranza di quello che sono stati i percorsi femminili, le nuove libertà degli ultimi decenni,
per cui una distorta interpretazione dell’ emancipazione rende queste giovani desiderose di
emulare il maschile violento, poiché si propone come modello visibile, immediato di potere e
di forza.
Se l’educazione è qualcosa che nella sua complessità, enigmaticità ci riconduce, dovrebbe
ricondurci, al luogo che le è proprio, di cui è costitutiva e che la costituisce, il soggetto, la
contemporaneità ci interroga tutti e tutte, non solo a diverso titolo educatori ed educatrici,
sulla nostra capacità, e desiderio, di stare in questo continuo divenire che sono le
nostre vite di donne e uomini, così diverse e diversi non solo da chi ci ha preceduto, ma
da noi stesse e noi stessi pochi anni fa, o mesi o ieri. L’educazione che riceviamo e quella
che diamo, e i due passaggi generalmente avvengono in contemporanea, e soprattutto
quella che alimenta e fa emergere il maestro o la maestra interiore, non è solo quella che
interpreta il cambiamento e apprende, per quanto possibile, a guidarlo, è quella che sa
anche generarlo in ognuno come cosa propria, se pure all’interno delle grandi correnti
collettive, delle nuove storie che hanno disegnato le donne, più visibilmente negli ultimi
decenni, ma ora anche gli uomini, alcuni. Un possesso personale che solo come tale può
ritrasformarsi in scelta condivisa, comunicata e collettiva. L’uno e l’altra possibili virtù
educative e auto educative solo se si apprende a riconoscerne, e apprezzarne, la
caratteristica di temporaneità, la necessità di continua revisione, trasformazione, il bene
permanente di una ricerca che non finisce. Evitando che l’assunzione del ruolo del
perennemente indignato o indignata ci chiuda gli occhi sul mondo ma anche su di noi,
cercando anzi di accettare con ironia – grande virtù pedagogica – i nostri limiti e mutamenti.
Ed è vero che le culture di genere ci offrono gli strumenti per osservare, comprendere questo
mutamento, a partire dal cambiamento delle identità dei soggetti, donne e uomini e dal
cambiamento delle relazioni tra i sessi. Questo è il grande fatto della contemporaneità, dopo
secoli in cui donne e uomini sono sempre state e stati in relazioni relativamente immobili.
Abbiamo la fortuna di essere nate e nati nel mezzo di questo cambiamento, che durerà,
continuando a cambiare e cambiarci, per alcune generazioni.
E il privilegio di essere dentro la scuola è proprio questa convivenza, se pure necessitata, tra
generi e generazioni diverse, questo dato che costringe a valutare il cambiamento, a
percepire le differenze, anche profonde, a dare all’uno e alle altre il valore che hanno, nel
momento in cui le riconosciamo come la trama principale delle nostre esistenze.
Ma, ripeto, una pedagogia di genere significa attenzione ad ambedue i generi, anche al
maschile, quindi, ai mutamenti e ai bisogni, diverse culture che gli uomini che cambiano
elaborano o possono elaborare in una relazione, non confusiva, rispettosa delle differenze,
ma più armoniosa con le donne: la categoria genere è per sua natura categoria
interpretativa del mutamento ed è categoria relazionale, riguarda dunque i due sessi. E’
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necessario, quindi, non confondere cultura o pedagogia di genere con cultura o pedagogia
del solo genere femminile.
Sono gli stessi stereotipi rigidi, e ancora molto vitali, che assegnano ruoli e destini alle une e
agli altri che hanno un carattere di complementarietà molto forte, come d’altronde i
cambiamenti di identità, l’evolversi della progettualità femminile non può che coinvolgere
anche l’altro sesso, le culture di genere non possono che essere relazionali. E dunque, se gli
studi delle donne hanno naturalmente privilegiato ciò che riguarda un problema femminile, è
sempre più chiaro che il cambiamento deve riguardare entrambe i sessi e che bisogna
porre attenzione, lavorare anche sulle assenze maschili per riequilibrare l’essere nel
mondo, e non solo nel lavoro, di donne e uomini.
