rassegna stampa

Transcript

rassegna stampa
RASSEGNA STAMPA
lunedì 14 aprile 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Adn Kronos del 13/04/14
Fondazioni: Con il Sud promuove il cinema a
Ponticelli
Napoli, 13 apr. (Adnkronos) - Sorgerà a Ponticelli, periferia 'difficile' di Napoli, FilmaP,
centro di produzione e formazione cinematografica per giovani e ragazzi nel quartiere di
Ponticelli, con la collaborazione di Premi Oscar ed esperti filmaker. Il progetto, presentato
di recente a Napoli, è promosso da Arci Movie e sostenuto dalla Fondazione Con il Sud.
FilmaP nasce nella masseria Morabito, sede storica di Arci Movie, e prevede laboratori
gratuiti con esperti filmaker per ragazzi tra i 10 e i 18 anni e un percorso formativo sul
cinema del reale, per giovani tra i 18 e 28 anni, che culminerà nella produzione e
diffusione delle opere dei giovani partecipanti. Il centro ambisce a diventare un polo
culturale di riferimento non solo sul territorio partenopeo e campano, ma anche su quello
nazionale e internazionale, con il coinvolgimento di partner diversi per competenza e
specificità.
Quattro sono le società di produzione cinematografica che parteciperanno attivamente:
Indigo film, Oscar con La grande bellezza di Paolo Sorrentino; Figli del Bronx, Leone d'Oro
come Miglior Opera Prima alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con La-Bas di
Guido Lombardi; Parallelo 41 Produzioni, Miglior Opera Prima al Festival Internazionale
Cinemà du Reel di Parigi con Il Segreto di Cyop&Kaf; ed infine Teatri Uniti, produttrice del
film documentario 394 - Trilogia nel Mondo sulla tournée teatrale mondiale di Toni Servillo.
Vi prendono parte, inoltre, l'associazione Cinema e Diritti, che promuove il Festival del
Cinema dei Diritti Umani di Napoli, il Festival Prix Jeunesse di Monaco di Baviera e
l'associazione nazionale di cultura cinematografica Ucca (Unione dei Circoli
Cinematografici Arci), per garantire la circolazione alle opere realizzate.
La Mediateca Il Monello di Napoli partecipa con il suo patrimonio di oltre 7000 film a
disposizione gratuita, numerosi istituti scolastici, interlocutori primari per quanto riguarda lo
svolgimento dei laboratori di cinema dedicati ai bambini e ai ragazzi, associazioni,
fondazioni, cooperative sociali del territorio.
Un progetto che ha l'obiettivo di offrire ai giovani napoletani opportunità concrete,
competenze specifiche, oltre ad un luogo di incontro e confronto, dove crescere insieme
imparando la bellezza dello stare insieme, del condividere e del rispettare le regole. Tutto
questo in un territorio 'a rischio', come Ponticelli, per dimostrare che anche la periferia può
rappresentare un luogo di crescita e formazione, puntando sulla valorizzazione dei giovani
talenti.
http://www.liberoquotidiano.it/news/economia/11593112/Fondazioni--Con-il-Sudpromuove.html
2
ESTERI
del 14/04/14, pag. 14
Nelle trincee di Slaviansk “Noi russi pronti a
morire” E Kiev prepara l’assalto
Il governo ucraino: scontri e vittime nella città dell’est Mosca:
“Fermatevi, non fate la guerra al vostro popolo”
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO INVIATO
SLAVIANSK
TUTTI
sul ponte. A pregare con icone e libri sacri sotto la pioggia; a chiedersi quanto durerà, se
«è vero che ci sono dei morti?»; a fissare con preoccupazione quelle colonne di fumo nero
dalle parti del cementificio nella periferia nord. E con una determinazione che mette paura:
«Da qui non ci muoviamo, siamo pronti a morire».
È una folla modesta e agguerrita quella che si è precipitata in strada all’alba a bloccare
con barricate artigianali, vecchi mobili, carcasse d’auto, l’accesso a questo antico borgo
industriale di poco più di centoventimila abitanti nel lembo orientale dell’Ucraina russa.
Qui, sul fiume Kazionnyj Torets che scorre tortuoso attorno a Slaviansk, c’è una nuova
linea di frontiera spontanea che isola tutto il centro abitato dall’arrivo di una potenziale
“forza speciale antiterrorismo” dell’esercito ucraino. Secondo il governo di Kiev i due
blocchi si sarebbero già scontrati con una vera e propria sparatoria, ci sarebbero tre morti,
cinque feriti. «Una chiara azione di guerra ordita da Mosca», dichiara il presidente ad
interim Oleksandr Turcinov che minaccia ulteriori operazioni nella notte per liberare edifici
e città dell’Ucraina orientale in rivolta. E Mosca urla con la voce possente del ministro degli
Esteri Sergej Lavrov: «Fermatevi. Non potete fare la guerra contro il vostro popolo ».
Nei pressi del ponte di Slaviansk invece non c’è traccia di combattimenti né di operazioni
militari. I racconti di un presunto scontro a fuoco sono confusi e contraddittori. A parte un
paio di elicotteri in perlustrazione sotto alle nuvole basse, la scena è tutta di una folla di
cittadini decisi a fare la rivoluzione. Ci sono i soliti giovani in tuta mimetica, muscolosi e
apparentemente anche ben addestrati, che organizzano i turni di guardia, controllano i
documenti a ogni nuovo arrivato, gestiscono la cosiddetta logistica con fare autoritario.
Uno mostra pure un kalashnikov avuto chissà come ma che non scandalizza
nessuno. Anzi, a molti ribelli, trasmette anche una certa sicurezza. Gli altri, almeno un
migliaio, sono uomini e donne più o meno di mezza età. Infermiere del vicino ospedale,
pensionati, operai del complesso metallurgico Slavonik o degli impianti chimici
Slavtyzamash, un tempo orgoglio dell’industria sovietica e adesso divorati dalla crisi.
Come la premiata fabbrica di matite usate da molti bambini dell’Urss, chiusa da anni, e
ormai ricordata solo da quei tre giganteschi lapis colorati che ancora adornano l’accesso
alla città ribelle.
Attorno a un fuoco di legna che brucia dentro a un bidone della spazzatura si fa il punto
della situazione, cercando di capirci qualcosa tra notizie vere, falsità clamorose. Un
operaio cinquantenne dal volto paonazzo scandisce nome e cognome prima di dire la sua,
tanto per fare vedere che non ha paura di nessuno: «Mi chiamo Yiurij Galovan e sono
stanco di essere trattato come un cittadino di seconda categoria. I russi ci hanno
consegnato agli ucraini dopo la fine dell’Urss; gli ucraini ci hanno depredato. Anche
Yanukovich ha rubato tutto quello che poteva. Adesso a Kiev hanno fatto la rivoluzione e
3
vogliono decidere per noi? Vogliono la Nato, l’Europa, la rottura con la Russia? E io, non
conto proprio niente?».
E il capannello diventa un coro: i russi di Ucraina vogliono un referendum che possa
trasformare lo Stato in un’entità federale. Lo vogliono prima delle elezioni presidenziali del
25 maggio in modo che il nuovo presidente debba fare i conti anche con loro.
Sotto la pioggia del ponte di Slaviansk sembra quasi una cosa semplice da realizzare. Ma
non è così. Il governo di Kiev minaccia di continuo attacchi risolutivi ma non si capisce
come potrebbe fare senza provocare una guerra civile vera e propria. Ieri tutta la cartina
geografica dell’Est ucraino si è riempita di cittadine e stazioni di polizia occupati dai “russi”
da Marjupol a Kramatorrsk. E la determinazione è contagiosa. A Donetsk, nel palazzo
della Regione occupato in stile militare da una settimana, è bastato un appello a «correre
in aiuto dei nostri fratelli delle altre provincie» per radunare centinaia di volontari pronti a
menar le mani.
Mosca continua a mettere in guardia Kiev da azioni pericolose e «irreparabili» e ha
ottenuto la convocazione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu per proporre un
suo piano. La polizia ucraina invece di rinforzi prepara licenziamenti in massa delle
migliaia di agenti che si sarebbero rifiutati di intervenire contro i propri connazionali. E il
ministro degli interni di Kiev, Arsenj Avakov, mette benzina sul fuoco annunciando l’idea di
dare armi e autorità a non meglio identificati “giovani patrioti”. Cioè a quegli esponenti di
estrema destra che hanno partecipato alla rivoluzione della Majdan. Yiurij Galovan la
prende come una sfida: «Mandano i fascisti? Vuol dire che faremo come i nostri nonni nel
‘42. Combatteremo per liberare la nostra terra».
del 14/04/14, pag. 15
IL MONDO È A RISCHIO PUTIN PARLA DA
NEMICO
ANDERS FOGH RASMUSSEN
IL MIO primo discorso da segretario generale della Nato, nel 2009, s’intitolava La Nato e la
Russia: un nuovo inizio. Volevo sviluppare una vera partnership strategica con la Russia,
ampliare la cooperazione in aree dove condividiamo interessi strategici, pur insistendo che
rispettasse i suoi obblighi internazionali, compresa l’integrità territoriale e la libertà dei suoi
vicini. Anno dopo anno, abbiamo compiuto insieme notevoli progressi, nell’anti- terrorismo,
nella lotta alla pirateria e nella sicurezza in Afghanistan. Ma l’annessione della Crimea ha
minato le basi della partnership. Oggi, la Russia parla e si comporta come un avversario.
Mentre decine di migliaia di soldati russi sono ammassati al confine ucraino, la Russia
ricorre alla propaganda. Accusa la Nato di aver rotto una promessa del 1990, secondo cui
l’Alleanza non si sarebbe mai allargata in Europa centrale e orientale. Più volte leader
russi hanno attribuito questa promessa a presunte dichiarazioni confidenziali dell’ex
cancelliere tedesco Kohl, del suo ministro degli Esteri Genscher, dell’allora segretario di
Stato Usa Baker. Ma nel 1990, si discusse solo della riunificazione della Germania. Un
allargamento della Nato non era all’ordine del giorno: il Patto di Varsavia fu sciolto solo un
anno dopo. Fin dalla nascita, la Nato ha accolto solo Stati sovrani che hanno scelto
liberamente di parteciparvi. Questo è lo spirito della democrazia.
Oggi, la Russia viola l’integrità territoriale dell’Ucraina occupando la Crimea, e viola la
sovranità ucraina tentando d’imporre un sistema politico federale. Ha infranto la parola
data. Mosca afferma inoltre che la Nato ha interferito negli affari interni dell’Ucraina,
4
spingendo il Paese verso un ingresso nell’Alleanza. I documenti Nato e il suo
comportamento dimostrano la falsità dell’accusa. Intanto, la Russia vuole dettare le scelte
dell’Ucraina, chiede che si dichiari neutrale, per garantire la sicurezza di Mosca. Ciò
contraddice un principio fondamentale della sicurezza euro-atlantica, secondo cui ogni
Stato è libero di scegliere le sue alleanze.
Soltanto l’Ucraina può decidere cos’è meglio per se stessa, nel rispetto di tutto il popolo
ucraino, quale che sia la sua lingua. Altri Paesi possono agevolare il dialogo, ma non
decidere in nome degli ucraini. Se la Russia vuole sinceramente un dialogo, come primo
passo ritiri le decine di migliaia di soldati che ha schierato al confine ucraino. Altrimenti,
non ci sarà dialogo, bensì solo diktat. I fatti parlano più delle parole: escalation e
deescalation cominciano sul terreno. L’occupazione della Crimea e il referendum
preconfezionato sono la vera escalation. La Russia è di fronte a una scelta: ritiri le sue
truppe, rispetti gli impegni internazionali, ricostruisca la fiducia. Altrimenti, si approfondirà il
suo isolamento internazionale. Il mondo diverrà più pericoloso e imprevedibile. Io lancio un
appello alla Russia, le chiedo una de-escalation. Passi concreti per farlo esistono, sono
possibili.
Del 14/04/2014, pag. 11
Ancora armi chimiche in Siria, accuse Assadribelli
Bombardamenti a tappeto. Attacchi di terra. E nuovamente le armi chimiche. Oltre trecento
morti nelle ultime ventiquattr’ore, una media di duecento vittime al giorno nelle ultime
settimane. L’orrore siriano non ha fine. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite,
in questi tre anni di guerra civile sono morti oltre 10.000 bambini. Oltre un milione vive
sotto assedio in zone dove anche le organizzazioni umanitarie non possono accedere. E
proprio in queste aree molto giovani vengono reclutati per combattere. All’orizzonte,
complice anche la crisi internazionale che ha riallontanato Russia e Stati Uniti, non sembra
esservi una soluzione politica percorribile. I ribelli accusano le forze lealiste di aver
utilizzato di nuovo armi chimiche contro la popolazione civile; il regime ribatte sostenendo
che a usare gas nervino sono stati i miliziani del Fronte al-Nusra: gli episodi riguardano
attacchi avvenuti ad Harasta, sobborgo di Damasco, (sette i morti, tra cui un bambino) e a
Kfar Zeita La certezza sono i morti, i feriti, le immagini strazianti di bambini con la bava
bianca in bocca, sintomo di soffocamento da gas.
SENZA SPERANZA La certezza è nella disperazione di un popolo di profughi: sette
milioni sono i siriani costretti ad abbandonare case e villaggi, molti di loro vivono nei campi
profughi. Dopo 37 mesi di conflitto, un sondaggio di Oxfam rivela che la maggioranza dei
profughi siriani non ha speranza di tornare in patria. Al sondaggio che Oxfam ha condotto
su un campione di 151 famiglie, per un totale di 1.015 individui, risulta che il 65% dei
profughi intervistati non ha speranza di tornare a casa. La stragrande maggioranza
esprime il desiderio fortissimo di volerlo fare, ma solo un terzo ha fiducia che ciò possa
accadere, pur non sapendo (per il 78%) dire quando e come. «Dalle interviste fatte,
capiamo che centinaia di migliaia di persone vivono in una sorta di limbo, lottano ogni
giorno per la sopravvivenza, non hanno idea di cosa gli riservi il futuro - dice Riccardo
Sansone, responsabile emergenze umanitarie di Oxfam Italia - Una situazione
insostenibile che deve finire. La comunità internazionale, ora più che mai, deve usare ogni
mezzo per fermare una guerra che è già costata oltre 140.000 morti. I negoziati di pace
5
devono riprendere al più presto e portare a reali e duraturi risultati. Solo così i siriani
potranno tornare a pensare di avere un futuro». Gli ultimi dati forniti dalle Nazioni Unite
mostrano come tre anni di guerra abbiano messo in ginocchio la Siria, con effetti
catastrofici sulla vita sociale, economica e culturale. Il 40% degli ospedali è andato
distrutto, un altro 20%funziona a ritmo ridotto. Il Pil è crollato del 45% e la moneta locale
ha perso l’80% del suo valore originario. Preoccupa inoltre il numero dei profughi fuggiti
oltreconfine (almeno 2,6 milioni) e il dato relativo agli sfollati interni, circa 6,5 milioni. Fra
quanti hanno cercato salvezza all’estero, oltre un milione ha scelto il Libano, seguito da
Turchia (634mila), Giordania (poco più di 584mila), Iraq (227mila) ed Egitto (135mila).
