Il miglior perdono è la vendetta

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Il miglior perdono è la vendetta
UTOPIA UNO
INDICE
Introduzione da pag. 2 a pag. 13
PAOLA
SAVERIO NEL CORO DEL CONVENTO
PAOLA, IL CAFFE’ E LA PARRUCCHIERA
MONS. RAIMUNDO
CARD. SORDANO
SAVERIO i suoi precedenti e la sua decisione
PIA DE UTO
PADRE ELEARDO
IL PAPA
ABDUL SMITH – L’AQUILA
DIACONATO (PROVENZANO)
PETROLIERA NOICATTARO
PARIGI: IL PROF. ANTONIO NERI
UNA PARENTESI SERENA; DENISE A PARIGI
IL PUGILE PHISON
UN RITORNO DA PAOLA
PIATRINI (PAOLINI)
TINKOSEVICH
GADGET
SORDANO
JOHN DEVIL
GLI ALBANESI
ZADDAM
MALOSIVEC
ZORANO
VICENZA
ASSAD
VINCENZO CALO’ E GLI STUPRATORI
MAURIZIO CORDOVA
MARCA VANNI E FIGLIA
L’INCONTRO CON PIA DE UTO
INSERIMENTO STORIA BLACK
LA VERA STORIA DI BLACK
PRETI GAY
ATTENTATO AL PAPA
MEDITAZIONE SUL MONTE E RICORDO DI PIA
IL MAROCCHINO E MORTE MOGLIE INCINTA
MONREALE EDINTORNI
CARLO BISTICCI
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CONCLUSIONE
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INTRODUZIONE
Avevo sentito parlare a lungo di Pia De Uto, una nobile donna nata e cresciuta nella cittadina dell’Umbria in cui avevo deciso di trasferirmi una volta andato in pensione.
Se ne parlava in giro come di una donna tanto misteriosa quanto potente da
far cambiare testa agli uomini politici e addirittura far modificare leggi ingiuste del Parlamento.
Mi era sembrata più una di quelle leggende metropolitane che, più si diffondono girando tra la folla, più ingigantiscono la figura del o della protagonista, arricchendo la sua storia di episodi almeno strani se non spesso poco
credibili.
Per questo volli cercare di entrare in contatto con la figlia in America. Fui
trattato in modo molto brusco e l’unica frase gentile che ottenni fu:
“Si rivolga al suo maggiordomo, se è ancora vivo, un vecchio che vive solo
dei ricordi e se la gode nella casa che fu di mia madre e da lui ereditata non
si sa bene con quali mezzi”.
Da New York fu tutto ma un amico del luogo mi accompagnò un mattino
dall’avv. Grelli che mi mise al corrente di come stessero effettivamente le
cose.
Seppi così che la Marchesa Pia De Uto aveva lasciato sufficienti rendite per
realizzare il suo più vivo desiderio: trasformare in un vero museo la sua casa
in cima al colle che sovrasta la cittadina umbra. Aveva nominato tutore della
proprietà il suo maggiordomo, un uomo fedelissimo ed integerrimo se non
addirittura perdutamente e silenziosamente per tutta la vita innamorato di
Pia, come era uso chiamarla con una confidenza inusuale.
A questo punto ero ancor più stimolato di approfondire la storia di questi
due personaggi ormai diventati vivi nella mia mente ma nel contempo misteriosi.
E così ottenni un appuntamento dal maggiordomo, ormai il custode della
villa della Marchesa.
Mi accolse con deferenza e, dopo aver accertato le mie credenziali di ex
giornalista di un importante settimanale, mi fece accomodare nel salotto che
aveva visto e vissuto la vita di decenni di incontri di personaggi famosi, tutti
gestiti con sagacia e intelligenza dalla Marchesa.
Dopo una prima naturale diffidenza, finalmente decise di aprirsi più
all’uomo che al giornalista, raccomandandomi di tenere il segreto su quello
che stava per raccontarmi.
Lo rassicurai quasi con un giuramento ma oggi non posso più tenere sotto
silenzio tutto quello che mi raccontò.
Passammo insieme molti giorni, lui a raccontare ed io a cercare di ricordare
tutto quello che potevo: mi era tassativamente proibito l’uso di ogni mezzo
di registrazione.
Ecco perché il racconto che segue non ha un ordine ben preciso.
Esso si compone di due parti: una riguarda quello che il maggiordomo (non
potei mai conoscere il suo vero nome perché si rifiutò sempre di dirmelo) mi
raccontò in più incontri.
L’altro invece riguarda una strana figura che il maggiordomo non ebbe mai
l’occasione di vedere di persona ma di cui conosceva l’esistenza.
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Era stato uno strano connubio tra la Marchesa Pia De Uto ed un certo Saverio che per un certo periodo della vita della Marchesa ebbe con lei contatti
intensi e misteriosi ma quasi sempre solo per telefono, contatti che la resero
spesso ansiosa, a volte felice, altre volte triste.
“Eppure - mi confessò il vecchio custode un giorno con una punta di gelosia
– non ci fu mai alcun segno di innamoramento o qualcosa di simile: sembrava più il rapporto tra una regina ed il suo cavaliere di avventure. Ha presente il rapporto tra Elisabetta I ed il corsaro Morgan?”
Mi sembrò un accostamento azzardato ma quello che seppi dopo gli dette
pienamente ragione.
Perché di questa seconda parte vi racconterò tutto. Molto di più di quello
che avevo promesso al maggiordomo di tenere per me: è un racconto troppo
inverosimile ma tanto avventuroso ed interessante che ho pensato di farvene
partecipi.
Spero che lo apprezzerete anche voi che mi state leggendo.
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(Preferisco qui lasciar parlare il mio amico maggiordomo in prima persona:
il suo racconto è molto interessante)
Definire questa città non è mio compito: io mi limito a contemplarla dagli
ampi finestroni che danno luce al grande salone al primo piano.
La villa della marchesa Pia De Uto, che Dio l’abbia in gloria, sorge quasi in
cima alla collina, sotto l’imponente rocca medievale e domina la piccola città di provincia che si stende fino alla pianura, riparata dai venti dell’est dal
monte che sovrasta pacifico ma imperioso tutta la valle.
Dai finestroni (e mi accompagnò una volta ad ammirare lo spettacolo della
valle sottostante) la vista in basso è tutto un tappeto di tetti ricoperti di coppi di cotto ornati di muschi e di licheni, di volenterosi cespuglietti che ad
ogni stagione si colorano di giallo e di verde.
Qua e là, alternate alle torri campanarie delle decine di chiese della città,
svettano le punte dei cipressi o le chiome finali di querce secolari, ospitate
in segreti giardini che da qui non si vedono ma si possono indovinare: sono
stretti tra muri altissimi che li nascondono ai passanti ed ai turisti che salgono o scendono per i vicoli lastricati di pensieri stanchi o allegri, frettolosi o
affaticati.
Quando iniziano le pulizie del mattino i finestroni aperti lasciano giungere il
rumore della città che vive, che si agita, che accoglie i turisti provenienti da
tutto il mondo. Poi, chiusi i vetri e le tende di bisso finemente ricamate con
putti, draghi, ninfe e fontane, il silenzio regna sovrano …
Scusate un momento: il telefono.
“Pronto? … No; ha sbagliato numero, sono il portinaio del sacro convento
delle suore dell’imene deflorato.”
“……..”
“Sì, ha capito bene: suore dell’imene deflorato.”
“……..”
“Di nulla, ma le pare?”
Scusate, dov’ero rimasto? Ah, sì, dicevo del silenzio che regna per tutto il
giorno in questo salone, … forse vi è sembrata irriverente la mia risposta al
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telefono. Non meravigliatevi: è un ordine del marito della marchesa che risale ad oltre quarant’anni fa.
Ma … torniamo al salone dove il grande pianoforte a coda lunga rimpiange i
bei tempi delle feste, delle luci, delle centinaia di uomini e donne che in eleganti abiti da sera e in fruscianti vestiti di seta si sono avvicendati sul palcoscenico della banalità per divertirsi e farsi notare, per intrecciare chiacchiere
ed affari.
Ma chi si divertiva di più era la marchesa Pia De Uto nell’accogliere con
gioiosi sorrisi gli ospiti, nell’ascoltare con pazienza i loro discorsi, le frasi di
convenienza, i commenti ruffiani di tutti.
Il silenzio del salone per me è diventato sacro perché ricco di tanti ricordi
che rivivono trasparenti ma precisi come ologrammi che arrivano dal passato di un altro universo.
A volte, quando non ho voglia di ricordare, sembrano prendere vita solo i
personaggi incorniciati alle pareti: per lo più madonne e santi, una Giuditta,
un san Sebastiano, alcune ninfe che danzano seminude e lascive sulla riva di
un laghetto, qualche presunto antenato che non ha trovato posto nella galleria del corridoio centrale che conduce alla biblioteca, tutte tele del seicento
di cattivo gusto ma di grande valore commerciale.
I dipinti migliori, almeno quelli che piacciono più a me, sono appesi alle pareti dello studio del marchese De Uto, rimasto intatto e intoccabile dopo la
sua morte, quasi dovesse ancora scendere ogni mattina a studiare le sue carte ed i suoi affari.
Così volle la marchesa quando rimase vedova; la figlia, prima di ripartire
per l’America, finita la mesta cerimonia funebre, aveva espresso il desiderio
di un modesto ricordo del padre: una delle sue pipe preferite.
Ma la marchesa disse di no: lo studio doveva rimanere come era fino al
giorno prima.
Con lei un ordine veniva dato una sola volta: valeva per sempre.
Così era stato per il modo di rispondere alle telefonate inopportune.
Era accaduto un giorno; il marchese aveva improvvisato quella risposta insolente a qualcuno che aveva sbagliato numero e Pia, perdonate la confidenza, aveva appena sorriso, senza levare lo sguardo dal lavoro di ricamo che
aveva tra le mani.
Morto il marito, la signora marchesa aveva preso in mano le redini della gestione delle ricche rendite finanziarie familiari con la stessa sagacia e intelligenza con cui aveva sempre retto la direzione della casa. Ed era riuscita ad
incrementare le sue ricchezze al punto che … ma avrò occasione di parlarvene in un altro momento.
Rimasta sola dopo la partenza della figlia, mi chiamò nel suo studio che dava sul giardino ricco di querce e di lecci e mi disse con molta serenità e dolcezza:
“Beppe, sei con noi da quasi mezzo secolo. Mi piacerebbe che tu rimanessi
ad aiutarmi a tirare avanti la baracca (per lei la villa, gli affari, la vita di ogni
giorno erano sempre la baracca). Se preferisci andartene non mi opporrò, ma
se resterai ….”
E non aggiunse altro, rimanendo in silenzio quasi si aspettasse una mia risposta immediata.
Ormai mi ero affezionato alla famiglia, ricevevo una paga non eccelsa ma
sufficiente per la mia vita di scapolo ed il mio lavoro mi piaceva; questo Pia
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lo sapeva, ma il suo era un gesto molto importante perché mi dava la possibilità di scegliermi una nuova vita.
Io preferii rimanere qui, al suo fianco fino alla sua morte, e vissi esperienze
indimenticabili.
Era alta come un uomo ed aveva un corpo snello ed ancora giovanile che
prendeva vita dai suoi splendidi occhi: erano di un luminoso color cenere, a
volte dolcissimo, a volte capace di fulminare con un lampo un’impertinenza
o un’idiozia di chiunque, fosse stato anche il papa, mai mesti o distratti in
pensieri lontani.
O, se non era presente in quel momento, non lo avresti capito certo da quello sguardo fiero e sempre attento a tutto ciò che le accadeva intorno.
Il viso delicato con pochissime rughe era abbellito da una chioma ancora
ricca di capelli bianchi finissimi ed accuratamente raccolti e trattenuti da eleganti pettini di tartaruga.
Il suo sguardo, interessato ad ogni particolare si accompagnava ad un portamento altero, messo ben in mostra da abiti antichi di raffinata eleganza,
quasi sempre neri, adornati di pizzo prezioso che si chiudevano sotto il suo
mento con vistose gorgiere che avresti potuto ritrovare facilmente nelle figure femminili dei dipinti seicenteschi appesi alle pareti del salone.
Non si truccava mai, salvo passarsi ogni tanto un pizzico discreto di fondo
tinta che rendeva il suo viso ancora più luminoso.
Quando attraversava il salone principale con il suo incedere regale e aggraziato e nello stesso tempo vigoroso e deciso, sembrava un personaggio del
passato: pareva che la parte superiore del corpo fosse il busto di una statua
appoggiata sulle lunghe gambe che mai, nemmeno quando era più giovane,
aveva permesso apparissero da sotto le gonne, strette o ricche di pieghe,
ampie e chiuse o con un leggero spacco molto piccolo e quasi invisibile.
Il suo incalzare era imperiale, di una dignità immensa che riempiva tutto lo
spazio disponibile nell’ampio salone: sembrava la regina di una reggia tutta
sua e della sua mente lucidissima.
Era molto metodica ed ogni mercoledì, dopo aver dato le disposizioni per la
cucina e la spesa, si ritirava per tutta la mattinata nel suo studio personale.
Qui annotava sul suo diario accuratamente i fatti importanti accaduti durante
la periodica riunione del martedì sera: indicava chi era intervenuto e di che
cosa si era parlato.
Quasi ogni mercoledì dal suo studio telefonava a persone importanti; fossero diplomatici o direttori di giornali, capi di governo o di stato, cardinali o
vescovi, il suo tono era sempre pacato ma deciso. La sua voce al telefono
non tradiva alcuna emozione; anzi l’accento elegante, la voce dolce e determinata, il tono deciso e fermo indicavano subito all’interlocutore dall’altra
parte del filo, chiunque fosse, che non avrebbe potuto sottrarsi alle precise
richieste della marchesa se non offendendola o sostenendo che non se ne sarebbe fatto nulla. In questo caso la voce della marchesa diventava glaciale e
faceva capire, con poche parole specifiche, che le conseguenze del diniego
sarebbero state pesanti sia pure nell’ambito di una ristretta legalità.
Se si trattava di persone straniere parlava quasi sempre in inglese ma, senza
farlo sapere, capiva almeno sei lingue, compreso il cinese e l’arabo.
Le lunghe mani affusolate, ormai venate di blu intensi, portavano un solo
anello, sempre lo stesso zaffiro da oltre due carati, contornato di brillanti,
che suo marito le aveva regalato il giorno del fidanzamento.
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Ora che mi ha lasciato in eredità i suoi diari personali, ben dodici volumi, rilegati in pelle di daino chiaro e racchiusi in una splendida custodia in cuoio
bulgaro, mi rendo conto di quanto bene la marchesa De Uto abbia fatto
all’Italia ed al mondo.
Ho potuto rileggere con calma queste pagine preziose e una volta arrivato in
fondo mi sono reso conto che non potevo tenere segreti i fatti descritti.
La marchesa Pia De Uto è stata, nell’umile silenzio con cui ha agito dalla
morte del marito fino alla sua immatura dipartita, un maestra di vita per tutti, una consolatrice, un aiuto concreto per chi aveva bisogno di risolvere un
problema di ingiustizia. Chi le chiedeva prestiti o in genere aiuto in denaro
rimaneva amaramente deluso, salvo poi vedersi risolto il problema in un
modo diverso e comunque soddisfacente.
Per capire meglio come si comportava e come agiva vi racconto un episodio
che può sembrare inverosimile.
Era uno dei soliti martedì e la serata sarebbe stata noiosa se non fosse caduto
il discorso sul pentito Nicolò Schiaccialenoci; il cav. Braida, presidente del
Circolo degli scacchi, aveva introdotto l’argomento partendo a tutta carica
contro le istituzioni, le leggi, i limitati poteri delle forze dell’ordine, mentre
Lidia Carbagna, presidentessa della S. Vincenzo nella parrocchia della Beata Ulderica da Foligno, snobbandolo, si rivolgeva alla marchesa per interessarla alla partecipazione ad una pesca di beneficenza.
La signora marchesa sembrava avere cento occhi e venti orecchie: mentre
ascoltava la voce lagnosa di Lidia, per altro sua cara amica di gioventù, aveva teso l’orecchio alle sciabolate del cav. Braida contro i magistrati, le leggi,
gli avvocati, il garantismo e tante altre “diavolerie” secondo lui messe in atto dall’attuale governo per sviare l’attenzione dai problemi più grossi che
addoloravano il paese.
Il dottor Addutera cercava di interromperlo ma non ci riusciva.
Fu allora che intervenni io con l’offerta della cioccolata in alternativa a chi
l’avrebbe preferita al caffè. Bastò un istante di silenzio perché l’Addutera
riuscisse finalmente a dire la sua.
La marchesa assisteva, ascoltava, non interveniva mai. Semmai chiedeva
chiarimenti, assai rari per la verità, quando non conosceva l’argomento delle
discussioni nei suoi risvolti giuridici o dei fatti sottostanti che ne giustificavano l’animazione nelle discussioni tra gli ospiti della nostra cara Pia.
Non parve accadere nulla ma due giorni dopo il pentito Nicolò Schiaccialenoci era stato letteralmente scovato nel suo nascondiglio da un commando
anonimo e misterioso che ne aveva rivendicato la scoperta ed il rapimento.
La vicenda la conoscete tutti: Schiaccialenoci fu trovato ucciso in modo
molto civile, cioè senza che i misteriosi rapitori infierissero su di lui.
Da una segnalazione telefonica il suo cadavere fu scoperto educatamente
composto sul letto di una camera di un motel a Catania, con accanto, sul
comodino una videocassetta ed una dichiarazione firmata.
Quest’ultima servì agli investigatori per avviare una specie di catena di
Sant’Antonio che era culminata con la cattura in meno di ventiquattro ore
dei più noti capi della mafia siciliana.
La videocassetta conteneva due filmati; nel primo lo Schiaccialenoci faceva
i nomi di tutti gli uomini politici coinvolti negli ultimi vent’anni con o dalla
mafia, mentre nel secondo si assisteva alla sua esecuzione: una ripresa di
una calma e di una compostezza tali che sembrava di assistere alla morte
dolce di un povero innocente ammalato.
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Si vide nel filmato il morituro, disteso sullo stesso letto sul quale era poi stato ritrovato morto, che sorbiva lentamente una bibita simile ad un’aranciata.
Una voce fuori campo, anonima, senza accento né inflessioni dialettali, lo
incitava a bere ed il pentito obbediva senza reagire, gli occhi persi in una
beatitudine da deficiente. Pochi secondi ed il capo, in un silenzio letteralmente tombale, si inclinò sul lato destro, senza un gemito, senza un lamento.
Gli occhi erano rimasti aperti ma qualcuno successivamente doveva aver
provveduto perché al momento della macabra scoperta da parte delle forze
dell’ordine, erano stati trovati chiusi.
Qualcuno aveva tentato di far sparire ogni cosa ma L’Espresso e Panorama,
oltre ai quotidiani, erano già stati misteriosamente forniti di copie di tutto.
La situazione era veramente imbarazzante perché tra i vari nomi spiccavano
anche quelli di alcuni dei direttori dei quotidiani locali e di uno a livello nazionale.
I suicidi durante le ventiquattro ore successive furono una decina ed il paese
rimase sì sconvolto ma non riuscì a capire chi fosse riuscito a manovrare in
modo che tutta la verità venisse a galla.
Ci furono scene e momenti di disperazione in molte case di manovalanza
mafiosa perché molti si ritrovarono disoccupati, senza più alcun capo, nessuna gerarchia cui obbedire.
Come potrete comprendere ora che vi ho svelato il mistero, la mano della
marchesa Pia era delicata ma giungeva pesante come una mazza di ferro ovunque lei lo volesse.
Gli ospiti del martedì non ebbero mai il sentore chiaro che fosse lei, la marchesa, a provocare interventi definitivi ed efficaci in tante e tante occasioni,
ma i sospetti erano sulle loro labbra in momenti di confidenza fuori da queste mura.
Come quando il grande vecchio delle politica italiana, l’onorevole Giulivo
Ginegotti, finalmente, davanti alle telecamere del TG 1 si decise a confessare, le orecchie ancora più basse del solito, le labbra talmente strette che le
parole pareva uscissero dai buchi del naso, più che dalla bocca. E quando alla fine disse:
“Concludo: tanti processi inutili sulla storia dei miei contatti con la mafia;
non c’era bisogno di lasciare tracce; con la mafia si poteva parlare e trattare
in mille modi diversi e per mezzo di mille persone diverse. Devo ammettere
che mi avete fatto tanto ridere con le storie delle testimonianze dei pentiti e
dei baci negli incontri con i grandi della mafia: tutte sciocchezze folcloristiche, mentre il vero modo era molto più semplice.
Confesso che la morte dell’on. Biondo l’ho organizzata io con i fratelli
Campo, mentre molti altri morti politici per mano della mafia sono avvenuti
per mia autorizzazione o anche per mia ispirazione.
Nel silenzio improvviso che seguì, il povero Vespa senza parole in attesa
che qualcosa rompesse il terribile imbarazzo del momento, Giulivo Ginegotti alzò il finto bastone che ormai lo accompagnava da anni e si sparò un
solo colpo in gola. La Televisione a colori a volte è terribilmente severa nel
mostrare di che cosa è fatta la materia grigia dei nostri politici.
Il giorno dopo la marchesa mi incaricò di inviare un enorme mazzo di fiori
alla vedova del suicida, una donna che avevo visto una sola volta ma che telefonava spesso alla marchesa.
Ci fu un’altra occasione clamorosa in cui gli eventi presero una piega imprevista.
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Fu quando il Governo propose di abolire l’otto per mille per il Vaticano. Ricordate tutti la reazione violenta della destra, l’intervento dapprima indignato del capo dello stato ma già il giorno dopo decisamente più distaccato fino
ad arrivare a firmare la legge senza obiezioni.
Contemporaneamente il Direttore Generale dello IOR diede le dimissioni e
molti prelati gridarono allo scandalo.
Tutto era nato un martedì del febbraio del 1999; fuori un freddo pungente
aveva gelato la poca neve portata dalla tramontana che arrivava dalla regione montagnosa vicina.
Tra gli ospiti c’era quella volta un nuovo ospite, uno scrittore che aveva incominciato a pubblicare un primo suo libro quasi per hobby ad oltre sessant’anni. La marchesa lo aveva preso a benvolere perché aveva conosciuto
ed apprezzato la sua vita familiare e la bontà d’animo. Bene quello scrittore,
un certo Tindari, divenne poi un frequentatore assiduo del salotto della mia
cara padrona.
Solo rileggendo il diario scoprii che cosa aveva mosso la marchesa a provocare il putiferio nel Vaticano: era nettamente contraria a finanziamenti della
chiesa di Roma conoscendo tramite suo marito le nefandezze e le malefatte
della struttura finanziaria del Vaticano fin dai tempi della legge delle guarentigie, dei furti e degli ammazzamenti, dei soprusi e delle operazioni a dir
poco disinvolte con cui il Vaticano si autofinanziava con il commercio più
turpe per la chiesa: le armi e i mezzi bellici.
Venne a conoscere la vicenda del suo amico scrittore e qualcosa di tremendo
e di determinato scattò nella sua mente.
Ed ottenne quello che voleva: lo scrittore le aveva raccontato che, pur avendo una buona pensione, faceva una certa fatica a mantenere la numerosa famiglia (aveva sei figli a scala, il più grande nove anni), ed aspettava da anni
il rimborso di un modesto credito di tasse (non credo superasse i tre milioni), addirittura da oltre sette anni, a causa di una lentezza inspiegabile del
ministero delle finanze, mentre lo IOR incassava, per conto del Vaticano la
modesta somma di oltre milleduecento miliardi ogni anno quale credito maturato con l’otto per mille sulle dichiarazioni dei redditi addirittura dell’anno
precedente.
Lo scrittore quella sera ne aveva parlato con una furia ed una foga tale che
tutti erano rimasti sconvolti e pronti a reagire contro un regime che faceva
simili discriminazioni ma erano solo fuochi di paglia.
Invece, nemmeno dieci giorni dopo lo scrittore riceveva un assegno della
Banca d’Italia a casa con il rimborso che gli spettava mentre a Roma e in
Vaticano ne succedevano di tutti i colori.
Stampa e televisione avevano iniziato a battere la grancassa aumentando vistosamente tirature ed Audience (che poi è quello che interessa ai mass media; il fatto in sé può essere la morte del papa o la nascita di un bimbo con
due teste, non ha importanza. Quello che conta è battere sul tempo i concorrenti, dare la notizia per primi, vendere copie e spazi pubblicitari a prezzi
sempre più alti).
Di fatto il parlamento italiano si trovò spiazzato dalla decisione del governo;
anche se di sinistra, gli affari sono sempre affari e con lo IOR o più genericamente, con il Vaticano, gli affari erano sempre stati vantaggiosi anche a
costo di tangenti carissime.
Ci fu in quei giorni una serie di telefonate strane, tutte ad un certo numero
fuori Roma, ma ho il sospetto che da quel numero le conversazioni facevano
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vari percorsi fino a raggiungere uno studio privato su uno dei colli più importanti della capitale.
E’ certo che la marchesa aveva il potere di farsi ascoltare e lo faceva con
una tale dolcezza e discrezione, con una tale forza di argomenti che nessuno
era mai riuscito a rifiutare di ascoltarla e di obbedire alle sue richieste.
Perché in fondo gli interventi della marchesa erano più che giusti, ma quello
che non riusciva ad ottenere la minoranza di allora in Parlamento o nelle varie commissioni, riusciva ad ottenerlo la nostra cara Pia.
Di fatto il Vaticano aveva minacciato di interrompere le relazioni con
l’Italia, convinto della pessima impressione che avremmo dato agli altri stati
con il nostro comportamento assurdo.
Ma il capo dello Stato, l’illuminato Pertincampi, riunì i due rami del Parlamento e chiese che venisse posta ai voti la proposta, non sua, badate bene,
ma di un deputato fresco di nomina, di considerare decaduti gli impegni dei
patti lateranensi perché ormai vecchi di troppi anni, ancorché contenuti
nell’art. 7 della Costituzione.
Alle obiezioni della sinistra che deteneva la maggioranza in parlamento,
Pertincampi ricordò, senza mezzi termini, a chi era presente in aula, che
l’art. 7 era stato introdotto ed approvato nella Costituzione proprio grazie al
voto dei comunisti.
Il suo discorso di fronte alle camere riunite fu breve e la fredda votazione
che seguì abolì il trattato con il Vaticano in una sola votazione.
Da quel momento il Vaticano era un ospite come tutti gli altri che arrivavano alla Stazione di Roma Termini o a Fiumicino
Caddero i diritti acquisiti di tutti gli enti e di tutti i singoli cittadini del vaticano sul territorio italiano.
Per ordine del Presidente della Repubblica e del ministro dell’interno, caddero tutti i servizi di polizia, di controllo e di servizievole presenza diplomatica delle forze dell’ordine e dell’esercito mentre la Guardia di Finanza iniziò un fitto lavoro di controllo doganale ad iniziare proprio dai palazzi intorno a piazza S. Pietro.
Sui quotidiani iniziarono ad apparire nomi di alti prelati colti in flagrante
mentre trasferivano droga a chili sulle loro auto che credevano ancora protette dal segreto diplomatico. Per non parlare di alcuni casi di appartamenti
visitati all’improvviso, dove prostitute dell’est lavoravano sotto la finta collaborazione di cameriere di monasteri e di prelati di alto rango.
In Vaticano il caos era immenso ed il papa non sapeva più che cosa decidere, come comportarsi. Finché qualcuno gli confidò il nome di Pia. Ma il resto di questa storia ve lo racconterò un altro giorno.
§§§
Sfogliando la raccolta del Corriere della Sera che la marchesa esigeva venisse tenuta aggiornata numero per numero ho rivisto episodi tristi della nostra
Italia degli ultimi vent’anni, ma mi prende un fremito di orgoglio e di commozione quando leggo di episodi che dettero all’Italia una svolta decisiva
nel diventare una o forse la nazione più aggiornata in tutti i campi.
Ecco la pagina dei primi sbarchi di clandestini: era l’argomento preferito
ormai da molti martedì. Gli ospiti erano divisi tra pro e contro con mille ragioni, distinguo, obiezioni, a favore e contro.
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Pia si era limitata a chiedere, a documentarsi, mentre gli altri si erano lanciati in discussioni senza fine. Poiché la maggior parte degli sbarchi clandestini
erano di albanesi, le discussioni spaziavano nel tempo e nello spazio: dai
tempi dell’impero d’Italia e di Albania al periodo in cui la Cina, tutti lo sapevano ma nessuno era mai intervenuto a livello politico o di organizzazione internazionale, teneva alcuni sommergibili a propulsione tradizionale, un
po’ vecchi ormai, per la verità, ma pur sempre presenti a Valona.
Nell’entroterra depositi di armi e di munizioni avevano trovato ospitalità in
vere miniere scavate a duemila metri d’altezza. Le stesse che ora erano diventate fonte primaria di contrabbando, dopo la droga e le prostitute.
Forse la marchesa Pia aveva intuito che cosa sarebbe successo nei mesi successivi se le leggi troppo permissive (ed anche molto interessate) fossero
rimaste in vigore.
Non so come ma so per certo che Pia era riuscita come al solito ad intervenire. Fatto è che il Parlamento approvò in due giorni una legge proposta dal
governo che sistemò definitivamente ogni tentativo di invasione pacifica
dell’Italia e di speculazione politica da parte dell’opposizione.
La legge la conoscete tutti perché la sua applicazione attenta da parte delle
forze dell’ordine permise di evitare la temuta invasione che invece in altri
paesi era diventata ormai una consuetudine.
In pratica, poiché la maggior parte degli sbarchi portavano in Italia più delinquenti che mano d’opera qualificata, più droga che bambini morenti di
fame (li mandavano avanti dopo averli tenuti in patria a digiuno per giorni e
giorni), per ogni grammo di droga che veniva scoperto a bordo degli scafi
clandestini, erano dieci donne e bambini che venivano rimandati al paese
d’origine, mentre per ogni arma erano cento le persone che tornavano a casa, scelte a caso per non far torto a nessuno.
I rappresentanti di molti governi europei iniziarono una campagna denigratoria nei confronti dell’Italia ma presto dovettero ricredersi, dovendo constatare a casa propria le conseguenze deleterie che gli extra comunitari provocavano: prostituzione, droga, traffico d’armi e poi rapine, furti, anche con
gravi conseguenze per la vita di cittadini onesti.
Da noi, oramai, entrano solo cittadini stranieri che possono dimostrare di
avere un’autonomia di sostentamento per almeno tre mesi e che nello stesso
tempo trovano lavoro, altrimenti tornano subito al paese d’origine.
Le iniziali proteste delle autorità dei paesi d’origine, specie di quelle albanesi ebbero secche risposte da parte del capo del governo di allora: se ritenevano di aver subito dei torti potevano rivolgersi alla Corte europea di Giustizia, ma nel frattempo dovevano riprendersi i propri cittadini, dopo che ai
posti di frontiera italiani venivano ben identificati e fotografati.
La iniziale tracotanza e le pretese di diritti che non esistevano vennero subito stroncate da azioni militari decise e severe: la “Folgore” anziché andare in
terre lontane ad esercitarsi per un caso di guerra, intervenne subito in vari
casi con i “lagunari”. Fu così che i primi scafisti che avevano tentato gli
sbarchi notturni in clandestinità, erano stati immediatamente arrestati e rispediti al proprio paese, gli scafi erano stati affondati onde evitare il riciclaggio e, in caso di resistenza erano stati eliminati in conflitti a fuoco che si
erano risolti in pochi minuti con pochissime perdite tra i nostri militari, abili
e ben addestrati.
Oggi sapete anche che gli altri paesi d’Europa ci invidiano, anche perché in
conseguenza di queste drastiche decisioni i disoccupati in Italia scesero ra10
pidamente fino ad abbassarsi sotto la soglia del due per cento. Gli italiani
disoccupati infatti si videro costretti da alcune leggi parallele ad accettare il
lavoro offerto loro: se lo rifiutavano venivano cancellati dalle liste di collocamento e non avrebbero più potuto pretendere una qualsiasi preferenza per
un lavoro.
Ci fu un effetto sinergico: i lavoratori che volevano veramente lavorare aumentarono al sud, dove le aziende ripresero a fare investimenti e a finanziare scuole di addestramento e di specializzazione aperte a tutti i disoccupati.
Per capire quale importanza ebbero le decisioni prese in quei giorni basta visionare un film uscito in questi giorni, intitolato: “Cosa sarebbe successo se
la legge sull’immigrazione clandestina non fosse stata approvata”.
Era un film prodotto al computer; un programma non molto semplice permetteva di immaginare il clima e l’ambiente dell’Italia alla fine del secondo
millennio e all’inizio del terzo con i clandestini sparsi per l’Italia, senza il
controllo di nessuno.
Al posto della legge approvata e, soprattutto, applicata con efficace determinazione, venivano emanate norme palliative, istruzioni contenute in ordinanze di prefetti, di circolari interne delle forze di polizia e dei carabinieri.
L’Italia sarebbe stata scossa da continui sbarchi, mentre nella realtà di oggi,
come ben sapete, la massa temuta di clandestini era diventato un ricordo
fantasma (prima dell’applicazione della legge si temeva una vera e propria
invasione di 20/30.000 clandestini all’anno e forse più).
In molte città d’Italia interi quartieri diventavano regno dei clandestini di
notte; donne spesso assalite per strada, prostitute uccise perché si ribellavano ai loro protettori, rapine a gioiellieri con vergognosi processi a loro carico per eccesso di legittima difesa.
Invece con la legge in atto avete potuto notare voi stessi che le cose oggi sono ben diverse: i casi di rapine notturne a ville isolate di imprenditori sono
calate dell’80% e nei pochi casi in cui il proprietario, costretto
dall’esasperazione per l’ennesimo tentativo, spari ad un ladro, dopo una rapidissima inchiesta di poche ore e sempre che goda di tutti i i diritti di un
cittadino incensurato) viene lasciato libero ed anzi gli viene offerta protezione contro eventuali tentativi di vendetta.
Se il ladro, chiunque esso sia, se viene ferito entro i confini della proprietà,
viene giudicato per direttissima dopo essere stato curato con amore dalle associazioni di volontariato ma poi subito rispedito d’urgenza a scontare la
pena nelle colonie istituite dove è necessario e urgente un lavoro di manovalanza generica.
---------------Già perché, a proposito delle carceri e delle prigioni in Italia, dopo alcune
serate burrascose proprio qui in questo salone, avvenne un altro strano fenomeno. Era ospite la prima sera il dott. Pasqualucci, psicologo del carcere
del capoluogo dove i reclusi erano in soprannumero. Egli stava raccontando
di ciò che aveva visto negli ultimi giorni.
“Dovete pensare quanto la noia uccida tutti là dentro; il lavoro prescelto è
sempre un palliativo, perché non viene amato come un lavoro proprio né
come un diversivo per non pensare agli anni che si devono passare in galera.
Purtroppo il sistema carcerario italiano si è evoluto nel modo che sappiamo
grazie al garantismo, questa strana parola dietro la quale si salvano tutti, rei
confessi, stupratori, omicidi, avvocati difensori, giudici anche e PM.
11
I direttori dei carceri sono tutti dei dipendenti statali che pensano al proprio
stipendio e a tirare avanti cercando di non avere troppe grane fino alla pensione; lo stesso vale per le guardie carcerarie.
Dai tempi di Silvio Pellico, di Confalonieri, di Gioberti e di Cattaneo non è
cambiato molto l’atteggiamento esteriore dei responsabili di chi gestisce le
galere”
Lo ascoltavano con molta attenzione soprattutto la moglie Carlotta Piombini, nipote del famoso gerarca fascista, noto per essersi impiccato quando
Mussolini seppe che … ma non perdiamo il filo del discorso.
E lo seguivano attentamente, oltre alla Marchesa, anche i due segretari del
ministro dell’interno che, guarda caso, quella sera erano ospiti della marchesa.
“Lei intende dire – interruppe uno di costoro – che lo scopo di recuperare il
carcerato che sconta la pena è un tentativo inutile?”.
Il Pasqualucci li credeva ingenui ma non fino a tal punto, a meno che … non
lo facessero apposta per dargli corda ma in tal caso si sbagliavano perché
Pasqualucci non aveva certo bisogno del loro incentivare per calcare la mano sull’argomento.
“Spero non vogliate prendermi in giro pensando ancora che le attuali carceri
servano per redimere e recuperare i rei di qualche misfatto! Sono talmente
abbrutiti, gli ambienti carcerari dico, che ormai lo sanno anche le pietre del
lastricato davanti all’uscita del Beccaria a Milano che chi vi entra vergine e
innocente esce maestro di malversazione, furto, rapina, stupro e chi più ne
ha più ne metta … Le nostre carceri sono sovraffollate al punto che molti
magistrati preferiscono trovare soluzioni assolutorie e che permettano di far
scontare la pena al domicilio dell’imputato …
§§§
Era il tramonto ed il salone era quasi al buio.
Era un altro giorno in cui il Maggiordomo mi avrebbe raccontato nuovi episodi anche se capivo che i ricordi stavano accavallandosi in modo disordinato nella sua mente non più lucida e spesso commossa al punto di non rispettare i tempi effettivi degli eventi che raccontava.
Mi ero ripromesso di rimettere ordine in tutto quello che ero venuto a sapere
ma la sua morte improvvisa mi riempì di dolore.
Accadde la sera prima del nuovo incontro che doveva avvenire in una radiosa giornata di primavera.
Pregustavo già il piacere di ascoltare le belle avventure che il maggiordomo
ogni giorno mi sciorinava disordinatamente e arrivai abbastanza presto alla
villa, pieno di speranza.
Ed invece …
Fuori dalla villa erano presenti alcuni vecchi amici richiamati dalla governante: la sera prima si era coricato come al solito ma la morte lo aveva rapito con dolcezza nel sonno, portandosi via non solo la sua vita ma anche
quella di tutti i ricordi della Marchesa De Uto.
Lo dico con un po’ di egoismo perché speravo di avere ancora tanti racconti
per un vero romanzo. Ora non sarebbe stato più possibile.