E a proposito di assenze maschili il mio riferimento è soprattutto alla poca o nulla presenza
degli uomini nel lavoro dell’educare, mentre molte esperienze mi hanno insegnato che in
presenza dell’intervento maschile sul genere i ragazzi più facilmente si lasciano
coinvolgere. Ma si tratta di evento raro a scuola.
A scuola i docenti maschi, infatti, sono pochi.
Inoltre, spesso, le tematiche di genere sono interpretate come riguardanti e dirette
principalmente alle studentesse; le persone cosiddette esperte sulla tematica sono
quasi sempre donne.
Un esempio, tra i molti: vi sono molti interventi educativi orientativi utili a indirizzare verso le
materie scientifiche le ragazze; non accade mai il contrario o almeno non viene mai
segnalato: uno o più studenti maschi che si avviino verso professioni o studi, ad es.
dell’ambito educativo e sociale, in cui gli uomini sono largamente assenti. E gli stesi
materiali ed esercitazioni che noi stesse vi proporremo risentono di questa mancanza cui
dobbiamo rimediare.
Si tratta, io credo, anche tra noi che ci occupiamo di stereotipi di genere, appunto di uno
stereotipo di genere. Osserviamo il disagio maschile, le difficoltà a cambiare e a trovare
modelli, ma la cultura di genere, le nostre stesse attitudini continuano a rivolgersi alla
componente femminile, non più esclusivamente come un tempo, ma prevalentemente. E’
purtroppo un gioco di specchi: gli uomini (docenti) sono pochi a scuola, si continua ad
occuparsi sempre poco degli uomini (studenti) a scuola e i giovani maschi
percepiscono il lavoro di cura – poiché vedono solo donne che si occupano di loro –
come lavoro femminile e non come un percorso che potrebbe riguardare anche gli
uomini. E lo stereotipo si involve su sé stesso e si alimenta di sé stesso.
A scuola vi sono dunque pochi modelli maschili positivi di riferimento, la scuola sempre più
diviene luogo di donne di qua e di là della cattedra, e questo crea o approfondisce
asimmetrie di genere, difficoltà di relazione (donne più colte ecc.)
Vi è necessità dunque di una cultura di genere, competenze educative che contemplino
come fondante la visione interpretativa di un mondo che è abitato da donne e uomini,
e che è profondamente mutato e rapidamente muta nel divenire delle identità sessuate e
nelle relazioni che tra loro stabiliscono, mentre appaiono ancora vitali dentro e fuori i soggetti
le culture più tradizionali dell’essere donne e uomini. E in questa complessità di modelli,
ripeto, come orientarsi per costruire un progetto di vita? O addirittura apprendere che un
progetto si può elaborare, si può guidare la propria esistenza e non abbandonarsi a quel
che accade giorno dopo giorno.
Ma anche le e gli insegnanti sono donne e uomini e la loro consapevolezza e
intenzionalità di esserlo anche nello spazio e tempo educativi sono una scelta essenziale per
i e le loro studenti, sono un momento fondamentale di orientamento.
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Abbiamo finora parlato, quindi, di una formazione per i e le docenti, quindi che, oltre ad
essere un accrescimento di conoscenze disciplinari, di competenze metodologiche
dovrebbe partire da questo lavoro, di cura, su di sé; e ne abbiamo particolare bisogno in
un momento in cui continua l’erosione e la perdita di senso dell’essere a scuola.
La formazione di studentesse e studenti e l’orientamento
Innanzitutto vorrei chiarire la relazione tra educazione in senso generale e orientamento.
Mi avvalgo, per avviarmi a farlo, di una bella definizione di educazione, che ha spesso
mosso il mio pensiero sui significati dell’educare:
L’educazione è comprensiva del progetto di mondo e del progetto di sé che scaturiscono
dal come si è nel mondo (…) pur nel variare infinito delle concezioni di educazione un
carattere dominante comune che ne emerge è quello di attività modificatrice, fonte di
metamorfosi, evoluzioni, processi, tesa a promuovere lo sviluppo della personalità (…) Si
può chiamare educazione soltanto quella che riesce a realizzare in modo vario la
poliedricità di forme del poter essere di ciascuna persona, rapportandosi con libertà ai
rispettivi progetti di mondo” (Vanna Iori, Lo spazio vissuto).