Nell’intervista pubblicata da l’Unità sabato scorso, alla domanda su come è possibile
intervenire su questa tragedia, la ministra degli Esteri, Federica Mogherini, ha risposto:
«Innanzitutto ricordandocene...». Continuando a raccontare gli orrori, a denunciare i
silenzi, a mettere in evidenza l’inerzia diplomatica, a esigere verità e giustizia.
Del 14/04/2014, pag. 11
Afghanistan, diffusi i primi dati del voto
presidenziale
VIRGINIA LORI
I risultati parziali delle presidenziali in Afghanistan mostrano l’ex ministro degli Esteri
Abdullah Abdullah al 41,9%, in vantaggio sull’ex ministro delle Finanze Ashraf Ghani che
si attesta al 37,6%. Questi primi dati sono stati diffusi dalla Commissione elettorale
indipendente, il cui presidente Ahmad Yousuf Nouristani ha sottolineato che il primo nei
risultati potrebbe cambiare molto facilmente. I risultati sono basati però soltanto sui dati
riferiti a 500.000 schede scrutinate in 26 delle 34 province afghane, circa il 10% del totale.
Le elezioni si sono tenute il 5 aprile scorso. Fra i tre principali candidati, tutti ex ministri
degli Esteri, Abdullah è in vantaggio con il 41,9%. Il ministro guidò la diplomazia nel primo
governo di Hamid Karzai e fu leader della resistenza anti-sovietica negli anni 80. Abdullah,
che era arrivato secondo nelle elezioni del 2009 che avevano portato alla vittoria di Hamid
Karzai, ha al momento 212.312 voti. Al secondo posto con il 37,6% di voti segue Ashraf
Ghani, un funzionario della Banca mondiale che propone un programma di drastiche
riforme economiche. Ghani ha circa 190.561 voti. Terzo con il 9,8% (pari a 49.821
preferenze) Zalman Rassoul, uno stretto collaboratore di Karzai durante il suo esilio
sostenuto dai fratelli del presidente uscente. I dati definitivi su più di sette milioni di voti
dovrebbero essere resi noti a fine maggio. Se questi risultati ancora molto parziali fossero
confermati, si andrebbe al ballottaggio tra Abdullah e Ghani, che si dovrebbe tenere il 28
maggio. La Commissione elettorale sta indagando, intanto, su circa 1.900 denunce di
brogli presentante in riferimento alle elezioni dello scorso 5 aprile. Il portavoce della
sezione lamentele della Commissione, Mohammed Nadir Mohseni, ha precisato che si
tratta di una cifra inferiore rispetto alle ultime elezioni del 2009. Le denunce presentate
sono precisamente 1.892 e, spiega Mohseni, 870 di queste sono abbastanza serie che
potrebbero avere un impatto sui risultati. Abdul Satar Sadaat, membro della commissione
per i reclami elettorali, ha detto che «le frodi elettorali sono avvenute e potrebbero non
essere una piccola quota». La Commissione si è tuttavia detta fiduciosa di poter
identificare le irregolarità. Al voto hanno partecipato oltre la metà dei circa 13 milioni di
aventi diritto, il che viene considerato un successo date le minacce che la guerriglia
talebana aveva fatto per ostacolare il voto.
6
del 14/04/14, pag. 1/22
Occupy Hong Kong i ribelli anti-Pechino
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO INVIATO
HONG KONG
DAVANTI ai vecchi moli di Wan Chai scorre uno degli spettacoli più sconvolgenti di oggi.
Migliaia di navi spostano ogni giorno un decimo della ricchezza, pulita e sporca, del
mondo.
DAVANTI ai vecchi moli di Wan Chai, nel Mar Cinese Meridionale, scorre uno degli
spettacoli più sconvolgenti di oggi. Migliaia di navi, portacontainer, chiatte, ferries, giunche,
aerei ed elicotteri, spostano ogni giorno un decimo della ricchezza, pulita e sporca, del
mondo. Tra Kowloon e il Central, l’istinto per gli affari ormai è genetico. In meno di due
secoli, grazie all’oppio e ai soldi che l’hanno poi sostituito, pirati e mercanti hanno
trasformato il pestilenziale delta del fiume delle Perle nell’asettica metropoli-azienda più
competitiva del pianeta. Questo miracolo spaventoso, celebrato dal cemento che ricopre
ogni centimetro di terra e di acqua, è il prodigio di due maghi: gli inglesi, che qui hanno
regnato per oltre 150 anni, e i cinesi, rientrati in possesso di casa loro nel 1997. Solo una
stratosferica montagna d’oro, dopo il crollo dell’impero giapponese, ha evitato che il
forzato abbraccio tra Occidente e Oriente si sia risolto in un’altra guerra. Pechino ha vinto,
Londra non ha perso del tutto, la febbre degli interessi ha sostituito i conti con la storia:
l’esperimento più spietato di fusione tra comunismo e capitalismo, tra dittatura e
democrazia, minaccia così di scatenare ora il terremoto capace di distruggere un sistema
ideato per assorbire le pressioni più violente dello sviluppo globale.
A scuotere l’ex “cortina di bambù” è la clessidra che consuma i logorati patti dell’universo
di ieri, che Deng Xiaoping sintetizzò nel marchio «un Paese due Sistemi ». Nel 2047 Hong
Kong tornerà totalmente Cina: «un Paese, un Sistema». Prima però, nel 2017, sarà la
cavia di un altro esperimento senza precedenti: le elezioni in un’icona della libertà a
termine, incastonata dentro il simbolo dell’autoritarismo senza fine. Le regole del voto si
decidono adesso: per questo nell’ex colonia, dove si guida a destra e l’inglese precede il
mandarino su ogni scritta, le scosse già sconvolgono il quieto business dei grattacieli sotto
il Peak e gli azionisti politici domiciliati a Pechino e a Washington.
«La dirompente novità — dice il giurista James To — non è certo che la Cina pretende di
scegliere chi comanda. È che vuole illudere gli abitanti di Hong Kong, i cinesi e la
comunità internazionale, di non farlo più». Un obiettivo straordinario: un regime
democraticamente eletto grazie a una stampa pluralista controllata dalla propaganda. La
leadership rossa, diciassette anni fa, aveva promesso elezioni a suffragio universale nel
2007. È riuscita a rinviare di dieci anni e il governatore della metropoli ha continuato ad
essere nominato da un comitato di 1200 lobbisti selezionati da Pechino.
Ora però il tempo è scaduto e lo scontro esplode. È nato perfino un movimento, Occupy
Central, che perfino nel nome si si rifà a quello che ha scosso Wall Street e la finanza
globale. La Hong Kong democratica di giovani, studenti e intellettuali, sostenuta da Usa ed
Europa, invoca il principio classico: una persona, un voto. Quella autoritaria di anziani e
busines-smen, fedele alla madrepatria Cina, propone la via cinese: per candidarsi occorre
la firma del 2% degli elettori. «Una preselezione farsa — dice Tai Yiu-ting, leader del
movimento Occupy Central — che consegna gli eleggibili nelle mani del potere comunista.
7
Per la prima volta nella storia, una democrazia verrà riassorbita da una dittatura e una
popolazione sarà costretta a votare candidati proposti da un partito-Stato».
Il problema è che Hong Kong, oltre che un paradiso fiscale globalmente accettato, è la
cassaforte finanziaria della seconda economia del secolo. Può diventare, nell’indifferenza
collettiva, il modello universale di una nuova democrazia antidemocratica alimentata di un
nuovo capitalismo comunista? «La violenza a cui assistiamo — dice il capo della
federazione degli studenti, Joshua Wong — suggerisce che il prezzo sarà altissimo e che
non lo pagherà soltanto l’Asia». Il primo è la libertà di stampa e di parola. L’associazione
dei giornalisti di Hong Kong ha denunciato che questi valori «nella regione hanno toccato i
minimi storici» e che «le telefonate della censura di Pechino nelle redazioni ormai sono
quotidiane». I giornalisti indipendenti vengono licenziati, i direttori rimossi. Agli editori dei
media critici viene levata la pubblicità, agli altri sono concessi incarichi politici e appalti del
potere.
A fine febbraio due sicari, con un coltello da cucina, hanno tranciato nervi e tendini delle
gambe a Kevin Lau, direttore appena cacciato dal Ming Pao. Il giornale aveva svelato lo
scandalo dei conti correnti alle Isole Vergini dei leader cinesi. «I cronisti che resistono —
dice Sham Yee-lan, presidente dei giornalisti di Hong Kong — diventano vittime delle
triadi, o di criminali destinati a restare ignoti. Pressioni economiche, ricatti, pestaggi e
censura ci hanno fatto precipitare dal 18° al 62° posto al mondo per la libertà di stampa».
Le forze democratiche, più volte scese in piazza, lanciano l’allarme: normalizzare i media
e far tacere gli intellettuali è la pre-condizione per imporre a Hong Kong false elezioni a
suffragio universale, controllate da Pechino.
La realtà però è già un passo più in là. Professori e studenti sono in rivolta contro l’obbligo
delle “lezioni di comunismo”, imposto dal governatore filo-cinese Leung Chun-ying. Le
donne lottano contro l’invasione di puerpere del Guangdong, che accaparrano latte in
polvere e letti nei reparti maternità. I 7 milioni di residenti insorgono contro i 40 milioni
annui di turisti cinesi, ribattezzati “locuste”. «Improvvisamente — dice il sociologo
Jonathan London — vengono al pettine i nodi più esplosivi. E non è un caso se la miccia
parte ancora da piazza Tiananmen ».
Il 4 giugno sarà il 25° anniversario dalla strage del 1989, che bloccò le riforme
democratiche a Pechino. In Cina il tema resta tabù, i dissidenti di un quarto di secolo fa
sono in carcere, o in esilio. Centinaia però vivono nell’ex Victoria britannica, dove ogni
anno il massacro viene ricordato dalle candele di mezzo milione di persone. «Negare
elezioni vere — dice Wang Dan, ex studente ferito a Tiananmen — è parte del sistema
che impone di censurare la stampa, di reprimere il dissenso, o di negare le violenze
dell’89. Quando in gioco è il potere, il regime cinese non può avvallare precedenti o
derogare dalla repressione». Un sondaggio online, subito rimosso, ha rivelato che il 90%
della popolazione di Hong Kong preferirebbe tornare sotto la Gran Bretagna piuttosto che
«essere assorbito» dalla Cina e che 7 hongkonghesi su 10 non vogliono essere chiamati
“cinesi” né perdere i diritti democratici.
«L’insofferenza contro il neo-nazionalismo patriottico — dice il commentatore Li Wei-ling,
licenziato dalla sua radio — monta assieme alla pressione globale di Pechino. A Taiwan
gli universitari hanno dovuto occupare il parlamento per denunciare la svendita dell’isola
alla Cina. Giappone e Filippine sono a un passo dalla guerra per difendere il proprio
territorio. Hong Kong è una tessera del mosaico: se la comunità internazionale non si
muove, Pechino seguirà l’esempio di Mosca con l’Ucraina e l’Asia in guerra non sarà solo
l’incubo dei mercati». Per gli Stati Uniti l’emergenza è già scattata. La scorsa settimana,
alla vigilia del tour di Barack Obama in Giappone, Corea del Sud, Malesia e Filippine, i
leader storici dei democratici di Hong Kong, Anson Chen e Martin Lee, sono stati ricevuti
alla Casa Bianca dal vicepresidente Jo Biden.
8
La Cina ha reagito con inedita durezza, svelando un incontro che doveva restare riservato
per diffidare gli Usa dall’«intromettersi nei nostri affari interni». «Hong Kong — dice il
docente della scuola del partito, Rao Geping — non è uno Stato. È una regione cinese.
Pechino non permetterà che qui scoppi una rivoluzione a colori finanziata dall’Occidente,
come nell’Est europeo, in nord Africa, o in Medio Oriente. I pan-democratici hongkonghesi
sono poco saggi a schierarsi con un’America che ha imboccato una strada
pericolosamente sbagliata». Washington ha risposto invitando Londra, ex capitale della
colonia conquistata nel 1841, a «intervenire per proteggere autonomia e democrazia di
Hong Kong», come se il primo luglio di diciassette anni fa il «Britannia» non fosse salpato
dall’isola con lord Patten e il principe Carlo a bordo. «La verità — dice l’attivista Leung
Kwok-hung, fermato a Shanghai — è che la battaglia di Hong Kong per la libertà oggi
riguarda tutti ed è appena cominciata».
Suffragio universale, no alla censura e verità su Tiananmen sono così le tre bombe della
“regione amministrativa speciale”, dove i democratici annunciano nuove dimostrazioni e
minacciano di occupare il parlamento al grido di «Free speech, free Hong Kong». Forse è
tardi e forse nessuno, né gli occidentali né i cinesi, nel porto commerciale più ricco del
mondo, che da sempre preferisce i soldi ai diritti, può parlare a nome della libertà, o di una
storia onestamente raccontata. I fatti dicono che il contratto a favore della dittatura, qui ha
chiuso con una resa il Novecento, di comune accordo. Ma ora che la clessidra degli affari
sta per esaurire i granelli di sabbia, anche i pirati di Repulse Bay, rivestiti da finanzieri di
Admiralty, capiscono di non poter tenere più la bocca in Occidente e le mani in Oriente. E
non rinunciano alla speranza che una lotta generosa per la democrazia possa inaugurare,
proprio nei Nuovi Territori, il secolo del loro riscatto.
9
INTERNI
del 14/04/14, pag. 3
A Terna potrebbe andare Del Fante, che si sposta da Cassa Depositi Nel
gioco delle cordate, sconfitta quella Berlusconi-Gianni Letta
Eni affidato a Descalzi e Moretti si avvicina al
vertice Finmeccanica
ROBERTO MANIA
ROMA. Francesco Descalzi, milanese, classe 1956, sulla poltrona di amministratore
delegato dell’Eni su cui è stato seduto per quasi dieci anni Paolo Scaroni. È questo il
cambio della guardia più clamoroso che dovrebbe essere ufficializzato oggi a Borsa chiusa
con la pubblicazione delle liste del Tesoro per le assemblee delle società partecipate: Eni,
Enel, Finmeccanica. Ed è probabile che arrivino anche le scelte per le Poste, gruppo non
quotato, e per Terna, azienda partecipata dalla Cassa depositi e prestiti.
Il giorno delle nomine è dunque arrivato. Qualche sorpresa non è esclusa. Proprio questa
mattina alle 10,30 è stata nuovamente convocata, al ministero dell’Economia, la
Commissione di garanzia (la cosiddetta “Commissione nomine”) presieduta dall’ex giudice
costituzionale Cesare Mirabelli. Riunione di routine per chiudere la partita? Oppure per
vagliare e dare l’eventuale via libera a nuove candidature emerse negli ultimissimi giorni,
magari addirittura ieri nei colloqui tra il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia,
Pier Carlo Padoan tornato dagli Stati Uniti? Si capirà solo stasera.