Mentre parlavo con il suo medico curante che ne aveva accertato la morte
per un infarto improvviso, gli chiesi se aveva sofferto.
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Mi assicurò che forse non si era nemmeno accorto di morire, tanto era stato
rapido il modo in cui signora morte se lo era portato via.
Chiesi il permesso per un ultimo saluto e salii nel salone dove era stata allestita la camera ardente.
Riposava sereno, pareva dormisse e le labbra erano leggermente dischiuse
dando al viso la sensazione di un lieve sorriso, piuttosto ironico.
§§§
Ed in quel momento maturai l’idea: avrei raccontato tutto quello che mi aveva detto nei giorni precedenti esattamente come mi era stato raccontato:
mi sembrava così di rispettare meglio la devozione con cui aveva venerato
per anni la Marchesa Pia e i suoi ricordi dopo la sua morte.
Ecco perciò il racconto, crudo e semplice come mi fu raccontato da
quell’uomo e che qui di seguito vi offro in lettura.
PAOLA
Si sentiva ancora addosso il profumo inebriante del suo corpo e al pensiero
insieme godeva con la mente e inorridiva col cuore.
La notte era fresca; nel buio i vicoli risuonavano del passo affrettato dei suoi
sandali, i tetti si aprivano neri ed in mezzo le stelle erano limpide ed ammiccavano; pareva gli dicessero qualcosa ma non riusciva a sentire un significato.
Ripiegava l’idea come fosse stato un quotidiano scaduto da gettare e cercava
di darsi una spiegazione più razionale: le stelle palpitavano per l’umidità
dell’atmosfera e basta; non dicevano nulla e non volevano dire nulla. Testimoniavano una distanza enorme finalmente compiuta, dopo un percorso di
miliardi di anni.
In realtà cercava in se stesso qualcosa che rifiutava di accettare, lo vedeva
ma non voleva leggere il messaggio, chiaro e preciso.
Non osava nemmeno cercare in tasca la corona per recitare un’Ave Maria,
un atto di dolore, perché non riusciva a pentirsi. Sentiva solo che aveva infranto una regola, un voto, ma non era disposto, non aveva alcuna intenzione di accusarsi di una colpa che riteneva di non aver commesso: aveva solo
amato e … goduto infinitamente la pienezza dell’amore umano, ringraziando Dio di quel bene infinito che è il sesso.
Ed intanto il profumo del suo corpo, l’eco dei suoi gemiti, il suo ansimare
nell’onda di un orgasmo che sembrava non terminare mai gli riempivano la
fantasia, avevano ancora il potere di ubriacarlo fino a soffrire per non poter
essere ancora accanto a lei. Sotto la tonaca scura gli si irrigidiva ancora il
membro tanto da fargli male, riprovando l’immenso piacere di perdersi dentro di lei in un amplesso vasto come un mare senza confini.
Era come dopo una tempesta: il placarsi sereno di umori sulla superficie,
una nebbia di pace eterna, un sapore sulle labbra di un vero amore umano.
Dovette lottare per tornare alla realtà: era quasi giunto al muro che doveva
saltare di nascosto per tornare nella sua cella, nella sua galera, la galera che
da ragazzo aveva sempre sognato di vivere per tutta la vita.
§§§§§
13
Paola stava ancora sognando Saverio, nudo, disteso accanto a lei ed aspirava
nella penombra l’odore ancora forte del suo sudore. Cercava di rimanere
nell’illusione di immagini che erano invece già tramontate con la notte mentre un raggio di luce le feriva gli occhi.
Ripiombò in un coma profondo e senza sogni. Non riusciva a percepire
quanto tempo fosse trascorso; si sforzava di capire quanto dopo, un secondo,
dieci minuti, mezz’ora, ma non poteva afferrare con i sensi anestetizzati
nessuna percezione reale, solo vaghe forme di ectoplasma mentale che fluttuavano dentro e fuori la sua mente in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio.
Tese pigramente un braccio sul lenzuolo attorcigliato intorno ai suoi seni
ancora caldi e palpitanti cercando di godere il dolce languore di un orgasmo
che sembrava ancora allargarsi sereno in un …
“Cazzo, Marisa!” e scattò a sedere sul bordo del letto. La stanza decise di
non fermarsi subito e Paola cercò di bloccarla premendo le mani sul materasso. Ci vollero alcuni secondi; nella mente apparve il volto corrucciato di
Marisa, la parrucchiera che le aveva fissato per le sei lavaggio e messa in
piega.
“Quella mi ammazza!” pensò e cercò di capire che ore fossero: una cinica
sveglia miniformato Sony taceva sul comodino, seminascosta dalla coppa di
un reggiseno nero che affiorava da sotto la copertina di Gente, tutta stropicciata.
Aveva appuntamento per le sei ed erano …. Le sei meno cinque! Un sospiro
di sollievo, il rammarico di una doccia mancata. Marisa avrebbe capito, soprattutto intuito dal profumo che emanava il suo corpo? Quasi certamente sì,
ma era una vera amica.
Si precipitò a cercare qualcosa da mettere.
§§§§§
SAVERIO NEL CORO DEL CONVENTO
La voce melodiosa del coro riempì il transetto ed il gregoriano di una dolce
Salve Regina si diffuse corposamente ricca dei rimbalzi sulle pareti affrescate dagli allievi di Giotto: aveva il potere di rasserenare ogni tumulto del cuore?
Saverio credette di ritrovare almeno per un momento la pace dell’anima e si
distese mentalmente sull’ondulazione rotonda che la voce degli altri, uniforme e rilassata, gli sollecitava il piacere della preghiera cantata.
Si chiese come poteva conciliare le due sensazioni: l’eccitazione quasi morbosa al ricordo del corpo di Paola, le carezze delle sue mani sul suo petto, i
teneri baci sui capezzoli che tornavano ancora turgidi al pensiero ed ora la
pace interiore che gli dava la preghiera.
Due istanti: prima questo pensiero e subito dopo un grazie a Dio ed un senso
di rabbia perché Dio gli permetteva di provare due cose assieme e tanto distanti, addirittura opposte tra loro.
§§§§§
14
PAOLA IL CAFFE’ E LA PARRUCCHIERA
“Giacomo, fammi svegliare!”
Paola era entrata nel bar davanti al negozio di Marisa, gonna beige, camicetta bianca semplice, colletto alla Robespierre, slacciata fino all’attacco dei
seni, la giacca come la gonna, gettata di traverso sulla borsa di vitello nera
che teneva a tracolla faticosamente, cercando di darsi un’aria disinvolta.
Giacomo apriva presto anche se a quell’ora erano pochi i clienti e tutti ancora assonnati.
“Notte dura, eh?” Giacomo si fermò con la tazza in mano ancora vuota e la
squadrò con un sorriso sornione, piegando la testa sulla sinistra, apposta esagerando.
Sembrava quello che in televisione vende il formaggio Auricchio: “La stessa
faccia da scemo” pensò Paola.
“Caffè e … fatti i fatti tuoi!”
“Allora ti è andata male ‘sta notte!”
Paola, al ricordo che tornò imperioso pieno profumi e di sesso, si stiracchiò
voluttuosamente facendo sobbalzare Giacomo mentre misurava con gli occhi la quarta abbondante di quel seno di appena venticinque anni che sembrava esplodere dalla camicetta slacciata …
“Scusa Paola, non volevo. Ti sei vestita in fretta e senza specchio?”
Paola stava per chiedergli perché ma abbassò lo sguardo e inorridì: aveva i
bottoni tutti sfasati e due erano rimasti slacciati facendo intravedere due
coppe generose: non aveva messo il reggiseno ed ora si sentiva un pagliaccio pronto ad uscire sulla pista del circo.
Rimase per un momento interdetta mentre Giacomo le indicava pudicamente il bagno dietro il bancone dove Paola si tuffò, rossa come un peperone.
Si era appena chiusa la porta dietro di sé e sentì la risata schiamazzante di
Giacomo e dei pochi clienti che avevano assistito alla scena mentre cercava
di concentrarsi davanti allo specchio; quasi fece un salto indietro spaventata:
non era lei quella dall’altra parte. Era uno strano essere sconvolto, i capelli
arruffati e scompigliati come se ci fosse transitato un bulldozer, due occhiaie
da far spavento, la camicetta tutta stropicciata. Ma quello che non riconosceva era il proprio sguardo: semplicemente non esisteva.
Quanto tornò al banco, Giacomo, vero amico premuroso, le porse una tazza
di caffè bollente:
“Panna?” Paola negò con uno sguardo schifato all’idea e Giacomo si voltò
verso un turista mattiniero che gli stava chiedendo un cappuccino.
Paola cercò in fondo alla borsa il pacchetto e l’accendino ma non riusciva a
trovarlo; ancora una volta Giacomo le venne in soccorso offrendole una sospirata Malboro, con l’accendino pronto a scattare.
Dentro di sé si chiese come avrebbe fatto senza amici così premurosi e, senza nemmeno ringraziare, si tuffò nel vicolo aspirando due boccate piene di
sigaretta ed alternate da un rumoroso e bronchitico colpo di tosse che rimbombò nel vicolo come un lontano tuono in ritardo.
Marisa aveva notato il suo arrivo al bar da dietro la vetrina e la stava aspettando sull’uscio del negozio, il volto imbronciato. Ma quando la vide bene
in faccia ne ebbe pietà ma anche invidia: doveva aver passato una notte
sconvolgente, beata lei, e sospirò accontentandosi nello sperare almeno nel
racconto che Paola fra poco, con calma e, dopo un altro caffè, le avrebbe
fatto.
15
§§§§§
MONS. RAIMUNDO
Erano circa le sette, ora di Fiumicino, e Mons. Raimundo Valverde (o quello
che fosse veramente) si accinse a scendere dall’aereo proveniente da Atene;
aveva dovuto spezzare il volo per non far capire la sua vera provenienza.
Sperava di poter respirare l’aria fresca del mattino ma erano passati i tempi
in cui si scendeva dalla scaletta e si veniva investiti dalla purezza ossigenata
dell’aria anche se ancora carica di cherosene: diritti dentro il budello, obbligatorio, sospeso per aria, fino al rientro in terra ferma, in una sala fresca e
asettica in aria condizionata dall’odore saturo di falsa pulizia ionizzata. Due
agenti in borghese osservavano i passeggeri ed un pastore tedesco, annoiato
per l’ora, era accucciato ai piedi di uno di loro.
Non l’aspettava nessuno e nessuno gli chiese il passaporto (che comunque
lo difendeva da domande inopportune perché emesso dalla diplomazia dello
Stato del Vaticano); e nessuno gli chiese se avesse da dichiarare qualcosa
per la ventiquattro ore che teneva nella mano sinistra.
Scivolò tranquillamente anonimo tra i pochi che erano in attesa dei parenti e
si avviò al parcheggio dove aveva lasciato quarantotto ore prima la sua Volvo nera targata SVC.
Il suo clergyman non denunciava alcuna stropicciatura e di questo fu contento mentre nella sala ricca di arazzi gobelin aspettava di essere ricevuto
dal Cardinale Vicario, Sua Eccellenza Aloisio Sordano, addetto alle relazioni con il vicino oriente.
Erano quasi le dieci quando uscì nuovamente dallo Stato Pontificio a bordo
della sua Volvo che aveva ripreso nel parcheggio riservato al personale diplomatico; aveva consegnato i documenti riservati al Cardinale ed aveva lasciato volutamente la ventiquattro ore sulla poltrona affiancata a quella dove era rimasto seduto per pochi minuti.
Mentre si avviava lentamente in via della Conciliazione pensava ai diecimila
dollari che aveva ricevuto quale compenso per le sue prestazioni ed alla partita di golf che aveva prenotato all’Acqua Acetosa dove si sarebbe recato
dopo essersi tolto quell’abito che lo costringeva ad atteggiamenti troppo clericali ed aver assaporato il piacere di una sospirata doccia.
Al secondo semaforo sul Lungotevere, a poche centinaia di metri
dall’albergo, era fermo in attesa che scattasse il verde.
Ma la Sua Volvo non ripartì: una moto gli si era affiancata con a bordo due
giovani ignoti, nascosti dal casco integrale. L’uomo del sellino posteriore
aveva sparato due colpi secchi da una pistola con il silenziatore. La strada
era quasi deserta e si sentì solo il rumore dei vetri che cadevano sul porfido,
come se ci fosse stato un piccolo tamponamento tra veicoli.
Il falso monsignore, alias Benjamin Alicante, non riuscì nemmeno a capire
che cosa fosse accaduto; per un istante vide il semaforo diventare verde e, di
fianco al suo finestrino, una moto che scattava attraversando l’incrocio;
crollò sul volante facendo azionare il clacson. Lentamente qualche passante
incominciò ad avvicinarsi con prudenza per curiosare o dare aiuto.
§§§§§§
16
CARD. SORDANO
Aloisio Sordano attese qualche secondo dopo che il finto monsignore era
uscito e compose rapidamente un numero sul cellulare che teneva sull’ampia
scrivania. Attese che la voce dall’altra parte dicesse “Sia lodato Gesù Cristo” e rispose “Sì, sia sempre lodato”. Chiuse la comunicazione e, prima di
depositare sul tavolo il cellulare si premurò di cancellare ogni traccia della
chiamata effettuata. Poi tolse la batteria e la scheda Sim che tagliò in vari
pezzetti prima di buttarli nel cestino che teneva di fianco alla sua poltrona.
Da un cassettino estrasse una nuova carta Sim e la mise in sostituzione. Si
alzò, girò intorno alla scrivania, prelevò dalla ventiquattrore lasciata dal corriere un piccolo sacchetto di pelle che fece sparire in una tasca della tonaca.
E finalmente suonò per chiamare il suo segretario che si precipitò nello studio con molta compunzione ma anche molta curiosità. Che però non fu soddisfatta:
“Cerchi di raggiungere mons. Valverde; forse farà ancora in tempo per consegnargli la ventiquattrore che ha dimenticato sulla poltrona”.
Il segretario, un giovane sacerdote promosso da solamente una settimana ad
un incarico così importante, non notò che il Cardinale dal suo posto, stando
sprofondato, come era uso fare, nella sua poltrona, non avrebbe potuto vedere la ventiquattro ore dimenticata. Si affrettò a raccoglierla ed uscì di corsa
sperando di raggiungere l’ospite uscito da poco.
Il prelato si alzò circospetto ed assicuratosi che nessuno lo potesse sorprendere, si avvicinò ad un quadro che raffigurava una Madonna con Bambino,
opera di un pittore dell’ottocento.
Premette un punto preciso della cornice e spostò il quadro di novanta gradi
scoprendo una piccola cassaforte con tastiera elettronica. Digitò rapidamente una sequenza ed aprì lo sportello. Prima di riporre il sacchetto, lo aprì e
ne ammirò il luccicante contenuto sospirando: centinaia di brillanti da uno e
due carati l’uno gli sorrisero. Sospirò ancora dopo averne preso in mano una
piccola manciata che fece lentamente ricadere nel sacchetto di velluto. Lo
richiuse e lo depose nel buio della cassaforte. Pochi istanti dopo, rimesso il
quadro al suo posto, tornò alla scrivania. Nel suo viso si alternavano sguardi
di contentezza e di ansia.
Rilesse attentamente i documenti che il falso monsignore gli aveva consegnato poco prima e compose un numero interno. Un’ora dopo era in colloquio privato col papa.
§§§§
SAVERIO: I SUOI PRECEDENTI E LA DECISIONE
I turisti non erano ancora entrati nella basilica superiore per fare il giro delle
tre chiese e fermarsi ad ammirare gli affreschi di Giotto e dei suoi allievi ma
soprattutto per ammirare non senza un po’ di paura le vele restaurate con
mano paziente dopo il terremoto del ’97.
Saverio era inginocchiato sotto terra, davanti alla tomba del Santo. Non pregava, non meditava. Lasciava che i pensieri, le immagini e i ricordi passassero come diapositive nella sua mente.
Era un modo un po’ strano di fare meditazione ma quando la sua mente era
arida e non riusciva a trovare un modo per dialogare col suo Dio, era l’unico
sistema che gli permetteva di credere o almeno di sperare ancora di aver
preso la strada giusta.
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Ma quasi sempre il pensiero tornava a quella morte assurda. Aveva completato il corso di agente specializzato nella sezione antiterrorismo della Digos
da appena una settimana; il “battesimo” del fuoco arrivò subito, alla prima
uscita notturna. E aveva ucciso.
Il giorno dopo aveva dato le dimissioni, aveva inforcato la sua vecchia Harley Davinson e aveva lasciato Milano. Quando era partito non aveva scelto
una destinazione.
Si era ritrovato ad Assisi senza un motivo particolare.
Nella penombra cerca la pace che non trova più da anni. Ancora quel momento terribile: l’uomo incappucciato che compare all’improvviso nella penombra dal corridoio dove stava per affacciarsi. Mentre un lampo accecante
appare nel buio, parte la risposta, un solo colpo. La testa del terrorista sembra volare via, all’indietro, come se volesse staccarsi dal collo. L’urlo strozzato, le voci concitate dei compagni, spari e poi una grande confusione.
Il silenzio nel quale ritorna fuggendo dai ricordi è irreale. Guarda quella pietra in alto dietro la quale le spoglie del santo finalmente riposano; cerca un
contatto, una voce, un richiamo ma non c’è nulla, nessuno chiama, è solo.
Lo sguardo si perde dietro i pensieri, i pensieri si perdono in un deserto arido, le spalle curve sotto il saio. Sembra un uomo piccolo e debole ma il suo
corpo è un fascio di muscoli d’acciaio, incapaci di rilassarsi. Denunciano
anni di palestra e di arti marziali, un fisico perfetto, un fisico sprecato per la
vita monastica ma Saverio spera ancora.
§§§§§
PIA DE UTO
Pia De Uto ha riabbassato la cornetta del telefono, un vecchio modello da
cui non ha nessuna intenzione di staccarsi. Si rifiuta di sostituirlo con i nuovi, complicatissimi aggeggi digitali e continua a comporre i numeri facendo
ruotare il disco con i dieci fori.
Ancora una volta ha preso accordi con un linguaggio che nessuno riuscirebbe a decifrare; lei parla di orchidee. Cita i nomi in latino e dall’altra parte
chi l’ascolta capisce.
Nessun altro riuscirebbe a ricavare il vero significato che si nasconde dietro
quegli scambi culturali sui modi di coltivare alcuni tipi di orchidee.
La massaggiatrice la sta aspettando nella saletta accanto alla sua camera da
letto per la solita seduta. Pia non avrebbe bisogno di farsi massaggiare; è
magra, la sua carne è ancora soda, le sue spalle e le sue gambe sono ancora
ben tornite sebbene abbia già superato i sessanta da tempo.
Ma Pia è pigra e la ginnastica passiva le mantiene il corpo tonificato e la
mente sveglia. Specialmente durante i tre incontri settimanali con Paola: sono momenti preziosi perché Paola sa tutto di tutti.
E parla.
Mentre Pia con gli occhi chiusi assapora il piacere di un lungo massaggio rilassante, Paola parla.
La sue mani lavorano il corpo di Pia con creme profumate e con movimenti
sapienti ed efficaci. Ed intanto racconta; di solito commenta quello che accade nelle sedute di preparazione del Calendimaggio, ripete gli episodi sapidi che ha ascoltato, i pettegolezzi che circolano su uomini e donne di Assisi,
a volte storie piccanti, a volte episodi tristi.
18
§§§
PADRE ELEARDO
Il padre superiore non girò intorno ma venne subito al dunque:
“Saverio credo sia giunto il momento di prendere una decisione definitiva:
dentro o fuori”.
Saverio per un secondo pensò di tentare l’inganno, di cadere dalle nuvole,
ma poi la sincerità del suo cuore prevalse su tutto ed abbassò la testa senza
dire una sola parola.
“So tutto – proseguì con voce dolce e suadente il suo direttore spirituale,
cercando in tutti i modi di fargli capire che gli voleva bene e comprendeva il
suo comportamento:
“Ma non posso accettare che tu resti un minuto di più qui dopo quello che tu
ed io sappiamo”.
Saverio continuava a chiedersi come aveva saputo e soprattutto fino a che
punto poteva sapere: erano mesi che faceva all’amore con Paola ma non era
stato mai scoperto.
“Non stare a lambiccarti il cervello di come lo so. Lo so e basta: lo sappiamo noi due e nessun altro. Ma ora devi fare una scelta: o la donna o la castità, o il mondo o la vita dentro il saio che porti indegnamente,
§§§
Due ore di treno per raggiungere Roma sono poche ma più che sufficienti
per rivedere tutto di se stesso : vita, occasioni perdute, scelte sbagliate, amicizie mal riposte, peccati, prodezze, speranze, mescolate ai ricordi di un
corpo caldo e morbido di poche ore prima, ad un letto umido dell’infanzia in
una casa fredda senza caloriferi, la stessa stanza con suo fratello e le seghe
notturne godute in silenzio: si masturbava suo fratello e poco dopo la fantasia gli si eccitava nella povertà di tutto, anche del fantasticare stesso.
E poi la camerata in caserma con i rintocchi della basilica di Sant’Ambrogio
che gli facevano da richiamo continuo ed al quale non voleva rispondere e
l’uomo che gli cadeva a pochi metri in mezzo alle casse del supermercato
tra le urla delle commesse impazzite e dei pochi clienti stesi a terra.
Lo vedeva rotolare come fosse stato spinto dallo stantuffo di un vagone di
treno, mentre annaspava nell’aria e ricadeva facendo rotolare scatole di
Bonduelle, sacchetti di mele, bottiglie che si disperdevano in miriadi di
schegge di vetro. Gli si era precipitato subito addosso per disarmarlo, gli aveva strappato il passamontagna e gli era comparso, come un fantasma morente, il volto di un ragazzino albanese di non più di quindici anni, la pistola
ancora stretta nella destra, la sinistra che cercava nell’aria di riprendersi la
vita che gli stava fuggendo, gli occhi pieni di incredulità e di dolore infinito
…. E poi solo l’eco dello sparo della sua pistola d’ordinanza ed infine il silenzio.
Quel silenzio che segue alla lotta urlata, alle pompate di adrenalina, alla paura fatta mattone e che diventa all’improvviso un pietoso lenzuolo bianco
che si stende su tutto ciò che è reale e che sembra non sia accaduto.
Il fischio del treno in prossimità di un passaggio a livello, stazioncina attraversata senza fermata e Saverio si ritrova nella realtà, ma l’immagine della
pistola del ragazzo bandito è ancora lì, tra la mano del morente, la canna che
termina con una piccola bolla rossa, la pistola giocattolo di uno stupido, de19
ficiente, assurdo ragazzo che sta morendo per mano sua, contorto il petto
che ansima cercando aria mentre il tempo ha fermato il mondo e la morte si
sta gustando il banchetto che sta per incominciare.
I due sguardi si incrociano ed il ragazzo sembra voler dire qualcosa ma il
sangue che gli esce dalla gola gli blocca la voce.
Saverio cerca nel suo cervello un ordine su cosa dovrebbe fare ma il panico
lo ha paralizzato. La pistola ancora stretta nella destra, è fermo, immobile,
inginocchiato accanto a quel ragazzo che ha le braccia aperte come Cristo in
croce e che sta vivendo coscientemente gli ultimi attimi della sua paura prima di lasciare per sempre il mondo, quello che ha sognato dall’infanzia o
quello che lo ha sempre odiato.
Lontano sirene di polizia ed ambulanza che qualcuno ha chiamato, suoni
stridenti che rompono arterie cerebrali di Saverio, mentre ripone la pistola
nella fondina e cerca di avvicinare la mano per alzare il capo del ragazzo.
Un ultimo gesto dell’albanese lo sconvolge definitivamente: ha cercato di tirarsi indietro d’istinto, la paura che quel poliziotto possa ancora fargli del
male ma il gesto si interrompe nella morte, improvvisa che ha deciso di
ghermirlo, sazia del panico creato nel morente.
Ora è la sua padrona.
Ed il treno si sta fermando lungo il marciapiede dodici della Stazione Termini.
Rumori assopiti di passi nel corridoio, porte che sbuffano aprendosi, gente
che scende, vagone che si svuota e Saverio si alza ancora immerso nel ricordo.
E intanto si chiede perché. La sera prima frate Eleardo lo aveva chiamato,
prima ancora che egli stesso si recasse nella sua cella per confessarsi e dichiarare la sua incapacità a proseguire il noviziato: la sua mente non poteva
diventare pura ed il suo corpo amava troppo la carne.
Il suo confessore lo lasciò parlare a lungo, evitò ogni attrito, fece in modo
che Saverio facesse tutto da solo, dalla confessione alla rinuncia, alla convinzione definitiva di una decisione ineccepibile e poi parlò:
“Saverio la tua onestà ti fa onore; se fosse possibile togliere il voto di castità
tu saresti un ottimo frate, sicuramente migliore di tanti tuoi potenziali confratelli che qui da anni lottano per rispettare la propria vocazione o quella
che credono sia … ma … lasciamo perdere.”
Eleardo rimase in silenzio per qualche istante mentre Saverio con gli cocchi
chiusi cercava di ritrovare una calma impossibile.
Eleardo proseguì:
“Ma credo che Dio ha progetti su di te che tu non immagini nemmeno”.
Non poteva certo dirgli della telefonata di Pia, delle parole del suo racconto
accennato velatamente sui rapporti tra Paola e Saverio, della richiesta che le
era giunta da Roma.
“Dovresti però farmi un ultimo favore mentre sei ancora un novizio a tutti
gli effetti”
Saverio levò il capo e gli rivolse uno sguardo interrogativo ma Eleardo lo
calmò con un cenno della mano, dando alla voce il suono più sereno che poteva:
“Devi andare a Roma per me dal Papa”.
Eleardo ripensava alle parole di Pia (la chiamava così da anni): era come
una sorella maggiore ma comandava fingendo di chiedere per favore: non si
sapeva perché ma in un certo ambiente Pia era diventata per chiunque
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l’avesse frequentata, o anche solo incontrata per la prima volta, la volontà
imperiosa mille volte più forte e più perentoria di un ordine di un capo, anzi
di un capo mafia.
Eppure non imponeva nulla, non costringeva né con sotterfugi né con ricatti.
Chiedeva solamente e senza dare soverchie spiegazioni: il suo carisma era
tale che tutti obbedivano. Anche perché sapevano che le sue richieste, andate a buon fine, risolvevano molto spesso situazioni difficili ed incresciose
senza che trapelasse nulla, senza rumore, senza rimbalzi giornalistici, anzi
lasciando nel mistero più fitto le cause. Solo pochi intuivano ma rimanevano
fedeli all’unica richiesta di Pia: il silenzio.
Pia aveva anche un’altra accortezza: quello che voleva realizzare lo faceva
sempre fare da persone esperte fidate. Ma spezzettava il problema in decine
di problemi più piccoli, in modo che nessuno potesse collegare i pezzi
dell’incastro o ricostruire il puzzle intero. Avevano sì il sentore, intuivano
che alla fine era lei l’autrice della soluzione del caso ma non avevano in
mano alcuna prova. Era gente fidata e muta quella che riceveva incarichi da
svolgere per un suo preciso mandato ma anche se avessero voluto farle del
male indicandola come autrice, non avrebbero mai avuto la minima prova in
mano per confermare un’eventuale relazione.
Pia aveva dato poche spiegazioni come al solito: Eleardo era “pregato” di
prendere nota della relazione tra Saverio e Paola, doveva prendere la decisione conseguente ma doveva allo stesso tempo spedirlo a Roma: il Papa
aveva bisogno di un uomo come Saverio.
Ed Eleardo aveva detto anche meno. Le poche parole continuavano a ripetersi nella mente di Saverio con lo stesso ritmo dello sferragliare delle carrozze della metropolitana che lo conducevano in Vaticano.
§§§
21
IL PAPA
Era l’alba quando il cellulare di Saverio gli squillò dentro il cervello. Riconobbe la voce e quasi cadde dal letto. Le ottobrate romane hanno delle mattinate splendide. Saverio ritrovò la serenità e la felicità di esistere mentre
camminando per il Lungotevere cercava di far sfumare dal suo cervello i ricordi pesanti degli ultimi giorni.
Dalla pensioncina modesta dove da giorni aveva trovato un rifugio discreto
e riservato raggiunse a piedi piazza San Pietro e si incamminò lungo il lato
destro del colonnato del Bernini.
Non fece un percorso dritto ma si curò di fermarsi ogni tanto ad ammirare la
bellezza della piazza fuori dal colonnato o di sedersi qua e là. I suoi occhi
lavoravano nel frattempo senza interruzione a 360 gradi, passando lo sguardo su ogni persona, ogni minimo movimento come se fosse dotato di raggi
x.
Era sicuro di essere stato seguito fin da quando era uscito dalla pensione ma
non poteva immaginare chi potesse essere il suo nemico perché non conosceva ancora lo scopo della chiamata.
Solo dopo essersi avvicinato ad una delle fontane centrali, mentre fingeva di
respirare a pieni polmoni l’aria fresca mossa dal grande getto dell’acqua, notò una figura talmente anonima da essere immediatamente scoperta: era la
stessa persona con cui si era scontrato uscendo dal bar all’incrocio appena
sotto la pensione. Era entrato apposta, pur non avendo bisogno di nulla, aveva comunque chiesto un caffè ed un pacchetto di Muratti, per poter osservare dall’interno eventuali movimenti sospetti in strada. E quando scoprì
che chi lo seguiva stava entrando nel bar con fare disinvolto aveva messo in
atto una tecnica più volte collaudata.
Fingendo di non accorgersi dell’uomo che entrava si era voltato di scatto per
uscire; nello scontro le sue mani, rapidissime e leggere, avevano pescato e
trovato quello che gli interessava: il gonfio di una pistola ed un portafoglio
che aveva fatto scivolare nelle sue tasche.
Il fatto che l’uomo in piazza San Pietro lo seguisse ancora dimostrava che
non si era ancora accorto di essere stato alleggerito del portafoglio.
Prima di affrontarlo una seconda volta, ma questa sarebbe stata definitiva,
aveva controllato i documenti mentre era nascosto dalla silhouette della fontana. A parte un foglietto con il numero di un cellulare, i documenti dichiaravano trattarsi di un certo Amilcare Rosselli, anni quaranta, investigatore
privato, nato e domiciliato a Roma.
Non si preoccupò di capire da dove e da chi avesse avuto l’incarico: mentre
era intento ad identificarlo in mezzo ai numerosi turisti che si avvicendavano lungo la piazza, l’investigatore non si rese conto di che cosa lo avesse
colpito. La scossa lo aveva immediatamente tramortito e fatto svenire.
Saverio fu lesto a evitare che cadesse a terra e lo mise a sedere, gli occhi
semichiusi e doloranti per uno schiaffo supplementare che gli appioppò in
pieno viso, il cappotto abbottonato con i bottoni sfasati come fosse uno
straccione, il cappello capovolto e aperto tra le gambe, dove fece cadere
qualche moneta.
Mentre proseguiva verso l’entrata dall’altra parte del colonnato, pensava che
Rosselli prima di sera avrebbe raccolto più denaro che in una giornata di incarico come investigatore.
Oltre a tenersi i documenti ed il numero di telefono scritto sul foglietto, gli
prese il cellulare e controllò le sue memorie; un numero con accanto il nome
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in chiaro lo fece trasalire; capì finalmente il rischio che stava correndo obbedendo alla “chiamata diretta”.
Ma non poteva più tirarsi indietro; dovette imporsi, se era ancora possibile,
un maggior controllo di tutta la situazione, di tutto quello che avrebbe sentito e visto nei luoghi “sacri” in cui sarebbe stato introdotto.
Ma le cose furono molto più semplici.
Chi lo aveva chiamato aveva dato precise disposizioni. La semplice esibizione di una carta d’identità gli aprì la lunga scalinata, dove venne preceduto da un inserviente in abito talare nel silenzio più assoluto.
Saverio avrebbe voluto chiedergli tante cose ma appena fece cenno di parlare si vide azzittire da un dito indice fermamente verticale sulle labbra chiuse
dell’accompagnatore che gli si era voltato di scatto senza nemmeno fermarsi, gli occhi cerulei severi dietro lenti da presbite che ne ingigantivano la severità naturale.
A metà della lunga scalinata, contro l’aspettativa di Saverio,
l’accompagnatore si fermò e premette un pulsante sul muro: si aprì una piccola porta mimetizzata dall’affresco, rivelando un ascensore nascosto, invisibile ad una persona distratta o comunque occupata a salire osservando i
larghi scalini per non inciampare.
Capì che era un passaggio segreto e diretto per raggiungere il più alto in
grado. Ed infatti, quando la porticina si aprì pochi secondi dopo si trovò di
fronte al papa che lo accolse con un sorriso smagliante.
Fece appello a tutto il suo coraggio per apparire disinvolto ma l’uomo vestito di bianco aveva capito tutto: senza parlare lo prese per mano, una presa
salda di una mano robusta e calda che Saverio non avrebbe mai più dimenticato nelle sua vita, e lo accompagnò a sedersi davanti ad una scrivania imponente ma semplice, linee severe e senza fronzoli.
Pochi secondi dopo la porta si riaprì ed il cardinale Sordano uscì rosso in viso, quasi paonazzo, chiaramente corrucciato ed indispettito: gli era stato fatto il torto di essere licenziato dal papa con garbo ma con fermezza. Non avrebbe potuto ascoltare che cosa si sarebbero detti il papa e quel giovane
strano e sconosciuto. Aveva saputo solamente che aveva avuto una sua breve esperienza in convento.
I tappeti attenuavano i rumori e la stanza pur grande e dal ricco ed altissimo
soffitto affrescato sembrò rimpicciolirsi a misura d’uomo dal momento in
cui il papa, invece di girare intorno alla scrivania, si sedette di fronte a Saverio sulla poltrona posta davanti alla scrivania.
Saverio notò che sulla parete alle spalle della poltrona pontificia non c’erano
quadri sacri ma una fotografia di papa Luciani. La stanza luminosa e immensa era calda ed accogliente e i rumori dall’esterno erano attutiti dai
grandi gobelin che coprivano le altre pareti.
“Saverio, ho saputo che hai dovuto superare molte prove dure in questi ultimi tempi”. Saverio si chiese se si riferisse a confidenze della marchesa Pia
o al suo ex superiore del convento di Assisi.
Cercò di resistere allo sguardo intenso che lo osservava da quando era entrato e si rese conto che c’era in quegli occhi una dolcezza triste.
Il papa sembrò capire:
“Saverio non spaventarti per quello che sto per chiederti ma se mi ascolti fino in fondo capirai che non sono impazzito e che devo agire così”
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Seguì un profondo silenzio durante il quale la mente di Saverio vagò per un
intero universo nella speranza che non gli venisse chiesto quello che temeva
e che alla fine gli arrivò effettivamente come una bomba.
“Purtroppo il male si annida in ogni luogo e pare che prediliga i luoghi e i
cuori che dovrebbero essere i più santi. A pochi metri da qui, in uno studio
riservato un alto prelato che io stesso ho promosso cardinale da pochi anni,
sta tradendo il suo incarico di responsabile delle finanze della struttura temporale della città del Vaticano, ma soprattutto è il misterioso capo di una setta che in America si sta ramificando con migliaia, anzi milioni di proseliti”.
Saverio rimase a bocca aperta e muto: aveva già immaginato un incarico pesante ma ora intravedeva qualcosa di spaventoso. E cosa poteva chiedergli
proprio il capo della religione cattolica?
Il papa si era alzato ed aveva prelevato da un cassetto della scrivania dei fogli che gli tremavano tra le mani mentre si risedeva davanti a Saverio.
Sprofondò stancamente lasciandosi andare ad un sospiro che era più un lamento per i forti dolori che gli affliggevano la schiena.
“Qui c’è tutta la verità su quello che sto per rivelarti. Prima però mi devi
giurare che manterrai il più assoluto silenzio e non rivelerai a nessuno quello
che verrai a sapere anche se non accetterai l’incarico”.
E proseguì pur vedendo lo sgomento negli occhi dell’uomo che gli stava seduto davanti:
“Perché io non mi posso fidarmi di nessuno qui dentro. Sono isolato dal resto del mondo, anche se apparentemente parlo con tutti e in tutte le lingue.
Tu potrai non accettare ma dal momento che ti rivelerò tutto, non potrai mai
più parlarne con nessuno. E bada: non ti prometto alcuna conseguenza se
parlerai: ci penserebbero altri che, sospettosi, vorranno eliminarti perché diventerai un pericoloso testimone. Per questo ti chiedo prima di ogni cosa:
accetti?”.
Saverio era sconcertato: come avrebbe potuto accettare una cosa e certe
condizioni se non sapeva di che cosa si trattava?
“Ma, Emin .. Santo Padre .. se non so di che cosa si tratta …”
“Ti capisco ma questa è l’unica condizione: o accetti e ti impegni al segreto
o torni da dove sei venuto”.
Passarono lunghissimi momenti di silenzio mentre Saverio cercava nella
propria mente un qualsiasi motivo per non accettare il rischio: d’accordo,
era stato un novizio, era anche una vocazione mancata, aveva una strana idea della religione, certamente non quella ortodossa ma … a tutto c’è un limite. Tuttavia quell’uomo gli era sempre piaciuto in tutte le sue manifestazioni durante il suo pontificato ed ora gli stava chiedendo con una grande
umiltà un aiuto quasi piangendo. Era lui per primo che si stava compromettendo. Saverio, se avesse voluto, una volta uscito di lì dopo aver rifiutato
l’incarico, avrebbe potuto spifferare quel poco che avrebbe saputo ma che
avrebbe provocato un grande discredito sul capo della Chiesa Cattolica.
Doveva decidere subito, lo sapeva; non poteva rinviare a domani o a chissà
quando. Ed alla fine, come sempre succede in chi sa già quale sarà la sua risposta sibilò quasi:
“Sì, padre, accetto. O, mi scusi, volevo dire Santo …”
“No, Saverio non ce n’è bisogno; sono un uomo come te, uno strumento nelle mani di Dio. E padre mi piace perché ho anche l’età per esserti padre.