L’educazione, quindi, si definisce come progetto, progetto di sè nel mondo, progetto
di molti sé che convivono, ciascuno con il suo desiderio più o meno chiaro, di
presente e futuro.
L’educazione allora coincide con l’orientamento se diviene progetto collettivo, comune
nel quale convivono e possono crescere i progetti di ciascuno e ciascuna.
Forse, allora, il primo problema da affrontare è comprendere come non tutti e tutte abbiano
un progetto per la propria biografia o pensino che lo si possa/debba avere – e non si tratta
solo dei/delle giovani, la maggior parte delle persone ‘si lascia vivere’ – e la prima area di
consapevolezza da costruire, quindi, è quella di aprire un confronto e indurre il bisogno di un
progetto, il desiderio di elaborarlo.
Vi sono due figurazioni a proposito di quanto detto in precedenza, che possono essere usate
come esemplificazione nel confronto con le classi e derivano dalle etimologie delle parole
progetto e desiderio.
Progetto ha un’etimologia latina, significa gettare avanti: noi siamo stati gettati e gettate nel
mondo, con la nostra nascita, nessuno ha scelto di nascere, altri hanno scelto per noi, ci
hanno dato una vita che non avevamo chiesto. Prendere in mano questa vita, cercare di
guidarne lo sviluppo, le scelte, di elaborarne, per quanto possibile, i percorsi, fare della
propria biografia un progetto, insomma, significa superare questa condizione iniziale e
passiva dell’essere gettati e gettate, significa farsi protagonisti e protagoniste del proprio
esistere, se pure consapevoli che i progetti debbono essere flessibili, adeguarsi alle realtà
che cambiano, saper mutare a loro volta.
Desiderio ha molte e diverse etimologie. Ne scelgo una utile al nostro discorso. Dizionario
etimologico Zanichelli, “Desiderio (voce dotta) de-siderare, letteralmente ‘cessare di
contemplare le stelle a scopo augurale’ “†. Dunque abbassare gli occhi dal cielo al mondo,
scegliere uno sguardo orizzontale anziché verticale, uno sguardo che si rivolge in tutte le
direzioni del tempo, dal presente illumina il passato e prefigura il futuro, per cercare quello
che pensiamo/vorremmo che fosse il nostro posto nel mondo, ciò che ci fa divenire, ci fa
sentire soggetti.
†
Manlio Cortellazzo, Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, (vol.II), Zanichelli, Bologna 1980, pag.328
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L’elaborazione di un progetto per la propria vita è la forma di passaggio all’età adulta, ora
che i riti tradizionali non vi sono più o sono molto ritardati nel tempo.
I propri vissuti sono i saperi di base su cui ragazze e ragazzi confrontano le proprie
esperienze con il mondo più vasto che si prospetta loro, ma occorre lavorare su questi vissuti
per renderli consapevoli agli stessi soggetti, perché da lì si muovano per elaborare
intenzionalmente il loro progetto.
Solo a partire da una certa competenza biografica, dalla conoscenza di sé ci si può rendere
protagonisti di un progetto, che deve avere le caratteristiche, soprattutto, della flessibilità, si
diceva, dell’adeguamento a una realtà in continuo cambiamento, irta di difficoltà, che occorre
saper riconoscere, anche desiderare di mutare, senza perdersi.
A questo punto si pongono una serie di questioni vitali, io credo, per l’educazione e
l’orientamento.
Innanzitutto come far dialogare i saperi, i metodi, le regole del fare scuola più tradizionale
con i vissuti e le esperienze, le prime aspirazioni di dirsi di ragazze e ragazzi? Soccorre la
metodologia autobiografica e narrativa, a mio parere, nelle sue diverse forme: la
narrazione di sé, attraverso scrittura, racconto, confronti, raccolta di materiali e ricerche.