Con Descalzi, attuale responsabile dell’esplorazione strategica, che appare blindato
all’Eni, sono cresciute ieri le possibilità che il numero uno delle Ferrovie Mauro Moretti
vada a guidare Finmeccanica. Al suo posto alle Ferrovie potrebbe andare Domenico
Arcuri, ora ad di Invitalia. Per l’Enel restano in campo le tre opzioni: Francesco Starace,
attuale ad di Enel Green Power, Andrea Mangoni, ad di Sorgenia e Monica Mondardini, ad
di Cir e del Gruppo editoriale L’Espresso. La Mondardini (un terzo dei posti nei board delle
società è riservato alle donne) è tra i candidati anche per guidare le Poste. In lizza per
quest’ultima azienda pure Matteo Del Fante, direttore generale della Cassa depositi e
prestiti. La candidatura di Del Fante, però, viene considerata più solida per la sostituzione
di Flavio Cattaneo a Terna dove peraltro è già membro del consiglio di amministrazione.
Oggi tutte le carte saranno scoperte. Di certo in queste settimane si è giocata una partita
durissima tra cordate diverse. Perché da oggi cambia — è difficile negarlo — la mappa
stessa del potere economico. Vince in ogni caso Renzi, presidente del Consiglio e leader
della sinistra, che si è trovato con il pallino in mano dopo un decennio in cui la grande
spartizione delle poltrone avveniva lungo la traiettoria Gianni Letta-Giulio Tremonti. Oggi
tocca ad un governo di coalizione nel quale il Partito democratico è l’azionista di
maggioranza. I sottosegretari Graziano Delrio e Luca Lotti, insieme al lavoro che dietro le
quinte pare abbia svolto l’amico del premier, l’imprenditore fiorentino Marco Carrai, sono
stati gli uomini che hanno preparato i dossier per le decisioni di Renzi. È una squadra che
realisticamente sarà schierate nelle prossime sfide di potere.
Va segnalato l’arretramento, anche in questo campo, di Silvio Berlusconi e del suo braccio
destro Gianni Letta. Non che non abbiano giocato. Anzi. È che hanno puntato tutte le loro
carte sulla riconferma, dopo già tre mandati, di Paolo Scaroni all’Eni. Il quarto mandato
non ci sarà e questa è una sconfitta anche per il partito dell’ex Cavaliere. Che potrebbe
10
riscattarsi solo in parte se nelle liste del Tesoro entreranno gli ambasciatori Giampiero
Massolo e Giovanni Castellaneta per qualche presidenza.
Tracollano invece le quotazioni di un soggetto che per la prima volta ha svolto un ruolo da
protagonista nella vicenda delle nomine pubbliche: le società di cacciatori di teste. Il
precedente governo aveva affidato a due di esse, la Korn Ferry International e la Spencer
Stuart Italia (di cui si è scoperto in queste settimane sono stati consulenti sia Gianni sia
Enrico Letta). Ma l’attuale esecutivo pare non si sia fidato molto delle loro selezioni finendo
per incaricarne informalmente un’altra, la Key2people.
Non sembra invece destinata a perdere un’altra “vecchia” cordata, quella che trova nel
ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il suo più importante referente nel governo e
che si muove azionando le leve di due think tank: ItalianiEuropei di Massimo D’Alema e
l’Arel di Enrico Letta. In queste settimane hanno sostenuto la candidatura in una delle
aziende pubbliche di Domenico Arcuri, il cui approdo a Invitalia venne appoggiato da Pier
Luigi Bersani. Dalemiani e lettiani hanno lavorato poi molto per ottenere posizioni di
prestigio: Marta Dassù, ex sottosegretario agli Esteri, potrebbe entrare nel cda di
Finmeccanica e Filippo Andreatta in quello dell’Enel. Va aggiunto che Moretti se non
proprio ascrivibile a questa area, di certo non l’è sgradito.
Questa volta non è nemmeno riuscita ad entrare in campo la lobby della Cisl, il sindacato
che “controlla” le Poste tanto da aver espresso l’attuale presidente Giovanni Ialongo. Che
però, come l’ad Massimo Sarmi, non sarà confermato. E certo che anche l’uscita della Cisl
dalle stanze dei bottoni del palazzone di Viale Europa all’Eur segna la fine di un’epoca.
Del 04/04/2014, pag. 6
Le rivendicazioni nel Pd non preoccupano
Renzi: la minoranza ci seguirà
E D’Alema resta il candidato alla Ue
«Combattenti e reduci»: in un altro momento Matteo Renzi avrebbe bollato così, non solo
nei commenti con gli amici, ma anche con dichiarazioni pubbliche, gli esponenti della
minoranza del Pd che si sono radunati l’altro ieri per dimostrare di essere i veri
rappresentanti del Partito democratico. Però non è questo il momento: «Ora non è il tempo
delle polemiche». Già perché il presidente del Consiglio, che alle elezioni europee punta a
superare il risultato ottenuto da Walter Veltroni nelle politiche del 2008, non vuole dare ora
l’immagine di «un partito diviso»: «Ci sarà modo di discutere dopo il 25 maggio». I
sondaggi, del resto, sono più che confortanti. Uno degli ultimi rivela che in un solo mese,
grazie all’effetto Renzi, il Pd è aumentato di cinque punti in percentuale. E infatti,
nonostante le affermazioni pubbliche, l’inquilino di palazzo Chigi sa bene che il voto sarà
anche «un test per il governo». Sul campo è rimasto solo Grillo, che alcune rilevazioni
danno in testa nelle isole, mentre in tutte le altre circoscrizioni elettorali è secondo.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui il presidente del Consiglio non si preoccupa delle
polemiche di Massimo D’Alema o degli altolà di Pier Luigi Bersani. Renzi sa bene che la
minoranza è divisa, che «Speranza e company vanno in un’altra direzione», recidendo il
cordone ombelicale con i padri. E poi il premier ha capito che sulla riforma del Senato, ci si
limiterà a qualche emendamento, che la parte più rilevante della minoranza (bersaniani
duri e puri inclusi) non seguirà Vannino Chiti e la sua proposta. La battaglia è rinviata, il
terreno sarà quello dell’Italicum. Un terreno che non presenta insidie particolari secondo i
renziani. Primo, perché quando si tratterà di affrontare la riforma elettorale, il presidente
11
del Consiglio lo farà da una posizione di forza, quella del risultato elettorale delle europee.
Secondo, perché gli stessi contraenti del patto del Nazareno, ossia il premier medesimo e
Silvio Berlusconi, si rendono conto che con il crollo di Fi lo scenario politico potrebbe
mutare e, di conseguenza, potrebbe cambiare anche l’Italicum. E comunque, e su questo
Renzi mantiene l’atteggiamento duro di sempre, «alla fine, la minoranza dovrà rispettare le
decisioni del Pd, dovrà seguire la maggioranza, come si è sempre fatto».
Dunque, anche se il discorso non gli è piaciuto troppo, il premier con i suoi derubrica
l’intervento di D’Alema come il tentativo, senza speranza, di «cercare di riprendersi il
partito», ma anche di dimostrare alla minoranza di essere ancora lui il capo. Renzi, però, e
lo ha spiegato piu volte ai suoi, non vuole farsi coinvolgere «nelle divisioni che riguardano
tradizioni politiche passate». Quanto a D’Alema, può stare «tranquillo», per quanto
riguarda la sua aspirazione a indossare i panni del Commissario europeo. Quel ruolo è
suo. Anche se nello stesso giro renziano c’è chi ritiene che alla fine potrebbero esserci
delle sorprese pure su quel fronte. Se Renzi è convinto di ridurre la minoranza del Pd a più
miti consigli, concedendole qualche modifica «non sostanziale» al testo del disegno di
legge governativo, è anche pronto a scommettere che nello stesso modo si riuscirà a
trovare un accordo con Forza Italia, nonostante le prese di posizione dei suoi esponenti.
Non è escluso, però, che il raggiungimento di questo obiettivo necessiti di un nuovo
incontro tra l’inquilino di palazzo Chigi e Silvio Berlusconi questa settimana. Ma nemmeno
in questo caso Renzi è disposto a «cambiare idea» sull’impianto della riforma. Né il leader
di Fi né la minoranza del suo partito riusciranno a farlo cedere e rinunciare ai «paletti
fondamentali» del ddl. Anche perché il presidente del Consiglio, di fronte a certe
resistenze e tentativi di ostacolare il percorso delle riforme, oppone sempre lo stesso
ragionamento: «Io non ho firmato nessun contratto per restare attaccato alla seggiola, non
ho proprio problemi da questo punto di vista, io...». Un’efficacissima arma di dissuasione,
perché se Renzi si staccasse da quella «seggiola» le elezioni anticipate sarebbero
inevitabili. Ma né Berlusconi né la minoranza del Pd le vogliono.
Maria Teresa Meli
Del 04/04/2014, pag. 8
Bonaiuti lascia gli azzurri ed è scontro con
Ncd. L’allarme di Carfagna
Berlusconi ritrova la carica dopo l’udienza
Al lavoro sulle liste: farò campagna elettorale
ROMA — Troppe «divergenze», troppe «incomprensioni». All’indomani dell’ultimo faccia a
faccia con Silvio Berlusconi, arriva la conferma ufficiale. Paolo Bonaiuti abbandona Forza
Italia e marcia verso il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. E soprattutto lascia dietro di
sé un movimento che, anche sfruttando la notizia della sua uscita, trova il modo di
mostrarsi diviso. Basta ascoltare le parole di Mara Carfagna, che ieri s’è definitivamente
chiamata fuori dal risiko delle candidature per le prossime elezioni europee. «Non è più
tempo delle lotte interne, di trappole e raggiri», è la premessa dell’ex ministro. Che,
arrivando al caso Bonaiuti, non esita a definirlo «incomprensibile, figlio di un clima che
rischia di far deflagrare quanto di buono fatto in questi anni». Segue un appello. «Non
possiamo permettere», dice la deputata e portavoce del gruppo forzista alla Camera, «che
Forza Italia si svuoti come un serbatoio rotto, privandosi delle migliori energie per
inconcludenti dispute di potere».
12
Non è isolato l’allarme della Carfagna. Basti pensare che anche Michaela Biancofiore, che
definisce l’addio di Bonaiuti una «pagina triste», mette in fila in una dichiarazione una serie
di maliziosi punti di domanda: «Chi lo ha allontanato? Perché? Sono domande alle quali
non so rispondere». Ma se l’inedito tandem Carfagna-Biancofiore giudica con
preoccupazione il clima che si respira nel partito, c’è chi non si smuove dalla linea
dell’ortodossia berlusconiana. Commentando l’uscita di Bonaiuti, il Mattinale — creatura
dell’ex portavoce, oggi diretta da Renato Brunetta — arriva a citare la celebre frase con cui
il segretario del Pci Palmiro Togliatti si trovò a bacchettare, nel 1946, lo scrittore Elio
Vittorini. «Paolino se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato». Ed è niente rispetto all’affondo che
Giovanni Toti riserva all’ex portavoce e agli alfaniani dal salotto domenicale di Barbara
d’Urso, su Canale 5: «Il nuovo che avanza sarebbe fatto da Bonaiuti, Cicchitto, Schifani,
Formigoni, da chi insomma fa politica da quando andavo alle elementari? Che devo dire,
che siamo su Scherzi a parte ?». Della controreplica targata Ncd si incarica Fabrizio
Cicchitto. Evitando eufemismi. «Toti? Braccia rubate all’agricoltura…».
Eppure, a dispetto delle cronache, da un movimento che pare balcanizzato, Berlusconi
viene descritto dai suoi come «galvanizzato». L’attesa della sentenza sulla pena del
principale, dopo le richieste del procuratore, s’è fatta molto più rilassata. E l’ex premier,
che ieri ha continuato a lavorare con Verdini e Toti sulle liste che verranno chiuse oggi o
domani, è pronto a scendere in campo: «La farò io la campagna elettorale. Eccome se la
farò….». Già, ma che tipo di campagna? Tra i fedelissimi c’è chi scommette che Forza
Italia sia pronta a partire al contrattacco sulle misure del governo Renzi. Con conseguente
innalzamento della tensione sul tema delle riforme. «L’Italicum è morto. Qualcuno avverta
Verdini. Avete letto Bersani e D’Alema, no?», è la frase che Brunetta consegna nel
pomeriggio di ieri. Non solo. Il capogruppo alla Camera, a sorpresa, potrebbe convocare
per oggi alle 15 una conferenza stampa contro il Def del governo. «Un documento
incostituzionale, ingiusto, illegale e che va contro le regole dell’Europa», dirà oggi. Tirando
fuori dal cilindro, non si sa quanto in accordo con Berlusconi, «un appello al garante della
nostra Costituzione». E cioè a Giorgio Napolitano.
Tommaso Labate
Del 04/04/2014, pag. 22
Il caso dell’agente con il piede sulla ragazza
Polemiche dopo gli scontri
Quattro contestatori arrestati Nei video si cercano i violenti
ROMA — Un pestone gratuito. Su una ragazza stesa a terra, inerme e terrorizzata. Tutto
attorno, in via del Tritone, era il caos. I manifestanti fuggivano, i turisti cercavano rifugio
nei bar, i teppisti si nascondevano fra la folla. Fotografi e cameramen hanno ripreso ogni
dettaglio di quegli istanti drammatici di sabato pomeriggio. Anche quello forse più
sconvolgente: un poliziotto in borghese — giubbotto di pelle, pantaloni tabacco —, con
casco e manganello, che si avvicina alla coppia abbracciata sull’asfalto (lui che protegge
lei dalla carica, altra immagine-simbolo della battaglia di piazza Barberini) e con un piede
sale — sembra proprio di proposito — sull’addome della ragazza. Di fronte a lui un agente
più anziano con la visiera abbassata gli grida qualcosa. Sembra rimproverarlo. O
chiedergli perché abbia fatto una cosa del genere. La scena, ora in mano anche alla
Questura della Capitale, è stata ripresa da due angolazioni: da un fotografo a meno di
mezzo metro dalla coppia e da un cameraman della trasmissione «Servizio Pubblico». Gli
uffici di San Vitale hanno già deciso di aprire un’indagine interna per identificare il
13
poliziotto (sarebbe in servizio in un commissariato del centro) che rischia un
provvedimento disciplinare. Almeno fino all’indagine che il pm Eugenio Albamonte
potrebbe aprire oggi stesso, d’ufficio, dopo aver acquisito le immagini, visto che fino a ora
l’episodio non viene descritto nelle relazioni in possesso della procura. Sia la ragazza
bionda, sia il ragazzo che stava con lei non risultano fra i fermati o i denunciati. E la
giovane non avrebbe ancora sporto denuncia.
Ma quanto successo l’altro ieri ha comunque indispettito i responsabili dell’ordine pubblico,
soddisfatti per la gestione della piazza nonostante le polemiche di commercianti e
residenti del centro per la scelta di autorizzare un corteo a rischio su quel percorso e di
aver fatto avanzare i più violenti fino a metà di via Veneto. Ieri il ministro dell’Interno
Angelino Alfano ha sottolineato come «Roma è stata protetta da uomini e donne in divisa
dall’ennesimo tentativo di saccheggio. Noi siamo dalla loro parte».