Grazie”
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Si fermò commosso per un istante bloccando un singhiozzo di emozione.
“Grazie per aver accettato”.
E un secondo dopo, come se fosse ordinaria amministrazione si riprese con
un vigore inaspettato e raccontò a Saverio i fatti:
“Qualche tempo fa mi è giunto dall’America, precisamente da Boston questo documento. Portato quasi clandestinamente da un falso monsignore, mi è
stato consegnato dal cardinale Aloisio Sordano. Egli lo ha letto e ne conosce
il contenuto. Ne abbiamo parlato a lungo quel giorno e abbiamo convenuto
che era necessario un intervento drastico in America.
Questi pochi fogli sono esplosivi perché contengono nomi e prove di una rete di pedofili che sta infestando tutto il clero americano da anni.
Sta per esplodere uno scandalo di dimensioni terribili; la chiesa cattolica in
America perderà molti fedeli. Sono già così pochi e così tiepidi che la vergogna per quello che si verrà a sapere, nel migliore dei casi li porterà verso
le varie correnti protestanti che dominano il mondo religioso degli Stati Uniti”
Mentre il papa parlava a voce bassissima, quasi temesse di avere intorno orecchie che lo ascoltassero, Saverio si stava chiedendo che cosa gli sarebbe
stato chiesto tra poco. Ma non immaginava assolutamente il finale.
“Il testo che il cardinale Sordano mi portò quella mattina contiene anche un
messaggio criptato. questo è il vero motivo per cui ti ho chiamato”.
Avvicinò al viso i fogli quasi volesse rileggere ma parlò in realtà a ruota libera:
“Chi mi ha spedito il messaggio dagli Stati Uniti mi ha anche dato la triste
conferma: il Cardinale Sordano, oltre ad avere lucrato per interesse proprio
sui movimenti finanziari off shore … Sì, non meravigliarti se con te sono
sincero: lavoriamo con tutti quei paesi in cui si può manovrare il denaro a
nostro piacimento senza renderne conto a nessuno …”
Si fermò per un istante e poi, quasi parlasse tra sé e sé, mormorò:
“A nessuno, nemmeno a Dio, che spero mi perdoni”. E proseguì:
“Ma la cosa più grave è che questo povero uomo, che Dio abbia pietà per la
sua anima, è il capo clandestino di una setta che in America è diffusissima.
Ad essa aderiscono continuamente gli uomini più ricchi d’America, in una
specie di consorteria, di Massoneria, di Mafia i cui adepti adorano un solo
Dio: il denaro. Se per il problema della pedofilia tra i preti in qualche modo
troveremo come uscirne anche se con le ossa rotte, come potrò distruggere
una setta che si annida come un serpente in seno alla Madre Chiesa? Non
posso affrontarlo di petto; non otterrei alcuna confessione. Non posso allontanarlo: non so chi sono i suoi complici nascosti nei corridoi vaticani e rischierei quindi di chiedere aiuto solo al nemico”.
Ci fu una lunga pausa e Saverio finalmente trovò il coraggio di parlare:
“Scusi, Santo padre, perché racconta queste cose proprio a me? Se lei conosce quali missioni ho portato a termine nell’ultimo anno, sa benissimo che io
so solamente uccidere. Ed io non uccido se non c‘è una ragione valida per
farlo. Questo non mi sembra un caso …”
“A te non sembra. Invece lo è. E’ proprio questo che io ti chiedo, perché
quando il male si è insinuato, si è incancrenito ad un livello così alto, è necessario intervenire drasticamente. La vita di un traditore è un sacrificio necessario per salvare un santo principio ed il futuro di tutta la chiesa cattolica”.
“E lei che cosa desidera che io faccia?”
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“Sono costretto a chiederti una cosa gravissima. Ma non posso fare in modo
diverso. Il Cardinale di cui ti ho parlato deve scomparire, morto o vivo, deve
letteralmente scomparire. Nessuno deve sapere che fine avrà fatto. La notizia della sua morte, soprattutto se violenta, non farebbe altro che fomentare
movimenti perversi ed aumentare la massa di pazzi creduloni, adoratori del
vitello d’oro mentre Mosè riceveva le tavole dei comandamenti sul Sinai.”
“Ma padre, si rende conto che mi chiede di uccidere un uomo. Proprio lei mi
chiede di commettere un delitto così grave!”
“Sì” confermò il papa dopo aver chiuso gli occhi pieni di pianto e con un
forte sospiro, mentre cercava di frenare il tremore delle mani già colpite dal
Parkinson ed ora ancora più agitate per lo stress cui si stava sottoponendo.
Saverio era ammutolito e cercava di dare una sequenza logica ai suoi pensieri ma si perdeva in meandri etici e dietro a dubbi che la coscienza gli lanciava come sassi.
Passarono lunghi momenti ancora in un silenzio irreale; poi il papa riprese:
“Non so come intenderai attuare la mia richiesta e non voglio saperlo. Aggiungo due cose. Se entrerai nel suo studio dovrai riuscire ad aprire la sua
cassaforte; troverai la prova che ti dico la verità: il messaggio criptato che
Sordano non ha potuto scoprire mi informa che il messaggero di questi documenti gli ha consegnato diamanti purissimi per un valore di due miliardi
di dollari. Io credo che siano nella sua cassaforte.
Fra qualche giorno ti richiamerò e ti farò vedere qualcosa che ti convincerà
definitivamente che è necessario agire così. Ora non sono ancora pronto …”
Sembrava volesse dirgli qualcos’altro ma si interruppe. Poi proseguì:
“Secondo: la mattina in cui Sordano mi consegnò questi fogli il suo messaggero fu ucciso ad un semaforo a bordo di una Volvo da uno o due motociclisti che gli spararono quasi a bruciapelo. So per vie riservate che sul
braccio del morto c’era un tatuaggio: un piccolo fiore circondato da un doppio cerchio, con una scritta interna “Freedom forever”. Forse troverai la
stessa scritta sul corpo di Sordano.”
Sembrava a Saverio che nella stanza con il silenzio fosse sceso anche il buio. Aveva un magone che gli opprimeva il petto e non sapeva che dire o rispondere. Capiva quanto quell’uomo stesse soffrendo e gli venne spontaneo
paragonare il momento a quando Gesù nell’orto del Getsemani sudando
sangue aveva chiesto a Dio, suo padre, di evitargli il dolore di un morte così
atroce.
Non pensava al rischio che correva se non avesse portato a termine quella
pazza missione, ma al contenuto intrinseco di quella assurda richiesta del
papa, assurda sì ma da un punto di vista puramente razionale, logica e pienamente giustificata.
Fece ancora un tentativo: “Ma, Santo padre, non pensa che un colloquio
chiarificatore con … Sordano potrebbe risolvere tutto senza …”
“Hai ragione, o meglio, avresti ragione. Non sai che ho provato; gli ho dato
più volte la possibilità di confessarmi la verità ma mi ha sempre nascosto le
sue trame. Quest’episodio è solo l’ultimo dopo tanti tentativi da parte mia.
La sua crudeltà è diabolica; è un male che va estirpato drasticamente. Mi
raccomando, dovrai farlo sparire senza che si sappia più nulla di lui”.
“Non so come farò ma …”
“No, non pensarci. Ora vattene, pensaci. I fatti mi diranno se ci sei riuscito.
In ogni modo ti ringrazio in anticipo. E, credimi, il tuo non sarò un omicidio
ma un atto di giustizia che Dio …. perdonerà ad entrambi”.
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Si alzò e si avviò claudicante verso una porta in fondo alla stanza senza più
dirgli nulla ma Saverio sentì distintamente le parole che mormorò mentre si
allontanava:
“Almeno, lo spero, lo spero tanto ….”.
Si alzò in piedi per rispetto e rimase a vederlo andarsene, ingobbito dal peso
di una responsabilità così grande.
Mentre a sua volta riprendeva la via riservata del ritorno attraverso
l’ascensore con cui era arrivato continuava a chiedersi se c’era un confine
etico tra la giustizia e quello che doveva commettere a breve.
E non riuscì a darsi una risposta.
§§§
27
ABDUL SMITH – L’AQUILA
Abdul Smirth aveva finito di pregare. La sua preghiera di integralista islamico era un misto assurdo di letture del Corano e di maledizioni sugli occidentali. Dal capoluogo di provincia nell’Italia Centrale aveva lanciato strali
contro tutto ciò che, secondo lui, offendeva la sua religione.
Di origine libanese da parte di padre ed abruzzese per discendenza materna
non era mai riuscito a conciliare i due mondi ai quali apparteneva:
l’occidente materno e l’islamismo paterno. Aveva approfondito gli studi di
filosofia e di letteratura araba, aveva frequentato corsi altamente specializzati di diritto internazionale e si sentiva pronto ad affrontare chiunque non la
pensava come lui.
Era riuscito a creare un pandemonio facendo ricorso ad ogni mezzo legale
per far togliere il crocifisso dalle aule di scuola. Era stata necessaria una
sentenza della Cassazione per dargli torto. Non contento di ciò aveva avviato una campagna offensiva contro gli italiani, pur essendo cittadino italiano
a tutti gli effetti.
Sua moglie aveva dovuto subire la sue scenate d’ira violenta con cui cercava
di scaricare da dentro di sé una rabbia incontrollata che aveva radici profonde.
Ormai non aveva alcuna possibilità di fare macia indietro ed era troppo orgoglioso per ammettere di essersi troppe volte sbagliato. E, come chi
nell’attraversare il deserto, giunto a metà percorso e morendo di sete senza
alcuna riserva d’acqua, non riusciva pensare a quale fosse la soluzione migliore: tornare sui propri passi o proseguire.
Il suo orgoglio arabo lo convinceva di mantenere l’assurdo atteggiamento.
Era sopportato malamente dai vicini con i quali troppo spesso aveva litigato
costringendo il commissario Faretti a numerosi interventi fino sul pianerottolo dell’appartamento in cui abitava in un condominio popolare alla periferia della città.
Era presto quella mattina di venerdì e stava recandosi ad un locale che i pochi musulmani del capoluogo avevano adibito a moschea, Stava camminando a passo sostenuto, osservandosi intorno col suo solito modo di fare sospettoso quando si accostò al marciapiede una vecchia Mercedes dalla vernice in più punti scrostata e dal colore indefinito tra la melanzana e la ruggine antica: la classica macchina di zingari, pensò tra sé.
L’autista, un arabo indossava un candido caffettano bianco, appena bordato
da una riga d’argento, segno di ricchezza e di nobiltà di casta, abbassò il finestrino ed in arabo gli chiese se poteva indicargli dove fosse la moschea:
“Sono arrivato solo oggi dal Libano, fratello, che Allah ti assista”
Ad Abdul non parve vero di sentire quella dolce nenia cantilenante con cui
lo sconosciuto gli si rivolgeva. Fu subito molto gentile e pochi secondi dopo
aveva accettato di salire sulla Mercedes per fare il tragitto con il suo correligionario. Parlarono per un po’ nella loro lingua ma ad un certo punto Abdul
fece osservare al suo amico che stava sbagliando strada. Avrebbe dovuto
svoltare a destra e percorrere tutto il corso principale per raggiungere la periferia dalla parte opposta mentre stava decisamente dirigendosi dalla parte
opposta.
§§§
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I due fidanzatini si erano inoltrati a piedi in una piccola valle a sud della città e, approfittando del tramonto, lasciata la macchina sulla provinciale, ben
chiusa, si erano appartati in mezzo ai lecci che ricoprivano il pendio.
Franco era un ragazzo robusto e i suoi venticinque anni erano tutti ben visibili sul suo volto ornato da una fitta barba che traspariva fitta e nera anche
se rasata fino in fondo. I pettorali e i muscoli delle braccia rivelavano la sua
passione per le arti marziali. Chiara gli si teneva stretta addosso per non cadere ed anche perché aveva paura: non di qualcosa di specifico ma per una
sensazione ancestrale di diffidenza verso tutto ciò che è scuro. Ed il bosco
ormai era più nell’oscurità, permettendo di vedere ben poco.
Avevano percorso meno di cinquanta metri quando Franco si fermò di colpo. Ebbe la prontezza di mettere la mano davanti agli occhi di Chiara ma
non fece in tempo ad impedirle di vedere: davanti a loro disteso a faccia in
su il cadavere di un uomo sui cinquant’anni giaceva con la gola squarciata
in un lago di sangue che stava imbevendo il sentiero.
§§§
Saverio si era disfatto del caffettano e della macchina che aveva recuperato
presso uno sfasciacarrozze. Aveva fatto sparire in un cassonetto ogni traccia
ed aveva dato fuoco al veicolo; aveva controllato che il fuoco divorasse bene ogni parte del mezzo, quasi una “purificazione” di un’arma usata per uccidere.
Aveva composto un numero da una cabina sulla piazza di una cittadina laziale. Dall’altra parte del filo la voce di una donna anziana:
“Sì?”
Saverio attese qualche secondo, poi coprendo il microfono della cornetta
con un fazzoletto e quasi sibilando sottovoce per alterare le modulazioni
delle sue corde vocali, rispose:
“Pacco consegnato. Il suo regalo è stato molto gradito”
“Grazie”, rispose Pia De Uto e riappese la cornetta, soddisfatta: la prova generale sull’efficienza di Saverio era andata bene. Ora poteva fidarsi della riuscita della missione a Roma che aveva chiesto il papa.
L’uomo si tolse finalmente i guanti di lattice con cui aveva agito fino a quel
momento, si mise il casco che aveva appeso alla potente Kawasaky parcheggiata a pochi metri dalla cabina e ripartì col motore al minimo in direzione del suo nuovo rifugio.
§§§
DIACONATO (PROVENZANO)
La strada che sale a Bellolampo si diverte a zigzagare tra una collina e
l’altra fin che, superati i tornanti di Passo di Rigano giunge al bivio per Torretta, eternamente bloccato da alcuni massi. Accanto un cartello vecchio di
una decina d’anni avvisa che la strada è interrotta al km., ma il numero è
scomparso da tempo.
I massi non impedivano il passaggio della moto e Saverio si diresse verso
Torretta. Ma dopo poche decine di metri rallentò e proseguì a passo d’uomo,
osservando attentamente il paesaggio.
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La strada scendeva lentamente in una piccola gola; il terreno brullo dei due
fianchi era ricoperto di erbacce selvatiche basse e rinsecchite per il calore
eccessivo dell’estate.
Dopo una curva Saverio si trovò una casa cantoniera sulla sua sinistra e rallentò passandole accanto.
Aveva percorso oltre forse cento metri quando nel suo cervello si accese un
pensiero inquietante: aveva visto qualcosa che non quadrava con il concetto
di costruzione abbandonata ma non riusciva a mettere a fuoco che cosa stonasse. Eppure il suo istinto gli diceva chiaramente che i particolari, almeno
alcuni, non quadravano. Finse di proseguire ma appena fu oltre una curva,
fuori dalla vista di eventuali occhi sospettosi, spense il motore e nascose la
moto tra alcuni arbusti di olivastro.
Fece un largo giro intorno alla collina e raggiunse la cantoniera alle spalle.
Qui si fermò al riparo di alti cespugli spinosi e fece scomparire il proprio io
dentro una lunga meditazione zen.
Ormai Saverio stava pensando di aver avuto una soffiata fasulla quando sentì avvicinarsi il rumore di una moto dalla stessa direzione dalla quale era arrivato circa due ore prima.
Erano in due e portavano dei semplici sacchetti da supermercato, ma carichi
probabilmente di alimentari: da uno di essi spuntava il collo di un fiasco.
Seguì le loro mosse e capì come avrebbe dovuto fare: c’era un segnale convenzionale molto semplice: tre colpi sul vetro della finestra a sinistra della
porta principale, una sosta lunga e poi due colpi, altra sosta ed un colpo finale.
Passò un tempo che a Saverio parve un’eternità. Poi vide socchiudersi lentamente l’uscio ma apparve solo una mano nuda, non si vedeva nemmeno la
manica della camicia.
I due, consegnati i sacchetti, si allontanarono rapidamente e poco dopo Saverio sentì il rombo della moto che si allontanava.
Quando tutto fu silenzio e si sentirono solo i soffi del vento che accarezzava
l’erba secca dei pendii, Saverio si mosse lentamente cercando di rimanere
al di fuori da traiettorie pericolose che potevano essere usate dalla finestre
della cantoniera. Il buio stava diventando suo alleato e finalmente giunse a
pochi metri dal vecchio marciapiede che girava tutt’intorno alla base della
casa: era stranamente sgombro dalle erbacce che pur crescevano libere e vistose sul terreno circostante. Questo si rivelò il primo motivo di sospetto; e
venne confermato dall’immagine della serratura della porta che si era aperta
per far apparire la mano: luccicava come se fosse stata appena applicata e la
scritta “Yale” rifletteva il raggio laser che Saverio usava con molta attenzione.
Si accovacciò tra l’erba ed attese per verificare se qualcuno lo stesse aspettando in silenzio dopo averlo scoperto: silenzio assoluto.
Aveva organizzato due piani: riuscire ad entrare e cogliere Diaconato di
sorpresa o provocare un incendio per stanarlo.
Come una belva notturna, usava la pazienza come arma principale. E prediligeva agire sempre da solo. Non per mantenere il più assoluto riserbo sui
suoi interventi, che pure era indispensabile per realizzare quello successivo
dopo che il primo andava a segno né per orgoglio o superbia. Ma semplicemente non voleva che altri potessero un giorno tradirlo o rivelare tutto, facendo crollare il mito del silenzio, un mito sconosciuto a tutti, un mito che
aveva successo solo grazie al mistero ed al più assoluto segreto. Era riuscito,
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grazie all’autodisciplina che gli derivava dal continuo esercizio delle arti
marziali, ad evitare perfino di sognare le sue imprese o di parlarne inconsciamente di notte. Un giorno tutto i suoi successi nascosti sarebbero morti
con lui.
Questi ed altri pensieri passavano come lampi orizzontali tra i suoi pensieri
in millisecondi mentre attendeva il momento esatto per agire.
Che giunse improvviso: le finestre erano tutte senza persiane e dietro i vetri
avevano degli scuri che impedivano di guardare dentro le stanze. Ma una
lama di luce apparve sottile da dietro uno degli scuri e rimase accesa. qualcuno nell’unica stanza a pian terreno aveva acceso una lampadina e stava
muovendosi all’interno. Sentì. nel silenzio assoluto, anche il rumore leggero
e ovattato dei passi dell’uomo mentre camminava nella stanza: il pavimento
doveva essere di legno.
Tutto accadde improvviso e si risolse in pochi secondi: Saverio fece partire
la raffica in diagonale sulla serratura in modo da non colpire: voleva l’uomo
vivo.
I due battenti sbriciolati si spalancarono lasciando intravedere il buio
dell’interno. Ne uscì in rapida successione una raffica, due, tre di mitra che
Saverio riconobbe.
Dovette gettarsi all’indietro con una capriola e sentì i proiettili fischiare tra
le sue gambe mentre erano rimaste in aria per meno di un istante,
Diavolo d’un uomo: lo stava aspettando ed aveva avuto più pazienza di lui;
doveva averlo visto da dentro mentre si stava avvicinando nelle ore precedenti alla cantoniera. questi furono i pensieri di Saverio mentre, il cuore a
mille, esaminava la tela dei jeans bucata da uno dei colpi che, solo per pura
fortuna, non gli avevano toccato nemmeno la pelle del polpaccio. Rimase
immobile e il silenzio tornò sovrano, padrone del tempo e della mente dei
due contendenti.
Attraverso il buco nei jeans sfiorò la pelle che gli bruciava e ritrasse le dita
umide di sangue. Non poteva accendere la torcia elettrica per non farsi individuare ma assaggiò il liquido: sapeva di ferro ma doveva essere un semplice graffio. Distese lentamente la gamba e mosse l’articolazione; il dolore era
lieve ma di dentro bruciava la rabbia di non essere riuscito a cogliere Diaconato di sorpresa. Riprese la padronanza di sé e quando fu nuovamente tutto
se stesso decise di attuare la seconda ipotesi del piano.
Agì con la rapidità di un fulmine: mentre sparava la granata esplosiva contro
la casa corse al suo inseguimento e sembrò quasi tuffarsi dentro
l’esplosione. Un secondo dopo che le finestre furono scaraventate fuori dalla
struttura muraria, Saverio era già in mezzo alla stanza, rischiando di vedersi
crollare in testa il soffitto di legno pericolante.
Con la torcia annaspò tra la polvere e provò il disgusto della nausea per
l’insuccesso: la stanza era vuota, completamente vuota e di Diaconato nessuna traccia.
Si gettò fuori, appena in tempo per vederlo correre lungo il pendio a perdifiato. Non aveva alternative e sparò la raffica mirando alle gambe.
Diaconato alzò le braccia al cielo come per afferrare qualcosa nell’aria e poi
crollò urlando bestemmie in siciliano.
Pochi secondi dopo Saverio era su di lui. Si accorse che perdeva molto sangue e si dedicò alle ferite: uno dei colpi doveva avergli colpito l’arteria femorale. Il sangue spillava come vino da una botte che si fosse lesionata.
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“Vuoi sopravvivere?” Gli chiese quasi in un sussurro mentre riprendeva fiato. Diaconato tentò una reazione come se avesse voluto colpirlo e solo allora
Saverio vide il luccicare della lama nelle sue mani. Un colpo col calcio del
mitra distese definitivamente l’uomo.
Saverio si dette del cretino: aveva dimenticato una delle regole principali:
mantenere alto il livello di guardia anche di fronte ad un nemico morto. Non
per niente Diaconato era latitante da quarant’anni.
Aveva con sé tutto quello che poteva servirgli in caso di ferite su di sé.
Gli legò la coscia con un laccio emostatico, lo rigirò per controllare ogni tasca e scoprì un’altra pistola oltre a due cellulari, tolse il caricatore dall’una e
le schede dagli altri che gettò lontano.
Poi incominciò a farlo rinvenire a sberle. Quando dette di nuovo segno di
vita, ripeté la domanda.
“Vuoi sopravvivere?” E questa volta Diaconato rispose affermativamente
con un cenno della testa.
I due si guardarono per lunghi istanti negli occhi e Saverio si rese conto che
aveva di fronte un uomo vero, senza paura, un nemico valoroso. Ma vedeva
anche al di là del freddo azzurro, tutta la cattiveria di cui era stato capace.
Gli passarono nella mente le decine di morti, il corpo maciullato
dall’esplosione sulla autostrada da Punta Raisi a Palermo dell’auto del
commissario Airone e della moglie, ma soprattutto un bambino immerso
nella calce viva.
E non riuscì più a controllarsi: sapeva che doveva lasciare intatto quel viso
perché tutti dovevano sapere che finalmente era stato preso e reso innocuo.
Per questo sferrò il pugno secco con le nocche allineate come un maglio in
mezzo alla gola. sentì il pomo d’adamo cedere sotto il colpo e quasi entrò
nella parte bassa del collo, mentre Diaconato finalmente moriva senza poter
nemmeno esalare l’ultimo respiro per l’occlusione della trachea.
Estrasse un cellulare da un taschino del giubbotto e compose un numero.
Dall’altra parte rispose la nostra amica e le uniche parole di Saverio furono:
“Il diacono è stato promosso santo”. Sostituì la scheda del telefono e ritornò
alla moto con cui scese a Torretta e da qui a Partinico.
Stava gustando un caffé nel bar centrale che era sempre aperto anche di notte ed ascoltava i commenti registrati di Bruno Vespa e dei suoi ospiti a “Porta a Porta” che si dilettavano a commentare e litigare sugli ultimi delitti
commessi dalla mafia in Sicilia. Un deputato DS del centro Italia aveva appena detto, rivolto a Guardaroli che troneggiava in una poltrona con la sua
vistosa cravatta verde del partito:
“Ognuno ha i suoi guai, il sud ha la mafia ed il nord ha Bossi”. Stavano per
accapigliarsi quando improvvisamente apparve la sigla del telegiornale e
subito dopo un eccitato speaker disse:
“Interrompiamo la trasmissione Porta a Porta per una importante notizia
giunta in esclusiva alla nostra redazione pochi minuti fa”.
<Evidentemente > pensò Saverio, pregustando quale fosse l’annuncio < la
signora ha le sue preferenze> e sorrise dentro di sé pensando a quelli di Mediaset, specialmente a Emilio Fede, che si sarebbero morsicate le mani per la
rabbia.
“Pochi minuti fa è stato trovato morto ucciso in maniera misteriosa il più
grande ricercato della mafia siciliana. Umberto Diaconato era latitante da oltre quarant’anni e sembrava diventato inafferrabile come la primula rossa
…”
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Saverio si dispiacque per l’irriverente accostamento con una delle più belle
figure della rivoluzione francese e pensò alla stupidaggine dei media che pur
di fare auditing non esitavano ad ingrandire la figura di un delinquente, di
un atroce assassino incapace di pietà, un cinico senza un briciolo di umanità
che era riuscito a …”.
Senza volerlo dette un pugno sul ripiano facendo volare la tazzine del caffé
oltre il banco. Il barista, si chinò verso di lui. Saverio si aspettava qualche
parola di rimprovero ed era pronto a scusarsi ma il barista gli sussurrò:
“Vedo che sei addolorato puro tu; ma abbi pazienza, qualcuno lo vendicherà”. E si voltò rifiutando l’euro che Saverio aveva messo sul banco, incerto e
stupito.
Fuori sulla piazza capannelli di gente si infittivano per commentare la notizia mentre Saverio riprendeva la strada per l’aeroporto con la sua Kavasaky.
§§§
PETROLIERA NOICATTARO
La petroliera Noicattaro stava navigando a pieno carico al largo della Corsica diretta a Milazzo. Batteva bandiera panamense ed era di proprietà di un
armatore russo, amico di Pia De Uto da lungo tempo: il nonno era sfuggito
alle rappresaglie ed alle purghe di Stalin per un soffio, imbarcandosi come
mozzo su una vecchia ciabatta che osava chiamarsi nave e che invece faticava persino a stare a galla tra le onde del Baltico. Per vie che solo il destino
sa tracciare nella vita di un uomo, aveva conosciuto il suocero di Pia quando
questa era ancora bambina. In pochi anni, dopo un aiuto finanziario non indifferente, i due uomini divennero soci di una immensa fortuna.
Butilov, questo era il nome dell’antenato dell’armatore attuale, era diventato
una potenza e viveva di una tale rendita sui suoi investimenti che a Londra i
Lloyd’s non avevano alcuna difficoltà ad aprire linee di credito senza limiti
alle sue operazioni su ogni genere di speculazione finanziaria.
Era passata da poco la mezzanotte e la navigazione procedeva tranquilla
verso il sud, controllata da un solo uomo, un giovane ufficiale con pochi
mesi di esperienza effettiva, attraverso gli strumenti ultramoderni che facevano tutto quello che una volta doveva fare un buon gruppo di uomini.
Il resto dell’equipaggio dormiva profondamente, anche troppo, a causa di un
potente sonnifero che il finto cuoco Saverio aveva messo nelle pietanze della cena.
Quando Saverio entrò quasi furtivamente in sala comando, il giovane ufficiale addetto al primo turno di guardia cercava inutilmente di tenere gli occhi aperti, mentre il sonno lo attanagliava come se il quadrante del radar col
suo sfondo rotondo di colore verde fosse un ipnotizzatore in piena azione.
Saverio fece appena in tempo a sostenerlo mentre stava scivolando a terra.
Lo fece dolcemente sedere nella saletta attigua dove venivano studiate ed
elaborate le carte nautiche e tornò davanti agli
strumenti per preparare il lieve cambio di rotta, un leggera ma importante
deviazione verso sud-sud ovest che avrebbe indirizzato la petroliera inesorabilmente in poco tempo contro le coste della Sardegna in un punto preciso: l’obiettivo che Saverio aveva deciso di raggiungere.
§§§
33
Il guardiamarina di turno Ayron Scott stava seguendo sul radar tutte le tracce dei mezzi navali che stavano solcando il mar Ligure ed il Tirreno settentrionale, ignari di essere attentamente sorvegliati.
Di fianco altre tecnologie molto sofisticate, collegate con il satellite ed il sistema GPS identificavano via via ogni singolo natante, anche il più piccolo
peschereccio che stesse innocentemente gettando le reti per la pesca delle
acciughe.
Non diede sul momento molta importanza al cambiamento di rotta della petroliera ma dopo alcuni minuti incominciò a chiedersi perché si stesse dirigendo verso il gruppo di isole dell’arcipelago: lì c’erano anche ormeggiati i
sommergibili nucleari della base militare statunitense.
Si portò al tavolo delle carte nautiche e calcolò la rotta della petroliera più
per tenere in allenamento gli studi fatti in accademia che per una qualche
preoccupazione. Ma la destinazione finale, i tempi di deriva ed il silenzio
radio (non aveva rilevato via satellite alcuna conversazione tra la sala comando della petroliera e la guardia costiera circa il cambiamento di rotta)
destarono finalmente nel suo cervello un allarme più che motivato. Si precipitò al telefono e chiamò l’ufficiale superiore.
§§§
Saverio dalla plancia ridusse la velocità e lasciò che la petroliera, pur rallentando, mantenesse la prua in direzione dell’arcipelago. Si aspettava da un
momento all’altro un intervento esterno. Ed infatti pochi minuti dopo due
F16 sorvolarono il lungo scafo a bassa quota, mentre dall’interfono arrivò la
richiesta di spiegazioni in un italiano ridicolo e stentato.
Saverio avrebbe voluto rispondere al presuntuoso pilota che doveva ricordarsi che era in acque di competenza dello stato italiano e che non era autorizzato a fare domande del genere ma il suo piano prevedeva mosse più decisive ed impegnative nei minuti successivi.
Non volendo far riconoscere la sua voce, preferì lanciare la minaccia via fax
ed in pochi minuti riuscì a svegliare un esercito di persone, dal Presidente
del Consiglio al Capo di Stato Maggiore della marina italiana ai responsabili
americani della base dei sottomarini nucleari e, da questi su su fino a Bush.
Qualcuno si ricordò che era obbligatorio e fece il passo più importante. Svegliare e mettere al corrente il Capo dello Stato.
Il fax conteneva questo laconico messaggio:
“Se entro un’ora dalla ricezione del fax tutti i mezzi navali americani, di superficie e subacquei, non salpano dalla loro base e prendono la via di Gibilterra, la petroliera si schianterà sulla costa sarda, colpendo la stessa base
americana. I danni da inquinamento delle coste limitrofe saranno molto gravi perché farò saltare la petroliera come un immenso ordigno e tutta la zona,
compresa quella prospiciente la villa della “Chartreuse” di proprietà del Presidente, verrà invasa da migliaia di tonnellate di greggio”.
Dopo i primi momenti di incredulità e la speranza che fosse solamente lo
scherzo assurdo di qualche buontempone che si fosse immesso sulle linee di
comunicazione militari o di qualche pazzo che credeva di poter impunemente realizzare quello che aveva minacciato nel fax, e dopo aver constatato che
la petroliera aveva veramente cambiato rotta, i minuti successivi furono
riempiti da un susseguirsi di concitati e confusi contatti tra tutti i responsabili.
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Saverio approfittò del poco tempo a disposizione per controllare gli effetti
del sonnifero sull’equipaggio e per liberarsi degli uomini senza recare loro
alcun danno.
Con notevole fatica e sfruttando un carrello a motore che gli risparmiò molto tempo, riuscì a caricare tutti gli uomini profondamente addormentati su
una scialuppa di salvataggio. Fu più tranquillo quando, fatta calare in mare
con l’argano elettrico, la vide allontanarsi lungo il fianco dello scafo nero e
rosso, rimanendo indietro definitivamente in balia del suo destino.
Tornato in plancia, ascoltò sorridendo i minacciosi messaggi vocali che arrivavano da varie parti, mentre il fax sgranava metri di fogli come una mitragliatrice.
Saverio aveva organizzato in plancia viveri a sufficienza ed un grande thermos pieno di caffé: ma non sarebbero stati i suoi unici compagni di viaggio:
aveva recuperato in armeria due mitra automatici, alcune pistole e molte
munizioni in previsione di quello che sarebbe accaduto nelle ore successive.
Prima di lanciare il messaggio via fax aveva controllato tutte le difese a sua
disposizione, quelle particolari dotazioni che ormai da anni le petroliere avevano in dotazione contro il pericolo dei tentativi di arrembaggio da parte
delle bande di pirati che infestavano ormai gli oceani peggio che la mala di
una intera città come New York.
Soddisfatto per aver constatato che la petroliera aveva tutti i mezzi più moderni contro qualsiasi tentativo di invasione in mare aperto, ritornò in plancia a verificare che la rotta fosse esatta.
§§§
In attesa degli eventi che si sarebbero susseguiti in maniera concitata di lì a
poco, fece alcuni rapidi controlli attraverso il computer e scoprì insieme
spaventato ma anche compiaciuto che la petroliera stava trasportando, violando le norme sulla sicurezza, oltre ad un carico completo di greggio, un
forte quantitativo di benzina già raffinata e pronta per essere immessa sul
mercato siciliano, proveniente dalla più grossa raffineria di Genova, di proprietà di un noto petroliere.
Ed era proprio quest’ultimo che si era messo in contatto su una linea riservata con un noto esponente politico e capo mafia di Palermo che aspettava
l’arrivo del carico, allarmato per le conseguenze di un eventuale attacco bellico da parte degli americani o di una collisione con altri mezzi marini.
§§§
L’elicottero SKV 324 capace di trasportare trenta uomini era già in prossimità della petroliera, pronto a far scendere sul ponte una squadra perfettamente addestrata e dotata di armi moderne ed efficaci.
Saverio aveva commesso un grave errore lasciando libero l’equipaggio: la
scialuppa era stata intercettata da una motovedetta italiana e il generale
O’Connor aveva sperato che questo volesse dire che a bordo della petroliera
fossero rimasti solo i terroristi, una squadra molto limitata. Non poteva certo
immaginare che l’atto terroristico, come era ormai stato definito, stava per
essere attuato da un solo uomo.
I trenta uomini che, armati fino ai denti, stavano per essere scaricati sul ponte della petroliera, potevano impossessarsi dello scafo in pochi minuti.
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L’elicottero, seguendo le istruzioni si era portato sulla verticale della prua
per scendere e scaricare metà degli uomini “teste di cuoio”; sarebbe poi passato al castello di poppa per sbarcare il secondo gruppo: in questo modo i
terroristi sarebbero stati presi tra due fuochi.
Come l’elicottero fu in vista sugli schermi della plancia, Saverio digitò sulla
tastiera del computer un comando che gli impianti antincendio ricevettero in
tempo reale. Immediatamente da tutta la parte prodiera si levarono i getti
schiumogeni antincendio, alti oltre trenta metri, che crearono una cortina di
nebbia umida ed impenetrabile. L’elicottero dovette sollevarsi e uscire dalla
zona utile per l’arrembaggio altrimenti avrebbe rischiato di schiantarsi sul
ponte. Gli uomini, pronti a discendere lungo le corde dovettero ritirarsi e
l’azione fu momentaneamente sospesa. Il responsabile chiese istruzioni via
radio ma dall’altra parte troppi cervelli stavano facendo solo una gran confusione.
Mentre la prua della petroliera si stava inesorabilmente avvicinando alla costa sarda, Saverio approfittò della confusione per capire di aver generato
presso i vari comandi il caos più assoluto: l’evento inaspettato, le modalità
con cui veniva realizzato, le difficoltà nei contatti tra le deboli forze militari
italiane e quelle, snobbanti, degli spocchiosi comandanti americani, tutto
giocava a favore di un singolo uomo che stava agendo secondo un piano
preciso e semplice.
Saverio poteva ricevere tutto ciò che veniva trasmesso via etere grazie ad
una apparecchiatura sofisticata che si era portato a bordo quando aveva sostituito l’aiuto cuoco con un semplice stratagemma. Aveva ricevuto, come al
solito, ordini precisi e perentori e li stava eseguendo con abile e consumata
precisione.
Aveva ascoltato le proposte più assurde, perfino quella di silurare la petroliera o di bombardarla con alcuni missili in dotazione agli F 16: i capi cinici
avevano proposto anche questa assurda soluzione che avrebbe comunque
portato a provocare danni incalcolabili.
La voce conciliante del Presidente del Consiglio era penetrata suadente nei
circuiti radio e si era dolcemente diffusa in tutti gli ambienti deserti della petroliera; nessuno ad ascoltarla, tranne Saverio che pur sorridendone riconobbe nell’uomo che gli parlava la solita abilità dialettica.
Saverio rispettò il totale silenzio radio, osservò che erano trascorsi già quindici minuti dall’invio del fax e trasmise di nuovo il testo modificando solo il
tempo che concedeva, ridotto da un’ora a quarantacinque minuti.
Rispose la voce baritonale di un altro pezzo grosso che si qualificò come
Capo di Stato Maggiore della marina; tentò un discorso prima minaccioso e,
dopo un assoluto silenzio dalla petroliera, cambiò il tono che divenne quasi
piagnucolante, dimostrando a Saverio che non c’era una testa sola a decidere
e che non avevano le idee chiare.
Il presidente del consiglio si era precipitato a parlare con Bush: non voleva
assolutamente vedere distrutta la sua faraonica costruzione nella quale aveva
profuso milioni di euro (dei contribuenti) in piante rare, in attracchi seminascosti, in strutture da Cinecittà, in impianti megalitici tra piscine e saloni
degni della megalomania di un Saddam.
Bush era troppo preoccupato per il rischio di una magra figura con i suoi
sommergibili nucleari in pericolo, per cui si era rapidamente congedato da
Silvio per sapere dai suoi consiglieri militari come intendessero risolvere il
fatto nuovo.
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Nessuno di loro (e perfino lo stesso Bush) in un primo momento si erano resi conto della gravità della situazione ma ora la petroliera era a meno di dieci miglia dalla base americana e proseguiva imperterrita e muta come un gigantesco Leviatano, un mostruoso fantasma che stava per distruggere anni
di attività militare, con il rischio di una fuga di radioattività pericolosissima,
di inquinare chilometri di costa con la fuoriuscita del greggio, senza contare
i danni alla villa del presidente italiano.