Si tratta anche dell’unica, efficace strada perché vi sia adesione, comprensione e
condivisione del progetto, nel momento in cui si capisce che riguarda non un tema generale,
una cultura aliena – come può apparire il genere a un primo approccio – ma la propria vita, la
costruzione della propria soggettività, che è unica, irriducibile ad ogni altra, ma può trovare
risorse nelle storie comuni, ma diverse tra loro, di donne e uomini.
Ma certamente l’appuntamento tra le due forme di sapere è un momento arduo, cruciale per
la riuscita del progetto educativo generale.
Vi è poi l’incontro con l’esterno, il mondo e il lavoro in questo caso è quello di sviluppare
capacità di lettura e capacità critica.
Una conoscenza di quello che muta nelle professioni, nelle relazioni tra i sessi, nelle famiglie,
nei sentimenti e occorre saper trovare gli strumenti per saperlo interpretare questo
mutamento continuo, che appare una corrente nella quale tutte e tutti ci muoviamo, nessuno
osserva dalla riva, e dunque anche chi insegna è immerso e immersa in questo mutare che
richiede elaborazione continua, attenzione e sensibilità sempre vive e vitali.
Aiuta indubbiamente in questo lavoro la prospettiva che noi adottiamo, il genere come
categoria interpretativa della realtà, che ci spiega che molto di quello che è mutato ha la
sua origine nel cambiamento delle identità sessuate e delle relazioni tra i sessi.
L’impresa non è semplice e i motivi sono molti e principalmente si originano dalla stessa
natura complessa dell’orientamento, nel momento in cui non lo si voglia sbrigativamente
risolvere come un dispositivo di informazione generica e neutrale.
L’orientamento è momento di crucialità in cui si intrecciano e incrociano differenti
complessità: i mondi della scuola, della formazione e del lavoro, le realtà professionali e
sociali, le istituzioni e i bisogni, le attese dei soggetti, i cambiamenti degli ultimi decenni che
hanno profondamente mutato le identità sessuate e mutato i contesti di vita e attività
lavorativa, ma al contempo le persistenze, resistenze di culture tradizionali e dei pregiudizi e
stereotipi sessuali, che convivono con il cambiare di società e soggetti, tempi, spazi e ritmi di
organizzazioni collettive e biografie individuali.
A questa complessità si aggiunge quanto si osservava in precedenza, la difficoltà a una
sensibilizzazione alle tematiche di genere per studentesse e studenti, che generalmente
sono piuttosto indifferenti, se non critici verso questo approccio, che conoscono poco e che
temono tolga visibilità, offuschi la loro individualità.
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Queste iniziali resistenze sono legate a una cultura scolastica – che d’altronde rispecchia le
tendenze dominanti nella cultura diffusa - sostanzialmente poco sensibile e reattiva alle
culture di genere, che non sono ancora entrate a far parte del paradigma pedagogico
accreditato per la formazione e la didattica.
Ma anche l’orientamento, interpretato nelle sue accezioni di orientamento formativo, ha poco
luogo nelle attività scolastiche.
Ci troviamo quindi a lavorare su due aree tematiche e di intervento educativo che sono
sostanzialmente due grandi rimozioni nella cultura scolastica italiana e poiché lavoriamo su
una concezione di orientamento non neutrale ma sessuato, appare non improprio un
parallelo tra i due concetti di orientamento e genere, ambedue considerati prospettive di
importanza cruciale, meglio ancora necessaria, per le vite, lo sviluppo di individui, società e
organizzazioni, ma nei fatti, quando si tratti di concretizzare pratiche, politiche e di assegnare
finanziamenti a progetti, vengono trascurati come secondari, in nome di altre priorità
continuamente emergenti.
Proseguendo nella riflessione, occorre prendere in considerazione due punti cruciali che
riguardano la progettazione e la realizzazione del percorso didattico ed educativo.
Uso delle metodologie attive.
Nel caso di azioni educative di genere le cosiddette metodologie attive non hanno solo
l’obiettivo e la specificità di coinvolgere direttamente i soggetti, ma anche di riconoscere in e
con loro i modi, le forme con cui interpretano e riescono a esprimere il loro essere e sentirsi
donne e uomini.