Ma ora le indagini puntano a individuare il maggior numero di responsabili degli scontri.
Soprattutto fra i blue-black bloc, i circa 400 incappucciati che hanno attaccato lo
sbarramento di via Veneto lanciando ad altezza d’uomo contro gli agenti razzi e bombe
carta e ritirandosi poi verso corteo imbottigliato sul Tritone. Fotografie e filmati vengono
analizzati per far collimare volti, abiti, zaini con personaggi mascherati, con
passamontagna e facce di Anonymous. Fino a questo momento però di loro - legati
secondo il Viminale ai centri sociali del Nord Est, di Trento e di Bologna - non c’è traccia
fra gli arrestati e i denunciati: Ugo Esposito, studente napoletano di 26 anni, Simon Kanka,
romano di 19, Antonio Pompea (20), calabrese, Michele Sugarelli (24), di Albano (Roma),
Lorenzo Marabino (37), romano, e Mattej Gulic (26), triestino. Quattro di loro sono a
Regina Coeli, per tutti l’accusa è resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale.
L’udienza di convalida potrebbe esserci domani o mercoledì.
Al vaglio c’è anche la posizione di Juan Sulca Tito Delfin, il manovale peruviano di 45 anni,
legato ai movimenti di lotta per la casa, ricoverato in ospedale dove gli è stata amputata
quasi tutta la mano destra, spappolata dallo scoppio di un petardo. «Era un lacrimogeno
esplodente», replicano gli antagonisti dell’«acampada» di Porta Pia, smontata ieri
pomeriggio dopo un’assemblea nella quale sono state chieste notizie degli arrestati. Gli
investigatori vogliono chiarire se il peruviano ha davvero raccolto l’ordigno, come ha
raccontato al pronto soccorso, o se voleva lanciarlo durante la carica in via Veneto.
Rinaldo Frignani
14
LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 04/04/2014, pag. 23
Boss, politici e manager massoni
Gli Invisibili che comandano a Reggio
Il Comune in dissesto finanziario e i soldi pubblici distribuiti in cambio
di voti
Appena uscito di galera, Paolo De Stefano guardò il figlio Peppe, allora adolescente:
«Papà deve farsi un giro nei negozi per pagare un po’ di debiti», gli disse. Alla fine del
giro, aveva sborsato una sessantina di milioni (lire d’allora) in scarpe: tutte quelle che i
reggini avevano comprato «a nome della famiglia» mentre lui stava dentro. «Da oggi chisti
camminano sulle scarpe nostre», spiegò infine il capomafia all’erede: era il 1982, per molti
don Paolino era il vero sindaco. Welfare nero o mitologia da malacarne che sia, in fondo
cammina ancora così, con le scarpe dei De Stefano e soci, questa città paradossale:
povera e tuttavia zeppa di quattrini illegali, senza lavoro ma attivamente al servizio delle
cosche, col mare più bello d’Italia ma stuprata in ogni muro abusivo dal «rustico reggino»,
che qui è un perverso stile architettonico coi suoi mattoni a vivo, i suoi piloni abbandonati a
metà.
Federico Cafiero de Raho, dal suo ufficio, contempla il nuovo palazzo di giustizia fermo da
un anno, vuoto, in attesa di diventare fatiscente. Proprio lì, di fronte, si dovevano spostare
i magistrati «ma il Comune ha usato i soldi in altro modo», dice il procuratore, forse con
sottile ironia partenopea (viene da Napoli, dove ha smantellato i clan Casalesi) perché
l’uso che il Comune ha fatto dei soldi, qui, è appunto uno dei tasti dolenti: 170 milioni di
buco; il suicidio misterioso della dirigente Orsola Fallara, braccio economico dell’allora
sindaco Peppe Scopelliti; la fresca condanna di Scopelliti (sei anni per falso e abuso)
frattanto diventato governatore della Regione; lo scioglimento per mafia del consiglio
comunale con una relazione agghiacciante dei commissari che, pur rivolta al Comune
guidato dal pdl Demetrio Arena, pesa come un macigno soprattutto sulla gestione
scopellitiana, fino al 2010, tra assessori e consiglieri collusi, dipendenti infedeli, dirigenti e
società partecipate in mano alle cosche, feste con boss, appalti combinati. Qui l’unica
azienda che pare funzionare è la ‘ndrangheta. «Cimitero d’opere pubbliche», scriveva
Piovene della Calabria anni Cinquanta. Quasi tutto è ancora lasciato a metà o
abbandonato (tranne il Pil delle cosche che fa una cifra tonda di 50 miliardi l’anno: e
stavolta sono euro): il Palasport, dopo la morte di un giovane operaio, il Roof Garden
(pieno centro) dopo una sparatoria tra capi delle famiglie, il fascinoso hotel Miramare, in
attesa di essere venduto all’asta, e persino il vecchio Papirus, dove un giovanissimo
Scopelliti andava a ballare sotto l’occhio benevolo del mafioso Nino Fiume, ora pentito e
un tempo suo elettore. Cafiero de Raho pensa al voto e ha un sobbalzo: «Mi spaventano
le elezioni». In che senso? «Quando andrà via il commissario straordinario, si dovranno
fare. E qui non c’è libertà, “loro” spostano la vittoria. Che razza di elezioni saranno?». La
procura di Cafiero lavora da un anno a un’inchiesta delicata: sugli Invisibili. Inchiodati i
quattro capi mafiosi della supercosca reggina — tra cui Peppe De Stefano, il figlio di don
Paolino — e stabilito col processo Crimine il principio dell’unicità della ‘ndrangheta, nel
mirino c’è quella «stanza di compensazione» dove si disegnano le grandi strategie. «C’è
chi può decidere se accendere i riflettori su una parte o l’altra dello Stretto, magari per star
tranquilli a Palermo mettono una bomba a Reggio». Insomma mafiosi, politici e
professionisti, manager e immancabili massoni coperti avrebbero un ennesimo tavolo di
confronto qui, a Milano o in Svizzera, chissà; tra le ipotesi di lavoro ci sarebbero anche
15
l’eversione e la violazione della legge Anselmi. Detta così, pare la Piovra. Ma Cafiero
spiega che l’inchiesta è solida e che «in sei mesi si vedranno effetti giudiziari», difendendo
il lavoro del suo giovane pm di punta, Giuseppe Lombardo. Nonostante gli sforzi del capo
(«qui si lavora tutti assieme»), i pm sono divisi, in un altro processo si revoca in dubbio
l’affidabilità degli stessi investigatori usati da Lombardo: nel grumo malato, come sempre,
giudici, spioni, ufficiali, pentiti. Nicola Gratteri ha spiegato che non c’è più la zona grigia: o
è mafia o non lo è. Monsignor Nunnari, presidente della Cei calabrese, annuncia lezioni
antimafia per i suoi seminaristi, mentre due sacerdoti reggini finiscono sotto inchiesta per
eccesso di pietà cristiana verso i boss. «La 'ndrangheta si è fatta impresa, e qui abbiamo
appena perso altri diecimila posti di lavoro», dice Lucio Dattola, presidente della Camera
di commercio. Gli appalti pubblici sono in fondo per le cosche il modo pulito con cui fare
arrivare, tramite le istituzioni, soldi alla propria base sociale: come le scarpe trent’anni fa.
La spazzatura (con le sue crisi cicliche) è ovviamente affare di mafia, il percolato finisce
dove capita, pure sulla nuova gestione commissariale la procura sta dando un’occhiata
attenta. Per chi non si piega, incendi, e bombe. L’ultima un mese fa, contro una salumeria
famosa, a due passi dal Municipio. «In pochi giorni abbiamo riaperto, non voglio darla
vinta a ‘sti vigliacchi», dice Arianna Romeo, la figlia del padrone. Qui l’eversione va a
braccetto con la ‘ndrangheta dal tempo dei Boia chi molla, il 1970 fu l’anno decisivo nella
rovina di Reggio. Peppe Scopelliti da sindaco decise di marcare lo splendido lungomare
voluto dal compianto Italo Falcomatà con una lapide in onore di Ciccio Franco, leader della
rivolta. Falcomatà era amato anche dalla destra, ha insegnato latino a generazioni di
reggini prima di salire in municipio, i marescialli dell’Arma hanno la sua foto dietro la
scrivania. Scopelliti s’era conquistato con feste e concerti un consenso del 70 per cento,
ora è un re caduto e angosciato dall’ombra shakespeariana di Orsola Fallara, che tanti
sospettano si sia sacrificata per lui. «Nella relazione dei commissari sul Comune ci sono
falsità», s’avventura. Affermazione grave. «Me ne assumo la responsabilità! La Bindi mi
convochi all’Antimafia e io porterò le carte sulla borghesia mafiosa». Perché non va in
procura? «A suo tempo». Le dimissioni — per ora solo annunciate — sono inevitabili, la
candidatura alle Europee miraggio di rilancio. Il governatore è ormai chiacchierato, pure i
mafiosi ne parlano: lui giura di essere vittima delle cosche, di combatterle da quando,
giovane missino, lo chiamavano «Peppe O’ Dj». Vai a sapere. «Il nostro cuore è perverso,
abbiamo affidato la nostra sicurezza a quattro boss», tuona Giovanni Ladiana, superiore
dei Gesuiti, predicatore dal ceffone evangelico. Qui capita che un imprenditore trovi il
coraggio di mandare al diavolo gli esattori del pizzo, resista a un attentato, vada sotto
tutela: e che poi sua figlia si metta assieme a un nipote (incensurato) dei De Stefano.
«Nulla è come appare», prima regola di Reggio. E verso sera Scopelliti si fa vivo al
telefono con una richiesta impossibile: «Posso cambiare quello che ho detto?».
Goffredo Buccini
del 14/04/14, pag. 8
Dell’Utri in Cassazione verdetto verso il rinvio
Oggi l’udienza a Beirut
Uno degli avvocati è ricoverato: un’istanza chiede di spostare la
sentenza sui 7 anni di carcere per mafia
ALESSANDRA ZINITI
16
UNO dei suoi avvocati è ricoverato in ospedale e l’udienza in Cassazione che domani
dovrebbe decidere le sorti di Marcello Dell’Utri sembra destinata a saltare. Così chiedono i
difensori dell’ex senatore che hanno già presentato istanza di rinvio allegando la
certificazione medica relativa al ricovero in ospedale dell’avvocato Massimo Krogh, il
cassazionista che difende dell’Utri insieme al collega palermitano Giuseppe Di Peri.
Strategia dilatoria della difesa in attesa di poter concordare le prossime mosse con
Dell’Utri, da sabato rinchiuso nella fortezza dei servizi di sicurezza di Beirut, o un casuale
impedimento intervenuto proprio nelle ore in cui l’ex senatore veniva arrestato in Libano in
un hotel a cinque stelle? Certo, se accordato dalla Suprema Corte ( come sembra
plausibile) il rinvio potrebbe condizionare le decisioni di Dell’Utri che questa mattina si
ritroverà davanti al giudice di Beirut
nell’udienza di convalida del fermo nel corso della quale potrebbe decidere di spiegare i
motivi della sua presenza in Libano e, se volesse, anche chiedere di essere consegnato
subito alla polizia italiana senza dar corso alle procedure per l’estradizione che comunque
comincerebbero solo dopo la sentenza della Corte di cassazione. E’ una partita dall’esito
nient’affatto scontata quella che si giocherà davanti alla prima sezione penale presieduta
da Maria Cristina Siotto. Perché i giudici dovranno valutare non la legittimità del reato di
concorso esterno in associazione mafiosa (già riconosciuta) ma se le motivazioni della
condanna di Dell’Utri hanno dato risposta soddisfacente al quesito per il quale il processo
era stato annullato con rinvio, e cioè: nei quattro anni, dal 1978 al 1982, in cui Dell’Utri ha
interrotto il suo rapporto professionale con Berlusconi andando a lavorare con il costruttore
Alberto Rapisarda in che modo avrebbe continuato a fare da trait d’union tra Cosa nostra e
Berlusconi?
del 14/04/14, pag. 8
Nel giallo libanese c’è un biglietto aereo
FRANCESCO VIVIANO
IL RACCONTO
BEIRUT.
Aveva un biglietto aereo di andata e ritorno dal Libano, Parigi-Beirut- Parigi. Partenza il 24
marzo, rientro il 29. Almeno sulla carta visto che il 3 aprile uno dei due cellulari che si
portava dietro è stato localizzato di nuovo nella capitale libanese e che il 10 aprile, 48 ore
prima del suo arresto, Marcello Dell’Utri è tornato all’hotel Phoenicia Intercontinental, dove
era già stato a marzo e dove gli agenti dei servizi di sicurezza libanesi e un funzionario
dell’Interpol italiana lo hanno arrestato sabato mattina.
Alla vigilia dell’udienza di convalida del fermo che si terrà stamattina quando Dell’Utri,
dopo due notti trascorse “serenamente” nella fortezza della polizia locale, nel centro di
Beirut tra il Museo nazionale e il palazzo di giustizia, comparirà davanti a un giudice, gli
investigatori cercano di ricomporre il mosaico dei suoi spostamenti negli ultimi venti giorni.
Se ha fatto due volte avanti e indietro da Parigi a Beirut, come indicherebbero i biglietti
ritrovati durante la perquisizione nella lussuosa suite da 750 euro a notte che occupava al
Phoenicia, perché lo ha fatto e che intenzioni aveva? Chi ha incontrato e qual è il vero
motivo della sua presenza a Beirut con una somma di denaro in contanti così consistente
(30.000 euro in banconote da 50)? Un tentativo maldestro e con molti aspetti
contraddittori di sottrarsi alla possibile cattura in caso di condanna, motivi di salute come
ha detto lui stesso quando è stato dichiarato ufficialmente latitante o qualcuno dei suoi
misteriosi affari, legati in qualche modo agli stretti rapporti di Silvio Berlusconi con l’ex
presidente Gemayel o al suo amico imprenditore Gennaro Mokbel che gli avrebbe in
17
qualche modo “aperto la strada” aiutandolo a procurarsi passaporti diplomatici di paesi
“amici” come la Guinea Bissau? Sono tutti interrogativi per il momento senza risposta.
Con lui, sicuramente, nel primo soggiorno a Beirut c’era il figlio Marco, arrivato stanotte dall’Italia insieme alla madre Miranda Ratti nel tentativo di avere il
permesso di incontrare il padre detenuto. «Ero venuto a Beirut con mio padre per affari»,
dice. Affari, sembra legati, alla Jackpot game, la sua società di piccoli casinò che punta
sulle slot machine e sulle videolotterie e che voleva forse, tramite i buoni canali del padre,
inserire sul mercato libanese.
Quel che sembra certo è che il 24 marzo, sul volo Parigi-Beirut, Marcello Dell’Utri
viaggiasse in business class in compagnia del figlio, come comprova il biglietto dell’Air
France costato 1.728 euro. Ma se il 29 marzo Dell’Utri è tornato a Parigi cosa ha fatto e
dove è stato in quel buco di soli 5 giorni prima che l’imei di un suo vecchio cellulare
venisse localizzata dalla Dia nuovamente a Beirut il 3 aprile? Questa seconda volta, l’ex
senatore sarebbe tornato in Libano da solo anche se, nei venti giorni in cui la Dia ha
tenuto d’occhio tutti i suoi domicili conosciuti in Italia, mai nessuno dei suoi familiari (a
cominciare dalla moglie Miranda) è mai stato visto.