Qualche capo cercò di ingannare i “terroristi” facendo apparire sul radar la
sagoma di un sommergibile che usciva dalle grotte protettive e si dirigeva al
largo come richiesto dal fax ma Saverio sapeva che era una manovra diversiva. Nemmeno la voce del Generale che teneva i contatti con lui via radio
lo poté ingannare.
“Come potete notare stiamo evacuando la base: il primo sommergibile ha
lasciato l’attracco e sarà seguito dagli altri. Dite chi siete e che cosa intendete fare ….”
Ma Saverio mantenne il silenzio radio. Sapeva che, se avesse appena pronunziato alcune parole sarebbe stato identificato dai servizi segreti americani che erano sicuramente in possesso di campioni della sua voce.
Preferì continuare ad usare il fax e fu molto laconico e preciso; il testo diceva:
“Il vostro bluff è inutile e ingenuo: il sommergibile che ha lasciato la base è
un natante convenzionale della classe P150, anno di costruzione 1945, lo
usate solo come scafo d’appoggio per le operazioni di servizio; ha due motori elettrici da ….” e proseguiva descrivendo ogni dettaglio Mancava che
dicesse di che colore fossero le pareti della cabina o delle mutande del comandante. Saverio aveva a disposizione tutti i dati di ogni mezzo navale
presente nella base e sapeva che non vi erano in quel momento sommergibili
in navigazione.
La voce del “nemico”, ora imperiosa, ora implorante tentò anche la minaccia di un siluramento da parte di un sottomarino al largo in rientro ma,
sempre attraverso il fax, Saverio fece notare che anche la petroliera era dotata di un radar molto potente e poteva rilevare persino le sardine che stavano
nuotando intorno alla petroliera per almeno cinquanta miglia.
Ci fu anche il tentativo di un assalto con mezzi leggeri, una versione moderna alla 007 degli antichi “maiali”, ma la petroliera, dotata delle armi adatte a
respingere tentativi di arrembaggio si difese quasi automaticamente: Saverio, appena individuate le piccole sagome in avvicinamento, attivò le difese
e dai bordi della petroliera si aprì l’inferno: un cannoneggiamento a fuoco
intenso seguito dal lancio di bombe incendiarie e di profondità ad esplosione
radiocomandata e da getti di potenti lingue di fuoco da lanciafiamme fece
desistere ogni tentativo da parte degli assalitori.
Alla base militare americana era subentrato un senso di inanità e di impotenza disperata: non era possibile che una petroliera in mano ad un pugno di
terroristi, per giunta anonimi, riuscisse a tenere in scacco la marina degli
Stati Uniti d’America e i suoi sommergibili nucleari che da anni la facevano
da padroni in tutto il Mediterraneo.
Saverio stava vivendo momenti di tensione altissima perché temeva da parte
degli americani una mossa imprevedibile che avrebbe potuto rendere inutile
il suo attacco; aveva quasi esaurito la scorta di caffé e cercava con molta fatica, di tenere lucida la mente. Era solo, tremendamente solo in un’impresa
pazza; non poteva parlare con nessuno perché una sola persona teneva i con37
tatti con lui e non era possibile contattarla in quel momento mettendo a rischio la segretezza dell’operazione.
E la solitudine gli pesava come un macigno sul petto.
Cercò di lavorare di fantasia, di pensare alle belle ore trascorse a letto con
Paola, ricordava il profumo della sua pelle ambrata. il calore del suo corpo
ma poi tutto ripiombava nel calderone dei giorni da novizio ed il ricordo si
trasformava in una specie di rimorso che non riusciva però ad accettare pienamente. Erano le emozioni che avrebbero potuto fregarlo e cacciò tutto
dandosi due potenti schiaffoni sulle guance.
Solo in questo modo riuscì a tornare alla realtà, pronto all’azione col cinismo che era necessario.
Ormai la petroliera era inarrestabile. Avanzava, con tutta la sua stazza di
duecentomila tonnellate alla rispettabile velocità di quasi venticinque nodi
ed anche se Saverio fosse intervenuto per frenare la sua corsa in quel momento, lo scafo si sarebbe incagliato sulla costa senza scampo perché aveva
bisogno di almeno dieci miglia per fermarsi.
E la costa era ormai a meno di otto miglia.
Anche gli americani si resero conto che ormai non c’era più nulla da fare e
cercarono di far uscire in fretta dalla base i sommergibili ma proprio il primo, nel tentativo di accelerare i tempi, commise un errore di manovra e si
incagliò all’uscita dalla stretta baia che gli americani occupavano da anni.
Tra le imprecazioni generali, nessuno trovò il modo di risolvere il guaio.
§§§
Saverio stava realizzando l’incarico che gli era stato affidato e volle dare al
suo mandante la soddisfazione di immagini in diretta. Oltre alle telecamere a
bordo della petroliera, tutte in funzione e tutte orientate verso il punto di
impatto sulla costa, Saverio, mentre si allontanava silenziosamente su un
piccolo natante a motore elettrico silenziosissimo e freddo in modo da non
essere individuato dai radar americani, aveva azionato la sua piccola telecamera Panasonic. Collegata ad un trasmettitore satellitare criptato, trasmetteva le immagini ad un solo ricevitore, collocato sul tetto di una nobile villa
del centro Italia.
La marchesa Pia De Uto, adagiata sui comodi cuscini del suo letto, osservava attentamente le immagini che le arrivavano mentre sorbiva la camomilla
della sera.
La petroliera, dopo essersi incagliata proprio a metà strada tra gli scogli davanti alla villa del presidente e la base americana, letteralmente si sbracò a
causa del peso immane delle sue stive in una sinistra sequenza di terribili
gemiti ed acuti stridori che si propagavano nell’aria come l’urlo di mille balene ferite a morte.
I rumori cessarono improvvisi ed anche il mare sembrò morire, orrendamente muto mentre riceveva il velenoso liquido puzzolente che sgorgò a fiotti
dapprima timidamente ma poi, simile ad una vischiosa cascata nera come
l’inferno, si rovesciò in mare quasi che il Leviatano vomitasse tutto se stesso
dall’interno delle sue viscere, in un silenzio irreale.
Molti volti stralunati ed attoniti assistevano alle immagini che un pietoso elicottero riprendeva dall’alto ed inviava alla base americana, essendo finalmente riuscito ad avvicinarsi impunemente alla scafo che si sta sfasciando
per il troppo peso con le paratie che si piegavano come fossero di cartone.
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La marchesa era un po’ delusa, sperava in uno spettacolo più … pirotecnico.
Ma non dovette attendere a lungo. Stava bevendo l’ultimo sorso di camomilla, rassegnata quasi a vedere la sua opera incompleta, quando lunghe
fiammate si aprirono varchi violenti e vorticosi tra le lamiere contorte.
In pochi istanti il fuoco divampò ovunque ed il vento caldo di scirocco
provvide a portarlo sulla terraferma, appiccandolo ad ogni pianta, ad ogni
cosa che trovò lungo la costa.
La villa del presidente fu rapidamente avvolta da un’immensa e famelica
sequenza di fiamme che, alimentate dal vento divorarono tutti i suoi cactus,
incenerirono ogni struttura, fosse di cemento o solo di materiale decorativo.
Saverio, lontano ormai alcune miglia e quasi deluso come lo era la marchesa, poté finalmente godersi la meritata ricompensa.
Le fiamme lambirono i depositi di benzina nella stiva ed in un solo istante
un immenso fungo fiammeggiante si levò altissimo in cielo ruggendo dopo
un immenso boato. Saverio per anni poi ricordò l’ondata di calore che gli
giunse sul volto anche se era distante alcune miglia.
Mentre la marchesa sobbalzava nel letto per la sorpresa, Saverio si lasciò
andare ad urla di gioia ma non poteva immaginare che cosa stesse per accadere.
Nelle cavernose profondità della petroliera erano nascoste alcune tonnellate
di un potente esplosivo al plastico che qualcuno aveva clandestinamente
imbarcato con destinazione la Sicilia per ben altri scopi.
E per una fatale e terribile coincidenza nel punto in cui si era incagliata la
petroliera la costa era ricca di grotte che solo gli isolani conoscevano e che
avevano utilizzato da anni per conservare tanto esplosivo da far saltare
mezza isola il giorno in cui finalmente il partito d’azione avesse deciso di
lanciare una guerra d’indipendenza forse con l’aiuto dell’ETA.
Il risultato fu immane, gigantesco, inimmaginabile. Le esplosioni si susseguirono terribili per ore ed ore. All’alba ancora c’erano grotte che esplodevano improvvise a causa dell’ondata di calore che le invadeva innescando
tutto l’esplosivo presente.
Saverio al largo si trovò come se fosse in pieno giorno mentre l’onda d’urto
sulla massa marina lo percuoteva come fosse un terremoto.
Mentre sulla terraferma le scosse telluriche si susseguirono giungendo
all’interno e risvegliando tutta la popolazione fino ai centri abitati più lontani, un’onda anomala si generò verso il largo tanto che Saverio si trovò improvvisamente innalzato come su una collina di quaranta, cinquanta metri
per poi sprofondare in un antro buio ai piedi di una liquida ed orrenda parete
d’acqua, resa trasparente dalla luce delle esplosioni che continuavano a ripetersi.
Gli scafi dei sommergibili nelle basi si squarciarono dopo essere stati letteralmente lanciati in aria di molti metri ed essere ricaduti su se stessi, mentre
chi poteva fuggiva in ogni direzione non sapendo come salvarsi.
Per fortuna le testate nucleari di dotazione non erano innescate e non persero
radioattività ma il reattore nucleare del sommergibile più vicino alla petroliera subì gravi danni ed una piccola dose di radioattività incominciò a disperdersi nell’acqua e nell’atmosfera.
La marchesa sorrise felice dell’esito della missione e si addormentò sognando l’isola finalmente libera da ogni ingerenza.
Poche settimane dopo Bush aveva tentato nuovi accordi con il primo ministro spagnolo per ottenere basi per sommergibili alle Baleari ma quanto ac39
caduto sulle coste italiane dette la forza agli spagnoli di dire no all’ingerenza
strafottente e tracotante degli U.S.A. in Europa.
Una misteriosa telefonata partì da una località non identificabile; la voce
dall’altro capo del telefono si dichiarava compiaciuta con Pia de Uto per la
felice conclusione.
Saverio, lasciata l’Italia, era sceso all’aeroporto Charles De Gaulle e si stava
dirigendo a bordo di un taxi verso il centro di Parigi.
§§§
PARIGI: IL PROF. ANTONIO NERI
Il prof. Antonio Neri stava sorseggiando il solito mistral seduto ad uno dei
tavolini di un bistrot di rue Pigalle e scorreva velocemente le pagine di cronaca di vari giornali italiani e francesi.
Vestiva un abito blu di ottima fattura, una camicia bianca immacolata, arricchita da una vistosa cravatta di Hermes. I mocassini erano morbidi e li calzava come guanti. Stonavano i calzini bianchi, una civetteria tutta napoletana che aveva sempre avuto fin da studente quando frequentava gli amici di
una sede anarchico-fascista di Napoli.
Rifugiato in Francia aveva ottenuto nel tempo due cose importanti: la Francia aveva vietato la sua estradizione in Italia per rispetto delle sue opinioni
politiche, come previsto dal trattato in essere tra i due paesi confinanti e la
camera dei deputati gli accreditava ogni mese un vistoso mensile in base ai
suoi diritti di ex deputato.
Stava preparando un importante carteggio sui rifugiati politici in Francia in
particolare su Mazzini e manteneva intensi contatti come giornalista scrivendo articoli che gli editori italiani pubblicavano ben volentieri per il richiamo che le sue vicissitudini politiche provocavano sia sui lettori coerenti
con le sue idee sia su coloro che lo odiavano a morte.
Erano le dieci del mattino e la giornata di primavera si presentava luminosa
e fresca. Antonio sollevò soddisfatto e pieno di pace interiore il lungo mento
per guardare il mondo che lo circondava, approfondì lo sguardo verso una
graziosa francesina che passava proprio in quel momento lungo il marciapiede sculettando nei suoi jeans aderentissimi ed ammiccò il suo solito sorriso ebete con la bocca che formava agli angoli delle labbra due piccole curve rivolte in su.
Il suo volto, ornato da spessi occhiali con lenti bifocali, con il prominente
naso, gli occhi ingranditi dietro le lenti e quella bocca disgustosa per il sorriso finto e sornione, assumeva di volta in volta espressioni diverse ma tutte
rivelavano il suo animo perfido e falso. Non c’era bisogno di un trattato del
Lombroso o del Ferri per capire che cosa passasse nella sua mente.
Certamente era felice per essere riuscito, attraverso azioni pseudo anarchiche ed attentati vari, a crearsi un nome ed una fama sufficienti a farsi inserire nelle liste prima del partito radicale e poi si altre liste di destra.
Diventato deputato, dopo che inutilmente la giustizia italiana aveva chiesto
che la camera si pronunciasse sul luogo a procedere nei suoi confronti,
quando il suo mandato stava per scadere, pensò opportuno rifugiare in Francia. Anarchici e fuggiaschi di altri paesi e di altre ideologie lo accolsero nelle loro comunità e lo aiutarono i primi tempi finché la non indifferente
somma che mensilmente gli veniva versata dallo stato italiano non lo mise
nelle condizioni di fare la vita serena di chi non ha preoccupazioni economi40
che e può dedicarsi, così affrancato da incombenze di sopravvivenza, agli
studi e a diffondere le sue idee attraverso articoli e scritti vari.
Quello che urtava di più Pia De Uto era il fatto che per legge egli potesse
usufruire di un trattamento pensionistico di primordine senza aver mai fatto
nulla per meritarlo. Anzi, secondo Pia, stava maturando nel tempo una punizione che purtroppo nessuno provvedeva ad applicargli ma che cresceva di
intensità e di pesantezza ogni giorno di più.
Odiava con tutte le sue forze il fatto che un tale individuo, colpevole (almeno al novanta per cento) di efferati delitti politici commessi in Italia con espropri proletari, attentati e sparatorie, potesse impunemente circolare per il
mondo.
Sul suo capo pendeva ancora l’infamia di una grave accusa: il rapimento e
l’uccisione di un importante leader politico italiano.
Si era sempre dichiarato innocente ma tutti gli indizi portavano a lui e ad altri che in modi diversi avevano pagato la loro efferatezza solo in parte.
Erano passati molti anni da quel periodo storico tristissimo ma Pia De Uto
non dimenticava e teneva una vera contabilità di chi doveva pagare a causa
dei delitti commessi. Si sentiva una specie di angelo giustiziere e Saverio
era stato per lei un vero sollievo al suo desiderio di vendetta.
Il professore era colpevole, Pia ne era certa per aver ricevuto confidenze da
altre fonti ma le leggi consentivano questo ed altro ed il garantismo era diventato purtroppo permissivismo; i giudici erano sempre più politicizzati per
non parlare di quelli corrotti al punto di permettere che il prof. Neri circolasse ormai libero anche in Italia. La morte di un importante capo politico del
passato non interessava ormai nessuno, mentre la Digos aveva ricevuto precise istruzioni, non si sa da chi, di non “molestare” quell’individuo, in quanto persona preziosa perché informata su fatti molto importanti e che avrebbe
potuto svelare altri segreti.
Saverio aveva attentamente letto i suoi articoli ed in particolare un suo libro,
“L’indifferenza nazionale” per capire i motivi del nuovo incarico.
Aveva avuto occasione in passato di seguire le sue vicende ma non era mai
arrivato così vicino alla mente ed al corpo di quell’uomo che ormai considerava abominevole.
A pochi metri da lui, stava bevendo una birra gelata e lo osservava sforzandosi di penetrare nel personaggio il più possibile: ripudiava l’idea di uccidere una persona se prima non capiva che cosa lo avesse spinto a commettere
efferati delitti.
Mentre cercava di darsi una spiegazione sul suo sguardo che aveva un ghigno fisso, quasi mefistofelico, come fosse un difetto fisico, si avvicinò al
suo tavolino un uomo giovane, circa venticinque anni, di carnagione scura,
quasi certamente un arabo come tanti a Parigi.
Credette fosse qualcuno che chiedeva la carità ed invece lo vide sedersi su
invito del professore.
Sapeva leggere sulle labbra e capì: il giovane arabo gli fornì in francese un
indirizzo, poi si mise a parlare di turismo in Marocco descrivendogli note
località balneari. Pochi secondi dopo l’arabo si alzò e se ne andò senza
nemmeno salutare. Saverio rimase a pensare ed intanto fissò quel volto che
per il ghigno fisso che aveva era ributtante. Passarono pochi minuti ed il
professore a sua volta si alzò, raccolse i giornali sotto braccio e si incamminò dalla parte opposta.
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Saverio sapeva abilmente pedinare a distanza e così fece col professore. Aveva preso nota del numero del taxi e della targa che il professore aveva
preso al volo. Il taxi si era avviato in direzione della periferia. Per fortuna
Saverio aveva lasciato la moto in un vicolo vicino al bistrot; tornò di corsa
sui suoi passi, raggiunse la moto ed iniziò l’inseguimento. Non tardò ad identificare il taxi nel traffico in quel momento molto intenso e proseguì metodicamente a seguirlo a distanza.
Col cellulare chiamò un numero e dall’altra parte seppe che l’indirizzo corrispondeva ad una base segreta degli integralisti arabi. La polizia francese
non era ancora al corrente dell’esistenza del covo che si era insediato a
quell’indirizzo da pochi giorni ma Pia aveva orecchie più efficaci di Elocon.
Saverio si sentì dire solamente: “Prendi due piccioni con una fava; agisci
con la solita prudenza ma efficacemente ed in modo definitivo”.
Il taxi aveva percorso alcuni chilometri verso la periferia di Parigi quando si
fermò quasi improvvisamente all’inizio di un vasto piazzale deserto. Parte
dei giardini che lo circondavano erano dotati di attrezzature per i bambini:
altalene, toboga, giostrine in mezzo alle quali poche mamme si avvicendavano ad accudire i loro figli che ruzzavano da un gioco all’altro.
L’attrazione più forte era una costruzione in legno che voleva assomigliare
ad un castello con tanto di ponte levatoio e di passaggi resi difficili da corde
e scalette di ogni tipo.
Il professore, sceso dal taxi si girò su se stesso ruotando lentamente per avere una visione panoramica di eventuali inseguitori e, soddisfatto del controllo, si avviò proprio verso il castello. Lo costeggiò e proseguì scomparendo
tra due alti caseggiati di un rione che assomigliava molto ad un quartiere
dormitorio per famiglie di basso ceto.
Saverio si fermò accanto ad una fontanella ed attese con pazienza il suo turno dietro una fila di bimbi assetati. Questo gli permise di mescolarsi tra le
mamme e di sparire come immagine singola in quella specie di deserto.
Bevve a volontà e lentamente tornò alla moto. Raccolse lo zainetto e si avviò a piedi nella stessa direzione del professore.
Neri era entrato nell’androne contrassegnato come scala B, lo stesso che gli
era stato comunicato con il cellulare, ed era sparito alla vista. Saverio aveva
ancora nella mente il movimento delle labbra dell’arabo e non aveva dubbi:
Neri doveva essere certamente sceso nello scantinato del palazzo.
Entrò guardingo ed osservò attentamente che cosa lo attendeva. Tutto apparve più semplice: davanti a sé iniziava la scala condominiale che portava
ai piani superiori; c’era anche un fatiscente ascensore fuori uso, ricoperto di
scritte spray. Aveva i battenti spalancati quasi fosse una fogna perché ne usciva un lezzo terribile di urina ed altri liquami.
A destra invece osservò una porta dipinta di tutti i colori possibili, con scritte incomprensibili in arabo che era solo accostata.
Dalla fessura aperta arrivavano odori nauseanti di cibi fritti e forse anche
bruciati, mescolati a incensi ed altre fragranze chiaramente di origine araba;
era come se a Saverio gli avessero indicato apposta la via da seguire.
Era tutto troppo facile e Saverio si irrigidì, immobile dietro il battente, cercando di capire che cosa lo avesse messo in allarme.
Dalla sottile fessura, oltre agli odori, arrivavano voci concitate, alcune sicuramente di gente araba, altre che parlavano in un francese più chiaro.
Saverio intuì il pericolo nello stesso momento in cui la porta si spalancò ed
apparve un ragazzo dagli occhi scurissimi che imbracciava un mitra. Saverio
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non attese di vederselo puntare contro: dalla tasca destra, senza nemmeno
toglierla di tasca, fece abbaiare la sua piccola Beretta.
Prima di gettarsi a terra, fece in tempo a vedere gli occhi del bel ragazzo arabo spalancarsi per la meraviglia ed il dolore improvviso mentre si accasciava scaricando l’arma con una ruggente raffica che lanciò proiettili da
tutte le parti.
Il ragazzo rantolava mentre tutto il corpo si era messo a tremare violentemente come se fosse stato colpito da una potente scarica elettrica. Dalla gola
squarciata da uno dei proiettili di Saverio sgorgava uno zampillo di sangue
che sembrava non finire mai.
Urla concitate ed un tragico rumore di passi provenivano dall’interno dello
scantinato. Saverio lanciò il lacrimogeno giù per i gradini ed uscì nel cortile,
guardandosi in giro per capire se da qualche finestra altri arabi potessero intervenire per sparargli.
Aveva preso il mitra dalle mani del ragazzo e stava in guardia. Non fece alcuna fatica a stendere ogni uomo che appariva tossendo nel fumo con un
colpo singolo nelle gambe.
Davanti a lui erano distesi a terra quattro uomini che urlavano per il dolore:
li aveva volutamente colpiti alle gambe per non ucciderli. Non poteva sapere
se erano meritevoli di una morte ed aspettava che uscisse il professore.
Trascorsero alcuni secondi che sembrarono un’eternità e Saverio incominciò
a dubitare che Neri avesse potuto trovare un’altra via d’uscita. Stava pensando se girare intorno al palazzo quando sentì giungere i passi incerti di
un’altra persona che lentamente si affacciò, il volto coperto da un fazzoletto
bagnato per non soffocare. Al suo ghigno mefistofelico e nauseante si era
sostituita la paura fatta persona. Non aveva più gli occhiali, forse persi nel
tentativo di fuggire ed ora Saverio aveva di fronte a sé un uomo invecchiato
di mille anni, che si guardava in giro, incapace di avanzare, immobile mentre cercava di capire che cosa fosse accaduto ed il perché di quei corpi a terra martoriati che si dibattevano nel dolore delle ferite subite.
Cercò di evitare di appoggiare la suola delle scarpe nel sangue del ragazzo
che ormai era morto e si voltò verso la fonte della strage.
E capì. Leggendo lo sguardo di Saverio, capì che l’uomo che aveva davanti
era venuto per lui.
Per pochi istanti si ritrovò dall’altra parte dell’immagine di quando aveva
ucciso a sangue freddo l’uomo politico che aveva rapito a Roma un giorno
lontano nel tempo. Ma il ricordo era ancora vivissimo e per anni lo aveva
tormentato vedere l’aria rassegnata con cui la sua vittima aveva accettato
con gli occhi, quasi implorato la morte. Aveva premuto il grilletto tre volte e
poi era rimasto immobile a vedere come la morte giungesse golosa della
nuova conquista.
Ora era dall’altra parte. Tentò: “Perché?”
“Tu lo sai molto bene il perché” si sentì rispondere da Saverio con una voce
sembrava quasi un tuono rauco e lontano.
“Ma cosa puoi sapere tu … allora nemmeno eri nato”. Aveva ancora la forza
di schernire ed il suo ghigno tornò sul suo volto che sembrò riprendere vigore.
Saverio non gli rispose; gli esplose una raffica sopra la testa che sbriciolò il
muro alle sue spalle.
Neri d’istinto si buttò a terra e da lì trovò ancora la forza di parlare:
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“Parliamone … ti prego, parliamone. Posso spiegarti, farti … capire. Erano
momenti politici …”
Ma invece di continuare a parlare, estrasse rapidamente da sotto l’ascella
che, stando a terra, rimaneva nascosta alla vista di Saverio, una pistola col
colpo già in canna.
Fulmineo ruotò su se stesso e contemporaneamente scaricò vari colpi in direzione del nemico.
Ma Saverio era all’erta con tutti i sensi pronti: si strinse contro il muro tirando a sé la porta che, anche se fragile, tolse dalla visuale di Neri
l’obiettivo. Svuotò tutto quello che rimaneva nel caricatore mirando
dall’alto in basso.
Seguì un silenzio di morte. Saverio lasciò che la porta si riaprisse lentamente da sola ed attese una eventuale reazione che non venne.
Quando la visuale gli fu completa, aveva davanti a sé Neri, disteso in una
pozza di sangue. Estrasse la sua pistola e gliela puntò prima di muoversi.
Neri stava morendo e con gli occhi ancora sembrava chiedesse qualcosa.
“Vuoi sapere il perché?” Gli chiese Saverio con tono beffardo.
Neri non poteva parlare; il sangue gli usciva copioso dalla bocca, avendo i
polmoni completamente spaccati dalla raffica, ma sembrò fare un cenno affermativo.
“Chiedilo al tuo amico Belzebù” Urlò quasi isterico Saverio mentre fece
partire il colpo di grazia che sparse su tutto il pavimento materia cerebrale
del fu professor Neri.
In lontananza si udivano gli urli delle sirene della polizia in arrivo, mentre
Saverio si era già allontanato con la sua moto a velocità moderata verso il
centro della città. Aveva bisogno di affetto ed aveva fame: avrebbe trovato
quello che cercava in casa di una dolce ragazza di Parigi che aveva conosciuto il giorno prima davanti a Notre Dame e che lo aspettava in un piccolo, accogliente monolocale con vista panoramica sulla Senna.
Pia al telegiornale di mezzanotte ascoltò felice il premier francese mentre
annunciava che poche ore prima una cellula di integralisti islamici era stata
annientata dalle forze del controspionaggio francese; ma non aveva fatto alcun accenno al professor Neri. La marchesa alzò la cornetta e compose un
numero; in perfetto francese comunicò all’esterrefatto ascoltatore dall’altra
parte del filo come fossero veramente andate le cose, senza fare nomi e concluse assicurando un perpetuo silenzio sulla verità vera ma a condizione che
… e chiuse la comunicazione.
UNA PARENTESI SERENA: DENISE A PARIGI
Denise, una deliziosa ragazza dormiva distesa nuda: il suo corpo sinuoso ed
abbronzato stava recuperando nel sonno le forze perdute dando tanto amore
a Saverio che ora sembrava proteggerla dai sogni brutti circondando con il
braccio la sua soffice e profumata chioma di capelli biondi che nascondevano il volto da bambina.
Erano precipitati in un sonno profondo quasi senza accorgersene, dopo tanto
godimento ansimante e violento, quasi fosse l’ultima volta della loro vita.
I due corpi nudi rivelavano la loro vita con un leggero respiro ed erano uno
spettacolo della natura, mentre la notte si stava distendendo amorosa e piena
d’affetto sul tetto a vetri della loro soffitta sprofondata nel cielo.
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Fuori la città di Parigi si stava animando sempre più, preparandosi ad
un’altra notte di innocenti divertimenti, di party a base di droga, di sale da
gioco fumose e piene di speranze di vistose vincite, di prostitute e di viados
che cercavano nel vendere il sesso il modo di sopravvivere.
Nei quartieri di periferia dalle finestre degli appartamenti aperte per il troppo caldo i decibel si mescolavano nell’aria propagandosi nelle strade tra il
vociare assordante di adulti e gli strilli di bambini, mentre i televisori dalle
finestre si scambiavano le loro voci ed i lampi di luce ad ogni cambiamento
di immagini.
Saverio sognava: era ad Assisi e stava godendo nel sogno il profumo ed il
corpo di Paola, una memoria fisica che gli riempiva il cuore e lo gettava
come in un incubo, perché si ritrovava all’improvviso tra i frati del coro.
Cercava di spiegarsi ma il padre superiore gli faceva un cenno chiaro di andarsene; Saverio non riusciva a trovare la porticina per uscire dalla parte finale della navata. Lottava con tutte le forze per fuggire ma non riusciva a
districarsi con la tonaca in mezzo ai “confratelli” che lo osservavano muti: i
loro volti immobili sembravano antichi dipinti scolpiti nel buio come nei
quadri di El Greco mentre il cellulare gli suonava nella tasca interna della
tonaca, un suono sempre più imperioso che rimbombava sotto le volte del
tempio ed ora sembrava volesse …
“Pronto”, la voce impastata era ancora a mezzo tra sonno e veglia.
“Grazie” nelle sue orecchie rimbombò la voce di una donna. “Devi ripartire
in fretta; è urgente un tuo intervento su un’isola del Tirreno”.
Nel tentativo di svegliarsi chiese:
“Quale?”
“Ti ricordi le tue vacanze da ragazzo con i tuoi … un settembre?”.
Ed il ricordo ritornò vivo come in un sogno realistico: vacanze di merda in
settembre in un’isola di pescatori sazi dei guadagni di un’estate ricca. Gli
tornarono alla mente i piatti della pensione Ortensia, ributtanti di enormi calamari in un sugo rosso grondante di grasso, nuotate in un mare sporco perché i fondali erano disseminati di piatti, bicchieri e mille altre porcherie di
plastica gettate fuori bordo dai merdosi ricchi che si fermavano nelle calette
(incontaminate prima del loro arrivo), mangiavano come maiali e poi gettavano tutti i rifiuti fuori bordo senza alcun riguardo.
Poi erano capaci di protestare nelle interviste in Tv contro coloro che non
rispettavano la natura meravigliosa di due isole che erano una perla tra gli
arcipelaghi del Tirreno.
§§§
IL PUGILE PHISON
Ritornò alla realtà profumata che gli si stava strofinando con le cosce tra le
sue gambe, pur essendo ancora addormentata ed il desiderio esplose imperioso. Si amarono ancora per ore poi il sonno ristoratore li conquistò un’altra
volta ….
L’aria fresca del mattino gli sferzava il volto mentre ripensava a Parigi e a
Denise; il piccolo traghetto aveva ormai abbandonato la costa di Anzio e
l’isola di Ponza si profilava nitida davanti a lui, ma Saverio era immerso nel
ricordo dolcissimo delle dolci carezze di Denise.
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Nella sua mente si alternavano i ricordi di Parigi e quelli della sua adolescenza mentre il dovere continuava a ricordargli che doveva prepararsi per il
nuovo compito.
E questa volta sarebbe stata molto dura: un pugile, ex galeotto con precedenti penali pesanti come i suoi pugni e le sue prepotenze, che stava scorazzando per il Mediterraneo commettendo crimini in ogni porto in cui approdava con il suo yacht privato.
Gli era stato richiesto di eliminarlo non solo per quello che aveva commesso
fino al giorno prima ma soprattutto perché una delle ragazze che aveva dovuto subire in silenzio le sue devastanti pretese amorose non aveva potuto
incastrarlo e farlo punire dalla legge: era ridotta in un lettino d’ospedale nel
Wisconsin a vivere in coma.
Suo padre, d’origine italiana, si era ricordato di Pia, una sua cara amica con
la quale si sentiva spesso per telefono. Vedere la figlia in quelle condizioni
lo aveva sconvolto al punto che avrebbe voluto vendicarsi personalmente
ma la barriera fisica che proteggeva il prepotente non gli avrebbe permesso
di realizzare la vendetta che sperava. E con Pia si era confidato piangendo.
Pia aveva ascoltato con rispetto e commozione il pianto dell’amico di oltreoceano ed alla fine gli disse:
“Non preoccuparti, ci penso io”.
§§§
I giornali avevano riportato con enfasi i vari episodi di prepotenza animalesca compiuti da Ed Pyson nei vari posti in cui era sceso, da un tentativo di
stupro in Sardegna a spericolate manovre con gli scooter d’acqua tra i bagnanti, ai conti non pagati nei vari alberghi in cui si era fermato con il suo
numeroso seguito.
Ed era questa moltitudine di gorilla che preoccupava Saverio. L’aria profumata, carica di iodio gli stava snebbiando il cervello ed il piacere delle onde
sollevate dal traghetto che riuscivano perfino a schizzargli in viso la schiuma salata lo aiutavano a concentrarsi su un piano che stava prendendo corpo
nel suo cervello.
§§§
Erano passati tre giorni di pedinamenti e di controlli delle abitudini di
Pyson. Saverio conosceva ormai ogni particolare degli orari della sua .. vittima, ammesso che …
La notte del quarto giorno, dopo alcuni ordini telefonici finalmente giunse,
quasi inosservato, un grosso cabinato di lusso da Terracina. Aveva attraccato nella baia di Santa Domizia, ignorando a bella posta il più ospitale porticciolo.
Saverio, salito a bordo all’alba, ne aveva preso possesso, rimandando a terra
con il traghetto di linea e con una lauta mancia i due marinai che erano arrivati con il natante.
Finalmente solo, aveva ispezionato attentamente gli interni e solamente dopo un lungo giro in tutto lo scafo rimase soddisfatto: la trappola stava per
scattare.
Non ci volle molto per attirare l’attenzione di Pyson e dei suoi gorilla. Sapeva che questi ultimi avevano l’abitudine di spolpare gli avanzi del pugile
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dopo che questi si era soddisfatto delle donne che si portava sotto coperta.
Le due filippine dalla pelle color oliva arrivarono col traghetto la mattina
dopo a mezzogiorno e si mossero vistosamente nel porto secondo le istruzioni che avevano ricevuto. I gorilla di Pyson non tardarono a notarle e ne
parlarono col pugile. Si diffuse la notizia che erano salite a bordo di un misterioso cabinato, apparso non si sa da dove e che era ancorato in porto da
più giorni.
Pyson era ormai annoiato e l’idea di potersi divertire con della carne esotica
e fresca gli stava rodendo il cervello. Decise di osservare di persona e Saverio non fece altro che lasciare che le cose prendessero il verso naturale.
Pilotò abilmente il cabinato tra le altre barche all’ancora, con le due filippine distese al sole sulla parte anteriore: due appetitose lucertole in tanga che
sembravano crogiolarsi beatamente con ampi sorrisi verso gli equipaggi delle barche che incrociavano.
Saverio, giunto all’altezza della barca di Pyson, finse perfino di sbagliare
manovra e di correggere la rotta all’ultimo momento.
Rallentò fin quasi a fermarsi e, quando fu a fianco della barca di Pyson, aiutandosi con un piccolo megafono, si scusò in un disinvolto americano accompagnando la sceneggiata con ampi sorrisi.
Quando Pyson comparve sulla tolda, fece alzare le ragazze che con ampi gesti lanciarono baci … innocenti verso il pugile per tornare a stendersi poco
dopo a fare le lucertole. Pyson ebbe un momento di stordimento; rispose al
saluto di Saverio con una volgare risata che la diceva lunga mentre ammiccava all’indirizzo delle due femmine. Saverio stette al gioco e rispose solo
con un indifferente saluto di imitazione militare accompagnato da un accenno di inchino.
A Ponza molti locali aprono solo alla sera ed alcuni di questi sono frequentati solo dai proprietari degli yacht ormeggiati in porto.
Saverio era ad uno dei tavoli migliori in mezzo alle due filippine; erano elegantissime in abiti di seta che sembravano più spogliarle che vestirle, rese
anche più attraenti per i vivaci colori nei quali sembravano come nuotare; le
loro risate discrete e quasi sottovoce si diffondevano per tuta la sala mentre
Saverio fingeva quasi di non dare la giusta attenzione ai due esemplari
femminili.
Pyson entrò dopo pochi minuti, seguito da tre dei suoi gorilla, ossequiato dal
proprietario del locale cui non dette retta. Si fermò davanti al tavolo di Saverio e rimase per qualche istante in ammirazione delle due donne. Poi proseguì e si sedette al tavolo che gli era stato riservato.
Passarono pochi minuti ed uno dei due gorilla tornò al tavolo di Saverio:
“Il signor Pyson avrebbe piacere di ospitare lei e … le due signore al suo tavolo”. Il tono era ostentatamente gentile tanto da sembrare un ordine. Ma
Saverio, con un livello di voce tale da farsi sentire distintamente da Pyson,
rispose in un americano volutamente stentato:
“Dica al signor Pyson che sarebbe per me un vero onore avere al mio tavolo
il grande (e calcò la voce su questo aggettivo) Pyson” E, rivolto alle due belle filippine, ma osservando con la coda dell’occhio la reazione di Pyson a
pochi metri da lui, chiese con un’aria quasi da persona timida e poco pratica
di certe abitudini di vita di società, esclamò:
“Farebbe piacere anche a voi ospitare un grande pugile, il più grande pugile
di tutti i tempi, un vero maschio , un uomo … eh?” e si fermò a mezz’aria
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con un sorriso che sembrava quel di Peter O’ Toole in Lawrence d’Arabia
quando doveva discutere con i suoi superiori.
Meno di venti minuti dopo Pyson rideva a squarciagola e sguaiatamente tra
le due filippine; una delle due, per farlo accomodare sul divano circolare che
ornava il grande tavolo, mentre cercava impacciata di scavalcarlo per farlo
accomodare in mezzo, gli si era quasi gettata in braccio strofinandolo per
qualche istante col seno e sedendosi sulle sue ginocchia; ebbe la parvenza di
rimanere sconvolta dalla forza erculea che emanava dal corpo possente del
pugile e si scostò, evitando le grosse mani che già cercavano di stringerla, e
fingendo paura e spavento.
Saverio vide che Pyson si eccitava ancora di più e proseguì nel suo gioco
con accorta prudenza, lasciando che tutto prendesse uno svolgimento naturale.
A tarda notte Pyson , sprofondato tra i cuscini della sala da pranzo dello
yacht di Saverio, russava come un rinoceronte, il corpo abbandonato a se
stesso, guardato a vista dai suoi due gorilla. Erano brilli anch’essi ma avevano ancora la testa lucida, ligi al dovere.