Un significato simile e molto efficace, soprattutto se attuato correttamente prima con lavori
individuali, di scrittura ad esempio, e poi condivisi con l’intera classe, hanno anche le
verifiche sui lavori svolti, soprattutto se si adottano metodologie autobiografiche.
Curricolarità ed extracurricolarità.
Non è il caso di riprendere a lungo il discorso sulla preferibilità che i contenuti del progetto
entrino nella normalità del fare scuola, e quindi entrino nel curricolo, su questo penso che
non si possa che essere accordo, vorrei piuttosto soffermarmi sulle attività extracurricolari e
sulla loro specificità per quanto riguarda le tematiche di genere.
Queste ultime possono spesso vantare tradizioni, legami, connessioni con culture territoriali si tratti di associazioni private e/o pubbliche, di istituzioni locali, sindacali, legate al mondo
del lavoro e altro ancora - cui la scuola è utile, indispensabile faccia riferimento, perché
spesso sono depositarie di un patrimonio di lavoro ed elaborazione di decenni.
Io credo che mantenere una porzione di interventi e tempi extracurricolari consenta maggiore
libertà di collaborazione e progettazione con queste realtà esterne e faccia percepire a
studentesse e studenti che si stanno muovendo su un terreno vivo, che appartiene alla vita,
reale e vissuta, delle persone, cui loro stessi e stesse possono partecipare, in forme vitali e
trasformative.
Certamente molti e molte si possono sottrarre, considerando opzionale e volontario questo
impegno, oppure sovrapposto ad altre attività, anche scolastiche, ma chi partecipa mostra
un’adesione personale, un interesse che può essere coltivato, anche in direzione di un
intervento verso gli altri studenti e studentesse.
Un’ulteriore considerazione riguarda il tema della verticalità dell’orientamento.
L’utilità di pensare azioni che coinvolgano più ordini di scuola, l’orientamento formativo e di
genere, d’altronde, non può essere pensato come una pratica che si attui solo in certi
momenti del proprio percorso biografico e scolastico, quando si deve scegliere, ma è pratica
che accompagna tutta la crescita, in realtà tutta la vita, poiché le scelte si elaborano nel
tempo, secondo il progetto di sé e di mondo che si viene lentamente costruendo e che si
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modifica, si rende flessibile e plastico secondo le realtà, le opzioni, opportunità od ostacoli
che incontra.
Penso sia utile riflettere su questa possibilità, anche nella prospettiva di adottare azioni di
educazione tra pari.
Un’ultima osservazione.
Un’esperienza di formazione e/o di orientamento formativo, soprattutto nelle sue fasi
sperimentali, ma io ritengo ogni volta che si riproponga, non dovrebbe mai perdere la sua
qualità essenziale che è quella dell’autoriflessività, la capacità di ogni soggetto che è
all’interno del percorso - e la capacità di costruire una competenza collettiva tra le diverse
persone - di continuare a pensarsi nel corso dell’esperienza, costruendo anche la
competenza di sapersi raccontare e rendere narrabile – quindi trasferibile – ciò che vive.
L’esperienza formativa possiede le due qualità che attribuivamo in precedenza alla cultura
interpretativa di genere: è un’esperienza del cambiamento, avviene in una situazione
relazionale e dalla relazione è profondamente influenzata.
Occorre quindi, nel predisporre dispositivi che avviino e aiutino l’autoriflessività e la
narrazione, immaginare che possano essere efficaci sia per il racconto individuale che per la
messa in comune delle diverse narrazioni.
Naturalmente questi dispositivi, come già accennavo all’inizio del mio discorso, per essere
efficaci nel lavoro con le classi, devono essere conosciuti e sperimentati in precedenza
dai/dalle docenti, ma la finalità, credo, possa travalicare la pura sperimentazione di un
percorso, in realtà propone agli e alle insegnanti un utile momento di autoformazione,
consapevolizzazione della propria identità di genere.
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