“Ospite” inavvicinabile nella fortezza della polizia di Beirut, dove ha chiesto di poter avere
alcuni dei libri che si era portato dall’Italia, Dell’Utri comparirà questa mattina davanti al
procuratore generale libanese Samir Hammoud e a lui spiegherà se stava scappando
dalla giustizia italiana o se, come ha fatto sapere, era qui per un consulto medico dopo
l’intervento di angioplastica che avrebbe subito a marzo al San Raffaele a Milano, un’altra
circostanza che gli investigatori stanno verificando. E sembra che Dell’Utri abbia
intenzione di ribadire al procuratore la sua “disponibilità” a non sottrarsi alla magistratura
italiana non opponendosi dunque alla procedura di estradizione. Cosa che velocizzerebbe
di molto il suo rientro in Italia. Osserva il suo difensore Giuseppe Di Peri: «E’ un’offesa
all’intelligenza ed è contrario alla logica più elementare ritenere che Marcello Dell’Utri
abbia deciso di sottrarsi alla giustizia italiana fuggendo in un paese straniero dove ha
usato il proprio passaporto, la propria carta di credito e il proprio cellulare e dove si è
registrato in albergo con il proprio nome».
Ieri Marcello Dell’Utri ha compilato il “questionario” di rito per i detenuti e firmato il verbale
di perquisizione con l’elenco di quello che gli è stato trovato nella suite dell’hotel
Phoenicia. Insieme ai 30 mila euro, anche due passaporti italiani, uno valido e l’altro,
quello diplomatico del Senato ormai scaduto. «In cella — dice un investigatore italiano —
è stato tranquillo e sereno, ha mangiato e dormito ed ha chiesto soltanto dei libri».
18
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 14/04/2014, pag. 9
Scola: «Immigrati, il futuro di Milano». La
Lega insorge
Non è la prima volta che la diocesi di Milano entra in contrasto contro la Lega Nord. Era
già successo ai tempi del cardinale Martini, in quelli di Tettamanzi, e oggi il rituale
sembra ripetersi. Che cosa è successo? È successo che il cardinale Angelo Scola
durante la messa per la festività delle Palme ha parlato degli immigrati come degli artefici
del «futuro» della città e della sua nuova fisionomia. Il cardinale si è rivolto anche a un
gruppo di stranieri, da tempo residenti nel capoluogo lombardo, che hanno partecipato
alla processione con gli ulivi dalla chiesa di Santa Maria Annunciata in Camposanto
verso piazza Duomo. In un passaggio della sua omelia l’Arcivescovo, rivolgendosi in
particolare ai migranti che hanno animato il corteo, ha detto: «Guardando ai dolorosi
conflitti e alle troppe forme di violenza ancor oggi diffuse il nostro cuore è preso da
sgomento. E tuttavia non perdiamo la speranza. Ne è segno - ha sottolineato - il fatto che
siamo convenuti qui in Duomo, provenienti dalle molte nazioni che abitano la metropoli
milanese e ne stanno costruendo il futuro e la nuova fisionomia, per affidare a Gesù la
supplica per la pace. Il ramo di ulivo o di palma che esporremo nelle nostre case e nei
nostri ambienti di vita sarà un segno che vogliamo essere autentici uomini di pace». Le
parole di Scola non sono piaciute al neo segretario della Lega Nord Matteo Salvini.
«Chiederò un incontro al cardinal Scola per dirgli che il futuro della città di Milano è in
mano in primo luogo ai milanesi, agli italiani e anche agli stranieri che però sono ospiti...»
ha detto Salvini. Calibrando anche le parole. Perché a Scola, tutto sommato, è andata
bene. Nel dicembre del 2009, tanto per fare un esempio, il suo predecessore, Dionigi
Tettamanzi fu insultato pesantemente dai leghisti per aver espresso vicinanza agli
immigrati. Paragonato a un «imam» dalla Padania e a un «mafioso mandato in Sicilia»
dal ministro leghista Roberto Calderoli, il porporato brianzolo che stava sullo stomaco alla
Lega non arretrò di un millimetro dalla sua posizione. Del resto, disse durante la sua
omelia per Sant’Ambrogio, i vescovi avevano il compito di «vigilare sul gregge e così di
difenderlo dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di quei lupi rapaci che sono
gli eretici». Non era chiaro se i lupi di cui parlava l’arcivescovo avevano i lineamenti dei
leghisti che lo avevano attaccato per aver difeso i 250 rom sgombrati in quel tempo a
Milano. Ma contro la Lega e a difesa del cardinale si era mobilitato tutto il gregge dei
cattolici in politica. Destra e sinistra, non c’erano distinzioni di schieramento nella censura
delle sparate del carroccio. I leghisti avevano offerto al cardinale un ramoscello d’ulivo.
Lo stesso Matteo Salvini aveva chiesto, ma non ottenuto, un incontro natalizio per farsi
gli auguri e avere un «chiarimento». Ma che i rapporti tra gli Arcivescovi di Milano e i
leghisti non siano mai stati idilliaci ce lo ricorda anche una celebre frase di Carlo Maria
Martini. Nel 2002 al giornalista Marco Garzonio ne il libro «Il Cardinale» aveva risposto
alla domanda su cosa avrebbe fatto se un giorno ci fosse stata la Padania separata:
«Rimarrei al mio posto come Schuster è rimasto al suo posto quando ha dovuto reggere
la diocesi praticamente separata dal resto d’Italia nel ’43, cercando di tenere saldi valori
di ogni tipo: carità, solidarietà, onestà, di relazione con il resto del mondo». Un
comportamento che anche Scola sembra onorare.
19
del 14/04/14, pag. 19
Sos da Padova “Troppi crimini poliziotti
romeni pensateci voi”
Quasi 100 vetrine sfondate dall’inizio dell’anno Furti e rapine opera di
pregiudicati dell’est difficili da individuare
Così il sindaco ha deciso di rivolgersi all’ambasciata di Bucarest, che
ha scelto di inviare una task force di specialisti
JENNER MELETTI
PADOVA
MA voi che fate, contro i romeni che rubano o svaligiano case e negozi?». È appena finita
la Messa ortodossa, nella chiesa di San Gregorio, zona industriale di Padova. È un giorno
di festa perché la comunità romena — novemila persone — ha appena acquistato l’edificio
sacro. A porre la domanda non sono i leghisti del Nordest ma l’ambasciatrice della
Romania in Italia, Dana Constantinescu, e il console generale di Trieste, Cosmin
Dimitrescu. «Non vogliamo — dicono i due diplomatici — che pochi delinquenti
danneggino la vita di migliaia di donne e uomini romeni che qui da voi lavorano
onestamente». Nasce così, di domenica, l’idea di utilizzare funzionari del consolato e
poliziotti della Romania nella lotta contro i ladri e rapinatori arrivati da Bucarest e dintorni.
«La proposta — dice Ivo Rossi, sindaco reggente di Padova — mi è piaciuta subito. Ne ho
già parlato con il questore e con il prefetto. Fra pochi giorni passeremo alla fase
operativa».
Guardie e ladri parleranno dunque la stessa lingua. Nona Evghenie (34 anni, romena da
11 in Italia e prima cittadina straniera eletta nel Consiglio comunale di Padova — lista Pd
— nel giugno 2009) è stata il trait d’union fra l’ambasciata e l’amministrazione comunale.
«Non posso accettare — racconta — che alcuni miei connazionali non rispettino le leggi
italiane. E lo facciano senza pudore. L’altro giorno un romeno ha fatto una spaccata in un
negozio, è stato preso e portato in questura poi in carcere. Ventiquattro ore dopo era fuori.
“Mi sono fatto una notte al caldo”, ha detto. Io penso che una proposta giusta sia quella di
far scontare le pene nel Paese d’origine. In Romania, se fai un furto o una rapina, vai in
carcere subito e ci resti a lungo. Ad attirare qui i delinquenti è proprio la sensazione di
impunità, o quasi».
Anche Nona Evghenie è arrivata in Italia con un pullman della speranza e un visto
turistico. «Ho fatto la baby sitter e la colf. Poi mi sono inserita bene, adesso lavoro in
banca. Mi sono impegnata per i miei connazionali, arrivati qui per cercare una vita
migliore. Quando sono arrivati i primi rom romeni, come Comune abbiamo cercato di dare
un rifugio alle donne incinte e ai minori, soprattutto in inverno. Ma quando abbiamo chiesto
i nomi e i cognomi, perché non potevamo dare assistenza a chi avesse problemi con la
giustizia, sono scomparsi tutti. Spesso fra loro — romeni rom e non rom — ci sono
persone ricercate, persone che non sono più accettate in Francia e Germania e scelgono
l’Italia perché più permissiva».
Molte cose cambieranno, con l’arrivo della polizia di Bucarest. «Intanto i nostri agenti
parlano la stessa lingua di chi commette reati. Conoscono le diverse bande che vengono
qui in transumanza per organizzare furti e prostituzione. Già leggendo i loro nomi, possono
sapere anche se siano cittadini della Romania, che fa parte della comunità europea o
moldavi o di altre nazioni che si spacciano per comunitari. Noi vogliano rispettare i diritti
20
delle persone ma questo rispetto non può trasformarsi in buonismo. A Vicenza tanti
romeni sono stati rimandati a casa, con la collaborazione del nostro consolato, perché non
avevano mezzi di sussistenza. Questa la strada che anche noi vorremmo percorrere».
Dall’inizio dell’anno nel padovano ci sono state 80 “spaccate” in negozi e tabaccherie.
Qualcuno è stato preso. «Sgominata una banda — annunciava l’altro giorno un
comunicato della questura — di predoni dell’Est. Arrestate quattro persone di nazionalità
romena. Innumerevoli i colpi portati a segno dalla banda. Usando cesoie e piedi di porco
entravano in esercizi pubblici devastandoli letteralmente…».
«Ma tante volte — dice il sindaco Ivo Rossi — sembriamo davvero il ventre molle
dell’Europa. L’altro giorno, scendendo al bar per un panino, ho assistito a un fermo: un
romeno era entrato in un negozio e aveva rubato sette paia di jeans. La commessa lo
aveva rincorso gridando e due agenti della nostra polizia locale lo avevano bloccato. Ma lo
stesso uomo era stato fermato davanti allo stesso negozio quattro giorni prima, sempre
dai nostri vigili, con sei paia di jeans. Foto-segnalato, era stato mandato in Procura per
trasformare il fermo in arresto. Il magistrato ha deciso però la denuncia a piede libero. E
sa cosa ha detto il romeno, dopo il secondo fermo? “La prossima volta cambio negozio”».
C’era anche il sindaco, alla Messa ortodossa. «Mi sembrava di essere in una nostra
chiesa negli anni Sessanta, con tutte le donne con il velo in testa… Persone oneste che si
guadagnano il pane, le donne come badanti, gli uomini come operai. E, solo perché
romeni, rischiano di essere additati come delinquenti: per colpa di bande per le quali l’Italia
è il Paese dell’impunità. Arriveranno presto, i poliziotti romeni, per collaborare con le
nostre forze dell’ordine. Far rispettare le leggi, fermare e punire davvero chi commette
reati: credo che questa sia la vera integrazione europea».
21
SOCIETA’
del 12/04/14, pag. 3
Circolare del Dap ai direttori: «Basta dati ad
Antigone»
Eleonora Martini
Sarà il clima di incertezza che si respira a ridosso della scadenza per il completamento
dello spoil system (90 giorni dalla fiducia al governo), sarà che in certi ambienti ci si sta già
preparando alla nomina del Garante nazionale dei diritti dei detenuti – collegio finalmente
istituito dall’ultimo decreto «svuota carceri» e che verrà nominato dal capo dello Stato su
indicazione del governo –, sarà per questo o per l’imminente deadline del 28 maggio
imposta dalla corte di Strasburgo o altro ancora, ma nelle stanze del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria tira una strana aria. Nervi a fior di pelle, evidentemente,
se nei giorni scorsi dalla sede romana di Largo Luigi Daga è partita, alla volta dei
provveditori regionali e dei direttori generali dell’amministrazione penitenziaria, una
circolare firmata dal vice capo Dipartimento, Dott. Luigi Pagano, che vieta d’ora in poi di
fornire direttamente «dati ed informazioni sugli istituti penitenziari» all’«Associazione
Antigone», «onde evitare incoerenze pregiudizievoli in ordine all’immagine esterna
dell’amministrazione». Pagano si riferisce con ogni evidenza alla querelle sui posti
realmente disponibili nelle carceri, risolta nell’ottobre scorso dall’allora ministra Annamaria
Cancellieri che pubblicamente ammise: «I letti sono 37 mila e non 47 mila come calcola il
Dap». Ogni richiesta da parte di Antigone, si legge ancora nella circolare, dovrà invece
essere girata «a questo Dipartimento, il quale provvederà a valutarla secondo le linee di
massima trasparenza alle quali si ispira».
In effetti da qualche giorno (la circolare è datata 25 marzo) gli operatori di Antigone
avevano trovato la strada particolarmente sbarrata al loro lavoro. Quando Patrizio
Gonnella, presidente dell’associazione, ne ha capito il motivo, ha scritto a Pagano e al
capo del Dap, Giovanni Tamburino, informando anche il Guardasigilli Andrea Orlando e il
suo capo gabinetto Giovanni Melillo che erano all’oscuro dell’iniziativa. In questa «fase
cruciale per il cammino delle riforme» che richiede «determinazione» e «massima
trasparenza», scrive Gonnella, un tale “suggerimento” appare come «un pericoloso passo
indietro» da parte di un’amministrazione che negli ultimi tempi aveva mostrato apprezzabili
«aperture informative». Dopo aver spiegato nei dettagli le conseguenze di un simile
ordine, sia sul loro lavoro di informazione, sia sull’immagine pubblica del Dap stesso,
Gonnella chiede che la circolare sia ritirata e che venga consentito ad Antigone, «come
abbiamo sempre fatto a partire dal 1998, di raccogliere dati direttamente dai direttori di
Istituto, anche al fine di non rinchiuderli dietro un imbarazzante silenzio».
Nelle ultime ore, il Dap sembra aver fatto un passo indietro su questa vicenda, anche se la
circolare non è stata ancora ritirata. Forse presto Antigone potrà ricominciare a svolgere il
suo prezioso lavoro, ma nel frattempo bisognerà vigilare sulla nomina del Garante
nazionale dei detenuti, sperando che la scelta cada su una persona che porti un respiro
internazionale e che sia estranea agli equilibri di potere interni all’amministrazione
penitenziaria.