Saverio se li fece amici donando loro due bottiglie di whiskey di ottima
marca ed aiutandoli a sollevare faticosamente il loro capo e padrone e a
portarlo nuovamente a terra e finalmente sul suo yacht personale dove
Pyson sprofondò in un sonno profondo e animalesco.
§§§
La piazza del palio rumoreggiava frastornando le orecchie e ubriacando le
menti di tutti i presenti, sia quelli che, sotto, nel centro della piazza erano in
attesa fremente del momento della partenza (che non giungeva mai) sia di
quelli che dall’alto commentavano e potevano ammirare tutto: la folla brulicante di sotto, i cavalli nervosi ed innervositi dai cavalieri, la splendida vista
che offriva il Palio, i palazzi che chiudevano e componevano la bellezza armoniosa di una delle più belle piazze del mondo.
Era il 16 agosto: Pyson era affacciato ad una delle finestre più alte della
piazza; accanto Saverio gli spiegava le regole, la tradizione, le mille astuzie
dei cavalieri ed era riuscito a comunicare al pugile di colore l’eccitazione
per uno spettacolo inusuale ed inconsueto.
La novità eccitava la mente di Pyson alimentando la sua immaginazione
perversa e portata in modo naturale ad amare la violenza e la prepotenza fisica; erano momenti in cui non pensava altro, nemmeno le belle filippine
che non era riuscito a gustarsi di alcune sere prima a causa della sbronza che
Saverio era sapientemente riuscito a fargli prendere.
Quando poteva assistere a spettacoli violenti come quello che si stava preannunciando sotto di lui o come le corride, dimenticava la gran voglia di
sfogare i suoi istinti sessuali e l’estrema necessità di scaricare l’energia incontrollabile che aveva di dentro.
E la visione di quella piazza piena di tanta folla lo attirava e affascinava.
Non tanto per le persone in sé quanto per la grande forza, quasi magnetica
che la piazza sprigionava nell’attenzione unanime verso uno dei più crudeli
(e stupidi) spettacoli del mondo, quasi una corrida, dove spesso i cavalli
scossi dovevano essere a loro volta abbattuti per le ferite inguaribili o per le
fratture che subivano nel cadere rovinosamente contro gli steccati. Anche
perché il loro dolore non poteva essere attenuato perché la sera prima i loro
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impianti nervosi erano già stati spesso gravemente inzuppati di sostanze terribili ed innominabili, violando ogni etica umana e qualsiasi rispetto per le
povere bestie. Era terribile lo sguardo degli occhi sbarrati di un cavallo
quando si rendeva conto che per lui era finita e che stava per essere ucciso
dall’uomo.
Non c’era alcuna pietà, solo interessi infami di contrada che covavano per
un anno per sfociare in pochi giorni in un forsennato carosello di pazzie e di
violenze che trasformavano una manifestazione potenzialmente splendida in
una schifezza immeritevole di ogni commento e di qualsiasi gesto di pietà.
Eppure la televisione italiana stava mandando in onda in diretta l’evento
quasi fosse l’elezione di un papa.
Da oltre un’ora i tentativi di allineare i cavalli in modo abbastanza soddisfacente per permettere la partenza era reso vano dai continui spostamenti che
due cavalieri delle contrade dell’oca e della tartaruga, mettevano in atto un
po’ perché volevano dare spettacolo ma sopratutto per innervosire gli avversari, i cavalli più dei cavalieri.
Saverio stava traducendo a Pyson tutte queste informazioni e le sue spiegazioni erano preziose per il pugile straniero per apprezzare meglio lo spirito
della gara che stava per partire. Erano affacciati loro due soli alla finestra un
po’ angusta all’ultimo piano di un appartamento che Saverio aveva potuto
procurarsi solo dopo una telefonata provvidenziale di poche ore prima. Aveva fatto credere a Pyson che era riuscito ad avere quel balcone sborsando
cinquemila euro; Pyson aveva partecipato volentieri alla spesa ma non sapeva che in realtà Saverio era riuscito ad entrare clandestinamente in un vecchio appartamento disabitato e chiuso da anni: il proprietario era morto e gli
eredi non riuscivano a mettersi d’accordo sulla sua spartizione. Uno di questi, un giovane avvocato era un caro amico di Pia De Uto.
La folla nella piazza sembrava un’onda unica nel suo muoversi quasi
all’unisono tra urla e canti, mentre le facciate dei palazzi antistanti, addobbati con i colori sgargianti delle differenti contrade rilanciavano il fracasso
assordante delle grida dei forsennati; sotto sembravano sproporzionatamente
piccoli rispetto ai decibel che giungevano fino alla finestra dei nostri due.
E finalmente il mossiere diede un via valido. I cavalieri si lanciarono tutti
insieme verso la curva a budello per conquistare la testa della corsa.
Già alla prima curva un cavallo rimase senza cavaliere ma proseguì in terza
posizione, inseguendo gli altri cavalli. La corsa stava per giungere proprio
sotto le loro finestre e Saverio era pronto; aveva previsto che Pyson si sarebbe sporto in avanti per vedere meglio sotto di sé.
In tal modo avrebbe portato in avanti il peso del proprio corpo, facilitando
l’intervento di Saverio. La vecchia balaustra era un po’ malandata e avrebbe
resistito a stento al peso possente del pugile.
Fu un attimo e bastò a Saverio una leva di aikido per sollevare a sorpresa il
corpo di Pyson, facendolo sbilanciare nel vuoto: rimase per un istante a
mezz’aria, stupito, il volto girato verso Saverio, negli occhi una domanda
che non uscì dalla sua bocca, le mani che afferrarono l’aria mentre Saverio
diede un forte spintone al suo corpo verso l’esterno e subito dopo un forte
calcio alla parte alta della balaustra che si staccò senza alcuna fatica dai
fermi nel muro, seguendo il corpo del pugile che precipitò nel vuoto con un
urlo spaventoso.
Saverio fu lesto a ritirarsi sia per non essere afferrato da Pyson, sia per non
farsi vedere dalla folla sottostante.
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Durante tutto il tempo dell’attesa si era accortamente tenuto indietro, seminascosto dal vecchio battente cieco, per evitare di essere notato da qualcuno
o, peggio, ripreso occasionalmente dalle telecamere che si erano sbizzarrite
per ore a scorrere sulle figure degli spettatori ora della piazza, ora dei balconi, non sapendo che cosa dare alla regia di più interessante, dopo aver esaurientemente e a lungo descritto con le immagini i “magnanimi lombi” dei
cavalli che si muovevano nervosi avanti e indietro.
Il corpo di Pyson piombò sul terreno in un punto in cui la pista era coperta
abbondantemente di sabbia; parve quasi scomparire sotto il livello della pavimentazione per il tonfo sordo con cui si schiantò e per la grande nuvola di
sabbia che sollevò prima di rivelare agli occhi stupiti dei più vicini la macabra immagine di un corpo enorme e orribilmente deformato, con le gambe e
le braccia in una posizione assurda.
Parve per un momento che Pyson, forse ancora vivo, tentasse di alzare il capo ma proprio in quel momento giunsero i cavalli nel loro secondo giro,
massacrandogli il corpo ma anche inciampando e rotolando.
Quasi tutti cavalli rimasero scossi disperdendosi lungo la pista, mentre i cavalieri che si stavano rialzando, presi dal panico, erano rimasti impietriti alla
vista inattesa.
Le immagini crudeli andarono cinicamente e inesorabilmente in onda in tutto il mondo dalle telecamere perché in regia non si aspettavano una cosa simile e non erano stati abbastanza pronti a cambiare inquadratura.
Quando il regista diede l’ordine di mandare la pubblicità era ormai troppo
tardi: quelli che stavano davanti ai televisori avevano visto tutto.
Anche due avvenenti ragazze, ospiti di Pia, che rabbrividivano ancora ricordando la violenza animalesca di quel corpo, molti mesi prima, quando non
erano riuscite a difendersi a sufficienza.
Scoppiarono in un pianto liberatore mentre Pia cercava di consolarle dicendo:
“Perdonatelo perché la miglior vendetta è il perdono”.
Ma nella sua mente le parole si formularono al contrario: “Il miglior perdono è la vendetta”.
Saverio era già uscito da un vicolo laterale della piazza quando i carabinieri
si erano precipitati alcuni verso il corpo maciullato dell’uomo di cui ancora
non sapevano nulla ed altri avevano preso la via delle scale per capire da
dove fosse caduto.
Mentre percorreva la statale che lo avrebbe portato al bivio di Val di Chiana
Saverio poté ascoltare alla radio il resoconto dell’accaduto come i media lo
avevano potuto raccontare; nessun accenno ad altre persone presenti accanto
al pugile al momento della disgrazia; la caduta della balaustra ed il peso del
pugile erano per il momento motivi sufficienti per spiegare quello che era
successo.
§§§
50
UN RITORNO DA PAOLA
La vicinanza di Assisi era una grande tentazione e Saverio compose un numero su un cellulare dalla SIM incontrollabile. Rispose Paola e subito si mise a tremare avendo riconosciuto la voce. Appoggiata la cornetta si guardò
intorno non sapendo da dove incominciare; ma mezz’ora dopo il suo piccolo
appartamento aveva assunto nuovamente l’aspetto accogliente dei bei tempi
e nell’aria si sentiva un profumo delicato di rose.
Paola lasciò la radio accesa su un canale di musica melodica e si precipitò a
fare spesa da Geo: avrebbe organizzato una cena di piatti piccanti e gustosi
per l’uomo che fra poco l’avrebbe ancora una volta resa felice.
Saverio gettò dal finestrino della Volvo la SIM che aveva appena usato. la
sostituì con una di riserva ed attese. La voce di donna non tardò a chiamarlo
e a complimentarsi. Le uniche parole furono:
“Finalmente abbiamo vendicato tutte le donne che sono state offese da questo brutto maiale, indegno di rimanere al mondo. Grazie. Ti richiamerò”.
Mentre passava oltre l’incrocio di Bettolle all’entrata dell’autostrada per
Roma e si avviava a coprire gli ultimi ottanta chilometri, Saverio riprese a
pensare al suo passato, a quando aveva deciso di seguire il consiglio del Padre superiore. Non si pentiva del cambiamento che aveva impresso alla sua
vita ma non rinnegava nemmeno la bellezza della vita monastica: certamente era e sarebbe stata più serena per la sua mente ma il mondo lo attirava
troppo con tutte le sue bellezze e le sue brutture.
§§§
PIATRINI (PAOLINI) MISSIONE A ROMA
Erano trascorsi pochissimi giorni ed aveva potuto nuovamente assaporare
per tante ore la dolcezza dell’amore di Paola.
Rivedeva ogni momento passato con lei, aspirando il suo profumo quasi
fosse stata la sua anima, mentre la sua voce gli ripeteva nella mente parole
dolcissime.
Ad Orte era entrato in autostrada, mentre affrontava la rotonda d’entrata aveva salutato la bianca statua della Madonnina a cui era affezionato da
quando era bambino e si era avviato verso un’altra avventura.
Aveva ricevuto istruzioni lapidarie sulla persona ma nessun suggerimento.
Avrebbe dovuto inventarsi un programma preciso perché avrebbe dovuto affrontare un individuo poco pericoloso ma molto furbo.
§§§
Piatrini si era svegliato da poco; l’ultima sua bravata gli era quasi costato il
carcere perché il cronista, terminato il servizio, appena fuori onda, aveva afferrato un treppiede ed era riuscito a raggiungerlo tentando di spaccarglielo
in testa. Il colpo lo aveva stordito e fatto quasi svenire; per giunta era intervenuta la polizia e Piatrini si era ritrovato con la testa fasciata al pronto soccorso e l’accusa di disturbo di un servizio pubblico con aggravanti multiple
tra cui i futili motivi.
Rilasciato a piede libero era tornato a casa a leccarsi le ferite ma già stava
pensando ad una vendetta da attuare il più presto possibile, per dare una risposta adeguata a chi si era permesso di impedirgli di apparire alle spalle del
cronista televisivo di turno.
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Non importava di quale canale si trattasse, l’importante era per Piatrini apparire sugli schermi mentre esibiva cartelli diffamatori, tipo “il Papa è una
checca” o “Fazio è cornuto” o “Berlusconi ha rubato tutta la sua vita” ed altre frasi simili. Oppure, come aveva fatto tante volte all’inizio della sua
“carriera” di apparizioni abusive in TV, voleva far dondolare davanti alla telecamera una miriade di preservativi con scritte offensive. Il Guiness dei
primati era ormai suo e veniva citato come esempio di abilità furtiva ma era
per lui ormai una droga come la malattia dei cleptomani: raggiungeva
l’esaltazione mistica, quasi un orgasmo fisico e mentale quando riusciva a
sorprendere tutta l’equipe e violare la legge sfondando lo schermo con le sue
apparizioni.
Stava sorbendo lentamente un caffé e sfogliando i giornali per scoprire se
parlassero di lui e se c’era in programma qualche occasione per fare una delle sue incursioni quando squillò il telefono.
Buttò giù un paio di aspirine contro il mal di testa e sorseggiò un po’ di caffé prima di alzare la cornetta del telefono:
“Piatrini?” chiese la voce di uno sconosciuto.
Temendo qualche pericolo non rispose affermativamente ma chiese, cercando di dissimulare la propria vice:
“Chi parla?”.
“Un amico … “ Ancora una pausa di silenzio che Piatrini non ruppe.
“Nel pomeriggio alla stazione Termini arriverà un gruppo di attivisti della
FICOM”
“Ma … chi parla?” insistette Piatrini.
“Non si fida di me? Guardi che è un’occasione d’oro. Se però non le interessa ….”
Ed ancora una lunga pausa di silenzio. Saverio aveva previsto che Piatrini
avrebbe riattaccato e così fu.
Attese qualche minuto e ricompose il numero. Gli aveva dato abbastanza
tempo per pensarci sopra. La notizia non era del tutto inventata: a Roma stavano raccogliendosi per un grosso corteo rappresentanti di vari sindacati
provenienti da tutta l’Italia. Poteva quindi essere valida l’informazione.
Piatrini si rassicurò avendo dato nel frattempo una scorsa al quotidiano; e
rialzò la cornetta:
“Sì?”
“Allora ti interessa?” (la voce passò ad un confidenziale “tu” che gli avrebbe
consentito un approccio più fidato).
“Se non mi dici chi sei, riattacco di nuovo”
“Non posso, mi potrebbero licenziare” mentì Saverio
“Dammi qualche altro particolare …”
“Marciapiede 14. In testa; alle 11 e trenta. Sarò da solo e ti accompagnerò
dove l’equipe di Canale 5 sta preparando la ripresa per l’intervista”. Lì potrai “inventare il tuo intervento, indisturbato perché ci saranno molti viaggiatori e curiosi che ti permetteranno di mimetizzarti prima che tu piombi
sulla telecronista ..” Saverio pensò che una donna avrebbe reso più appetibile l’intervento di Piatrini.
“Chi è?”
“Se non cambiano all’ultimo momento dovrebbe essere la Paggioni”.
Piatrini aveva proprio voglia di vendicarsi della volta in cui la Paggioni era
riuscita a sventare il suo intervento con un rapido spostamento di scena e
spegnimento di telecamere.
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Passarono altri secondi di silenzio e Saverio rimase in attesa senza intervenire: ‘sentiva’ l’esitazione di Piatrini dal sospiro leggero che gli giungeva e
contemporaneamente intuiva la sua gran voglia di compiere una vendetta
esemplare.
Ma Saverio usava la stessa tecnica del serpente che aveva imparato in palestra durante gli allenamenti di Kung-fu: immobile, un piede solo a terra, il
sinistro, l’altro con il ginocchio piegato, pronto a fingere il colpo dal destro,
le mani in un’angelica posizione quasi di preghiera come la mantide religiosa. L’avversario avrebbe potuto attendere la sua mossa in eterno nella tensione che lo avrebbe portato a perdere.
“Va bene … “ la voce incerta di Piatrini tornò dalla cornetta dopo alcuni secondi, “ come posso riconoscerti?”
“Non ti preoccupare … ti riconoscerò io” E questa volta Saverio chiuse la
comunicazione senza altri indugi.
Uscì dalla cabina telefonica lungo il viale che porta al Colosseo e si rilassò
in una lunga passeggiata mentre ripassava ogni punto del piano che aveva
preparato per Piatrini. Era sicuro al novanta per cento che lo avrebbe ritrovato all’appuntamento.
§§§
Piatrini era arrivato mezz’ora prima all’appuntamento e si aggirava guardingo, mimetizzato da una strana sciarpa orientale di seta che gli nascondeva in
parte il volto. Voleva accertarsi che non si trattasse di una trappola. Entrò
nella galleria principale da via Giolitti ed avanzò lentamente ma cercando di
essere il più naturale possibile. Intanto i suoi occhi vagavano a tutto campo
per capire come fosse realmente la situazione. Si affacciò alla parte interna,
quella delle testate dei marciapiedi ed indirizzò la sua attenzione verso il binario quattordici ma avrebbe dovuto avviarsi verso la fine dei binari per poter osservare in pieno chi fosse presente.
Era un’ora di punta ed il traffico umano di ogni paese del mondo si incrociava in tutte le direzioni rendendo impossibile raggiungere con lo sguardo
la parte finale dei binari. Maledicendo la propria statura e tastandosi di nascosto il petto per assicurarsi che il cartello che aveva preparato fosse pronto, si avviò lentamente verso il luogo dell’appuntamento.
Saverio lo riconobbe subito anche perché a Piatrini evidentemente piaceva
giocare a guardia e ladri ma non sapeva mimetizzarsi molto bene. Lo lasciò
avvicinarsi al binario 14 e rimase immobile ad osservare il suo comportamento: era importante cercare di capire se possibile, il carattere e le motivazioni di Piatrini.
Aveva tutto il tempo che voleva perché mancavano ancora venti minuti
all’appuntamento.
Dopo averlo studiato attentamente ed avere individuato il suo punto debole
si avviò lentamente verso di lui; la mano destra in tasca teneva stretta per
l’impugnatura una pistola elettrica ad alto potenziale. Quando gli giunse alle
spalle lo chiamò quasi in un sussurro.
Piatrini non fece in tempo a capire che cosa gli stesse succedendo. Mentre si
voltava per capire se lo stesse chiamando l’uomo che doveva incontrare,
sentì in un attimo scatenarsi dentro il suo corpo un inferno: la scossa lo
riempì di elettroni impazziti e Piatrini scivolò a terra senza un lamento, ormai svenuto.
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Ma non arrivò al pavimento. Saverio che si era portato dietro una carrozzella per invalidi fu lesto a far cadere il corpo di Piatrini sul sedile. A coloro
che si avvicinarono più incuriositi che disposti ad aiutare gridò:
“Largo!, fate largo! sono un medico. Non vedete che gli togliete l’aria? Ha
bisogno di respirare”
E, mentre rivolgeva queste parole ai più vicini, si affrettò con la carrozzella
in direzione del pronto soccorso.
Ma appena vide che nessuno più badava a lui, cambiò direzione e, dopo aver
sistemato Piatrini nella posizione di uno che dorme con il capo inclinato, si
diresse con calma verso via Giolitti dove poté agilmente caricare la sua vittima
§§§
Un’ora dopo in un capannone abbandonato alla periferia di Roma, al riparo
da occhi indiscreti iniziò la “cerimonia”.
Piatrini, legato ad una sedia robusta, si era finalmente risvegliato e stava
cercando di mettere a fuoco con gli occhi e con la mente dove fosse finito e
che cos’era l’immagine sfuocata che però stava diventando rapidamente nitida e chiara davanti a sé.
Una telecamera accesa e funzionante montata su un leggero treppiede lo
stava riprendendo; alla sinistra della stessa un monitor da 42 pollici riproduceva la sua immagine: tutta la testa, salvo un buco all’altezza delle narici per
permettergli di respirare, era pietosamente infilata in un enorme profilattico
di plastica che Saverio si era procurato in un negozio di divertenti souvenir e
scherzi da regalare agli amici; con orrore vide che sopra i suoi capelli troneggiava il “serbatoio” per lo sperma.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
La voce di Saverio, modificata attraverso un apparecchio apposito gli giungeva dalle spalle.
Piatrini non aveva alcuna possibilità di voltarsi per vedere il suo persecutore
e dopo un debole quanto inutile tentativo rimase ad ascoltare:
“Caro Piatrini, la ripresa viene registrata e la videocassetta arriverà in copia
a tutte le redazioni dei telegiornali Rai, Mediaset, La7, ecc. Se desidera fare
dei commenti le posso togliere parzialmente il profilattico …”
Gli giunse solo un mugugno indistinto ma rabbioso.
“Sì?” Da dietro con una mossa rapida sollevò la parte anteriore del profilattico in modo da lasciargli libera la bocca e subito fu investito da improperi e
bestemmie.
“Suvvia, signor Piatrini, siamo in televisione, un po’ di dignità! Non è una
diretta come sarebbe piaciuta a lei ma lo diventerà quando la varie redazioni
potranno vendicarsi mandando in onda il suo volto finalmente libero di mostrarsi al pubblico ma …. messo alla gogna. Sapesse quanti giornalisti se la
godranno e … ma vuole parlare? Ora è libero di farlo”
“Brutto figlio di puttana , chiunque tu sia!” urlò il prigioniero e proseguì:
“Tu … tu, chiunque tu sia … non puoi permetterti di farmi questo. Devi liberarmi altrimenti …”
“Altrimenti cosa? Ti vendichi cercando di apparire ancora da vigliacco alle
spalle di gente che lavora e fa le cose sul serio. E adesso pretendi? Tu pretendi? Che sfacciataggine!”
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Piatrini digrignava i denti e urlava parole e frasi sconnesse che Saverio interruppe riabbassando il lembo inferiore del profilattico.
Il lattice si appiccicò alla bocca di Piatrini che continuò a mugugnare parole
incomprensibili mentre la telecamera imperturbabile continuava a riprenderlo.
Saverio aveva pietà per quel deficiente ma doveva compiere il suo dovere;
gli sferrò un altro colpo con la pistola elettrica e Piatrini svenne nuovamente
dopo aver subito un atroce dolore al petto e alle gambe. Se avesse avuto un
pacemaker sarebbe morto d’infarto.
§§§
Quando rinvenne, Piatrini era ancora legato ma aveva il capo libero, di fronte la telecamera, spenta, lo guardava con commiserazione muta mentre intorno era solo silenzio. Unico segno di vita: la registrazione della sua immagine che passava senza audio sullo schermo, la testa grottescamente semi
nascosta nel gigantesco profilattico. A terra, accanto alla sedia cui era legato, giaceva una grossa etichetta che diceva “un regalo per il vostro miglior
amico: un condom per elefanti africani”.
La stanza era quasi buia e Piatrini si chiedeva quanto tempo fosse passato da
quando era legato in quell’ambiente anonimo cui non riusciva a dare
un’identità: sembrava un capannone ma dalle caratteristiche indefinibili. Dal
dolore che doveva sopportare alle braccia legate dietro la schiena e dal desiderio impellente di orinare aveva dedotto che erano trascorse molte ore.
Passava in rassegna nella sua mente tutti i potenziali nemici che si era fatto
negli anni e sperava così di capire chi fosse l’autore del rapimento. Sperava
ancora che tutto fosse uno scherzo, che l’incubo finisse da un momento
all’altro ma … alle sue spalle rimbombò di nuovo la voce deformata di Saverio che sembrava leggergli nel pensiero:
“No, caro Piatrini; non è uno scherzo e te lo dimostro”.
Da un telecomando nascosto arrivò l’ordine al monitor e si accese la sigla
del telegiornale di Canale 5 che stava presentando il sommario. Orrore: apparve la sua faccia chiusa nel profilattico mentre la voce di Montana annunciava con voce giustamente gongolante:
“Amici telespettatori, questa sera vi proporremo un servizio molto strano
che è giunto da poco in redazione in maniera rocambolesca. Il noto disturbatore dei nostri telecronisti esterni di Roma vi apparirà così” E l’immagine
continuava a fare da sfondo alle spalle di Montana.
Saverio cambiò canale e RAI UNO stava facendo lo stesso annuncio. Ancora un altro canale, Rete 4 ed ecco il volto sornione di Fede che annunciava
trionfante in un’edizione straordinaria:
“Finalmente hanno dato il giusto volto a quel rompiscatole di Piatrini. Potrete ammirarlo tra poco ..”
E così via le altre emittenti, tutte ad annunciare che da un momento all’altro
sarebbe andato in onda un servizio speciale.
Si spense il monitor e nel silenzio improvviso in cui crollò tutto l’ambiente
la voce di Saverio rimbombò questa volta grave e seria:
“Come vedi, con questa apparizione ti ho fatto vincere il Guiness dei primati. Sei finalmente apparso tutto solo su tutti i telegiornali per un tempo così
lungo che tu non ti saresti mai sognato di ottenere nel tuo misero passato di
povero essere esibizionista e … segaiolo”
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Saverio ci ripensò: perché gli era uscita la parola “segaiolo”? Ma doveva
aver colpito nel segno perché vide che Piatrini, sotto i legacci cercava violentemente di liberarsi.
“Avanti” – proseguì Saverio - “Goditi questo momento di celebrità che ti
concedo prima di …”
Ma Saverio tacque ed il suo silenzio gettò un’improvvisa angoscia nel cuore
del disgraziato: non poteva essere, cosa credeva di fare quello sconosciuto?
Non poteva seriamente minacciarlo di …”
Ma, mentre cercava di allontanare il pensiero dalla sua mente, i suoi sfinteri
non ressero più e Piatrini si allagò i pantaloni.
Saverio notò il fatto e gli rivolse ancora una commento sarcastico e cinico:
“Pensa se ti avessi mandato in onda mentre ti pisciavi addosso! Che bella figura che avresti fatto con i “tuoi” spettatori, quegli stessi che tanto hai amato e che tante volte hai cercato di raggiungere con i preservativi in mano e
cose simili. Ma ora preparati perché …”
Ed ancora una volta la frase rimase in sospeso creando in Piatrini un immenso senso di angoscia: che cosa intendeva fare lo sconosciuto?
Lo capì troppo tardi: Saverio da dietro la sedia gli infilò un sacco trasparente
di plastica in testa ma questa volta non aveva alcun orifizio. Incominciò a
dibattersi sulla sedia nel disperato tentativo di liberarsi da quell’orribile
morte.
Saverio era ormai lontano quando un grido soffocato morì con Piatrini dentro pochi grammi di polietilene che gli chiudevano il viso e la vita per sempre.
L’aria del Pincio era magnifica e fresca nel tramonto e Saverio la respirò a
pieni polmoni. Poteva finalmente godersi una sera senza impegni. Risalì poco dopo su una Mercedes nera, compose un numero sul cellulare da cinquanta euro, alla domanda che gli giunse dall’altra parte, diede un solo sì di
conferma, tolse la sim e la gettò via mentre pochi minuti dopo distruggeva il
cellulare sotto le ruote dell’auto.
Lasciò la Mercedes sul lungotevere come gli era stato ordinato e si avviò a
piedi verso Castel S. Angelo.
I mass media si occuparono del ritrovamento di un cadavere irriconoscibile
durante la demolizione di un capannone alcune settimane dopo quando fu
aperto un cantiere per la realizzazione di un nuovo quartiere residenziale.
§§§
56
TINKOSEVICH
La risposta gli arrivò indirettamente mentre aspettava un piatto di mazzancolle al cognac che aveva ordinato da poco alla Trattoria Al Monumento di
Ostia; il cellulare vibrò silenziosamente e Saverio ascoltò:
“Non subito; sei sorvegliato e la bolla di sapone esploderebbe in maniera
scandalosa e negativa.
Prima dai il via all’altro progetto: svierai l’attenzione e crederanno che ti
hanno chiesto … chiaro?”
“Sì, ma mi prenderò qualche giorno in più”
“E farai bene; un buon intervallo è indispensabile per sviare i sosp ..” la voce e la comunicazione si interruppe e Saverio si avventò, affamato, sul piatto
prelibato che aveva ordinato.
Due ore dopo a Fiumicino saliva a bordo di un Boeing diretto ad Amsterdam e la sera stessa cenava in una trattoria di italiani a pochi chilometri di
distanza dal carcere di Scheveningen, alla periferia nord di Den Haag (per
gli italiani : L’AJA).
Aveva preferito muoversi un po’ “largo” per evitare sospetti ed ora vestiva
in maniera molto dimessa i panni di un camionista.
Aveva trovato dei compaesani nella trattoria e si era dato ad una finta sbronza di birra. Aveva scelto il locale dopo aver seguito alcune guardie carcerarie ed aver scoperto che prediligevano quel locale per snebbiare dalla loro
mente la tensione di ore di servizio nel carcere di massima sicurezza dove
era rinchiuso Tinkosevich.
Il criminale di guerra slavo affrontava giorno dopo giorno con grande abilità
dialettica e finta serenità da innocente e martire le udienze di un processo
senza fine. I suoi avvocati portavano avanti cavillo dopo cavillo, testimonianze più o meno valide ma sempre efficaci, pagati profumatamente dalla
moglie di Tinkosevich con i fondi che era riuscito a far sparire dal suo paese, defraudando il suo popolo ma rimpinguando i suoi conti correnti
all’estero in dollari ed altre valute pregiate.
Purtroppo l’eccesso di garantismo delle norme europee permetteva di dare
troppo spazio ai presunti colpevoli che, come tali, erano degli inattaccabili
angeli innocenti fino a che non si fosse arrivati a prove inconfutabili che
convalidassero una confessione sincera e spontanea.
Era il triste destino dei tribunali militari; già a Norimberga si erano usati
metodi troppo dolci, almeno secondo il pensiero di molti. Altri, astrattamente legati al puro senso del diritto avevano considerato illegale un processo a
gerarchi nazisti che avevano agito solo per “obbedire ai propri capi militari”: secondo la difesa innocentista sopra di loro c’era stato solo un disgraziato: Hitler. E tutte le colpe venivano imputate a lui. Allora però si era comunque giunti ad un giudizio abbastanza severo.
Un criminale come Tinkosevich invece stava riuscendo nel suo intento usando sapientemente ogni parola, ogni virgola di leggi internazionali che i
suoi avvocati sapevano sfruttare con diabolica abilità.
Erano questi i pensieri che animavano Saverio mentre accompagnava in caserma a piedi una delle guardie carcerarie completamente ubriaca.
Se lo era fatto amico e aveva dovuto bere parecchio ma era ancora abbastanza lucido per realizzare il suo piano. Aveva potuto appurare che il giorno dopo Tinkosevich sarebbe stato trasportato con il furgone cellulare in tribunale per una ulteriore udienza. La scorta sarebbe stata di due guardie interne più i due autisti.
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Il carcere di massima sicurezza sorgeva in mezzo ad una radura molto vasta,
con radi alberi solo lungo la strada perimetrale che si svolgeva tutt’intorno
alla costruzione: nel buio della notte pochi lampioni illuminavano la strada
ma dalle torrette del carcere potenti fari ruotavano a trecentosessanta gradi
illuminando a giorno ogni metri di prato.
Saverio finse di fermarsi a pisciare contro un albero e la guardia barcollando
decise di imitarlo. Aveva appena estratto il pene dai pantaloni quando un
fendente della mano di Saverio lo colpì con un colpo preciso di karate appena sotto la nuca.
Saverio si accertò che l’uomo fosse morto, lo spogliò ed indossò la sua divisa, quasi vomitando per la puzza orribile che emanava: forse quella divisa
non era mai stata lavata.
Con una bomboletta spray di acido bruciò il viso e i polpastrelli delle mani
del cadavere per evitare che fosse riconosciuto e lo gettò in un fossato che
correva parallelo alla strada: doveva avere acque profonde perché il corpo
non risalì a galla, appesantito com’era da molte pietre che Saverio gli aveva
infilato negli abiti con i quali lo aveva rivestito.
Finalmente libero di muoversi respirò aria pura per molti secondi, seduto
sotto un albero nascosto dalle falciate di luce dei fari e si immerse in una
muta meditazione: doveva cercare di trasformarsi psicologicamente nella
guardia che aveva appena ucciso.
Non bastava avere in tasca tesserino di riconoscimento, un fazzoletto sporco, un portafoglio con pochi contanti e documenti vari: era di dentro che doveva trasformarsi.
Dopo quasi un’ora la nuova guardia carceraria si presentava fingendo di essere ubriaca fradicia al portone del carcere.
Pensarono di riconoscerlo (mancava solo lui all’appello) e chiudevano un
occhio col collega che aveva l’abitudine di ubriacarsi ogni volta che usciva.
Saverio, cercando di far vedere il meno possibile il viso, lanciava urla da ubriaco e rutti terribili con un alito disgustoso che teneva lontano anche
l’ufficiale che era uscito dal suo ufficio allarmato.
La notte pietosa gli permise, una volta attraversato il cortile principale, di
raggiungere inosservato un piccolo edificio che doveva essere l’alloggio
delle guardie. Non fece fatica ad orientarsi e dopo aver osservato attentamente ogni particolare degli ambienti e delle camerate, si gettò sull’unica
brandina vuota di una camerata puzzolente e piena di corpi che russavano.
Finse di addormentarsi ed invece ripassò attentamente il piano che aveva
progettato per il giorno dopo.
§§§
Quando le guardie di turno scortarono Tinkosevich al cellulare pronto col
motore acceso in mezzo al cortile, Saverio era già seduto sul pancone di destra. Davanti a lui, muto ed assonnato un olandese biondo lo osservava distrattamente. Saverio temeva quel momento ma proprio quando il “collega”
stava per chiedergli qualcosa gli sportelli si spalancarono e Tinkosevich si
affacciò per salire.
Pochi minuti dopo il cellulare correva sulla strada in direzione della sede del
tribunale.
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Saverio volle osservare attentamente Tinkosevich per cercare di cogliere in
lui qualcosa di più di quello che aveva letto e saputo. Aveva dovuto leggere
su internet le assurdità degli avvocati della difesa, giustificate solo da una
parcella astronomica; assurdità che avevano prodotto in Saverio l’effetto di
una conferma nel senso di giustizia per quello che stava per compiere.
Avvenne tutto in pochi secondi: Saverio quasi contemporaneamente scaricò
nell’aria una bomboletta di gas e subito indossò un piccola maschera che teneva nascosta sotto il giubbotto della divisa.
Si precipitò accanto all’autista che era svenuto rimanendo con il piede
sull’acceleratore. Fece in tempo a strapparlo dal posto di guida scaraventandolo sul secondo autista che nel frattempo, ancora non del tutto svenuto,
cercò di avvinghiarsi a Saverio. Ma il corpo del primo autista lo travolse e i
due rimasero a terra definitivamente addormentati.
Saverio riuscì a prendere i comandi e a far rallentare il furgone che nel frattempo sbandava paurosamente creando panico tra i pochi veicoli che stavano transitando nella stessa direzione a quell’ora del mattino.
Saverio si era chiesto fin dall’inizio perché il cellulare faceva quel percorso
senza scorta ma gli giunse improvvisa la risposta: la scorta comparve come
dal nulla ad un incrocio: quattro motociclisti che subito si divisero il compito: due si misero davanti al furgone e due dietro, ignari di quello che era accaduto.
Saverio dovvette escogitare rapidamente una soluzione, mentre salutava con
un sorriso sornione il primo dei due motociclisti che lo stava sorpassando
sulla sinistra per piazzarsi proprio davanti al furgone. La strada stava portandolo ormai dentro l’abitato e Saverio si accorse che era acceso proprio
davanti al guidatore un navigatore: poté osservare gli incroci che si stavano
presentando e si preparò con calma alla deviazione. Il giorno prima aveva
studiato il percorso ed aveva preparato alcune vetture in diverse stradine laterali; una vettura di grossa cilindrata lo aspettava proprio nel quartiere che
stava attraversando.
A cento metri un incrocio apriva a destra una laterale minore e stretta; Saverio svoltò di scatto lasciando che i due motociclisti proseguissero dritti. Dopo cento metri nel vicolo, che per fortuna data l’ora era deserto, frenò di
colpo sperando. Ed infatti i due motociclisti che lo seguivano, presi di sorpresa, si schiantarono contro il furgone .
Mentre le due moto col motore impazzito roteavano rovesciate a terra invadendo marciapiedi e vetrine di negozi, Saverio scattò dal furgone e piazzò
due colpi di pistola munita di silenziatore nel casco dei due motociclisti.
Si assicurò che fossero morti e si appostò dietro la parte anteriore del veicolo, in attesa.
Gli altri due motociclisti apparvero pochi secondi dopo e si avvicinarono
lentamente osservando incerti la situazione: il furgone fermo, due moto accartocciate contro altri veicoli e due corpi a terra immobili.
Quando riuscirono a capire che cosa poteva essere successo fu troppo tardi:
due colpi di pistola attraversarono i loro cervelli spruzzando nell’aria getti di
sangue e di materia cerebrale.
Per qualche secondo proseguirono come se nulla fosse successo, poi rotolarono rovesciandosi con le moto con un rumore sinistro.
Saverio risalì di corsa al posto di guida mentre si stavano avvicinando poche
persone più impaurite e sorprese che curiose. Il furgone schizzò via a velocità folle e ai presenti non rimase che chiamare con i cellulari la polizia.
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Saverio, sapendo che da un momento all’altro avrebbe avuto alle calcagna
un’orda di inseguitori, deviò in una via che già aveva scelto in precedenza.
Parcheggiò con calma il furgone come se dovesse scaricare della merce,
proprio dietro ad una Passat con targa tedesca che aveva rubato solo il giorno prima ad Amsterdam.
Si sbarazzò finalmente della maschera antigas, aprì il bagagliaio e fu lesto a
scaricarvi il corpo di Tinkosevich ancora svenuto. Alzò la testa e vide che
non c’era nessuno nella via che gli prestasse attenzione. Allora rapidamente
legò le mani e i piedi del prigioniero incaprettandolo: il malcapitato, se si
fosse mosso, avrebbe rischiato di morire strozzato.
Gli applicò sul volto e sulla bocca spesse strisce di adesivo telato, richiuse
con calma il bagagliaio e salì alla guida, allontanandosi con andatura turistica verso la periferia di Amsterdam.
Nel furgone erano rimasti i quattro corpi anestetizzati dal potente gas che
Saverio aveva sprigionato.
