Editorialedi Paolo Magri
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Editorialedi Paolo Magri
Editoriale di Paolo Magri Il recente intervento della Nato in Libia si inserisce nel solco della stagione di ingerenze militari inauguratasi con la fine della guerra fredda. L’ingerenza, intesa come interferenza coercitiva negli affari interni di uno stato sovrano, è una vecchia pratica nella vita internazionale. A partire dalla fine della guerra fredda, è tuttavia entrata in una fase nuova. Innanzitutto, dagli anni Novanta in poi si è assistito a una serie di interventi militari – Somalia, Haiti, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Timor Est – come risposta alla diffusione di conflitti civili che ha contraddistinto la fase post bipolare dell’ordine internazionale. Inoltre, l’ingerenza è diventata una pratica multilaterale attraverso il coinvolgimento di diversi stati e la partecipazione inedita di organizzazioni internazionali e/o sovranazionali quali la Nato, la Nazioni Unite e l’Unione europea, laddove in passato era una pratica unilaterale. Infine, le motivazioni umanitarie, benché non del tutto assenti negli interventi militari del passato, hanno assunto un rilievo nuovo. Non a caso, il cuore del dibattito contemporaneo sull’ingerenza ruota intorno alla legittimità di intervenire con l’uso della forza per difendere i diritti umani. Tuttavia, la pratica dell’ingerenza umanitaria non è nuova. Già nel XIX secolo interventi umanitari venivano condotti dalle potenze europee, in particolare Gran Bretagna e Francia, per mettere fine a massacri, atrocità o stermini nei confronti delle popolazioni cristiane sotto l’Impero ottomano o in difesa dei propri connazionali all’estero. È solo dopo la seconda guerra mondiale che la definizione di intervento umanitario fa riferimento alle gravi violazioni dei diritti umani fondamentali. La riflessione giuridica e politologica odierna è invece dominata dalla dottrina della “Responsibility to Protect” – intesa come dovere di ogni stato di proteggere non solo la sua popolazione ma anche la popolazione di altri stati in caso di gravi crimini contro l’umanità – che non ha raccolto consensi unanimi ma, allo stesso tempo, ha definito i termini del dibattito attuale. Infatti, non vi Quaderni di Relazioni Internazionali n. 15 Novembre 2011 1 editoriale è nella comunità internazionale unanimità sull’esistenza di norma relativa alla responsabilità di proteggere nel diritto internazionale. Si parla di una “norma emergente” di diritto internazionale che tuttavia non è ancora pienamente stabilita e la cui forza vincolante deve essere valutata caso per caso. La Responsibility to Protect, o più in generale l’ingerenza a scopi umanitari, solleva inevitabilmente una serie di dilemmi. Sul piano etico, l’interrogativo riguarda la legittimità dell’uso della forza per porre fine alla violenza prodotta da sistematiche violazioni dei diritti umani. Ci si pone la questione di quali costi – anche umani – si possono tollerare per tutelare i diritti umani. Sul piano giuridico, emerge la tensione fra due principi fondamentali di diritto internazionale: da un lato, il principio di sovranità, cui è strettamente collegato il principio di non-ingerenza, e dall’altro, la difesa dei diritti umani. In altri termini, la dicotomia è fra i diritti degli stati – fra i quali c’è la prerogativa di ogni stato di vedere preservata la propria giurisdizione interna da interferenze esterne – e i diritti degli individui. Questa tensione è rinvenibile nella stessa Carta delle Nazioni Unite nella quale è chiaramente riconosciuta la soggettività giuridica internazionale agli stati (l’articolo 2 infatti vieta l’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano), ma è ugualmente pervasa dalla cultura normativa dei diritti umani. A fianco delle questioni etiche e giuridiche, c’è infine una questione di carattere più prettamente politico. Il principio di sovranità e la norma di non-ingerenza hanno rappresentato e continuano a rappresentare due capisaldi dell’ordine internazionale. Vietare l’ingerenza, anche tollerando violazioni di diritti umani, significa anche vietare l’uso della forza, evitare che una crisi locale possa innescare un’escalation più generalizzata. In altre parole, sul piano politico, l’ingerenza umanitaria pone anche la questione di quali quote di ordine e stabilità internazionale si mettono a repentaglio in nome della tutela dei diritti umani. Non stupisce che, a fronte dell’importanza delle questioni aperte, non si sia ancora affermata una dottrina dell’intervento umanitario condivisa dalla maggior parte degli stati e delle organizzazioni internazionali. L’intervento umanitario continua a rimanere una pratica controversa in cui la discrezionalità degli stati gioca un ruolo determinante. Quaderni di Relazioni Internazionali n. 15 Novembre 2011 2