22
del 12/04/14, pag. 7
Antidroga, il business delle relazioni politiche
Il consumo di stupefacenti in Italia continua a crescere. Malgrado dai
tempi di Giovanardi il capo Dipartimento Serpelloni affidi ad agenzie
fidate e ben pagate l’analisi dei dati. Che sostengono il contrario
Alessandro De Pascale
A differenza di quanto afferma il Dipartimento politiche antidroga (Dpa) della Presidenza
del consiglio, i consumi di droga nel nostro Paese continuano a crescere. Soprattutto tra i
giovanissimi. A dirlo sono le anticipazioni dei risultati dell’indagine Espad-Italia®, una
ricerca sui comportamenti d’uso di alcol, tabacco e sostanze illegali da parte degli studenti
delle scuole medie superiori, inserita nell’omonimo progetto del Consiglio d’Europa. Lo
studio italiano viene condotto fin dal lontano 1995 dall’Istituto di Fisiologia Clinica (Ifc) del
Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), sulla base degli indicatori standard richiesti
dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze di Lisbona (Emcdda). O
almeno è stato così fino alla creazione del Dipartimento in questione, il 20 giugno del
2008. A partire da quell’anno, durante il quarto governo Berlusconi nel quale
sottosegretario con delega a famiglia, droga e servizio civile era Carlo Giovanardi,
coautore assieme a Fini dell’omonima legge repressiva da poco bocciata dalla Consulta
che equiparava tutte le sostanze inasprendo le pene detentive, il neo Dipartimento
politiche antidroga, guidato allora come oggi da Giovanni Serpelloni, ha deciso infatti di
affidare ai privati le statistiche italiane sui consumi. Quelle che l’Italia trasmette poi
annualmente all’Unione europea e alle Nazioni Unite. Sarà anche un caso, ma da allora,
come si può vedere nelle tabelle che pubblichiamo, si è registrato un crollo dei consumi di
tutte le sostanze e in particolare di eroina, allucinogeni e stimolanti.
Tanto che nel 2010, il primo anno in cui il Dipartimento ha diffuso i suoi dati, Giovanardi e
Serpelloni annunciano trionfalmente alla stampa che in Italia ci sono un milione di
tossicodipendenti in meno. Da allora, lo studio, è stato affidato a diversi soggetti. A
realizzare l’ultimo, il Consorzio universitario di economia industriale e manageriale
(Cueim), con sede legale a Verona, che, come lascia intendere il nome e il loro stesso sito
web, si occupa soprattutto di questioni economiche e manageriali, non sembrando invece
avere alcuna pregressa esperienza nel settore delle dipendenze patologiche o peggio
ancora delle analisi epidemiologiche, paragonabile ad esempio a quella dell’Ifc-Cnr,
un’ente pubblico di ricerca che viceversa opera da decenni in questo ambito. Dalla
convenzione tra il Dipartimento e il Cueim, siglata il 10 ottobre 2011 per un importo 237
mila euro, emerge inoltre che l’affidamento è avvenuto in maniera diretta, quindi senza
alcuna gara. E si tratta di un’altra scelta opinabile, soprattutto quando si appalta a strutture
non pubbliche ma private, poiché il Consorzio in questione risulta composto non solo da
università, ma anche da banche, società di assicurazioni e altre società di consulenza. Il
contratto per il “Survey Italy” sui consumi di droghe, non è nemmeno l’unico
commissionato al Cueim con una negoziazione privata e quindi senza comparazioni con
altre possibili offerte.
Sarà anche questo un caso ma il tra i soci sostenitori del Consorzio in questione, figura
anche l’Azienda Ulss 20 di Verona nella quale lavorava Serpelloni, prima di approdare a
Palazzo Chigi. Fatto sta che soltanto tra il 2010 e il 2012, il Dipartimento da lui guidato ha
affidato al Cueim 7 studi e ricerche per quasi 3 milioni di euro. Oltre al “Survey Italy”, sono
infatti stati commissionati al Consorzio veronese anche il progetto Communication (360
mila euro), il Sind Support (un milione di euro), il progetto Consorzio di solidarietà per la
23
prevenzione (350 mila), il Prevenire (390 mila), il Promo Eurodrugs 2 Eurotraining (350
mila) e La strada per una guida sicura (220 mila).
Tornando allo studio sui consumi, nella loro prima relazione, quella 2012 ma basata
ovviamente su dati dell’anno precedente, l’allora ministro con delega al contrasto alle
tossicodipendenze, Andrea Riccardi (governo Monti), visto il basso tasso di risposta ai
questionari (pari al 33,4%) che rendeva tale dato «difficilmente rappresentativo», avrebbe
imposto di aggiungere per la prima volta un inciso sulla «non validità statistica del dato».
Ma come vengono realizzati questi due studi sui consumi? L’Ifc del Cnr somministra a un
campione molto ampio di ragazzi (45mila studenti di 500 scuole, una per provincia) un
questionario cartaceo, che gli studenti possono compilare autonomamente nella propria
aula, seduti al loro banco. Quando hanno finito, lo inseriscono in una busta che viene poi
sigillata e inserita in una scatola. La ricerca duplicato, quella del Dipartimento antidroga,
prevede viceversa un questionario web. La compilazione avviene quindi sullo schermo a
video, nell’aula informatica della scuola, all’interno della quale vengono accompagnati
dagli insegnanti che sicuramente girano poi tra le varie postazioni informatiche. Inutile
aggiungere che si tratta di informazioni delicatissime e basta modificare anche solo una
domanda all’interno del questionario, per rischiare di attribuire alle politiche di governo,
piuttosto che a qualsiasi altra cosa, la variazione di un trend.
Questo per quanto riguarda i ragazzini, perché anche per la popolazione adulta, il
Dipartimento ha creato un duplicato dello studio Ipsad condotto dal Cnr. Il questionario del
Dpa è bello e patinato nonostante la crisi, e inviato a casa di un campione della
popolazione, a firma di Mario Monti (allora era lui il premier). In quest’ultimo caso, il crollo
dei consumi registrato è stato ancora maggiore rispetto a quello ottenuto coi ragazzini.
24
BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 04/04/2014, pag. 1-15
«Quindici anni per evitare il disastro»
di MONICA RICCI SARGENTINI
Il tempo stringe: per salvarci abbiamo appena 15 anni. È la previsione degli scienziati Onu
che hanno prodotto il rapporto sulla situazione ambientale del Pianeta. L’effetto serra non
solo esiste ma è in inesorabile crescita. La media delle emissioni globali è aumentata di un
miliardo di tonnellate all’anno. La richiesta ai leader mondiali è dunque di ridurre da subito
la dipendenza da petrolio e carbone.
L’effetto serra c’è e cresce inesorabilmente, nonostante le promesse dei governi e la crisi
economica che perdura. Tra il 2000 e il 2010 la media delle emissioni globali è aumentata
di un miliardo di tonnellate all’anno, a un ritmo più veloce dei decenni precedenti,
raggiungendo «livelli senza precedenti». È il verdetto emesso dagli scienziati del Gruppo
intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), riuniti a Berlino per
presentare la terza e ultima parte del quinto rapporto sul clima, redatto sotto l’ombrello
dell’Onu. Sul banco degli accusati c’è l’uso intensivo del carbone come fonte energetica in
alcuni Paesi, tra cui in primis la Cina, gli Stati Uniti e l’India. Ma anche in Europa c’è chi ha
fatto dei passi indietro. Nonostante gli investimenti fatti sulle rinnovabili dal governo Merkel
in Germania negli ultimi due anni le emissioni sono cresciute leggermente e questo a
causa dell’abbandono progressivo del nucleare dopo il disastro di Fukushima.
A questo punto, però, il tempo stringe. Per tenere il surriscaldamento globale entro i due
gradi centigradi dal livello pre-industriale, occorrerà tagliare subito, entro quindici anni, le
emissioni di CO2 e gas serra per arrivare a una riduzione tra il 40% e il 70% rispetto al
2010 entro il 2050. L’obiettivo è arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del
secolo. La segretaria della Convenzione quadro dell’Onu sul cambiamento climatico,
Christiana Figueres, che guida i colloqui, ha invitato i Paesi a innalzare le ambizioni
collettive: «L’unico percorso sicuro è quello che prevede di arrivare a un mondo a zero
impronta di carbonio nella seconda metà del secolo». Mentre uno dei tre co-presidenti del
gruppo di lavoro Ipcc, il tedesco Ottmar Edenhofer, ha affermato che «non possiamo
perdere un’altra decade». Se, invece, non si faranno gli sforzi necessari lo scenario
sarebbe catastrofico: la temperatura media del globo terrestre potrebbe crescere tra 3,7 e
4,8 gradi centigradi alla fine del secolo con le conseguente che sappiamo: aumento delle
acque, incendi, cicloni, desertificazione, aria irrespirabile.
Alla fine è solo una questione di volontà politica, sembrano dire gli esperti, circa 235 autori
provenienti da 58 Paesi che hanno messo a confronto oltre 10mila fonti scientifiche
sull’argomento. E la strada da seguire è chiara: puntare sulle energie rinnovabili che oggi
rappresentano solo il 17% del fabbisogno energetico. Il passo non sarebbe nemmeno
troppo oneroso economicamente. Ridurre il riscaldamento richiederebbe investimenti pari
allo 0,6% del Pil annuale. «Al mondo non costerà salvare il pianeta», ha spiegato il
tedesco Ottmar. L’obiettivo è di triplicare l’uso delle rinnovabili entro il 2050.
Ci riusciranno i leader del mondo? Per ora si registra il commento positivo del segretario di
Stato Usa, John Kerry, che ha parlato di «una nuova sveglia che mette bene in chiaro che
ci troviamo di fronte ad una questione di volontà globale, non di capacità». Ma i nemici di
un cambio di passo a livello ambientale sono tanti. E nonostante gli scienziati si dicano
sicuri al 95% che è l’uomo il responsabile dell’effetto serra, c’è sempre chi è pronto a tirare
fuori una nuova teoria per rimandare l’abbandono di carbone, petrolio e affini.
Monica Ricci Sargentini
25
CULTURA E SCUOLA
del 12/04/14, pag. 6
Laureati d’Europa, Italia fanalino di coda
Roberto Ciccarelli
Eurostat. Con una percentuale del 22,4% siamo l'ultimo dei 28 Paesi Ue.
Male anche il dato dell'abbandono scolastico (17%)
condividi
L’talia è ultima in classifica in Europa per numero di laureati. Ormai è così da tre a questa
parte. Gli italiani fra i 30 e i 34 anni che hanno completato il ciclo di studi universitari sono
il 22,4% della popolazione, il livello più basso fra i 28 Paesi dell’Unione europea.
Secondo i dati diffusi ieri da Eurostat, e relativi al 2013, l’Italia si classifica dietro Romania
(22,8%), Croazia (25,9%) e Malta (26%), mentre la media Ue si attesta al 37%. Dal 2002
al 2013, si sottolinea nel rapporto dell’Eurostat, c’è stato un aumento costante della
percentuale di persone laureate nell’Unione europea, passata dal 24% al 37%. E il numero
è aumentato in tutti i Paesi, con in testa Irlanda (52,6%), Lussemburgo (52,5%) e Lituania
(51,3%).
Dalle tabelle dell’istituto di statistica europeo emerge anche che l’Italia soffre nella
classifica dell’abbandono del secondo ciclo di studi, dove si piazza quintultima. In Europa
la percentuale di abbandono scolastico dei giovani fra i 18 e i 24 anni è diminuita
costantemente, dal 17% del 2002 al 12 del 2013. Anche sul fronte della battaglia contro gli
abbandoni scolastici, l’Italia si classifica in fondo alla classifica: 23esima su 28 per numero
di ragazzi tra i 18 e 24 anni che hanno abbandonato studi e formazione dopo la scuola
media, il 17%, mentre la media Ue è dell’11,9%. Peggio fanno solo Spagna (23,5%, record
negativo), Malta (20,9%), Portogallo (19,2%) e Romania (17,3%). Ma se Madrid e Lisbona
hanno tuttavia registrato importanti progressi: gli spagnoli sono passati dal 31% di
abbandoni del 2007 al 23,5% del 2013 e i portoghesi dal 36,9% al 19,2%, l’Italia in sei anni
è migliorata solo del 3%. I paesi virtuosi sono invece Croazia (3,7%), Slovenia (3,9%) e
Repubblica ceca (5,4%).
Questo quadro a tinte fosche è stato ripetutamente tracciato da analisi simili a quelle di
Eurostat, pubblicate negli ultimi mesi sia da Almalaurea che dall’Anvur in occasione della
presentazione del primo rapporto sullo stato dell’università 2013. Ad approfondire però gli
effetti della deliberata strategia intrapresa dalle classi dirigenti italiane con il taglio di 10
miliardi di euro dal 2008 all’istruzione e alla ricerca è giunto ieri il rapporto Ricercarsi, una
ricerca sul precariato nelle università condotta su un campione di 1.700 questionari
presentato ieri alla città della scienza di Napoli nel corso del congresso della Flc-Cgil.
«Meno della metà dei ricercatori delle università italiane è assunto a tempo indeterminato,
mentre tra i ricercatori solo il 30 per cento ha un rapporto a tempo indeterminato» ha detto
il ricercatore Francesco Vitucci. Negli ultimi 10 anni il precariato nelle università è quasi
raddoppiato: 10 mila posizioni in più, a dimostrazione che al blocco del turnover le
università hanno risposto in un solo modo: moltiplicando il numero dei contratti precari,
senza contare il lavoro gratuito e le corvée. Nel decennio della grande dismissione deciso
dal governo Berlusconi e mai più corretto dai suoi successori, solo il 7% dei 35 mila
contratti stipulati si è trasformato in assunzioni. Il 35% dei fuoriusciti è oggi disoccupato.
Lo Stato italiano si conferma il più grande sfruttatore al mondo di lavoro precario, in
particolare di quello qualificato. Non bisogna infatti dimenticare che, solo restando al
mondo dell’istruzione, tiene da tantissimi anni sulla corda almeno 141 mila docenti precari,
senza considerare le multiformi precarietà del resto del personale scolastico.
26
I dati di oggi rivelano tuttavia qualcosa in più. Come tagliatore di teste, lo Stato italiano è
molto più spietato di qualsiasi manager in un’azienda privata.
Del 14/04/2014, pag. 7
Laureati, disoccupati e scoraggiati
DAL 2008 AL 2012 IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE DEI LAUREATI DI PRIMO
LIVELLO È CRESCIUTO DI 11 PUNTI
Carlo Buttaroni
Presidente Tecnè
Nella prima metà degli anni Cinquanta, per le strade circolavano poco più di 400mila
automobili e c’erano 4 apparecchi televisivi ogni 1.000 abitanti. Per vedere Febo Conti,
Settenote o la Domenica sportiva comodamente seduti nel salotto di casa, bisognava
spendere una cifra che corrispondeva a circa dodici mensilità di un reddito medio, vale a
dire il costo attuale di un’utilitaria di fascia media. Dieci anni dopo, le auto circolanti in Italia
erano 2,5 milioni e gli apparecchi televisivi quasi 6 milioni. Erano gli anni di una crescita
non solo economica ma anche sociale. Gli italiani guardavano Non è mai troppo tardi, un
programma d’insegnamento elementare condotto dal maestro Alberto Manzi che ha
aiutato milioni di italiani ad affrancarsi dall’analfabetismo. Le grandi trasformazioni
avvenute in quegli anni alimentavano l’idea che in Italia, come in altri paesi occidentali, la
rigida divisione in classi appartenesse ormai al passato. E, in effetti, il cambio di struttura
economica iniziato negli anni Cinquanta con il processo d’industrializzazione prima e di
terziarizzazione poi, hanno segnato una rapida crescita della classe operaia urbana e
della classe media impiegatizia, insieme all’affermarsi di una borghesia legata alla piccola
industria e al commercio, registrando tassi elevati di mobilità sociale ascendente. Erano
anni in cui a crescere era il numero di posizioni sociali più elevate, e non si poteva fare
altro che abbandonare la classe di origine e salire, determinando l’ascesa sociale dei figli
delle classi economiche più svantaggiate. Una mobilità che ha consentito non solo a
milioni d’italiani di raggiungere condizioni di benessere individuale, ma a tutto il Paese di
crescere e acquistare fiducia in se stesso, dando corpo a un ceto medio sempre più
diffuso e dinamico.