§§§
Dai tempi dello “sbarco” violento della petroliera Noicattaro sulle coste sarde in tutto il mondo si era scatenata una vera caccia al misterioso o ai misteriosi autori di una serie di delitti rimasti impuniti.
Le autorità italiane, in collaborazione con l’FBI e le autorità investigative
militari degli Stati Uniti avevano sguinzagliato uomini in tutta Europa per
riuscire ad arrestare i colpevoli.
Ma viaggiavano nel buio più completo: quando si agisce da soli, non ci sono
complici che possono parlare, non ci sono delatori pronti a riferire. Il lavoro
è certamente più duro ma alla fine dà anche una maggior soddisfazione,
specialmente quando la propria coscienza ti dice che hai agito nel giusto.
La voce di Pia lo rassicurava di volta in volta e lo incoraggiava ad agire in
una serie di missioni per le quali non avrebbe mai avuto elogi da nessuno,
Anzi, rischiava, se fosse stato scoperto, processi senza fine e pene pesantissime.
I suoi conti all’estero, dai quali attingeva tutti i fondi necessari, erano vistosamente cresciuti. Non gli interessava il denaro ma questo gli dava anche
una tranquillità per il futuro, quando, e lo sperava vivamente, avrebbe smesso di fare una vita così pericolosa.
Pensava a tutto ciò mentre portava sulle spalle Tinkosevich dentro una capanna che aveva scelto fin dall’inizio per quello che intendeva fare di
quell’uomo. Era una piccola costruzione in legno, nascosta da alte siepi di
verde all’interno di un bosco adiacente l’autostrada che collegava L’Aja con
Amsterdam.
Tinkosevich non dava segni di risveglio e Saverio approfittò per farsi una
doccia, cambiarsi di tutto e farsi un forte caffé.
Uscì dalla capanna per sorvegliare i dintorni ma non vide alcun movimento
sospetto. Ora che aveva ripreso le forze e poteva agire con calma e sicurezza, si rilassò accendendo un televisore dal quale raccolse le informazioni che
gli interessavano: la caccia nei suoi confronti era scatenata ma non avevano
ancora scoperto l’eliminazione della guardia la sera prima. Questo poteva
voler dire che brancolavano nel buio ma forse anche che tenevano nascosta
la notizia per non fare una figuraccia davanti a tutto il mondo. Potevano anche aver scoperto il corpo nel fossato e non parlavano per non svelare come
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si stessero muovendo, pensando appunto di essere ascoltati dagli autori del
rapimento di Tinkosevich. Ma quando comparve il ministro degli interni Olandese con accanto tutto il corpo dei giudici di Tinkosevich, Saverio ascoltò attentamente ed eliminò dalla sua coscienza ogni dubbio: quell’uomo che
parlava dal monitor aveva il coraggio di difendere la figura del criminale di
guerra, affermando che fino a quando non fosse stato giudicato, era da considerarsi un innocente.
Gli venne quasi da piangere dalla rabbia che aveva in corpo e dalle scariche
di adrenalina che ancora sconvolgevano il suo equilibrio emotivo.
Avrebbe volentieri piantato una palla in testa a Tinkosevich che dormiva
beato ma aveva meditato una punizione esemplare per lui e per tutti gli altri
criminali di guerra che avrebbe dovuto eliminare in futuro. Si calmò e preparò il “teatro”, lo “scenario” in cui avrebbe fatto recitare a lungo Tinkosevich prima di sopprimerlo nella forma più crudele possibile, degna dei crimini che aveva commesso e che aveva ordinato di commettere ai suoi tremendi esecutori di morte.
“Il miglior perdono è la vendetta” si ripeté più volte e si preparò a risvegliare il prigioniero.
§§§
Tinkosevich stava lentamente ritornando cosciente e cercava di capire dove
fosse ma aveva gli occhi chiusi dal robusto nastro adesivo e non sentiva alcun rumore riconoscibile.
Ma quando Saverio gli strappò brutalmente il primo pezzo di nastro liberandogli gli occhi, si rese finalmente conto di essere caduto in una trappola senza speranze.
Cercava disperatamente di muovere il corpo dolorante e di concentrarsi
mentalmente ma Saverio non gli dette il tempo: un calcio nelle costole lo fece quasi svenire dal dolore ed il suo lamento rimase racchiuso dentro il nastro che gli tappava la bocca.
I due uomini si stavano guardando negli occhi; quelli di Saverio carichi di
un odio puro e furente, mentre quelli di Tinkosevich nascondevano gelidamente ogni sentimento.
Eppure, pensava Saverio, dovrebbe sentire odio e paura insieme ma sapeva
quanto quell’uomo fosse cinico e crudele, militare e abituato a soffrire.
“Tu hai smesso di fare il furbo nel processo …” iniziò Saverio in un inglese
comprensibile per il prigioniero. Ora il processo te lo faccio io: tu sei colpevole della morte di migliaia di uomini, di migliaia di donne e di migliaia di
bambini. Per questo tu fra poco pagherai le tue colpe una per una”.
Mentre parlava, stava preparando alcuni congegni su una specie di tavolaccio rustico in mezzo alla stanza.
“Non puoi parlare? Vorresti dirmi qualcosa? Fra poco ti strapperò il cerotto
dalla bocca ma solo per lasciarti la libertà di urlare dal dolore”.
Sollevò non senza fatica il prigioniero legato come un salame e lo distese
senza troppi riguardi sul tavolaccio.
Si avvicinò ad un treppiede sul quale aveva montato una piccola telecamera
digitale e la avviò. Da quel momento tacque per non far riconoscere la sua
voce ed incominciò con le torture che aveva programmato stando attento di
non comparire mai in campo. Per precauzione e nell’ipotesi che Tinkosevich
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fosse sopravvissuto, aveva indossato un passamontagna che lasciava vedere
solo i suoi occhi gelidi.
E finalmente Tinkosevich ebbe paura. Il dolore dello strappo del cerotto dalla bocca fu terribile e Tinkosevich, la bocca finalmente spalancata a respirare un po’ d’aria, urlò come un pazzo. lanciando improperi nella sua lingua e
cercando di divincolarsi.
Ma subito si rese conto del rischio che stava correndo e ritornò immobile.
Con cura Saverio gli tolse le scarpe ed i calzini neri; afferrò delle tenagliette
che sembravano più uscire dalla dotazione di uno studio odontoiatrico e gli
strappò subito l’unghia dell’alluce destro. Si scostò di un metro e rimase
immobile mentre godeva sentire urlare il prigioniero.
Spense la telecamera e si avvicinò al volto del prigioniero. A telecamera
spenta gli spiegò che quello era solo l’inizio: a quanti aveva fatto subire la
stessa tortura? Glielo preannunciò chiaramente:”Tu da questo momento subirai gli stessi dolori, le stesse torture che i tuoi soldati hanno applicato per
tuo ordine e spesso alla tua presenza a migliaia di poveri innocenti.
E le torture proseguirono lentamente per ore fin che Saverio non dovette allontanarsi per vomitare: il corpo di Tinkosevich, pur vivo, era una poltiglia
indecifrabile ma ancora perfettamente viva.
§§§
Saverio stava facendo il check-in all’aeroporto di Amsterdam e nello stesso
momento, un rudimentale contatore basato sul consumo di una cordicella da
parte di una candela stava per rovesciare il gas nervino su una ciotola appoggiata sulla pancia del criminale.
A bordo di un 737 delle linee aeree olandesi mentre rientrava a Milano, cercò di ritrovare un po’ di pace per il proprio spirito ma continuava a vedere
migliaia di donne e di bambini che crollavano morendo soffocati per la vie,
distrutti dal gas nervino diffuso dai soldati di Tinkosevich.
Non ebbe bisogno di telefonare: appena sbarcato a Malpensa, mentre sorbiva un forte caffé nel bar dell’aeroporto ascoltò lo speaker di Canale 5 che, in
un’edizione straordinaria,commentava il ritrovamento del corpo reso quasi
irriconoscibile di Tinkosevich in una capanna alla periferia di Amsterdam.
§§§
GADGET
Non era il suo vero nome ma lo chiamavano così da quando era diventato la
barzelletta dei giornali.
Si vantava di essere il direttore spirituale non solo del leader ma anche di
tutta la base etica e filosofica del suo partito.
Sospeso a divinis più volte, continuava a sostenere le sue tesi di uomo con
molto coraggio e coerenza apparente ma si contraddiceva cercando di mantenere i diritti ed i privilegi che aveva avuto come sacerdote e che ora non
aveva più. Tuttavia portava ancora l’abito talare e ne faceva un uso improprio per ottenere trattamenti privilegiati in tutti i campi.
Il suo volto era in perfetta coerenza con la sua personalità ambigua: maialesco e chiaramente marchiato da più vizi della carne.
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Si sapeva poco della sua vita privata ma qualcuno aveva pazientemente pedinato per mesi fino a che non era riuscito a documentare con foto e filmati
il suo segreto amore carnale per una prostituta che batteva in Liguria.
Con la scusa di toglierla dalla strada l’aveva fatta diventare la sua amante
personale ed esclusiva e la teneva quasi prigioniera in un casolare
dell’entroterra genovese.
Appena poteva si rifugiava tra le sue braccia per ritrovare un po’ di gusto
della vita. Non diceva messa e non si confessava. Si dava invece da fare con
articoli e interventi di rottura nei congressi politici del partito del presidente.
Di dentro era riuscito nel tempo a tacitare i suoi tormenti e i dubbi interiori
ed era ormai solo uno strumento ambiguo che in parte si faceva manovrare
ed in parte manovrava di propria iniziativa cercando di influenzare decisioni
politiche, orientamenti di masse di cattolici incerti.
Se esisteva il diavolo, era diventato uno strumento raffinato nelle sue mani.
E più passava il tempo più nel proprio intimo si convinceva di esserlo ma
credeva di non avere più via d’uscita.
Era la disperazione che veniva attribuita a Giuda nel tradimento presunto di
Gesù. L’umiltà avrebbe potuto salvare Gadget ma l’orgoglio gli distruggeva
ogni possibilità di cambiamento.
Con documenti contraffatti ed indossato un abito talare, Saverio si era presentato alla sua garconniere dopo averlo preavvisato con una telefonata.
Gadget si era meravigliato per l’arrivo di quella visita ed aveva allontanato
la sua amante con una scusa.
I saluti preliminari furono improntati nei primi momenti ad un’accoglienza
fredda e molto formale ma Saverio fece in modo di rilassarlo, assicurandolo
che non era un inviato degli organi ufficiali del vaticano,
Voleva invece conoscerlo meglio perché capiva il suo comportamento e lo
condivideva.
Gadget lo fece accomodare davanti ad un camino acceso e, pur rimanendo
in difesa con i sensi attenti ad ogni eventuale errore da parte del nuovo venuto, si lasciò andare a discorsi che rompevano ogni legame con santa Madre Chiesa mentre rivelavano un orgoglio smisurato, una superbia spocchiosa, una sicurezza di agire nel bene che spaventava per la fredda logica con
cui difendeva le sue idee.
Saverio, mentre ascoltava fingendo di approvare con ampi cenni del capo,
di dentro rabbrividiva perché sentiva di avere di fronte non un semplice uomo ma una forza maligna incarnata nel corpo ributtante di un essere umano
ormai perso per sempre.
Provò a fingere di contraddirlo per dargli modo di esporre meglio le assurdità delle sue affermazioni ma riuscì solo a far emergere cattiveria e contraddizioni, paurose deduzioni arbitrarie.
Alla fine Saverio dovette arrendersi e prendere atto che aveva a che fare con
una mente talmente malata da non aderire più ad una realtà coerente.
Era giunto davanti a quell’uomo, a quello che si credeva ancora in diritto di
ritenersi un sacerdote di Dio, sperando di trovare uno spiraglio nella sua coscienza per farlo rinsavire e rivedere la sua posizione.
Invece si era trovato di fronte ad un muro blindato, impotente ed incapace di
prendere la decisione definitiva che quell’uomo meritava: non aveva fatto
alcun male fisico a nessuno ma il male spirituale che aveva disseminato negli animi di tanti giovani lo convinse che per la sua vittima non ci sarebbe
stato scampo.
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Fuori il sole stava tramontando e i suoi raggi dorati entravano orizzontali e
caldi attraverso le finestre della stanza che li stava ospitando da oltre tre ore.
Saverio non riusciva a decidersi ma all’improvviso accadde un fatto che lo
aiutò: la porta che dava sul ballatoio davanti alla capanna si aprì quasi violentemente ed un’altissima bionda si presentò sulla soglia.
Il suo atteggiamento era adirato e la donna respirava con affanno per comprimere nel petto che si muoveva agitato come un mantice l’ira che la animava e che stava per esplodere.
Saverio si rese conto che quella donna stava per scatenarsi contro di lui.
Senza dire una sola parola, attraversò la stanza e quasi si abbatté su Gadget
baciandolo intensamente con la lingua affondata in mezzo alle sue labbra.
Saverio non era certo uno stinco di santo e la sua educazione in monastero
non aveva attenuato i suoi istinti di uomo. Mentre cercava di dissimulare
l’imbarazzo che gli provocava un’erezione vistosa che cercava di controllare, provò insieme un disgusto che sapeva di merda e di zolfo, di materia rigurgitata da un animale ributtante, di letame gettato sui volti scandalizzati di
bambini colti di sorpresa in un coro di chiesa.
Avrebbe preferito alzarsi e uscire ma non poteva.
Gadget aveva risposto al gesto dell’amante con spontanea libidine, incurante
della presenza estranea; anzi sembrò a Saverio che si comportasse così apposta per provocare la sua reazione scandalizzata.
Attese ancora qualche istante ma vide che la donna non desisteva. Si alzò ed
agì con la rapidità di un fulmine.
Qualunque cosa avesse fatto non poteva permettere a quella donna di sopravvivere; doveva eliminare anche lei. La raggiunse e la colpì alla nuca con
un colpo leggero ma sufficiente a farla svenire.
Mentre la donna rotolava a terra Gadget cercò annaspando un punto
d’appoggio per rialzarsi, sorpreso dall’intervento inatteso.
Saverio gli porse il braccio apparentemente per aiutarlo ad alzarsi ma quando Gadget fu a metà strada prima di rimettersi in piedi, contemporaneamente lo tirò violentemente a sé mentre affondava un calcio sui suoi genitali.
Con un urlo tremendo Gadget si piegò su se stesso e crollò in avanti. Saverio lo lasciò cadere proprio di fianco al corpo inerte dell’amante. Poi con
calma intervenne sui due corpi con meticolosa precisione. Li spogliò e li
accostò ventre a ventre, dopo averli denudati completamente .
I due corpi nudi non aderivano bene a causa del ventre abbondante di
gadget. Legò le loro mani e i loro piedi e poi unì i due corpi in maniera definitiva con nastro adesivo ad alta resistenza.
Li lasciò a terra e, mentre attendeva il loro risveglio, si concesse un momento di riposo uscendo davanti alla piccola garconniere: aveva bisogno di respirare aria pura, non ne poteva più dallo schifo.
Sentiva il profumo del mare che giungeva fin lì e tornava con la fantasia alla
sua infanzia, all’oratorio di una povera parrocchia di periferia, al parroco
che gli piangeva addosso in confessionale perché cercava di trattenersi dal
toccarlo: soffriva immensamente perché si vergognava del suo “vizio” da
pedofilo.
Ed ora si trovava a dover distruggere un uomo che non meritava di vivere.
Ma secondo il giudizio di chi?
Non certo di Dio, ma “disturbava” l’ipocrita borghesia del comune senso del
pudore?
O forse meritava di morire per le sue idee?
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O perché peccatore come sei miliardi di esseri umani?
E chi era lui per diventare l’angelo di dio che purificava la terra dal malvagio?
Un tormento che non riusciva ad allontanare, la ricerca invano di una soluzione intelligente ed alla fine pensò di trovarla.
Fu un lavoro orribile ma dai significati ben precisi che eseguì con rapidità e
cancellando dal proprio cervello le immagini disgustose e ripugnanti del suo
operato. quando finì il suo “lavoro”, inforcò la kawasaky e scomparve nel
buio ormai inoltrato della sera.
§§§
Alcuni giorni dopo un cacciatore aveva scoperto per caso il duplice delitto
grazie al fiuto dei due pointer che si ostinavano a non allontanarsi dalla
garconniere.
Agli inquirenti, chiamati col cellulare apparve tutta l’orrenda realtà di due
cadaveri ancora in condizioni decenti e facilmente riconoscibili anche se la
decomposizione era già in atto.
La bocca dell’uomo conteneva i suoi genitali che l’omicida aveva tagliato
probabilmente con un taglierino molto affilato: e forse la morte era dovuta a
soffocamento, ma la conferma poteva arrivare solo da un esame autoptico.
Lo stesso esame condotto sul corpo della donna rivelò che la lingua dell’ex
prete era stata tagliata dalla base in gola e infilata a forza dentro la vagina.
Chiunque capì il contenuto di un messaggio così perverso e chiaro: la lingua
dell’uomo che doveva essere usata per parlare, era stata messa là dove era
degna di stare, in mezzo al sesso, mentre la sua bocca non avrebbe più pronunziato parole ambigue e false, riempita come era stata riempita del suo
stesso sesso che aveva dominato la sua mente falsa e gravemente lesiva della verità.
Nemmeno gli esecutori di mafia sarebbero stati tanto crudeli e cinici.
La notizia si diffuse in tutto il paese attraverso i telegiornali e i quotidiani.
Alcune immagini trapelarono inorridendo la gente comune. L’inchiesta
camminava a tentoni: nessuna testimonianza, nessun indizio, nessun collegamento con la vita privata dei due morti ammazzati.
In un palazzo di Roma un uomo politico di alto livello cercava una spiegazione al mistero e si interrogava se doveva prepararsi ad un qualche attacco
simile in un futuro prossimo. E si pentiva di aver accettato l’incensazione di
quel prete che solo ora giudicava schifoso ma che molti anni prima lo aveva
innalzato a uomo inviato dallo spirito santo. Gadget aveva tristemente pagato la sua enorme bestemmia ed il politico ora tremava. Ma, questo era veramente assurdo, temeva più la conseguente perdita di fama, di credibilità e
soprattutto di voti dell’elettorato che i rischi per la propria vita.
“Tutto sommato la pago bene la mia scorta” pensò e chiamò per telefono un
caro amico.
§§§
65
SORDANO
In Vaticano, in una stanza che già conosciamo un cardinale gongolava pensando di aver visto scomparire un pericoloso concorrente della Chiesa, un
vero miscredente, una disgrazia vivente per la Chiesa di Roma.
Ma anche temeva perché la sua coscienza non era ancora diventata del tutto
di pietra. Sapeva benissimo quello che aveva commesso fino ad allora. E
giustificava pienamente il suo operato perché riteneva che, arricchendo i
conti della Banca Centrale Vaticana, aveva dato al futuro della Chiesa almeno per qualche decennio una invidiabile tranquillità finanziaria.
Non aveva importanza se aveva lucrato con azioni di aziende costruttrici di
morte come bombe, mine, aerei militari e carri armati ad alta tecnologia, se
aveva indirettamente contribuito a finanziare piccole scaramucce locali in
tutto il mondo e guerre che avevano dilaniato paesi interi e popolazioni miserevolmente povere che morivano ogni giorno come mosche.
“Tanto comunque avrebbero trovato i finanziamenti anche altrove e pagando tassi di interesse ben più alti dei miei”.
E proseguiva a pensare in questo modo sapendo che comunque le spese finanziarie sarebbero state ben ripagate dai lauti guadagni che i trafficanti di
morte ottenevano in tutto il mondo.
Del resto, quando le guerre languivano bastavano poche manciate di dollari
per far sollevare un popolo di straccioni contro le autorità costituite e non
c’era alcun rimorso etico perché le autorità che venivano abbattute con una
rivoluzione da loro finanziata, avevano a loro volta rubato abbondanti ricchezze, dissanguando la gente povera, ignorante ed impotente.
Anche per il cardinale Sordano “il fine giustificava i mezzi”. E se poi ne aveva ottenuto anche un vantaggio personale accumulando ricchezze di miliardi di dollari in diamanti dalla luce meravigliosa non ci vedeva nulla di
male: alla sua morte aveva già deciso a chi sarebbe andato quel tesoro che
teneva da mesi conservato in cassaforte e che ora stava contemplando sparso
sulla superficie di cuoio bruno della sua enorme scrivania.
La porta era chiusa a chiave e nessuno a quell’ora della notte avrebbe potuto
disturbarlo mentre raggiungeva una specie di orgasmo mentale mentre contemplava quell’immensa ricchezza.
L’unico che avrebbe potuto creargli qualche problema era morto tanto tempo prima, in una mattina di primavera a bordo di una Volvo ad un semaforo
della città.
E i due giovani contrabbandieri che lo avevano giustiziato non avevano fatto
in tempo a godersi il compenso: erano morti in un conflitto a fuoco con la
polizia pochi giorni dopo perché una telefonata anonima aveva permesso di
individuare il covo in cui raffinavano la droga. Durante la sparatoria qualcuno aveva lanciato del forte esplosivo che aveva cancellato dalla faccia della
terra ogni traccia, anche i loro corpi, evaporati nel fungo che si era levato altissimo, denso di esplosivo T4 e di decine di altre sostanze altamente infiammabili già presenti nell’officina o forse introdotte da altri al momento
dell’irruzione.
La notizia di quella felice operazione della polizia italiana era stata ampiamente commentata dai mass media e Sordano aveva aperto una bottiglia di
pregiato champagne francese per festeggiare l’avvenimento.
Ora riviveva quei momenti di ansia, di angoscia vera prima e di felicità subito dopo mentre faceva scivolare tra le mani grassocce e sudaticce quei meravigliosi pianeti di luminosissima ricchezza. Quella notte stessa avrebbe fe66
steggiato in maniera carnale la sua felicità, appoggiando una di quelle pietruzze dentro l’incavo di un meraviglioso ombelico orientale che lo aspettava in un albergo di Roma, dove si sarebbe recato in incognito in abiti borghesi.
§§§
Nell’ampio studio di Sordano (in una villa di persone ricche avrebbe rappresentato il salone centrale in cui accogliere gli ospiti e far perfino suonare un
pianista o un complesso jazz, tanto era vasto) molti erano i quadri appesi alle pareti. Proprio sopra la porta che si apriva per uscire dallo studio la figura
a mezzo busto di un imponente gentiluomo sembrava dominasse l’ambente
con uno sguardo solenne e severo. L’abilità del pittore aveva fatto sì che da
qualunque punto della sala sembrava che i suoi occhi fossero puntati
sull’osservatore, proprio come lo sguardo della Gioconda al Louvre.
Sordano non aveva mai potuto sollevarsi fino agli occhi del gentiluomo perché il quadro era molto alto sulla parete. Né aveva mai avuto alcun interesse
ad osservare il volto anonimo e severo di quell’uomo che aveva ordinato un
quadro così dettagliato nei fronzoli che arricchivano il suo busto dalla gorgiera in giù.
Avrebbe potuto forse scorgere nell’occhio sinistro un riflesso, rivelatore di
un piccolo ma potente obiettivo di una telecamera, un “fischeye” che poteva
riprendere scene a trecentosessanta gradi.
§§§
Saverio, ospite riservato del papa, stava osservando il cardinal Sordano che
quasi sprofondava il grosso naso in mezzo ai diamanti che sparavano sulla
superficie del monitor in bianco e nero lampi fastidiosi ma rivelatori della
realtà.
Si volse sconcertato verso il papa e vide un volto tristissimo che non riusciva a proferire parola. Due solchi di lagrime gli rigavano il volto mentre accettava un cleenex da Saverio perché non riusciva a trovare il fazzoletto che
teneva perennemente nella larga manica della veste bianca e nemmeno voleva parlare per chiederlo.
Lo aveva fatto tornare, come gli aveva promesso, ora che l’impianto era in
funzione, all’insaputa del cardinale.
Stava per chiedere qualcosa al papa ma si fermò di colpo: sul monitor vide
che il cardinale si era alzato e, dopo aver raccolto tutti i diamanti, li aveva
versati in un sacchetto di cuoio. Si era alzato e si era avvicinato al quadro
dietro al quale c’era la cassaforte.
Saverio agì sul comando dello zoom e poté avere un primo piano del pomello della combinazione d’apertura. Avviò il registratore per maggior sicurezza ed attese. Ma ebbe un gesto di stizza: la cassaforte era un vecchio modello e bastava far ruotare a caso il pomello per annullare l’abilitazione
all’apertura.
Saverio credeva di aver perso una buona occasione mentre il papa lo osservava in silenzio, ammirato per l’abilità con cui stava agendo.
Ma la fortuna aiuta gli audaci, pensò inconsciamente Saverio, quando capì
che Sordano aveva avuto un ripensamento: si era dimenticato di trattenere il
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diamante che quella sera avrebbe dovuto portare con sé per l’ombelico che
aveva sospirato tutto il giorno.
E, mentre Sordano ricomponeva la combinazione, Saverio prese un breve
appunto.
§§§
Aveva chiesto al papa di ritornare all’osservazione attraverso il monitor.
Vide il card. Sordano ritornare nello studio completamente trasformato in un
corpulento commendatore settantenne, un elegante laico pronto per una serata relax e seguì la sua uscita dopo che l’alto prelato aveva infilato una scatoletta portagioielli in una tasca interna della giacca.
Saverio avrebbe voluto chiamare il papa ma capì che gli avrebbe procurato
solo dolore: la verità era già in suo possesso.
Come il cardinale si chiuse dietro la porta, Saverio si precipitò fuori dalle
stanze pontificie e corse fino allo studio del cardinale. Ma, giunto alla fine
del corridoio che si apriva in una sala proprio davanti allo studio, si fermò in
attesa. Si mosse nuovamente solo dopo che la figura dell’ignaro cardinale
passò guardingo nel semibuio della sala.
Non ebbe difficoltà a forzare la porta dello studio e, appena dentro, si fermò
ad ascoltare eventuali presenze nel buio. Quando fu abbastanza sicuro, accese le luci e si avviò al quadro.
Meno di tre minuti dopo attraversava piazza San Pietro: lo zainetto era pieno
di brillanti pietruzze; la sua fidata moto era parcheggiata in una via laterale.
In pochi minuti raggiunse la pensioncina, portò la moto nel garage sottostante, si guardò in giro guardingo e quando fu sicuro, si avvicinò ad una
modesta Peugeot 206. Aprì il bagagliaio e sollevò un portello che apriva un
piccolo vano a scomparsa al posto della ruota di scorta. Vi depositò un sacchetto di tela contenente i diamanti, richiuse tutto e tornò alla moto. Uscì dal
garage rombando e fingendo grande sicurezza mentre osservava la situazione intorno a sé: nessuno in vista.
Riprese la strada verso il Vaticano e si sistemò nascosto dietro le prime colonne del Bernini in attesa. Aveva parcheggiato a pochi passi una Mercedes
CL 500 color argento che era riuscito a rubare con semplicità grazie alla sua
abilità e a piccoli congegni costruiti apposta per certi servizi.
L’attesa fu lunga e Saverio stava quasi per disperare quando vide avvicinarsi
a piedi il cardinale “laicizzato” da commendatore. Gli andò incontro con una
sigaretta in mano per non destare sospetti e a pochi metri richiamò la sua attenzione.
“Scusi, ha da accendere?” e si fermò con la sigaretta per aria; non avanzò di
un centimetro apposta per non creare diffidenza.
Sordano aveva trascorso una piacevole nottata ma ora si sentiva stanco ed
aveva urgenza di raggiungere il suo appartamento senza essere notato in
quella veste. Inoltre, data l’età, dopo aver sfogato i suoi istinti sessuali fino
all’esasperazione e all’esaurimento di ogni appetito, aveva urgente bisogno
di svuotare la vescica piena.
Non dette retta a Saverio e proseguì affrettando il passo, fingendo di non aver sentito.
Ma Saverio ripeté la domanda e lo accostò con passo rapido, camminandogli accanto talmente stretto che sentiva il profumo che il vestito del cardinale emanava dopo i contatti con la prostituta.
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“Ma insomma, che vuole?” gli chiese irritato il cardinale senza fermarsi, anzi cercando di affrettare il passo.
“Scusi se la disturbo a quest’ora ma sono rimasto senza cerini e l’accendino
è rimasto … ehm … in casa di una gentile signora; mi capisce? siamo uomini e …”
Per un momento il cardinale fissò il volto ingenuo e disarmante di Saverio;
fece dentro di sé una considerazione di tacita complicità: in fondo, pensò,
quella notte i due uomini avevano dato sfogo agli stessi bisogni. Sordano a
volte, come quella notte, si concedeva anche il piacere di una sigaretta. Mise
in tasca dei pantaloni la mano destra per estrarre un accendino ma un secondo dopo un pugno terribile lo mise k. o. e lo fece stramazzare a terra.
Saverio per prima cosa gli scoprì il braccio ed ebbe la conferma: il tatuaggio
era identico a quello descritto per l’uomo morto sulla Volvo: un fiore ed un
cerchio intorno e la scritta “FREEDOM FOREVER”.
Mentre lo sollevava faticando non poco, si guardò intorno: nessuno in vista.
Raggiunse la Mercedes. sbloccò l’antifurto ed aprì il bagagliaio dove depositò il corpo del cardinale che stava per risvegliarsi. Questa volta Saverio
usò metodi meno pesanti ma più efficaci: aveva preparato cerotti per la bocca e per legarlo come aveva fatto con Tinkosevich ed una siringa con cui regalò al cardinale molte ore di sonno profondo e gratuito.
Sorrise osservando la macchia di liquido che si stava allargando sui pantaloni del prelato nella zona dei genitali,e chiuse il bagagliaio dopo essersi assicurato che il prelato fosse in una posizione sicura e tranquilla.
Ripartì con calma godendosi la guida verso la periferia di Roma, accompagnato dalla dolce musica proveniente da un cd di James Last.
Alle sue spalle il cielo stava schiarendo e sul lungo mare di Fiumicino il bar
dei pescatori era già aperto. Parcheggiò la Mercedes su una piazzola circa
cento metri avanti per non dare nell’occhio, tornò a piedi ed entrò nel locale
quasi deserto. Tre pescatori appena rientrati stavano discutendo in una nuvola acre di fumo di sigarette nazionali.
Aveva noleggiato una piccola imbarcazione a vela ma dotata anche di un
motore di riserva.
Mentre sorbiva un caffé doppio per darsi una carica di cui non avrebbe avuto bisogno per l’adrenalina che lo teneva ben sveglio ed in una forte tensione, si osservò intorno: nessuno badava a lui.
Avrebbe scommesso qualunque cosa che un domani nessuno dei presenti, se
interrogato, sarebbe stato in grado di descrivere il suo volto.
Sul molo di attracco delle piccole imbarcazioni raggiunse quella che aveva
noleggiato; sulla poppa squadrata spiccava un nome che lo meravigliò per la
coincidenza: “Vento Divino”.
Si ricordò qualcosa di simile in giapponese mentre, aperto il bagagliaio della
Mercedes e verificato che l’alba tenesse ancora in cuccetta i marinai delle
altre barche e lontano dal molo occhi indiscreti, si caricò con grande fatica il
corpo del prelato addormentato che nulla aveva lasciato di intentato pur di
ingrassare come un maiale e si affrettò a scomparire sotto coperta.
Depositò con cura il prigioniero sul pavimento di legno e lo legò per sicurezza ad una delle barre corrimano.
Pochi minuti dopo usciva dal porto di Fiumicino a vele chiuse accompagnato dal sordo borbottio del motore e dello sciabordio leggero che la chiglia
provocava spostando il liquido che stava incominciando solo allora a virare
da un anonimo grigio ad uno smorto verde scuro.
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Il fresco della brezza marina gli accarezzava il volto col suo frizzante profumo di un mattino sereno.
Finalmente Saverio si rilassò, curandosi solo della navigazione.
Quando fu ad oltre dieci miglia dalla costa che ormai si intravedeva sottile
sull’orizzonte ad est, fu colpito dai primi raggi del sole ed il verde del mare
divenne di un azzurro intenso e meraviglioso.
si vedevano intorno alla barca molti pesci che si battevano per il primo pasto
della giornata. Un gabbiano passò rasente la cima dell’albero e lo osservò
per capire se c’erano speranze di cibo, ma proseguì verso il mare aperto.
Saverio spense il motore e si dette da fare con le vele; poco dopo “Vento
Divino” faceva onore al suo nome filando verso ovest ad una discreta velocità mentre Saverio ascoltava ammirato e col cuore gioioso l’unico rumore
che rompeva il silenzio: lo sciabordio con cui la chiglia fendeva le acque del
mare.
§§§
Giudicò di essere abbastanza lontano dalla costa e che era giunto finalmente
il momento.
Ammainò la vela e scese sotto coperta. Il cardinale stava svegliandosi proprio in quel momento.
Il suo sguardo stralunato si mosse intorno per capire dove fosse stato portato
ma l’ambiente era troppo stretto per ispirargli un’idea. Sentiva tutte le ossa
rotte e un forte mal di testa gli attanagliava la fronte.
La bocca gli bruciava come il fuoco dopo che Saverio gli aveva “gentilmente” strappato di botto il cerotto telato.
Almeno poteva respirare meglio ma ogni tentativo di liberare le mani era inutile.
Incrociò gli occhi pieni di paura con quelli freddi di Saverio che nel frattempo si era nascosto il volto con un passamontagna.
“Dove sono?” riuscì a malapena a balbettare. Ma Saverio non rispose.
“Chi sei?” provò di nuovo ma ancora la risposta fu solo il silenzio.
“Che cosa vuoi da me?” Provò ancora con una voce che si stava incrinando
in un pianto singhiozzante.
Gli rispose solamente l’improvviso sballottamento provocato da un’onda
improvvisa e Sordano capì finalmente che si trovava a bordo di una imbarcazione e che era stato rapito.
“Se mi hai rapito per un riscatto, posso pagare … e bene!” tentò.
“Con questi?” finalmente Saverio gli rispose, mostrandogli una decina di
diamanti nel palmo della mano.
Il terrore nel volto di Sordano lasciò il posto allo sbalordimento ed allo
sconforto perché aveva scoperto che era stato non solo rapito ma anche derubato. Quell’uomo, chiunque fosse sapeva dei diamanti e chi gli aveva fatto
la soffiata? Forse dall’America qualcuno della setta? E come aveva potuto
rubargli quel tesoro così attentamente custodito? Rimase con la bocca spalancata. giusto il tempo per vedersi infilare in gola qualcuna di quelle pietre
trasparenti. Non poté sputarle perché la mano di Saverio, forte come una tenaglia gli serrò stretta la mascella e gliela tenne ferma finché Sordano non
fu costretto ad inghiottire.
“I tuoi diamanti li cagherai con la tua anima, porco!” ma Saverio capì che
stava perdendo la calma e la lucidità necessaria. Respirò a fondo e si rilassò.
70
Poi sferrò un tremendo manrovescio sul volto del prelato che sembrò svenire per il dolore.
Saverio gli scoprì il braccio e lesse a voce alta:
“Freedom forever!”.
Vide Sordano impallidire, dilatando gli occhi che sembrava cercassero
nell’aria un suggerimento per inventarsi qualcosa che non trovò. Tacque ma
un’altra sberla lo convinse che doveva confessare.
Sordano aveva fondato una setta all’interno della chiesa cattolica che aveva
lo scopo di riportare i riti e la liturgia alla severità antica.
“Quindi tu vorresti tornare alla Santa Inquisizione, ai roghi e alle torture?”
Sordano trovò il coraggio di difendere la sua organizzazione:
“E’ indispensabile; non possiamo più farne a meno: il mondo si è sfasciato,
si è degradato a tal punto che solo una severa restrizione dei costumi, un ritorno alle antiche regole del protocristianesimo potrà riportare gli uomini a
Dio”.
“Quale Dio?” gli chiese Saverio ma non attese una risposta. Gli sferrò un altro pugno che fece svenire il prelato e lo lasciò per risalire in coperta a controllare la navigazione. Ma soprattutto perché aveva bisogno di respirare aria pura: di sotto, alla grettezza ed alla vigliaccheria il prelato aveva aggiunto un completo rilasciamento dei suoi sfinteri, in una reazione emotiva incontrollabile.
Un gabbiano sfiorò l’albero e lo superò con il suo caratteristico grido e Saverio respirò a fondo prima di tornare di sotto.
Fino a quel momento non aveva ancora deciso che fine fargli fare ma ora
aveva le idee chiare e riusciva a stento a frenare la tentazione di ucciderlo
con un solo colpo di pistola e di buttare il cadavere a mare.
“Spiegami meglio come siete organizzati e chi fa parte della tua congrega!”
Gli urlò quando gli fu nuovamente di fronte.
“Non posso, ho promesso il segreto!”
“Se non parli, il segreto te lo porti nella tomba fra meno di un minuto” gli
urlò e gli puntò la pistola sulla fronte imperlata di sudore.
Furono pochi secondi ma decisivi. Saverio aveva azionato una telecamera
ed un registratore audio per essere sicuro di avere una confessione completa.
E Sordano confessò: la setta era diffusa in America tra il clero del continente, soprattutto negli U.S.A. Fu un fiume infinito di informazioni che aprirono uno scenario impensabile, pieno di sorprese: Freedom forever era strettamente legata alla CIA, ai vescovi dei paesi del Sud America, alla mafia di
Brooklin. E teneva in pugno decine e decine di preti colpevoli di pedofilia
ricattandoli e costringendoli ad agire secondo il loro volere.
Saverio ringraziava se stesso per aver avuto l’accortezza di far partire due
registrazioni.
Sembrava che Sordano vomitasse i fatti anziché raccontarli e ogni rivelazione superava di gran lunga ogni immaginazione fantareligiosa o fantapolitica.