MOBILITÀ SOCIALE
È stato questo il grande potere della mobilità sociale: non solo il recupero di efficienza
economica legata a una gamma più ampia di opportunità, ma il diffondersi di un
sentimento di fiducia che ha spinto a investire per migliorare la propria condizione e a
guardare avanti. Questo imponente processo di mobilità sociale ha avuto il suo apice negli
anni Sessanta per rallentare progressivamente nei decenni successivi. E mentre
diminuivano le possibilità di ascesa sociale, crescevano contestualmente i vantaggi
determinati dalla posizione di partenza ereditata della famiglia. Con il risultato che, dagli
anni Ottanta, gli eredi delle classi medie e superiori riuscivano con minore frequenza a
ricalcare la dinamica ascendente dei padri, e assai più fatica dovevano fare i figli delle
classi inferiori per emanciparsi dalle loro origini. Già negli anni Novanta, le possibilità che
avevano i figli d’imprenditori, liberi professionisti, dirigenti di accedere ai vertici della
gerarchia sociale superavano di dodici volte le possibilità su cui potevano contare i giovani
provenienti da famiglie di classi inferiori. Non solo: le classi più elevate riescono anche a
garantire una protezione più elevata contro i rischi di discesa verso posizioni inferiori,
riducendo, quindi, le opportunità di ricambio ai vertici della piramide sociale. Questo
fenomeno si accentua ancora di più nel decennio successivo fino a quando, a cavallo tra il
27
nuovo secolo e i giorni nostri, le traiettorie sociali invertono la direzione. Gli ascensori
sociali si bloccano in salita, mentre aumentano le frequenze delle discese e l’Italia
sperimenta, complice anche la crisi economica, una radicale discontinuità storica rispetto
agli ultimi cinquant’anni. Gli individui tra i 25 e i 40 anni rappresentano la prima
generazione del dopoguerra a rivelarsi impossibilitata a migliorare la propria posizione
rispetto a quella dei propri genitori. E questa condizione non riguarda soltanto l’ascesa
verso i livelli superiori dei figli delle classi più svantaggiate, ma anche l’accesso dei figli
delle classi medie e alte alle posizioni già occupate dai genitori. Non solo si accentua,
cioè, la posizione di vantaggio derivante dalla provenienza familiare ma i posti disponibili
nelle posizioni apicali, complice la crisi economica, si sono notevolmente ridotti, col
risultato che molti giovani, pur provenienti da classi elevate, sono costretti ad
accontentarsi di essere collocati in posizioni economicamente e socialmente meno
prestigiose. Paradossalmente, ad aggravare gli effetti del blocco della mobilità sociale
ascendente è la crescita dei livelli d’istruzione dei giovani. A parità di titolo di studio, infatti,
i figli si collocano in posizioni professionali meno qualificate rispetto a quelle dei loro
genitori, rendendo inevitabilmente meno produttivo il loro capitale umano.
A UN ANNO DAL TITOLO
La fotografia di questo fenomeno è nell’indagine che ogni anno il consorzio Almalaurea
realizza sulla condizione occupazionale dei laureati. A un anno dal conseguimento del
titolo, il tasso di disoccupazione dei laureati di primo livello è cresciuto di oltre 11 punti in
soli 4 anni, passando dal 15,1% del 2008 al 26,5% del 2012. E mentre è cresciuta la
difficoltà a trovare un lavoro, per gli occupati si sono ridotti i guadagni netti mensili, inferiori
di un quinto per i laureati nel 2012 rispetto ai colleghi che hanno conseguito il titolo nel
2008. Un fenomeno che inevitabilmente induce a ritenere la laurea meno efficace rispetto
al passato. Difficile, quindi, pensare che sia un caso il fatto che l’Italia si colloca in fondo
alla classifica europea per numero di giovani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo
di studio universitario. La straordinaria crescita delle economie occidentali, che ha preso
avvio nel dopoguerra, ha corrisposto a un ampliamento delle possibilità degli individui di
elevarsi dalla condizione di partenza, a una rimozione delle barriere di ceto, a un
rafforzamento dei sistemi di protezione sociale, a una crescita generale dei livelli
d’istruzione. Per questo il tema della mobilità sociale è centrale nel momento in cui si è
impegnati collettivamente nello sforzo di uscire dalla lunga fase recessiva di questi anni.
Un tema che non riguarda soltanto il «quando» si tornerà ai livelli pre-crisi ma anche il
«come», visto che il deterioramento delle opportunità di accesso ha fatto tornare gli indici
di mobilità sociale indietro di sessant’anni.
del 14/04/14, pag.
Si diffondono anche nel nostro Paese le scuole di lettura, dove gli autori
si mettono in gioco per educare il pubblico ad assaporare meglio il
testo
Caro scrittore insegnami a leggere davvero
RAFFAELLA DE SANTIS
La sedia preferisce non usarla. Si toglie la giacca e rimane in maniche di camicia. Si
guarda intorno, controlla che tutti abbiano preso posto e dice: «Scusate, ma Céline è un
autore che si legge in piedi». Fuori la gente passeggia nelle vie intorno a piazza
Montecitorio, godendosi il primo assaggio della primavera romana. Dentro, all’interno della
28
libreria Arion, c’è Alessio Dimartino, professione scrittore. Oggi però non è qui per
promuovere il suo nuovo libro ( C’è posto per gliin-diani, Giulio Perrone editore) ma per
tenere una lezione di lettura. Ha scelto di farlo attraverso la Trilogia del Norddi Céline.
Scelta non facile. Eppure la sala si riempie. Una quarantina di persone, soprattutto donne,
aspettano che questo strano insegnante con orecchino e jeans rompa il ghiaccio.
«OGNI scrittore ha il proprio ritmo. La lettura di Céline è una corsa a scatti che toglie il
fiato e lascia con l’affanno. Céline non è certo un maratoneta. Per leggere queste pagine
bisogna ingaggiare un corpo a corpo con il testo». In effetti lo stile degli ultimi romanzi di
Céline è ancora più folle di quello del Viaggio al termine di una notte o di Morte a credito,
la sintassi è spezzata, la grammatica va per conto proprio, ma gli allievi – un’età che va
dai trenta agli over 70 – ascoltano attenti. È il terzo incontro organizzato dalla scuola di
lettura Orlando, legata alla rivista diretta da Paolo Di Paolo e nata da un’idea dello scrittore
con il sostegno dell’editore Perrone. Per partecipare si paga una quota di 50 euro all’anno
(la metà per gli under 25). I primi appuntamenti sono stati con Dacia Maraini, che ha letto
Pinoc-chio, e Chiara Gamberale, che ha scelto Adadi Nabokov,il Teatro di Sabbathdi
Philip Rothe Peter Pan. Il metodo è semplice: non si promuovono i propri romanzi e si
parte sempre da una storia, da una pagina, da un fatto o da un sentimento. Si commenta
dopo, mai prima. Ogni scrittore ha il suo ritmo. Ogni lettura la sua interpretazione.
In Italia si pubblicano circa 60 mila libri l’anno, eppure stiamo disimparando a leggere. Gli
ultimi dati Nielsen sono il bollettino di una catastrofe: solo 43 persone su cento hanno letto
almeno un libro nel corso dell’anno passato. «Troppi stimoli, troppe sollecitazioni », dice
Paolo Di Paolo. «I librari tradizionali stanno sparendo e c’è un forte disorientamento
collettivo, serve qualcuno che indichi la via. Le scuole di lettura, a differenza di aNobii o
altri social network, possono funzionare da palestra, mettendo a disposizione un lettore più
esperto che faccia da allenatore». E se i corsi di scrittura pompano i muscoli del
narcisismo, queste sono palestre di umiltà, in cui l’ego va messo da parte per disporsi
all’ascolto. D’altra parte il piacere della lettura è tutt’altro che istintivo. Ha bisogno di guide,
va educato. Tullio De Mauro, la cui lezione alla scuola Orlando è prevista per il 24 maggio,
spiega: «Scrivere e leggere non appartengono all’immediatezza naturale. Sono possibilità
che alcuni popoli hanno cominciato a sviluppare da alcune migliaia di anni e che si sono
andate generalizzando soltanto negli ultimi secoli. Si impara a leggere quando si prova il
bisogno di uscire dalla pura sopravvivenza».
Sarà per questo che molte scuole di lettura, soprattutto nei paesi anglosassoni, sono sorte
nelle periferie disagiate, lì dove la sopravvivenza è più complicata e il bisogno di
comunicare più forte. In Italia sono diventate una realtà negli ultimi anni, sulla scia del
progetto inaugurato nel 2002 a San Francisco da Dave Eggers 8-26 Valencia: l’indirizzo è
quello della strada dove Eggers ha creato il suo laboratorio di lettura e attività creative.
Dopo essersi diffuso in varie città americane il format è approdato in Europa, prima a
Dublino, dove ha ispirato Fighting Words, poi a Londra con Ministry of Stories, sotto il
nume tutelare di Nick Hornby. Da noi esistono associazioni per bambinicome La grande
fabbrica delle parole o Carta Straccia, che aderisce al progetto nazionale Nati per leggere.
In tutte si legge ad alta voce, si trasformano i libri irecite, si accelera il ritmo e poi si
rallenta, si lascia il bambino libero di scegliere la storia che preferisce o di interromperla se
non gli piace. Per i più grandi ci sono la Scuola Twain, rivolta ai giovani tra gli 11 e i 19
anni, e il “Laboratorio Flannery O’Connor” ideato dall’associazione Bomba carta, in cui
ognuno ha a disposizione dieci minuti per leggere tre pagine da un libro a piacere. La sfida
è cercare di coinvolgere tutti gli altri. E poi c’è Piccoli Maestri, nata da un’idea di Elena
Stancanelli nel 2011, arrivata a coinvolgere settanta scrittori che gratuitamente vanno nelle
classi, da Roma a Torino, da Venezia a Benevento, a leggere romanzi. Classici come Il
Grande Gatsby o L’isola di Arturoo Il vecchio e il mare.
29
La lettura è un lessico famigliare. Non tutti hanno avuto la fortuna di crescere in case
piene di libri. «Il bambino che ha avuto una mamma che gli raccontava favole
naturalmente parte avvantaggiato», spiega Dacia Maraini. «Si impara a leggere per
contagio. Leggendo bisogna saper comunicare una propria passione, saper trasmettere le
nostre emozioni». Ci vuole empatia anche secondo Chiara Gamberale: «Le tre cose che
mi fanno sentire in salvo nella vita sono innamorarmi, scrivere e leggere. Nella mia lezione
ho solo cercato di rendere contagioso il mio entusiasmo». Il successo delle scuole di
lettura dimostra che non siamo solo un paese di aspiranti scrittori, che c’è gente che ama i
libri senza avere romanzi nel cassetto: «Ho visto lettori tornare a casa con una copia di
Pinocchio, che magari credevano di aver letto, o di un libro di Nabokov di quattrocento
pagine che forse non avrebbero mai letto», dice Di Paolo.
Certo, oggi si inventano App per la lettura veloce (l’ultima si chiama Spreeder), dunque
tornare a leggere insieme può sembrare anacronistico. Eppure, spiega De
Mauro, può rivelarsi utile: «Ascoltare e praticare la lettura ad alta voce può aiutare a
restituire la naturalità primaria del parlare ». Ma non è detto che nelle scuole di lettura si
debbano privilegiare i romanzi. Tra le letture essenziali De Mauro cita la Bibbia, Omero,
Dante e la Costituzione. Con un avvertimento: «Attenzione, però. I vangeli in presa diretta
sono una lettura “divertente”, nel senso etimologico della parola, o, se si vuole,
“evertente”: mettono in discussione molti modi consueti di vivere, e vanno presi con
cautela». Céline sarebbe meglio assumerlo a dosi controllate. A fine lezione una signora
acquista Morte acredito: «Ho capito che si può leggere Céline come fosse un poeta, come
fosse Apollinaire. Si può apprezzare anche senza capire tutto».
30
ECONOMIA E LAVORO
del 14/04/14, pag. 11
È una soglia di sopravvivenza sotto la quale scatterà il reato e il carcere
per il datore di lavoro ma Cgil, Cisl e Uil temono l’appiattimento degli
stipendi e lo svuotamento della contrattazione
La rivoluzione del salario minimo Allarme
sindacati “Paghe ridotte”
Rischio addio per il contratto nazionale Ecco come funziona negli altri
Paesi
PAOLO GRISERI
UNA rivoluzione. Un cambio destinato a mettere in discussione l’intero sistema di
contrattazione italiano e, temono Cgil, Cisl e Uil, a mettere in forse la stessa
sopravvivenza del sindacato confederale. «La proposta si basa su tre pilastri
fondamentali», premette Enrico Morando, oggi viceministro dell’Economia, per decenni
esponente dell’area riformista del Pci piemontese (insieme a Chiamparino). Il primo
pilastro è «il salario minimo di legge». Una norma che esiste in molti Paesi del mondo, una
linea della sopravvivenza sotto la quale è reato scendere. Che cosa accadrebbe se
venisse introdotto anche in Italia? L’esempio che propone Morando è chiaro: «Se io
imprenditore faccio lavorare le persone in nero, commetto una grave violazione di legge.
Che si traduce in pesanti multe se la paga corrisposta è comunque superiore al salario
minimo di legge, ma che diventa reato penale, punibile con il carcere, se la paga è
inferiore ». Il salario minimo è una soglia di sopravvivenza stabilita dallo Stato sotto la
quale lavorare significa trovarsi in condizione di semi-schiavitù. Per questo è un reato.
In Francia, Usa, Gran Bretagna, il salario minimo di legge vige da decenni. In Usa è di
poco superiore all’equivalente di 5 euro, ma alcuni sindaci di grandi città come Seattle
puntano alla soglia dei 15 dollari, circa 11 euro. In Francia il salario minimo è di 9,5 euro,
in Gran Bretagna di 7,3 euro. In Germania un salario minimo non esiste, ma nell’accordo
Spd-Cdu è previsto che il governo Merkel lo introduca. Si immagina che il livello minimo
tedesco sia intorno agli 8,5 euro.
E l’asticella italiana a quale soglia sarà? «E’ troppo presto per dirlo - risponde Morando per ora stiamo preparando la norma, successivamente sarà stabilito il quantum».Tutto
semplice?
Non proprio. I sindacati sono in allarme. «Stabilire un salario minimo di legge - teme
Raffaele Bonanni - significa appiattire verso il basso tutti i minimi contrattuali ». Perché in
Italia ogni categoria di lavoratori ha un suo salario minimo contrattato dai sindacati. Il
minimo contrattuale di ogni categoria ha sostituito di fatto il salario minimo di legge. Il
sistema ha funzionato per decenni perché fino all’inizio degli anni Duemila quasi tutti i
lavoratori italiani avevano un contratto di categoria di riferimento. «Oggi non è più così spiega Serena Sorrentino della segreteria nazionale della Cgil - perché la precarietà ha
finito per creare decine di contratti diversi di collaborazione quasi mai agganciati a un
contratto nazionale. La legge Fornero prevedeva che se io sono un ingegnere meccanico
e vengo pagato a progetto, devo essere remunerato secondo i parametri minimi degli
ingegneri metalmeccanici. Ma in realtà nessuno rispetta quella legge».
31
I sindacati sanno che il salario minimo oggi definito per contratto da ogni categoria di
lavoratori è significativamente più alto del salario di legge che sarà stabilito dal governo
perché il secondo sarà inevitabilmente una soglia di sopravvivenza. Da qui l’allarme di
Cgil, Cisl e Uil: «In breve tempo - dice Sorrentino - le aziende sarebbero tentate di uscire
da Confindustria, disdettare il contratto nazionale e applicare il minimo di legge che è più
basso». C’è questo rischio? «Il sistema che intendiamo rinnovare - risponde Morando - si
basa sull'idea che per uscire dal contratto nazionale le aziende debbano sottoscrivere con
i sindacati un loro contratto aziendale, come sta accadendo, ad esempio, alla Fiat. In quel
caso il contratto deve essere approvato dai sindacati che rappresentano davvero la
maggioranza dei lavoratori coinvolti. L’accordo del giugno scorso tra Cgil, Cisl, Uil e
Confidustria, sui criteri per decidere chi è davvero rappresentativo nelle fabbriche, è un
passo decisivo per realizzare le modifiche all’intero sistema che stiamo studiando».
Ecco allora i tre pilastri su cui sta lavorando il governo: il salario minimo di legge per
decidere la soglia inviolabile della dignità delle persone; il contratto nazionale per tutti quei
lavoratori, soprattutto nelle imprese più piccole, che non siano in grado di contrattare
direttamente con la loro azienda le condizioni del salario; il contratto aziendale per le
imprese o i gruppi che vogliano avere condizioni diverse dal contratto nazionale. Una delle
differenze rispetto ad oggi è che nello schema del governo Renzi il contratto nazionale e
quello aziendale sono alternativi tra di loro mentre attualmente i contratti aziendali
aggiungono soldi in busta paga rispetto ai minimi contrattuali della categoria nazionale.
Una discussione per addetti ai lavori? Non è così. I sindacati temono che, nella tenaglia tra
salario minimo di legge e accordi aziendali, i contratti nazionali finiscano stritolati,
diventando un residuo marginale del Novecento. Uno scenario da incubo per i sindacati
confederali: la stessa idea di sindacato generale, che cerca di dare uguali diritti a chi fa lo
stesso lavoro in ogni parte del Paese e in ogni fabbrica, finirebbe per essere sconfitta. Il
fiorire di contratti aziendali coinciderebbe con il fiorire di sindacati d’azienda, ognuno in
concorrenza con le sigle del capannone vicino. Questa è la vera posta in gioco nel braccio
di ferro tra sindacati e governo delle ultime settimane.
Da Repubblica – Affari e Finanza del 14/04/14, pag. 1/2
Authority, una giungla da 1 miliardo Dall’Agid
all’Avcp, ecco dove tagliare
IL PREMIER HA ANNUNCIATO CHE SFOLTIRÀ QUESTO DEDALO DI
ISTITUZIONI, MA MOLTE SONO EFFICIENTI E ANZI DI RILEVANZA
CRUCIALE PER IL FUNZIONAMENTO DELL’ECONOMIA IN TEMPI DI
LIBERALIZZAZIONI IN QUANTO ORGANISMI DECISIONALI
INDIPENDENTI
Eugenio Occorsio
C’ è chi la spending review se la sta già facendo in casa. L’Antitrust aveva otto macchine
di servizio nel 2011 (una Bmw serie 5, quattro Renault Megane, una Citroen C5, due
Passat) e oggi si è ridotta a una Delta, perdipiù in via di sostituzione con un’Opel Astra,
una Panda e due Punto. E le spese di funzionamento sono scese da 57 a 52 milioni.
Anche l’Ivass (assicurazioni) fra il 2012 e il 2013 ha autoridotto il suo budget del 2,5% da
55,6 a 54,3 milioni. L’authority per l’energia, malgrado le sia stata aggiunto il controllo
sull’acqua, ha tagliato del 10% le spese nell’ultimo anno. Altre vedono ridursi il bilancio
32
loro malgrado: perfino l’Anticorruzione è scesa da 4,6 a 4,2 milioni in 12 mesi. Insomma,
nonostante Cottarelli non abbia nominato esplicitamente questa o quella da tagliare (come
ha fatto con altri enti pubblici tipo Cnel o Enit), l’ombra della spending review aleggia
minacciosa sulle authority, l’eterogeneo insieme di corpi amministrativi indipendenti che
regola, vigila, garantisce una serie di diritti e funzioni chiave nella vita dal Paese
sottraendoli al controllo diretto della politica. Il tutto per garantire imparzialità e tutela del
cittadino. Ma quante sono le authority? E quali sono realmente funzionali ed efficienti? «Ci
sono 19 authority, più dei ministeri, interverremo », ha tuonato il premier Renzi
presentando il Def. Ma di più non ha aggiunto. È vero che sono tante, probabilmente
troppe, ma per la verità non è facile arrivare a 19 facendo un censimento ragionato delle
authority. Proviamo a vedere categoria per categoria. N el grafico a fianco c’è la
distinzione per funzione delle authority. Il totale dei budget supera il miliardo, ma è una
somma teorica perché diverse authority si autofinanziano, altre contribuiscono all’erario
con le multe, altre sono in attivo. Molte sono indispensabili: Bankitalia, Consob, Privacy,
Antitrust e altre. «Affrontiamo le sfide della società digitale con un ufficio di ridotte
dimensioni come personale, che deve avere alti requisiti di competenza, nonché carente di
risorse economiche», accusa Antonello Soro, Garante della privacy. «Abbiamo un obbligo
imposto dai trattati europei». In effetti con 130 dipendenti e un budget di 21 milioni, il
rendiconto 2013 è corposo: 411 accertamenti con il supporto della Guardia di Finanza
presso call center, banche dati, centrali di telemarketing, multe riscosse per 4 milioni, 850
procedimenti avviati (a fronte dai 578 del 2012), 71 segnalazioni ai magistrati per violazioni
penali. Il Garante della privacy si autofinanzia solo in parte: del budget, 8,5 milioni arriva
dallo Stato e 12 milioni dal fondo di perequazione fra le authority, in base al quale le più
ricche aiutano le più povere. Grazie allo stesso meccanismo di solidarietà si finanzia
l’Autorità di garanzia sugli scioperi, ma qui cominciano i dubbi: «Non vedo perché le sue
funzioni non debbano essere svolte dal ministero del Lavoro», sostiene Carlo Scarpa,
economista dell’Università di Brescia. Il ministero, peraltro, ha dimezzato da 2 a 1 milione
il suo contributo. Roberto Alesse, che dell’authority, una trentina di dipendenti, è il
presidente, rivendica: «Solo nel 2013 ci siamo pronunciati sulla legittimità di 2300
proclamazioni di sciopero e di questi ne sono stati effettuati 1340. La legge che noi
applichiamo, la 146 del 1990, sul diritto di sciopero nei servizi pubblici, ha prodotto effetti
positivi sul piano della civilizzazione del conflitto collettivo di lavoro». Ancora più nebulosi i
meriti di un’altra authority, quella per l’Infanzia e l’adolescenza. Ferma restando la gravità
dei problemi, sembra una sovrapposizione intanto con i lavori della magistratura, e poi
delle tante associazioni private che si occupano del problema. La presiede da due anni
Vincenzo Spadafora, classe 1974, già presidente della società Terme di Agnano, docente
di Scienze della Comunicazione a Roma, infine perfino presidente dell’Unicef. Anche
l’Agenzia delle Entrateha ritenuto di dover creare una sua authority, “Diritti del
contribuente”. Ma altro non è che una serie di uffici regionali che raccolgono reclami, e in
tanti sostengono che sarebbe bene - per risparmiare tutte le spese di struttura - che
rientrassero nell’Agenzia stessa, che dispone ovviamente di altrettanti sportelli locali. In un
momento di transizione si trova la Civit, “commissione per l’integrità amministrativa”:
creata nel 2009 dall’allora ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, apertamente
per dichiarare guerra ai “fannulloni” dei ministeri ma poi rimasta sempre nel vago quanto a
funzioni (salvo elaborare discutibili indici di “performance e qualità”), si sta ora trasformando in un’authority seria, l’Anac sull’Anticorruzione, con 4,5 milioni di budget, alla quale
Renzi ha nominato Raffaele Cantone, il giudice- eroe che fa la guerra ai Casalesi e sta
affrontando il non meno tortuoso percorso delle approvazioni da parte dei diversi organi
del caso. E che dire dell’Agid ( Agenzia per l’Italia digitale)? Ha una storia lunga, deriva dal
Cnipa, poi diventato Aipa, poi DigitPa, tutti organismi di promozione e controllo per
33
l’automazione della pubblica amministrazione, per la posta elettronica certificata, per il
digital divide. Infine da un paio d’anni ha assunto l’attuale denominazione, ma vista la sua
identità quanto meno indefinita, molti ne raccomandano la confluenza nell’AgCom oppure,
visto che a differenza delle altre ha compiti di promozione industriale, semplicemente il
reingresso nel ministero dello Sviluppo. La stessa AgCom regolamenta l’universo della
comunicazione, dai cellulari alle televisioni. E ha un senso preciso quale authority perché
regolamenta un settore anticamente dominato da alcuni monopoli, «in cui non so perché
gli operatori sono molto litigiosi», commenta il presidente Angelo Cardani. «Per di più
dobbiamo fronteggiare un continuo ampliamento del perimetro delle attività da parte delle
imprese tecnologiche grazie all’espansione dei servizi Ip, e poi le continue rivoluzioni dei
vari comparti». Le risorse per affrontare questi complessi compiti comunque è di 368 unità
(la pianta organica sarebbe di 419) e, così come le altre due autorità di regolazione
(energia e trasporti), l’AgCom incassa un contributo dagli operatori regolati, pari in questo
caso per il 2014 all’1,4 per mille dei ricavi. Il bilancio per quest’anno prevede entrate
complessive per 76,2 milioni e stima spese per 83,8 milioni. Il pareggio è assicurato dagli
avanzi precedenti. Anche la Banca d’Italia, ora che ha perso le funzioni di istituto di
emissione, viene assimilata ad un’authoritydi controllo in materia bancaria, ed è
strettamente incardinata alle assicurazioni vigilate dall’Ivass, nata due anni fa sulle ceneri
dell’Isvap con caratteristiche di totale indipendenza dalle compagnie a differenza del
predecessore. Il presidente dell’Ivass, 350 dipendenti, è lo stesso direttore generale di
Bankitalia, Salvatore Rossi, che spiega: «Il nostro modello è quello francese, e rimarca le
profonde assonanze fra banche e assicurazioni. Noi vigiliamo sui criteri di formazione delle
tariffe, sulla solidità patrimoniale delle compagnie, sui rapporti con la clientela».
Rimangono fuori gli accordi di cartello che spettano all’antitrust. «Ritengo soddisfacente il
grado di solidità conseguito dal settore. E quanto al rapporto con i clienti, io mi sono finto
spesso un cittadino danneggiato, ho telefonato al nostro call center e ho sempre avuto un
ottimo risultato dalle mie proteste», racconta Rossi. Autorità “cugina” è quella sui fondi
pensione, la Covip: vigila da quest’anno, con 78 dipendenti e 11 milioni di budget non più
solo sui 1.491 fondi esistenti (con 6,2 milioni di iscritti) ma anche sulle casse previdenziali
in coordinamento con il ministero del Lavoro. Ci sono spinte perché le sue funzioni
vengano assorbite dalla stessa Ivass, ma il presidente Rino Tarelli, un ex sindacalista
della Cisl, tiene duro e sostiene la «finalità sociale del settore, sancita dai principi
costituzionali e non accomunabile a quella propria dei mercati finanziari». Finalità meno
sociali ha l’Avcp, che vigila sui contratti pubblici. Ha una storia controversa: creata
all’indomani di Tangentopoli per domare il male della corruzione nelle gare, presieduta da
Sergio Santoro, giudice amministrativista e presidente di sezione del Consiglio di Stato,
pur avendo nei soli ultimi tre anni presentato 20 denunce alla Procura e 47 alla Corte dei
Conti, non sembra aver centrato il suo obiettivo. Almeno di questo è convinto il ministro
delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che ne ha chiesto a viva voce la chiusura senza però
dare garanzie che la vigilanza migliorerebbe. Ci sono authorityche non gravano sui bilanci
pubblici. «Noi garantiamo - spiega Guido Bortoni, presidente dell’Autorità per l'energia
elettrica, il gas ed il sistema idrico che gli investimenti e la gestione delle infrastrutture
vadano davvero a beneficio del consumatore. Creiamo benchmark, obiettivi minimi, criteri
di salvaguardia delle aree svantaggiate e formazione delle tariffe». Su 45 miliardi di
fatturato delle aziende del settore, metà è influenzato dalle decisioni dell’authority, il che
basta a spiegare l’importanza dell’indipendenza dalla politica. Come l’AgCom e la
neocostituita Autorità dei trasporti, si finanzia con i contributi dalle imprese vigilate:
quest’anno ha chiuso in pareggio un bilancio di 100 milioni tondi grazie agli avanzi di 20
milioni precedenti. C’è infine la regina di tutte le authority, l’Antitrust. «Il nostro presidio è
essenziale per la competitività del Paese - afferma il presidente Giovanni Pitruzzella - e il
34
benessere dei consumatori. Garantire la concorrenza dagli abusi e dalle intese illecite
aumenta la vitalità dell’economia e dà spazio a nuove energie». Un’attività che è in
rilancio: fra gennaio e marzo di quest’anno le multe per violazioni alle norme di
concorrenza hanno già superato con 184,5 milioni tutte quelle comminate l’anno scorso
(112,8 milioni). E quelle per la tutela dei consumatori sono state pari a 5,4 milioni contro
7,6 dell’intero 2013. Le multe peraltro vanno alla fiscalità generale: l’Antitrust, che ha 250
dipendenti e 60 milioni di budget, si finanzia invece con i contributi dello 0,06 per mille (era
lo 0,08 fino all’anno scorso) del fatturato delle società con ricavi superiori a 50 milioni. È
anch’essa un’authority “ricca” che deve finanziarie quelle “povere”. Tutte, finché restano
così tante.
35