Ormai sembrava un fiume in piena; forse la speranza di salvarsi o una reazione che solo uno psichiatra avrebbe potuto spiegare spingeva Sordano a
rivelare cose inaudite, talmente incredibili che Saverio cominciò a dubitare
che il cardinale inventasse tutto. Ma troppi nomi erano precisi, con date e
fatti che erano rimasti un mistero negli ultimi anni. Saverio ne sapeva qualcosa perché prima di avventurarsi in quel rapimento ordinatogli da tanto in
alto aveva voluto documentarsi attraverso fonti molto ben informate ed attendibili.
71
Nella mente confrontava i fatti narrati dal prelato con quello che sapeva sugli omicidi e le scomparse ma di cui conosceva solo notizie superficiali.
Aveva bisogno di aria pura ma non poteva fermare quella cascata preziosissima di brutture e di oscenità che stavano riempiendo due nastri di registrazione.
Il silenzio improvviso era forse il segnale che Sordano aveva finito.
“E questo è tutto quello che so”
“Non ti credo” ebbe il coraggio di ribattere Saverio. “Continua. Se hai la gola secca ti posso concedere un bicchiere d’acqua …”
“Ne avrei proprio bisogno ma …. ti assicuro, non ho più niente da rivelarti.
E credo che dovrebbe bastarti”.
“Giura sulla tua animaccia …”
“Ho già giurato a Dio che sto agendo per la gloria della chiesa e per …”
Ma non finì la frase:
“Hai ancora il coraggio di parlare di Dio, di bestemmiarlo?”
Ed un altro manrovescio di Saverio lo fece crollare a terra mentre un rivolo
di sangue gli usciva dal labbro inferiore che gli aveva spaccato.
Finalmente in coperta. Aveva accuratamente tolto i nastri della registrazione
e li aveva conservati in una custodia speciale, impermeabile ed inaffondabile.
Ora stava respirando di nuovo mentre il suo corpo aveva preso a tremare.
Ma Dio dove era finito? Possibile che proprio la “sua” chiesa fosse riuscita a
partorire progetti che sarebbero stati osceni anche per satana, ammesso che
esistesse? E Dio esisteva ancora o se ne era andato in qualche altro universo? E si chiese infine se il mondo fosse frutto del caos, un caos di ordine
prestabilito ma abitato da esseri infami: gli uomini.
All’orizzonte stava passando una petroliera imponente e Saverio ne stava
ammirando la grandiosità: gli uomini erano capaci di bassezze inaudite e di
costruzioni meravigliose in una continua e storicamente infinita contraddizione con la logica che gestisce il cervello umano: quella petroliera era ad
un tempo un’opera dell’ingegno umano e una delle fonti più terribili per la
distruzione della natura e del mondo in cui Dio o chi sa chi ci aveva messo.
Aveva bisogno urgente di una sigaretta e di un caffé. Scese sotto coperta e si
procurò ambedue le cose gettando appena uno sguardo di compassione verso quell’uomo; era stato educato a tenere sempre viva la sua coscienza: come poteva essere in buona fede? Come aveva potuto per anni nello stesso
tempo consacrare e offendere Dio e gli uomini, l’universo e la fiducia degli
altri?
Ma ora perché doveva essere proprio lui il boia? La rabbia che gli stava crescendo di dentro era diventata incontrollabile e non si rese conto che, mentre
era risalito a respirare si stava accendendo di seguito la terza sigaretta.
Un lamento da sottocoperta lo riportò alla realtà: doveva agire come aveva
promesso ed il sole stava già scaldando il levigato pavimento di splendido
legno della tolda.
Sapeva che in quel braccio di mare si incontravano spesso squali che seguivano le petroliere e cercavano cibo più vicino alla costa.
Preparò un’esca galleggiante con un pezzo di carne di manzo che aveva tenuto nel frigo di bordo e la lasciò cadere a poppa.
Il sangue e l’odore che perdeva avevano creato una scia invisibile agli uomini ma molto chiara per i piccoli ma voraci squali che non tardarono ad ar72
rivare. Le piccole pinne nere apparvero poco distante dalla barca dopo meno
di un quarto d’ora.
Tempo di avvistarle e già si precipitavano sull’esca che correva dietro la
barca. Saverio lasciò che assaggiassero ma poi sollevò la canna che teneva
in acqua la carne. Almeno ci provò ma il primo squalo teneva tenacemente
stretta l’esca nell’orribile bocca e sembrava volesse uscire dall’acqua tanto
era forte la presa. Saverio dovette rinunciare e lasciare che lo squalo si sfogasse a strattonare quel poco che rimaneva dell’esca.
Pur provando un senso di orrore osservando l’occhio vitreo dello squalo,
Saverio si mosse, ormai deciso a compiere quello che più odiava ma che
sentiva come un dovere verso se stesso e l’umanità.
Scese sotto coperta, legò intorno alla vita del cardinale una sagola robusta,
se lo caricò sulle spalle mentre si lamentava e si stava risvegliando del tutto.
Si sporse a poppa e, dopo aver assicurato alla sagola una corda più robusta,
gettò il corpo fuori bordo.
Sordano al contatto con il mare rinvenne improvvisamente e si rese conto
dove fosse finito.
Lanciò un urlo di terrore ed incominciò ad annaspare con le mani nell’aria
cercando di richiamare il suo boia ma Saverio finse di non sentire. Aveva lo
sguardo fisso oltre il corpo che si agitava nell’acqua trainato dalla velocità
dell’imbarcazione e vide finalmente avvicinarsi la pinna nera; Sordano non
poteva vedere alle sue spalle e la prima azzannata del pescecane lo colse
talmente di sorpresa che la sua bocca si fermò aperta in una smorfia atterrita
ed incapace di emettere suoni. Poi, gli occhi sbarrati nel vuoto, capì e l’urlo
terrificante colpì Saverio come una frustata. Si stava compiendo una vendetta atroce e Saverio provò ad un tempo orrore e compiacimento sadico per
quello che vedeva.
Si erano avvicinate altre bocche fameliche e dopo il primo pezzo del corpo
di Sordano, che si allontanava nella bocca soddisfatta dello squalo, il compagno che era giunto azzannò l’altra gamba e strappò tutto quello che poté
staccare sbattendo il muso a destra e a sinistra con furia cieca e forza terribile.
Sordano era ancora vivo e galleggiava urlando al cielo e chiedendo pietà ma
un terzo squalo riuscì a tagliargli il corpo all’altezza della vita e si allontanò
a sua volta.
Il corpo di Sordano era ormai completamente svuotato dall’interno ed una
lunga scia faceva orribilmente vedere galleggiare le sue interiora allungate
per vari metri mentre altri squali giunti se le contendevano con voracità inaudita.
Alla fine l’ultimo riuscì ad afferrarlo per il torace e con un fortissimo strappo scomparve sott’acqua con il resto del corpo.
Saverio vide ancora per un istante gli occhi orribilmente aperti e svegli
scomparire sotto la superficie mentre da ultime le braccia rimasero ancora
per qualche istante fuori dalla schiuma rossa di sangue.
La corda spenzolò alla fine inerte e solo allora Saverio agì sul timone per far
fare all’imbarcazione una rotazione; la barca si ritrovò così in mezzo
all’orribile banchetto perché Saverio volle essere sicuro che il corpo scomparisse tutto nella pancia di quei terribili animali: non c’era più nulla del
prelato, nemmeno un lembo di vestito e i pescicani ruotavano in mezzo
all’acqua ancora rossa di sangue alla ricerca di altri bocconi.
73
Saverio, col cuore greve e muto girò la barra del timone e prese il vento che
lo riportava a riva.
Vomitò fuori bordo e si accasciò sulla tolda maledicendo quando aveva accettato un incarico così schifoso.
§§§
JOHN DEVIL
Rivedere Aviano, anche se solo da turista, era un vero piacere per John Devil, ex tenente colonnello dell’aviazione degli Stati Uniti.
Aveva ricevuto una lunga lettera da parte di Send, che era stato suo compagno di missioni mentre compiva il suo dovere di pilota sorvolando quasi
ogni giorno il nord dell’Italia.
Lo aveva meravigliato che non gli avesse telefonato direttamente ma solo
scritto una breve lettera affettuosa in cui lo invitava a festeggiare la sua
promozione a colonnello. gli aveva anche indicato dove alloggiare, spiegandogli che era meglio non presentarsi alla base americana dopo il fattaccio
del Cermis.
Non che Send avesse qualche rimorso per quello che era successo, ma nella
lettera aveva vagamente alluso a forti cambiamenti all’interno della base e
nelle procedure di volo dopo l’incidente.
Devil durante il volo dagli U.S.A. su un velivolo civile aveva ripensato a
quel giorno molte volte.
Aveva rivissuto ogni istante della tragedia che aveva provocato con la sua
spavalderia ed incoscienza nello scommettere che sarebbe riuscito a passare
sotto la cabina della funivia.
Aveva sbagliato di poco, meno di un metro, perché non aveva tenuto conto
che in quel punto i cavi erano più bassi proprio per il peso della cabina ed il
timone di coda nel modello di velivolo che stava usando era più alto di quasi
un metro rispetto al solito aereo che usava in addestramento.
Quando si era accorto che avrebbe urtato il cavo era troppo tardi.
Rivedeva le fasi del processo, l’infamia delle accuse per altro più che giustificate ma ridotte nella loro gravità con pretestuose spiegazioni al governo italiano: un fatale concorso di eventi di cui il pilota non poteva essere responsabile e tanti bla, bla, accompagnati da umilianti offerte di denaro per i
parenti delle vittime.
Le autorità italiane aveva preteso l’arresto dell’autore dell’assurda bravata
ma i militari della base per voce di un cocciuto e rigido generale avevano respinto ogni richiesta limitandosi a dichiarare che la competenza giuridica
per quanto accaduto e l’eventuale punizione del colpevole era unicamente
della corte marziale statunitense.
Erano passati gli anni ma qualcuno non dimenticava di portare ogni anno
dei fiori nel piccolo cimitero delle Dolomiti dove erano state sepolte le vittime della tragedia.
Saverio si era fermato al cancello del cimitero e poco dopo era in piedi in
raccoglimento davanti alla lapide, annusando il profumo delle tuie resinose
che proteggevano i muri in una mattina di primavera ancora fredda di neve
ma limpida come può essere il cielo delle montagne.
Lesse i nomi, quasi mormorandoli uno per uno e finì assicurando i morti:
“Il miglior perdono è la vendetta”.
74
Aveva ricevuto la solita telefonata sul cellulare mentre in cima ad un altro
monte, il Subasio, contemplava la valle di Assisi in un rutilante tramonto
mentre il sole scendeva ormai rapidamente dietro Perugia in mezzo a cirrocumuli minacciosi che promettevano una notte di pioggia.
Avrebbe voluto rivedere Paola ma aveva saputo dalla sorella che era partita
per una settimana in Egitto, crociera sul Nilo, con un’amica.
Aveva preparato tutto con cura meticolosa. Non aveva alcuna difficoltà a
procurarsi tutto l’occorrente per preparare la trappola a Devil, la lettera con
cui l’amico Send lo invitava, le informazioni precise sulle sue abitudini e
preferenze nella vita privata, dove rintracciarlo e come tendergli l’esca nel
modo più convincente.
Gli aveva prenotato una lussuosa suite a Villa Ottoboni a Pordenone e aveva
lasciato precise istruzioni alla reception, compreso il numero di un cellulare
a nome di Send dove chiamare appena arrivato.
§§§
Devil stava assaporando un Martini ghiacciato mentre dall’ampio terrazzo
dell’albergo ammirava verso nord le montagne che facevano da cornice
all’aeroporto di Aviano.
Aveva cercato di mettersi in contatto dall’America con Send per annunciargli che aveva accettato l’invito ma alla base gli avevano risposto che era assente e che non avevano l’autorizzazione a far sapere per telefono se e
quando sarebbe rientrato.
Devil pensò ad una missione importante e segreta dell’amico in Medio Oriente dove spesso aveva anche lui dovuto intervenire per missioni improvvise e sperò di trovarlo di ritorno quando sarebbe giunto in Italia.
Appena in camera aveva chiamato il numero del cellulare che gli era stato
consegnato alla reception ma aveva dovuto accontentarsi di una segreteria
telefonica che in ottimo slang americano lo invitava a lasciare un messaggio
breve: sarebbe stato richiamato appena possibile.
Riprovò con la base ma ancora una volta ebbe risposte evasive che motivò
con il segreto militare: erano in corso missioni in Iraq, lo sapeva da fonti in
America e trovava naturale il silenzio dell’amico.
Mentre Devil ammirava il panorama due F-16 sorvolarono a bassa quota
Pordenone, diretti al campo di atterraggio, facendo rimbombare le mura
dell’albergo e bestemmiare in friulano molti degli abitanti. Devil provò una
stretta allo stomaco: sentimenti confusi tra emozioni e ricordi allegri e tristi.
Chissà, pensò, forse su uno di quei velivoli stava rientrando Send.
Quando circa dopo mezz’ora squillò il telefono Devil credette alla telepatia
che agisce quando due persone amiche da tempo si pensano: dall’altra parte
del filo la voce di Send lo salutò con una allegria ed una naturalezza che eliminò ogni eventuale difesa psicologica nella mente di Devil, ammesso che
ne avesse ancora dopo aver smesso di essere un militare soggetto a tanti segreti inconfessabili.
Send (o chi per esso) fu brevissimo: si scusava perché non poteva andare direttamente ad accoglierlo. Aveva mandato un suo subalterno che lo avrebbe
accompagnato in una villetta che aveva affittato da poco appena fuori Aviano. Doveva scendere nella hall dove il sergente Red Scott doveva essere già
lì ad attenderlo.
75
Devil finì di rinfrescarsi e scese allegro di rivedere presto il compagno con
cui aveva vissuto momenti felici e momenti molto tristi.
§§§
Saverio, tre giorni prima dell’arrivo di Devil, era riuscito a far cadere in una
trappola Send e, senza tante perplessità, lo aveva eliminato: lo aveva avvicinato all’uscita del campo militare con la scusa di chiedergli se conoscesse
appunto un certo Devil di cui era amico. Era bastato quel nome per allarmare Send ma lasciarlo perplesso per un istante di troppo a pensare perché
quello sconosciuto gli stesse facendo quel nome.
Send era stato coinvolto nel processo per le stesse cause che avevano portato
Devil di fronte ad una corte marziale. Quel giorno era dietro a Devil a meno
di settecento metri e, quando era passato nel punto in cui poco prima erano
tesi i cavi della funivia, ormai la tragedia era compiuta.
Con orrore aveva visto da lontano precipitare la cabina ma non aveva potuto
fare altro che passare nello stesso punto. Aveva maledetto il momento in cui
aveva accettato la sfida dell’amico di passare sotto i cavi.
Send non aveva causato l’incidente ma era coinvolto nella scommessa e per
questo avrebbe dovuto essere radiato. Lo avevano salvato i suoi precedenti,
una stretta parentela con un governatore e la necessità degli U.S.A. di ridurre al minimo il chiasso intorno all’incidente. Avrebbe voluto tornare in patria ma qualcuno aveva messo in atto una vendetta subdola e silenziosa; almeno così Send credeva perché la sua mente era rimasta sconvolta da allora.
In realtà lo avevano lasciato alla base in Italia proprio per allontanare ogni
sospetto circa la sua partecipazione alla bravata che era costata la vita a tante vite umane.
L’amico Devil non lo sapeva ma Send si era risparmiati altri guai raccontando in segreto al procuratore militare come erano andate effettivamente le
cose.
Send non avrebbe mai scritto la lettera che Saverio aveva falsificato per preparare la trappola a Devil, ma questi non poteva saperlo.
§§§
Il rumore delle pale dell’elicottero lo risvegliarono all’improvviso: Send
rinvenne legato come un salame a bordo di un elicottero che stava sorvolando una zona deserta delle cime che dividono la valle Aurina dall’Austria.
Non poteva riconoscere la cima del Sasso Nero altrimenti avrebbe capito
che il pilota (nascosto da un casco dalla visiera nera e impenetrabile) si stava dirigendo oltre il confine, in direzione dei ghiacciai e quando l’elicottero
era ormai sopra di essi si rese conto che non indossava più la sua divisa. Saverio aveva provveduto a tutto: lo aveva spogliato degli abiti, aveva eliminato ogni elemento di riconoscimento, documenti, piastrina ed altri oggetti e lo
aveva rivestito con una tenuta da scalatore completa di ogni strumento.
Send capì troppo tardi le intenzioni dello sconosciuto mentre, spinto improvvisamente fuori dall’elicottero, precipitava sul ghiacciaio con un urlo
animalesco. Saverio aveva avuto l’accortezza di trattenere la corda che lo
teneva legato in modo che, cadendo dall’elicottero, Send l’avrebbe spontaneamente srotolata col peso del suo corpo. E così fu: la neve accolse pietosa
Send ma nascondeva la roccia che era sotto il manto appena di pochi centimetri.
76
La morte fu istantanea e la neve dei giorni successivi avrebbe nascosto il
corpo chissà per quanto tempo.
§§§
Red Scott gli si fece incontro e si irrigidì davanti a Devil in uno scrupoloso
saluto militare.
Devil un po’ sorpreso ma ammirato rispose adeguatamente ma poi stese la
mano al sergente che, rilassandosi, gli disse;
“Venga, ho la macchina qui fuori”.
Devil si sorprese che Scott non fosse arrivato a prenderlo con una jeep militare ma poi pensò che Send preferiva evitare di attirare l’attenzione. Salì a
bordo di una Dodge con targa delle forze armate americane che Saverio non
aveva avuto difficoltà a procurarsi.
“Fatto buon viaggio?” chiese Red Scott, alias Saverio.
“Ottimo, grazie. E Send come sta?”
“Bene. Mi ha detto di scusarsi se non ha potuto venire a prenderlo di persona e di mettermi a sua disposizione per tutto quanto le occorre”.
“Grazie, è un vero amico. E … alla base che si dice?”
“I soliti problemi: missioni improvvise che si alternano a giorni di calma assoluta”.
Saverio capiva che non poteva mettere in imbarazzo il sergente a causa delle
severe regole sulla sicurezza della base.
Passarono proprio lungo la rete che proteggeva il campo e Devil cercò di
vedere i particolari delle piste, mentre ricordava …”
Saverio colse attraverso il retrovisore interno un sospiro di Devil e proseguì
in silenzio: aveva bisogno come sempre di conoscere meglio l’uomo che
stava per uccidere.
Oltrepassarono le ultime case e proseguirono per alcuni chilometri per imboccare alla fine un sentiero sterrato che si inoltrava in un bosco di abeti sulla sinistra.
Devil ebbe un momento di inquietudine ma poco dopo sbucarono dal bosco
proprio davanti ad un grazioso chalet ad un piano.
Il sergente, dopo essersi fermato proprio davanti all’uscio, scese e si offrì di
portare dentro la sacca, unico bagaglio di Devil, ma questi cortesemente non
glielo permise e lo seguì all’interno.
L’arredamento scarno era tuttavia accogliente e Devil immaginò come Send
se la spassava nelle notti di libera uscita in piacevole compagnia.
Il sergente si avvicinò ad un frigobar accanto ad un camino spento e gli
chiese se voleva bere qualcosa:
“Un whiskey, grazie, ma con molta soda”
Saverio non ebbe difficoltà, voltato di spalle, a sciogliere una bustina nel
bicchiere insieme al liquore e al ghiaccio.
“Mi spiace ma Send non ha la soda in frigo” e porse il bicchiere a Devil che
accettò con un cenno che pareva dire che non importava.
Accanto al camino due comode poltrone erano invitanti e Devil chiese se
poteva sedersi.
Saverio finse di scusarsi se non lo aveva invitato prima e si sedette a sua
volta in silenzio, continuando ad osservare il volto dell’uomo che doveva
uccidere.
“Send ritarderà molto?”
77
“Non credo” rispose Saverio fingendo di guardare l’ora sull’orologio al polso “A quest’ora dovrebbe avere smesso con le scartoffie dopo il volo e sarà
qui a momenti. Vuole che accenda il camino?”
“No, grazie” balbettò Devil che incominciava a subire l’effetto del potente
narcotico; sentiva salire un calore di dentro e la vista gli si stava annebbiando. Cercava di reagire e pensò per un po’ all’effetto del fuso orario ma non
si rese conto che la voce di Saverio ormai gli giungeva come da una galleria
della metropolitana, improvvisamente lenta e bassa. Non riusciva ad afferrare il senso delle parole e tutto ad un tratto crollò in un sonno profondo, rilasciando sul divano il corpo come un sacco floscio.
Saverio restò immobile per alcuni minuti seduto davanti a Devil che si era
addormentato profondamente. Osservò a lungo quell’essere mortale che aveva sulla coscienza tante vite umane stroncate per una sciocca scommessa.
Mentalmente ricostruì la scena e vide più volte il passaggio dell’aereo che
spezzava la fune che si lanciava nel vuoto come una frusta impazzita.
Ma quello che lo faceva andare in bestia era il ripetersi del passaggio: sapeva, dai dati che era riuscito a carpire su internet violando i segreti
dell’archivio militare, che il “giochino” si ripeteva quasi ad ogni volo in
quella valle.
Alla fine si decise e con non poca fatica caricò il corpo inerte sul veicolo
con il quale era giunto alla casetta che aveva preso in affitto per pochi giorni
con la scusa di una vacanza.
A pochi chilometri a nord c’era un piccolo campo di aviazione in disuso ma
Saverio vi aveva portato poche ore prima un Cessna monomotore.
Caricò Devil accanto al posto del pilota. Nascose la vettura nell’hangar abbandonato con il tetto in lamiera ondulata che sbatacchiava al vento e si mise ai comandi del Cessna. Pochi secondi dopo si alzava nel cielo dirigendosi
verso nord est.
Il viaggio fu abbastanza lungo, giusto il tempo perché Devil finalmente si
svegliasse. Stordito e con un forte mal di testa mormorò parole indistinte.
Quando fu un po’ più cosciente rimise insieme i fatti e le immagini e si
chiese che cosa stesse facendo a bordo di un piccolo apparecchio civile che
rombava a tutto regime mentre si arrampicava nel cielo.
Si voltò verso il sergente (o quello che credeva fosse il sergente) e gli chiese
che cosa era successo.
“Stiamo facendo un viaggetto” fu la risposta laconica di Saverio, mentre
puntava il muso in alto per raggiungere una quota superiore.
“Che cosa mi è successo? E dove mi sta portando? Forse da Send in qualche
base segreta?”
“No, la sto portando a morire” rispose Saverio guardando avanti come se
dovesse badare a dove si stava dirigendo.
Devil si accorse solo allora che era legato mani e piedi e che non poteva
muovere alcuna parte del corpo.
“Le sconsiglio vivamente di tentare di liberarsi; potrebbe farsi del male” e si
volse finalmente a guardarlo dritto negli occhi.
Devil rabbrividì pensando di essere in mano ad un pazzo. Cercò di capire la
direzione del velivolo ma ebbe l’informazione da Saverio:
“Qualche anno fa lei ha percorso questa stessa rotta ed è giunto con il suo
amico Send che lo tallonava dentro la valle in cui stiamo per entrare, ricorda?”
E Devil finalmente capì di essere caduto in una trappola mortale.
78
“Che intenzioni ha?”
Di farle provare il brivido della morte come l’hanno provata quei poveretti
che sono morti per causa di una sua stupida scommessa …”
“Non fu una scommessa la causa ma una serie di circostanze sfortunate …”
Devil tentò di difendersi.
“Lei dice troppe bugie e le hanno lavato il cervello ma lei consoce molto
bene la verità”
“E Send sa del mio …. rapimento?”
“Non credo … almeno che non abbia una percezione in diretta
…
dall’aldilà”
“Che cosa intende dire?”
“Che è morto, provando l’ebbrezza di cadere da tremila metri senza paracadute …”
“Non … lei ha …”
“Sì io ho …. e fra poco le riserverò un trattamento di favore …”
“Perché fa tutto questo?” La domanda non era provocata da pura curiosità
ma era un tentativo di prendere tempo per cercare una via d’uscita.
“Perché lei è gravemente colpevole della morte di tanti innocenti, perché il
governo italiano non ha voluto incrinare i buoni rapporti diplomatici con gli
U.S.A., perché voi americani avete troppa spocchia e credete di poter comandare al mondo sempre e in ogni momento anche quando vi comportate
come delinquenti.
Devil tacque. Tentò di vantare il risarcimento che era stato offerto ai familiari dei morti…
“Non è quello che può riportarli in vita. Per la vita di un uomo non c’è un
prezzo, a meno che non si sia dei delinquenti. E poi io voglio punire la vostra prepotenza, la stessa che vi ha portato a distruggere interi villaggi in
Vietnam in una guerra assurda che non dovevate nemmeno pensare di incominciare”.
Saverio variò leggermente la rotta spostandosi verso sinistra per allinearsi
con la valle che era ormai vicina e proseguì:
“Voi americani avete bisogno di una lezione che io non posso pretendere di
darvi. Ma intanto provvedo a sistemare te e la tua vigliaccheria: tu potevi dichiarare la verità e non lo hai fatto, sicuro di avere l’appoggio interno dei
tuoi superiori che non gradivano critiche da parte di noi italiani”.
“Tu vaneggi …” ormai erano passati tutti e due al tu senza accorgersi ma
questo non diminuiva nell’uno un odio profondo e nell’altro la paura di una
morte ormai prossima:
“Vuoi forse buttarmi dall’aereo come hai fatto con Send?”
“Non illuderti, non ti faccio fare un volo da angelo: ti ho riservato un altro
trattamento.
Devil si rese conto che l’italiano era troppo determinato. Mentre tentava, inutilmente, di liberarsi dai legacci che lo attanagliavano al sedile, provò altre strade.
“Se tu hai un briciolo di umanità possiamo ragionare. Prima che tu compia
un gesto irreparabile posiamo considerare … metterci d’accordo …”
Ma lo sguardo di fuoco di Saverio gli fece morire in gola ogni altra parola
che avrebbe voluto dire.
Passarono alcuni minuti di terribile silenzio in cui regnava solo il rumore
regolare del motore.
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Devil pensò che da un momento all’altro lo sconosciuto lo avrebbe scaraventato fuori dalla piccola carlinga e si preparò e studiò che cosa avrebbe
potuto tentare in quegli istanti mortali e decisivi.
Ad un tratto davanti al piccolo aereo si aprì come un corpo accogliente la
valle con tutti i suoi tristissimi ricordi. Devil rabbrividì ricordando e capì le
intenzioni dello sconosciuto.
“Non mi hai risposto alla domanda iniziale: chi sei?”
“Non ti riguarda: guarda davanti a te e …. ricorda …. ricorda quei momenti
tristi”
Il Cessna era ancora troppo alto ma la visuale era limpida, tanto che Devil
riuscì ad intravedere sotto di sé il punto esatto dell’impatto della cabina.
Dentro di sé urlava per il ricordo ma non provava dolore, solo rabbia vero lo
sconosciuto.
Intento ad osservare il panorama in basso che scorreva sotto il piccolo velivolo non si accorse che Saverio aveva aperto la porticina dalla sua parte e si
era sganciato dal sedile.
Accadde tutto in pochi attimi: Saverio si lanciò nel vuoto e Devil che aveva
creduto che sarebbe morto perché gettato dal velivolo senza paracadute, si
rese conto che invece sarebbe rimasto dentro al velivolo e sarebbe precipitato con lo stesso senza poter fare nulla per evitarlo.
Visse con il cuore che sembrava scoppiare e con l’orrore negli occhi di quella terribile picchiata che l’aereo iniziò, privo di ogni controllo perché Saverio aveva disinserito il pilota automatico.
Da oltre quattromila metri Saverio, una volta aperto il paracadute. mentre
scendeva lentamente rimase ad osservare la caduta del Cessna.
Si sentiva irrigidire dal freddo della vendetta più che da quello dell’aria che
gli sferzava il viso.
Non sentì ma poté immaginare l’urlo di terrore di Devil e si lasciò andare ad
un compiacimento per la missione compiuta.
Manovrando le corde del parapendio fece in modo di avvicinarsi al punto di
impatto del velivolo che si schiantò su un prato verde esplodendo e lanciando pezzi di ogni genere in tutte le direzioni.
Una volta a terra si liberò del parapendio e corse verso il punto dell’impatto
avvenuto sulla montagna a circa duemila metri d’altezza.
Saverio, che aveva scelto bene il punto in cui far cadere l’aereo poté constatare definitivamente la morte di Devil: la sua testa decapitata era rotolata per
tutto il prato come un boccia e si era fermata a poche decine di metri da Saverio. Aveva ancora l’orrore negli occhi. Saverio, ora che la vendetta era
stata compiuta, ebbe pietà di quel cranio e del corpo che stava bruciando nel
velivolo in fiamme.
§§§
Dopo aver provveduto a compiere i riti di rispetto per il corpo di un morto e
fatto sparire il parapendio in una grotta vicina, Saverio prese la via della discesa a passo svelto, mentre già si accendevano nella valle le prime luci della sera.
Si fermò a bere ad una fonte che i montanari usano ricavare con un pezzo di
canna nei rientri dei sentieri dove c’è una sorgente, compose un numero sul
cellulare e rispose solo con un “Sì” alla domanda che gli fu rivolta dall’altra
parte.
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Riempì i polmoni di aria fresca allargando le braccia, provocando una respirazione ampia, cosciente e controllata che gli aumentò l’energia vitale. Si
mise in bocca una barretta di cioccolato nero fondente e si avviò sulla via
del ritorno.
Quella notte, ritornato nell’albergo dove aveva alloggiato, sognò Paola nuda
accanto a sé e si perse in un labirinto di immagini surreali come se si fosse
fatto una canna.
GLI ALBANESI
Il caffé di Paola era una vera ciofeca ma alla terza tazza si stava svegliando.
Era solo nel salone della villa di Paola che era schizzata via con la sua vecchia Ypsilon Fire perché, come la solito, era in ritardo.
E aveva tutte le ragioni, pensò con un minimo di rimorso Saverio: con una
notte come quella appena trascorsa era preoccupato che Paola non abbattesse qualche quercia lungo il percorso verso l’ufficio.
Manovrò sul telecomando: c’era in onda il telegiornale delle otto.
Si accese una Malboro e si rilassò riempiendo la tazzina del caffè-ciofeca
ormai vuota con la cenere della sigaretta.
Le notizie gli passavano davanti agli occhi senza che prestasse la minima attenzione ma il suo subcosciente aveva i sensori accesi e registrava. Ad un
certo punto però gli si rizzarono le orecchie: una famiglia di una villa vicina
era stata rapinata da alcuni banditi durante la notte: avevano seviziato una
vecchia ed un bambino. Immediatamente il suo cervello tornò in funzione e
l’adrenalina diede una bella pompata al muscolo cardiaco.
Ed ecco che i fatti tornarono obbedienti ad uscire dal suo subcosciente, tutti,
anche quelli che erano stati annunciati da alcuni secondi. La giornalista era
passata a parlare del prezzo del greggio mentre Saverio ricostruiva mentalmente il fatto: durante la notte in una villa di frazione Paradiso sulla strada
per Gubbio tre o quattro stranieri erano piombati in una villa piuttosto isolata ed avevano seviziato i membri della famiglia per farsi dire dove fosse la
cassaforte. Il padrone della villetta, un piccolo imprenditore aveva azzardato
un tentativo di reazione ma era stato abbattuto da numerosi colpi di arma da
fuoco che lo avevano ucciso sul colpo.
I banditi dopo la sparatoria erano fuggiti senza portare via nulla, spaventati
dalle grida della moglie dell’imprenditore e dagli urli dei bambini che erano
stati picchiati con sberle e pugni.
La vecchia madre dell’imprenditore era stata trovata a terra svenuta dai paramedici del 118 chiamati tempestivamente dal figlio maggiore dopo che i
banditi erano fuggiti per l’improvvisa ed inaspettata reazione del padrone di
casa.
Il notiziario terminava con un particolare molto importante: l’imprenditore
prima di morire aveva sparato due colpi con la pistola che era riuscito a prelevare con uno stratagemma da un cassetto dello studio dove aveva attirato i
banditi con la scusa della cassaforte. Nel giardino i carabinieri avevano trovato tracce di sangue che portavano fino al muro di cinta. Le indagini erano
in corso e le forze dell’ordine, anche grazie alla descrizione fatta dal figlio
maggiore della vittima, erano in possesso di elementi sufficienti per risalire
agli autori, già noti.
E quel “già noti” fece scattare l’adrenalina alle stelle nel cuore di Saverio.
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Tutto il piacere provato quella notte con Paola ed il ricordo nel quale si stava cullando, assaporando uno di quei momenti che chiamava dentro di sé il
“riposo del guerriero”, annegarono in una nuova realtà.
Passarono pochi secondi e, quando il telefono squillò, Saverio era già con la
mano sulla cornetta prevedendo la chiamata; rispose a monosillabi come
sempre al suo interlocutore:
“Sì, ho sentito. Me lo aspettavo. No, ho tutti gli elementi per …”
“Come li vuole, vivi o …”
Saverio sentì un senso di irritazione per la domanda che non doveva essere
posta perché aveva una risposta ovvia. Ma a Saverio piaceva comunque sentirselo confermare sempre: non voleva vittime gratuite.
“No, questa volta non ce n’è bisogno; no, lo faccio perché … non si preoccupi, lo faccio e basta”.
Uscì vestito ancora del solo accappatoio sotto il portico e la vecchia spinona
bastarda che Paola aveva salvato alcuni anni prima dal canile municipale si
accostò menando la coda. Si lasciò accarezzare la testa con molto piacere e
poi tornò alla sua occupazione del momento: un osso di stinco che cercava
di sbriciolare nell’erba, sotto un vecchio albicocco carico di galle e di resina.
Nel silenzio che si adagiava riposante, dolce nella foschia dell’autunno sulla
campagna sottostante che si stendeva fino alle colline di Cannara a sud e a
Bettona a ovest, Saverio si inginocchiò all’orientale in meditazione zen e un
piano d’azione gli sorse spontaneo nel cervello.
L’aria era di carica dei profumi dell’autunno ed i colori tenui delle querce
davano il sapore della vita della natura che si stava avviando al riposo invernale.
La mente di Saverio già elaborava ogni dettaglio sapendo quello che avrebbe fatto e soprattutto il tempo che avrebbe dovuto lasciar trascorrere prima
di poter intervenire. Senza farlo sapere avrebbe aiutato i carabinieri in modo
che riuscissero a pizzicare gli autori, poi avrebbe dovuto aspettare il processo e sperare che un buon avvocato ottenesse la concessione degli arresti domiciliari o il decreto di espulsione. Una volta liberi avrebbero subito la “ley
de fuga”, l’arma migliore che Saverio sapeva usare molto bene con coloro
che si permettevano di pensarla di averla fatta franca. Peccato che sarebbero
trascorsi alcuni mesi mentre i tre o quattro (presto avrebbe raccolto notizie
più precise), dopo essere stati beccati, sarebbero vissuti a spese del contribuente italiano.
Rientrò a farsi una doccia e un’ora dopo era in sella alla sua Kawasaky a
spasso per le strade dell’Umbria.
Quattro mesi dopo i corpi di quattro albanesi furono ritrovati dietro il muro
del cimitero di Assisi, orribilmente massacrati a colpi di machete. Più che i
corpi, erano stati trovati i resti ed il medico legale aveva faticato non poco
alla loro identificazione. In bocca a ciascuno di loro un biglietto con la scritta: Gubbio.
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ZADDAM
La sua apparente spensieratezza mentre passava al chek-in dell’aeroporto di
S. Egidio nascondeva una carica di inquietudine ben giustificata: doveva entrare negli U.S.A. senza destare sospetti ma sapeva di essere conosciuto e
segnalato dai servizi segreti americani.
E sapeva anche che non erano i servizi della CIA che si erano attivati contro
di lui ma quelli di un’altra organizzazione che agiva parallela con una struttura sconosciuta e che dipendeva unicamente da un ristretto gruppo di generali
Era perciò ricorso ad un trucco semplice ma efficace: piccoli baffetti, occhiali ray-ban da duro, testa rasata completamente. poteva sembrare un sergente dei marines.
E i suoi documenti infatti erano intestati a John Sutherland, sergente maggiore dei marines in licenza dall’Iraq. Sembrava un sosia di Bruce Willis,
tanto che l’addetto al controllo lo aveva fissato per alcuni secondi, quasi incredulo e dubbioso ma Saverio fugò ogni dubbio, dicendogli in un perfetto
americano con l’accento del Texas:
“No, amico, non sono … lui. Io sono John Sutherland e la guerra la faccio
sul serio e non sul set”.
La battuta fece sorridere il doganiere e dissipò la diffidenza.
Pochi minuti dopo Saverio stava percorrendo in taxi il tunnel che lo avrebbe
portato fuori da New York.
Cambiò taxi più volte intervallando lunghi tratti a piedi per evitare che potessero ricostruire il suo viaggio nell’interno del New Jersey.
Aveva informazioni precise e sapeva che la missione era pericolosa ma era
molto determinato.
Finalmente, dopo tre ore di tappe in taxi, intervallate da lunghe camminate
salì a bordo di un elicottero con il quale si alzò in volo da un vecchio aeroporto in disuso e che non appariva più nelle carte militari né in quelle della
CIA.
Un amico di Pia De Uto, per sdebitarsi da un vecchio favore, aveva lasciato
il velivolo pronto per Saverio in quel campo d’aviazione sperduto, senza sapere perché e senza chiedere nulla: aveva obbedito con la semplicità di chi
credeva che Pia De Uto agiva per il bene dell’umanità.
§§§
Zaddam era stato segretamente trasportato in America il giorno dopo il suo
ritrovamento sotto terra.
Gli americani lo avevano sostituito con uno dei tanti sosia che avevano rintracciato imboscati in Iraq; questi avevano in molte occasioni sostituito il
Dittatore in cerimonie pubbliche.
Riuscivano a non destare alcun sospetto ma temevano piuttosto molto spesso per la propria incolumità.
Saverio aveva avuto tutte le informazioni necessarie da Pia tramite un messaggio contenuto in un recipiente imprevedibile: la decima lattina di salsa
Cirio sul terzo ripiano dello scaffale degli scatolati del Supermercato di S.
Maria degli Angeli che Paola, su istruzioni di Pia, aveva diligentemente acquistato e portato a casa senza indagarne il perché.
83
E non si meravigliò se Saverio quella sera volle preparare personalmente un
sugo semplice per gli spaghetti: era buono e Saverio non fece trapelare nulla.
Volle anche riassettare la cucina, cosa di cui Paola fu molto grata: non sapeva che Saverio aveva bisogno di leggere il messaggio dal microchip che era
contenuto nella scatola.
Più tardi il letto ospitò le loro effusioni a lungo: la luce dell’alba filtrava dalle persiane quando Saverio ancora una volta scivolò fuori dal caldo letto,
ancora inebriato dal profumo della pelle di Paola.
Un’ora dopo parcheggiò la sua moto sul piazzale dell’aeroporto S. Egidio e
si imbarcò per Roma dove avrebbe fatto appena in tempo a prendere il volo
per gli U.S.A.
§§§
La valle che nascondeva la prigione in cui tenevano nascosto Zaddam era
una gola stretta, un antico canyon, le cui pareti erano ricoperte da una fitta
vegetazione di arbusti spinosi e popolate da serpenti a sonagli.
Saverio si inoltrò con l’elicottero lungo le tortuose curve manovrando con
delicatezza sulla cloche e tenendosi a quota talmente bassa che a volte ebbe
la sensazione di sfiorare la vegetazione.
Arrivò nel punto in cui si apriva una gola laterale sulla destra inaccessibile
ai radar.
Scelse la nuova direzione e meno di un minuto dopo apparve improvviso
sopra una radura larga poche centinaia di metri, apparentemente deserta,
salvo una baracca di legno che appariva in uno stato di completo abbandono, chiaramente non abitata più da tanto tempo.
Saverio la sorvolò in cerchio per capire meglio la posizione e poi si decise
ad atterrarle di fianco a pochi metri, dalla parte opposta del lato della baracca sul quale si apriva una porta.
Dopo che il rotore si fermò definitivamente, il silenzio che seguì era impressionante ma i corvi che si erano allontanati per lo spavento tornarono ai loro
posti sui rami secchi di alcuni avanzi di alberi poco distanti protestando con
i loro versi sgraziati.
Si acquietarono subito e per Saverio fu una conferma che il posto era frequentato spesso: i corvi non si sarebbero azzittiti tanto presto se il suo elicottero fosse stato una novità per loro.
Saverio scese silenziosamente, il mitra nella destra e la mano sinistra pronta
sulla cintura dalla quale avrebbe potuto estrarre velocemente la Magnum
pronta col colpo in canna.
Cercò di limitare lo scricchiolio degli stivali sul terreno, il fondo di un antico greto di fiume.
Si fermò quasi acquattato a terra lungo la parete di legno del retro della baracca e attese.
Non gli ci volle molto: due minuti dopo sentì del movimento dentro la baracca e si tenne pronto.
Il militare che uscì cauto dalla porta allargò la sua visuale spostandosi sul
terreno ed allontanandosi sullo spiazzo. Poté così scorgere l’elicottero al
quale si avvicinò molto lentamente; ma giunto all’angolo della baracca fu
assalito da Saverio alle spalle e crollò sotto un colpo di karate alla nuca. Saverio trascinò il corpo verso alcuni cespugli vicini per nasconderlo, lo denu84
dò e indossò la sua divisa dopo avergli chiuso la bocca e gli occhi con un
nastro adesivo ed averlo legato in modo che non si potesse muovere, salvo
morire incaprettato.
E finalmente poté avvicinarsi alla porta. Pochi secondi di ascolto e poco dopo si trovò dentro.
La baracca era completamente vuota, non c’era alcuna traccia di aperture o
di botole, e non c’era alcun oggetto particolare, salvo una cassa di legno apparentemente innocua vicino alla parete di sinistra, forse messa lì per fare
sedere più comoda una persona che avesse dovuto rimanere a lungo di guardia in quell’ambiente buio e silenzioso.
Ma Saverio non si lasciò ingannare: sollevò molto lentamente di qualche
centimetro la cassa di legno e guardò sotto: una tastiera lucida, di quelle che
si usano per manovrare le gru da terra faceva bella mostra di sé, distesa a
terra. Doveva avere un radiotrasmettitore incorporato perché non era collegata a niente.
Saverio attese un po’ prima di decidersi a prelevarla lentamente e ad osservarne i particolari. Alla fine, assicurato che non c’erano pericoli immediati,
azionò l’unico pulsante di colore giallo al centro della tastiera. Passò meno
di un secondo ed all’improvviso sembrò che tutto sprofondasse sotto terra:
l’interno della baracca era in realtà un ascensore che stava ora scendendo
lentamente sotto terra, lasciando in alto solo la parte esterna in legno che,
come un involucro generico, rimase ferma al suo posto per mimetizzare il
congegno di discesa.
Saverio si acquattò dietro la porta da cui era entrato e si guardò intorno per
capire se ci fosse qualche telecamera nascosta che lo stesse osservando. Rimase quasi deluso della scarsità di strumenti di controllo ma fu nello stesso
tempo contento di non dover subire altre prove.
Uscito dalla porta della parte interna della baracca, si trovò immediatamente
in un corridoio di acciaio dove non c’era anima viva, ma l’occhio di una telecamera lo stava puntando curiosa.
Saverio cercò di apparire il più naturale possibile e lanciò un saluto verso
l’obiettivo ma curando di non far vedere il volto.
Decise la direzione e si inoltrò senza correre per il corridoio a destra. Pochi
metri e dovette decidere se proseguire sulla deviazione a destra o a sinistra.
Lo aiutò il rumore di passi provenienti dalla parte destra e dopo un secondo
si trovò di fronte ad un gigante negro che gli sbarrò il passo.
“Dove credi di andare?” gli chiese il militare forse pensando che Saverio si
fosse sbagliato.
“Mi hanno detto di prelevare il prigioniero”gli rispose ingenuamente “e di
portarlo di sopra perché lo vogliono trasferire”.
“Io non ho avuto ordini; fammi vedere i documenti per il trasferimento” gli
intimò portando contemporaneamente la mano alla pistola d’ordinanza, ma
non fece in tempo a toccare il manico dell’arma:la lama di un pugnale da
combattimento gli aveva già squarciato la gola.
Mentre il negro crollava a terra rantolando e cercando di liberarsi della lama
incastrata tra la clavicola e la giugulare, Saverio lo scavalcò e corse avanti.
Scoprì che pochi metri dopo, lungo il lato destro si aprivano celle con cancelli metallici con piccole feritoie.
Dovette iniziare ad aprire i piccoli sportelli per trovare la cella giusta e finalmente, alla luce violenta del neon che inondava ogni angolo dell’acciaio
che avevano abbondantemente sprecato, lo riconobbe.
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Ebbe un tuffo al cuore: non aveva pensato prima a quello che avrebbe provato trovandosi di fronte alla bestia umana che aveva ucciso tante migliaia
di uomini senza battere ciglio.
Gli bastò il ricordo di quello che aveva visto e letto nelle fonti di informazione per fargli cacciare ogni esitazione.
Richiuse lo sportello e maledì la sua sbadataggine: come avrebbe potuto aprire la porta senza una chiave?
Ma fu proprio Zaddam a venirgli in aiuto, convinto che quell’uomo che gli
era apparso al di là della piccola fessura fosse un improvviso liberatore. Gli
indicò la parete in fondo dove faceva bella mostra di sé un quadro elettrico
che comandava tutto, celle, corridoi e luci.
Occorreva far presto e Saverio si precipitò al quadro, capì come doveva agire ed un secondo dopo era davanti alla cella aperta di Zaddam.
Senza una parola lo fece uscire nel corridoio e, dandogli delle spinte sui
fianchi col mitra gli fece capire che doveva correre.
Scavalcarono la guardia che era ormai morta dissanguata, raggiunsero
l’ascensore e pochi minuti dopo l’elicottero si levava in volo, portandosi via
due uomini, Saverio e Zaddam che ancora non credeva ai suoi occhi. Aveva
qualche dubbio ma quando la voce nell’interfono tuonò minacciosa intimando di rientrare e di arrendersi, pensò di essere stato liberato da qualcuno
che non voleva, non poteva o non aveva voglia di parlare.
Saverio mantenne il silenzio radio e tenne la bocca chiusa. Riprese la via del
ritorno, mantenendosi a bassissima quota fino a che non uscì dalla valle. Solo allora si volse a guardare il prigioniero che aveva liberato: gli stava sorridendo ignaro ma un secondo dopo rovesciò il capo, tramortito dal potente
colpo che Saverio gli sferrò col calcio della pistola.
Mentre Zaddam si perdeva nel mondo dei sogni, Saverio dovette pensare a
come liberarsi degli inseguitori che sarebbero certamente apparsi appena
avesse superato il bordo del canyon.
Il destino gli vene incontro: ad una curva scorse alla distanza di meno di
cento metri un paio di grotte quasi a livello del fondo del canyon.
Agì rapidamente, abbassò l’elicottero fino a fermarlo davanti ad una delle
grotte, scese lasciando il motore ad un basso numero di giri, si caricò sulle
spalle il pesante fardello e si diresse verso la grotta più vicina.
Appena entrato si guardò intorno e fu soddisfatto: ambiente pulito e buio,
piatto e ricco di antiche stalattiti e stalagmiti. Adagiò il corpo di Zaddam ancora addormentato sul terreno, accanto ad una di quelle robuste colonne di
carbonato di calcio che si congiungevano al soffitto con le loro sorelle con
cui erano cresciute nei secoli goccia dopo goccia e lo legò saldamente. Aggiunse abbondante nastro adesivo sulla bocca, sugli occhi e sulle orecchie
del prigioniero e per sicurezza la colpì ancora duramente per evitare che si
risvegliasse molto presto.
Sapeva che Zaddam non avrebbe potuto fare nulla a causa del modo in cui
lo aveva legato alla colonna: avrebbe dovuto rimanere immobile perché privo di ogni contatto visivo ed uditivo con l’esterno: aveva bisogno di tenerlo
così per molto tempo, fino a che sarebbe potuto tornare a riprenderlo.
Fece appena in tempo a risalire sull’elicottero e a levarsi in volo quando
all’uscita dell’ennesima curva del canyon si trovò di fronte un elicottero
dell’esercito, pronto a sparargli.
Aveva spento la ricevente appositamente per non dover rispondere: doveva
assolutamente sparire senza soccombere e fece d’istinto quello che non a86
vrebbe voluto fare: partirono dal suo velivolo due razzi che colpirono in
pieno il nemico. L’elicottero esplose in una palla di fuoco e, mentre precipitava lungo il pendio del canyon, Saverio manovrò per levarsi in alto il più
presto possibile.
Appena superato il bordo del canyon appoggiò il velivolo sul terreno e
scappò precipitosamente mentre il meccanismo di autodistruzione da lui attivato, entrò in funzione.
Riuscì a percorrere poche decine di metri quando l’esplosione dell’elicottero
lo tramortì buttandolo contro una parete di roccia: aveva preparato tanto di
quell’esplosivo prevedendone la necessità proprio perché chiunque avesse
ispezionato i resti del velivolo non potesse trovare alcuna traccia circa la sua
provenienza.
§§§
La CIA era in subbuglio perché non sapeva che cosa stesse succedendo realmente, chi fosse l’uomo che aveva rapito il vero Zaddam, chi aveva alle
spalle perché doveva essere la punta di un iceberg che l’organizzazione ignorava.
E questo era il punto che più aveva mandato in bestia il Colonnello Warner,
il capo dell CIA: non poteva accettare che i suoi uomini fossero stati ingannati così abilmente, che non avessero rilevato alcun elemento sospetto, foto,
incontri, intercettazioni telefoniche, controlli satellitari, delatori e informatori: assolutamente niente, nemmeno da parte degli ex di Zaddam che si erano
schierati con la CIA dopo la fine dell’invasione dell’Iraq.
E di questo stato confusionale Saverio era consapevole e ne approfittò. Una
lunga camminata lo portò all’abitato più vicino dove si mescolò tra la gente.
Si mosse come un qualsiasi turista, temendo di essere osservato: durante il
tempo impiegato per raggiungere il villaggio gli agenti della CIA avevano
raggiunto i resti dell’elicottero sperando di trovarci almeno il cadavere di
Zaddam.
Dopo la delusione si misero alla ricerca di eventuali tracce, basandosi sul resoconto satellitare che mostrava l’esplosione del loro elicottero ma non erano in molti e non avevano abbastanza tempo e uomini per battere ogni angolo del canyon.
Saverio, dopo aver fatto pochi acquisti di cibo e acqua ed alcuni strumenti in
un piccolo emporio, uscì a piedi dal villaggio e si fermò in un boschetto isolato dove attese la notte, recuperando le forze e nutrendosi golosamente di
frutta fresca.
Era buio e le strade polverose del villaggio erano deserte. Saverio attese che
l’auto dello sceriffo locale facesse l’ultimo giro di ispezione prima di ritirarsi nel suo ufficio dove si sarebbe fatto il sonno dei giusti.
Aveva già notato un fuori strada Ford piuttosto vecchio e con la vernice
scrostata: l’ideale per non farsi notare. Trafficò pochi secondi sotto il cruscotto e ripartì lentamente con il motore al minimo.
Rifece in pochi minuti il percorso che aveva fatto poche ore prima a piedi e
si fermò sul bordo del canyon. Con la torcia che aveva acquistato
all’emporio iniziò la perlustrazione per cercare un possibile varco per scendere alle grotte con l’automezzo. dovette camminare a lungo e alla fine la
sua insistenza fu premiata: un viottolo abbastanza largo per far passare un
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automezzo scendeva piuttosto ripido fino al greto asciutto del torrente del
canyon.
Fu davanti alla grotta in pochi minuti, stando molto attento a guidare con
circospezione per non rovesciarsi e per avere il veicolo intatto per la risalita.
Ritrovò il corpo di Zaddam immobile e per un momento temette che fosse
morto: non avrebbe mai accettato di privarsi di una sadica vendetta personale. Emise un sospiro di sollievo dopo aver constatato che era vivo e che, forse convinto di non potersi liberare, si era profondamente addormentato.
Del resto sarebbe stato difficile accorgersi dell’avvicinarsi Saverio perché
era stato isolato completamente da tutto ciò che poteva avvenire fuori dal
suo corpo; nemmeno l’avvicinarsi dei passi di Saverio sarebbero stati percepiti come vibrazioni sia per il terreno della grotta sia per la delicatezza con
cui Saverio si era avvicinato.
Quando Saverio con poca gentilezza si mise a strappare il nastro adesivo incominciando proprio dagli occhi, lo sguardo di Zaddam apparve improvviso
solo come un gran terrore: era svenuto sotto il colpo della pistola
sull’elicottero mentre pensava che qualcuno lo stesse liberando, si era risvegliato senza capire assolutamente dove fosse: poteva essere anche in una bara e questo pensiero lo aveva atterrito ed ossessionato per ore finché, spossato dalla stress, era crollato in un sonno profondo per risvegliarsi ora
all’improvviso e trovarsi davanti il volto dell’uomo che lo aveva prelevato
dalla prigione. Gli eventi lo avevano ormai convinto che quell’uomo non
poteva essere il suo salvatore.
Non poteva parlare, non poteva ascoltare, non poteva muovere nessuna parte
del suo corpo, nemmeno un mignolo: era come un uomo completamente paralitico ma vivo. Unica fonte di informazione per il suo cervello erano gli
occhi e Saverio, che capiva quello che Zaddam stesse provando, lo fissava
intensamente senza un minimo cenno del viso o della bocca, senza un ghigno o un sorriso, solo come se fosse un freddo automa.
Saverio avrebbe voluto attuare subito l’esecuzione ma doveva rinviare per
due motivi: la morte di Zaddam doveva essere la più crudele possibile e doveva avvenire in un luogo sicuro da interferenze della CIA.
Dopo averlo liberato dalle corde con cui lo aveva assicurato alla stalagmite,
lo fece rotolare senza troppi riguardi per sollevare il corpo con facilità, lo
portò in spalla fino al fuoristrada che aveva lasciato col portellone aperto e
lo adagiò sul ripiano del bagagliaio.
Legò il corpo al perno della ruota di scorta che affiorava sotto il tappetino e,
dopo averlo tramortito ancora una volta col calcio della pistola, lo ricoprì
con una coperta puzzolente che aveva trovato nell’auto.
Quando raggiunse la sommità del bordo del canyon la luce del giorno inondò la cabina del fuoristrada quasi accecandolo. Avviò il veicolo in direzione
opposta al villaggio e si immise sulla statale quindici con andatura normale
per non dare nell’occhio: sembrava un texano col suo cappello da cowboy
calato sulla fronte, mentre con aria indifferente passò davanti ad una pattuglia dello sceriffo, che era stato allertato dalla CIA senza spiegazioni, con la
radio a tutto volume che strillava musica country.
§§§
Pochi chilometri dopo deviò in un viottolo sulla sinistra e raggiunse un capannone abbandonato: lo aveva notato il giorno prima e si avvicinò con cir88
cospezione: Era una vecchia stalla di mucche da tempo in disuso e che conservava ancora l’odore degli animali che aveva ospitato per anni: era il posto
ideale.
Ora c’era solo tanta paglia sparsa sul pavimento in cemento grezzo ma anche molti attrezzi agricoli arrugginiti ed abbandonati.
Aperti gli ampi portelloni poté entrare con il fuoristrada e richiudersi dentro
in modo da non destare sospetti. Per sicurezza uscì a piedi e fece un ampio
giro intorno al capannone fino ai confini di alcuni filari di querce da dove
poté constatare che non c’erano abitazioni fino a dove poteva arrivare il suo
sguardo.
Rientrato nel capannone scaricò su un letto di paglia putrida il corpo di
Zaddam che sta rantolando: era cianotico in viso e Saverio si affrettò a liberargli la bocca strappando il nastro adesivo con voluta cattiveria e violenza.
Un urlo disumano seguì a quella prima tortura mentre, roteando gli occhi
sbarrati dalla paura di morire soffocato, cercava disperatamente aria per i
suoi polmoni: Saverio aveva esagerato ed aveva rischiato di perdere il piacere di realizzare i suoi progetti di vendetta.
La marchesa non avrebbe certo approvato quello che stava per attuare ma
Saverio aveva in corpo una rabbia irrefrenabile che lo spingeva come lo
stantuffo di una locomotiva in corsa.
Zaddam sparò rauche parole in inglese, chiedendo acqua e Saverio gli porse
gentilmente un bicchierino di plastica colmo di acqua che aveva versato da
una borraccia.
Zaddam bevve avidamente ma poco dopo un conato di vomito gli fece sputare dallo stomaco di tutto: erano state troppe le ore di digiuno e di sofferenza e il suo corpo si stava liberando di tutto, insieme al rifiuto di accettare
una situazione impossibile ed assurda: chi era quell’uomo che lo aveva rapito?
Glielo chiese emettendo una serie di suoni rauchi che potevano assomigliare
in inglese ad un “chi sei?”
“Uno che non sopporta il puzzo di piscio che emani dai tuoi pantaloni: ecco
il grande Zaddam, l’uomo che appariva in pubblico con spade sguainate o
con il fucile da caccia ed il cappellino tirolese, tronfio e solenne come se
fosse stato Dio. Ed ora ti stai sciogliendo nella paura mescolando la tua
merda con il tuo piscio”.
Zaddam stava riprendendo coraggio ma era ancora strettamente legato come
un maiale quando lo si prepara per metterlo in forno intero, la solita mela in
bocca per abbellimento.
Cercò di divincolarsi ma non faceva che peggiorare la situazione:
“Slegami” gli gridò come se desse un ordine ma il silenzio di Saverio gli fece capire che non avrebbe più impressionato nessuno con la voce che molto
tempo prima faceva tremare generali e ministri.
Disteso sulla paglia riusciva a vedere il volto dell’uomo: cercava di indovinare le sue intenzioni mentre osservava che aveva solo un ghigno sottile
sulle labbra ma non parlava e lo fissava, occhi negli occhi, immobile, seduto
a terra quasi in posizione yoga a due metri da lui.
“Datti una calmata, bastardo!” furono le prime parole che Saverio gli rivolse. Poi con una mossa rapida, gli ficcò la lama di un corto pugnale nella carne di una coscia, lacerando nervi e polpa mentre lo ritraeva immediatamente.
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Il soffitto del capannone sembrò crollare per l’urlo bestiale di Zaddam; immobile e legato non poteva fare altro che scaricare il dolore attraverso la
bocca aperta e da quel momento capì che la strada verso la morte sarebbe
stata lunga e tremendamente dolorosa.
Il suo corpo si ribellò ancora una volta e, mentre veniva scosso da tremori in
modo incontrollabile, i suoi sfinteri si riaprirono, crudeli, inondando il suo
corpo e l’aria di odori fetidi e nauseabondi.
“Fai schifo, fai veramente schifo!” gli sussurrò Saverio mentre lentamente
incominciò a liberarlo dei vari legacci e dei pezzi di nastro adesivo che lo
avevano trattenuto fino a quel momento come le corde di un salame da stagionare.
Gli lasciò i polsi e le caviglie legate e lo osservò quasi ridendo mentre Zaddam tentava di alzarsi in piedi: rovinò a terra impietosamente non potendo
mettere la mani avanti e batté la fronte con un urlo acuto ed un tonfo sordo.
Mentre era rimasto svenuto, Saverio approfittò per denudarlo completamente. Allontanò i suoi indumenti fin in fondo al capannone per non dover sopportare la puzza schifosa che emanavano e preparò un secchio di acqua gelata che poté procurarsi da alcuni rubinetti ancora funzionanti che si trovavano
lungo la parete all’entrata, a destra del portone.
Quando Zaddam fu colpito dal getto d’acqua sembrò schizzare in aria ma
poi ricadde malamente e riprese ad urlare. Un secondo secchio gli sembrò
quasi di dargli sollievo ma solo dopo pochi secondi si rese conto che Saverio aveva aggiunto un acido corrosivo che gli stava staccando la pelle.
Il dolore era insopportabile ed ancora una volta Zaddam urlò:
“Maledetto, che tu sia maledetto che Allah …”
“Lascia perdere il tuo Dio perché è meglio per te: stai per morire ma devi
prima capire perché ti faccio morire tra tanti tormenti”.
La voce di Saverio era calma come fosse un annunciatore della tv e Zaddam
tentò di urlare tra i dolori che lo mordevano fino al cervello:
“Cosa vuoi da me?”
“ Da te non posso volere più niente: cosa potrei volere da uno che fra poco
sarà un cadavere? Saresti in grado di far risuscitare i cinquemila tra donne e
bambini che hai fatto morire col gas in un villaggio curdo tanti anni fa?”
Zaddam ammutolì e Saverio:
“Oppure saresti in grado di dimostrarmi che non hai mai ucciso nessuno dei
tuoi parenti, che non hai mai prelevato gli aiuti dell’occidente per comprare
armi vendendo viveri destinati al tuo popolo?”
Zaddam abbozzò un tentativo di risposta ma preferì chiudersi in un silenzio
sdegnato.
Saverio rimase ad osservare la sua spocchia per qualche secondo mentre
pensava al primo duro intervento. Voleva fargli provare il massimo del dolore e della crudeltà, voleva rendergli le morti provocate con il massimo degli interessi.
Estrasse un bisturi e si avvicinò.
Zaddam seguì atterrito i gesti del suo persecutore e quando vide che si avvicinava ai suoi genitali gridò:
“Ti prego, no, ti prego …”
Ma Saverio aveva altre intenzioni: prese a sbucciargli, indifferente degli urli della vittima, fettine sottili di pelle da una coscia. Prendeva tra le dita ogni
brandello tagliato e glielo ficcava in bocca, costringendolo a mangiarlo.
smise solo quando si rese conto che Zaddam stava morendo soffocato.
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Allora gli sollevò il capo e lo costrinse a bere: era la sua urina che aveva
preparato prima in una brocca.
Zaddam sembrò soffocare definitivamente ma dopo alcuni colpi di tosse per
non strozzarsi, crollò ancora una volta svenuto.
Saverio legò rudemente il corpo di Zaddam ad un palo di metallo che divideva due ambenti della stalla e uscì a respirare aria pura.
Stava sorgendo un nuovo giorno e Saverio era nauseato: aveva creduto di
provare chissà quale divertimento nel vendicare la morte di migliaia di esseri innocenti mentre ora si sentiva solo disgustato.
Rientrò nel capannone deciso di farla finita ma rimase impietrito davanti a
Zaddam che, in piedi e barcollante, si preparava a lanciarsi contro di lui con
un tridente da contadino pescato chissà in quale angolo del capannone.
Gli avanzi corporei di quell’uomo che, non si sa come, era sopravissuto alle
prime torture di Saverio, erano uno spettacolo insieme osceno e ridicolo:
nudo, con una pancia che pendeva orribile sui genitali che penzolavano nel
sangue che scendeva copioso lungo una coscia, aveva il volto trasformato in
una maschera di bestiale disperazione ed avanzava caricando come un bufalo infuriato, il forcone puntato contro Saverio.
Passarono attimi che sembrarono un’eternità perché Saverio, colto di sorpresa non decise subito come reagire: non poteva credere che quell’uomo trovasse ancora tanta forza per assalirlo.
Gli sembrò di risvegliarsi da una visione diabolica appena in tempo: Zaddam era giunto a pochi metri da lui e stava già per sferrare il colpo contro il
suo petto con il tridente, quando inciampò nei suoi stessi stracci che Saverio
aveva gettato prima a terra.
Fu la salvezza di Saverio perché Saddam, non riuscendo più a tenersi in piedi , iniziò a cadere in avanti tenendo sempre tra le mani il tridente. Saverio
non riuscì a vedere come accadde esattamente ma Zaddam si uccise da solo,
cadendo proprio sopra i denti del forcone ed infilzando la propria gola trapassandola. Un fiotto di sangue schizzò nell’aria come una fontana, portandosi dietro tutta l’energia vitale di Zaddam che cadde all’indietro mentre
cercava disperatamente di afferrare ancora il manico del forcone per liberare
la sua gola. Un secondo dopo crollò, nel silenzio più assoluto, immergendosi in una pozza orribile di sangue.
Saverio rimase impietrito a terra a lungo prima di rendersi conto di quello
che era accaduto.
§§§
Il giorno dopo, mentre percorreva la statale quindici per tornare alla cosiddetta “civiltà” ascoltava il notiziario locale. Dopo aver annunciato la scoperta di un cadavere irriconoscibile orribilmente mutilato in un capannone abbandonato, l’annunciatore passò alle notizie dall’estero:
“La corte di giustizia di Bruxelles ha sospeso il processo in corso contro
Zaddam. Il pubblico accusatore all’apertura dell’udienza di questa mattina
ha annunciato che Zaddam è stato trovato morto nella sua cella: si è impiccato usando alcuni lacci e una cintura che non si sa come sia riuscito a trovare, sfuggendo al controllo delle guardie carcerarie”.
Saverio spense la radio disgustato per la farsa della CIA che non avrebbe
mai ammesso di aver perso il vero Zaddam in circostanze che non avrebbe
mai potuto giustificare al mondo.
91
§§§§
MALOSIVEC
Saverio era sceso dal traghetto su cui si era imbarcato ad Ancona e si stava
avviando lungo il molo del porto di Zara verso le prime vie strette della città
vecchia.
Prima di partire era stato avvisato:
“Caro Saverio, la nostra nonna americana ha cercato e ritrovato la fotografia
di un suo vecchio amico. Lo aveva perso per strada ma ora aveva espresso il
vivo desiderio di riabbracciarlo”.
Linguaggio apparentemente senza senso, era un messaggio preciso che Saverio aveva capito: gli americani della CIA erano sicuri di aver riconosciuto
lui e la sua mano esperta negli ultimi avvenimenti.
Effettivamente all’inizio il capo della CIA, Joseph Warren era a andato su
tutte le furie, aveva riunito tutto lo staff americano ed europeo e aveva chiesto a tutti di dargli le palle di Saverio entro 48 ore.
Scendere da una nave italiana a Zara è come far stampare foto, nome e cognome su tutti i giornali del mondo. Per questo Saverio rimase rintanato nella stiva per più di dieci ore, in attesa che facesse notte e che a bordo regnasse solo silenzio.
Le banchine del porto croato erano deserte quando Saverio scivolò a terra
lungo la gomena di prua.
Rimase acquattato a lungo nel buio ed attese ancora. Solo dopo alcuni minuti fu sicuro che nessuno aveva predisposto per lui un’accoglienza inopportuna.
In una delle viuzze laterali si infilò in un cortile interno, scavalcò un muretto
e si ritrovò in un secondo cortile dove una vecchia e sgangherata Panda lo
stava aspettando.
Le prime luci dell’alba lo illuminarono lentamente mentre proseguiva lungo
i tornanti dell’interno su una montagna di cui non conosceva il nome ma che
ricordava molto ben descritta nelle istruzioni che aveva trovato a bordo del
traghetto e che aveva scrupolosamente distrutto.
Poco prima di sorgere del sole lasciò la strada asfaltata e si infilò in un sentiero sulla destra, scomparendo all’interno di un fitto bosco di abeti profumati.
Si fermò al confine di una piccola radura e mimetizzò la Panda facendola
scomparire in un folto sottobosco di felci alte quasi due metri.
Soddisfatto, raccolse sulle spalle lo zainetto che si era portato e scomparve
nel bosco: la bussola che portava con sé coincideva con il suo senso di orientamento e questo lo tranquillizzava.
Quando arrivò alla fine del bosco quasi rimase allo scoperto ma si fermò in
tempo per osservare i dettagli davanti a sé: piccola capanna con fumo che
usciva dal tetto, silenzio assoluto, nessun altro cenno di vita. Almeno così
sembrava, ma Saverio rimase in ascolto e si concentrò sugli odori: poco dopo percepì l’odore acre di una sigaretta provenire da dietro un grosso masso
che stava a metà strada tra lui e la capanna: qualcuno faceva la guardia lontano dall’uomo che stava cercando.
Rientrò nel bosco e fece un lungo giro di quasi centottanta gradi. Nascosto
tra le felci vide l’uomo di guardia seduto a terra, le spalle appoggiate la
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masso, che stava preparandosi qualche intruglio sopra un piccolo fuocherello.
“Stupido!” si disse di dentro Samuele mentre estraeva dallo zaino i componenti di una balestra smontabile. La montò con non poca fatica, specie
quando si trattò di fissare la corda alle estremità dell’arco: non aveva una
lunga gittata ma a trenta metri avrebbe ucciso l’uomo.
Prese la mira e fece partire il colpo: l’uomo crollò senza fiatare, con il cranio trapassato. Solo le gambe sussultarono per qualche secondo, finché la
morte non se lo prese pietosa.
Saverio non uscì dal nascondiglio ed attese. Infatti poco dopo dalla capanna
arrivò un grido cui il morto non poté rispondere: Era Malosivec: uscì dalla
capanna e si avviò in direzione del morto, guardandosi in giro per scoprire
se c’era appostato qualcuno. Il dardo gli trapassò la coscia e si perse decine
di metri oltre.
Sul momento Malosivec non se ne accorse ma poi lanciò un urlo animalesco: era disarmato ma era riuscito ad estrarre un lungo coltello da caccia dal
fodero dietro la schiena, cercando di capire che cosa e chi lo avesse colpito.
Quando capì tutto era troppo tardi: un secondo dardo gli bucò l’altra coscia
e lo fece definitivamente crollare nel fango. Quando cercò di alzarsi vide
davanti a sé gli anfibi di Saverio pronti a colpire.
Voleva urlargli una domanda, voleva sapere chi fosse quell’uomo che lo
stava massacrando ma comprese che si trattava di un’esecuzione con esito
finale.
Tentò ancora una volta di sollevarsi per colpire ma crollò, definitivamente
svenuto.
§§§
Non sapeva quanto tempo fosse trascorso ma quando rinvenne si ritrovò disteso nella branda lercia che stava usando nella misera capanna, nascosto da
mesi e protetto da un’unica guardia per non creare sospetti ed anche perché
ormai non poteva fidarsi di nessuno.
Per terra, accanto alla branda, era disteso il cadavere della sua guardia, morto, in una pozza di sangue: Saverio aveva faticosamente portato tutti e due
nella capanna per non farsi sorprendere da nessuno all’esterno e aveva tamponato le ferite di Malosivec: lo voleva vivo e stava preparando qualcosa sul
tavolo accanto alla porta.
“Non ti agitare altrimenti muori prima – disse senza voltarsi – sta calmo e
medita sugli ultimi dieci minuti della tua vita”.
Malosivec era immobile, legato come un salame, poteva voltare solo la testa
e quando si girò verso la voce di Saverio capì e rabbrividì: Saverio, la testa
protetta da una maschera antigas gli si stava avvicinando con una bombola
nella mano destra ed un piccolo recipiente nella sinistra: conteneva un veleno ben conosciuto da Malosivec.
Saverio senza parlare si avvicinò alla branda ed incominciò a bagnare il
corpo del prigioniero a partire dai piedi e risalendo lungo il corpo. L’ultimo
schizzo raggiunse il volto.
Quando Saverio incominciò a far cadere alcune gocce sulle gambe già martoriate dal sangue a causa delle ferite provocate dal dardo, un urlo orribile si
levò dalla misera branda: Malosivec rivide tutti coloro che aveva ucciso per93
sonalmente nello stesso modo durante le torture dei prigionieri della sua cosiddetta guerra.
Saverio si fermò ai genitali e osservò la sua vittima cercare di ribaltarsi per
liberarsi in qualche modo ma tutto era ormai inutile.
“Una goccia per ogni morto ma il veleno che ho qui non basterebbe nemmeno per la centesima parte di coloro che hai ucciso” sussurrò lugubremente attraverso la maschera a gas.
“Nessuno era riuscito a prenderti, nemmeno i tuoi peggiori nemici; ma domani verranno qui e festeggeranno la loro vendetta sul tuo cadavere decomposto dall’acido.
Il prigioniero, che perdeva già molto sangue dalle ferite lasciò liberi gli sfinteri di tutto il corpo.
Una puzza orribile si mescolò all’odore del sangue e delle gocce di veleno
che stavano corrodendo la carne dei suoi polpacci.
Non urlava più, esausto, quasi svenuto mentre gli occhi roteavano dentro le
orbite ma non vedevano più nulla.
Era solo il suo cervello che sentiva, che subiva tutti i dolori che la cattiveria
umana può inventare e le ultime due gocce caddero proprio sulle sue orbite.
Trovò la forza per un ultimo urlo disumano, poi tutto il suo corpo incominciò a tremare sempre più in modo parossistico come se volesse esplodere.
Stava morendo tra dolori spaventosi e Saverio si allontanò nauseato mentre
il buio dell’eternità calava nella mente ormai distrutta di uno dei più feroci
aguzzini della guerra.
§§§
Saverio non tornò alla Panda ma proseguì a piedi verso est guidandosi con il
GPS da polso.
Il giorno dopo era seduto nella sala d’attesa dell’aeroporto di Budapest, aspettando la chiamata del volo per Roma.
Mentre leggeva sul quotidiano locale la notizia del ritrovamento del cadavere del generale ricercato da anni e l’attribuzione del merito ai servizi segreti
“dopo un violento scontro a fuoco in una località sperduta tra i boschi” dovette rispondere al cellulare che imperioso lo chiamava dal solito posto:
“Adesso che hai finito questa bella vacanza, sarebbe il caso di tornare a lavorare …” ci fu qualche secondo di silenzio dopo la solita voce femminile e
Saverio fece volare il telefonino contro il muro che aveva di fronte, sfasciandolo completamente.
“Tanto dovevo distruggerlo comunque!” sospirò di dentro e si preparò al
prossimo viaggio negli States.
§§§
94
ZORANO
Non sapeva se era la sveglia o chi fosse il rompicoglioni che all’alba suonasse un campanello dal suono atroce. Poi ritornò alla vita e comprese che
era il campanello di casa.
Tra i fumi residui di una sbornia con tre marines del 47mo battaglione la sera prima in un pub nei dintorni della 42ma, cercò di mettere a fuoco che cosa stesse succedendo.
“Vengo!” pensò di urlare ed invece era solo un rauco lamento strozzato.
Arrivò alla porta d’ingresso scalzo e ciondolando, guardò dallo spioncino e
vide il berretto del postino che continuava a premere crudelmente il campanello.
Aprì, firmò senza guardare e ritirò la busta. Doveva essere il quartier generale che lo riconvocava. Gettò la busta sul divano del salotto senza nemmeno aprirla e se ne tornò a letto, la mente annebbiata dai fumi dell’alcool della sera prima.
§§§
Dovevano essere trascorse molte ore dall’ultima volta che si era alzato: la
luce che filtrava tra le tapparelle semialzate indicava un avanzato stato di
decomposizione del pomeriggio. Si levò a sedere sul bordo del letto e osservò l’orologio che forse aveva anche fatto il suo dovere di sveglia ma che Zorano non aveva sentito: ore 18 … (ma di che giorno?), si chiese e si avviò
stancamente alla doccia.
§§§
Finalmente sobrio e sveglio si ricordò del plico e andò a prenderlo in salotto. Strano, non era roba militare. Aprì e trovò una lettera molto elegante, un
biglietto d’aereo e una carta di credito della American Express che gli scivolò quasi sotto il divano se non fosse stato lesto a fermarla al volo.
Si complimentavano con lui e con la sua fortuna: nel sorteggio mensile
dell’American Express aveva vinto un premio da favola: un biglietto andata
e ritorno per Palm Beach e una carta di credito con un plafond di diecimila
dollari da spendere come voleva. L’albergo era noto: il Gordon Bleu a cinque stelle dove lo attendeva un soggiorno gratuito di una settimana.
Zorano ricominciò incredulo la lettura di tutto e quando si convinse che era
tutto giusto quello che aveva letto, rimase per molto tempo a bocca aperta a
pensare di chi potesse essere lo scherzo.
Fece un paio di telefonate agli amici della sera prima: non ne sapevano nulla. Allora incominciò dal numero verde della American Express: la voce digitale gli chiese di digitare il numero della carta ed ebbe la conferma della
vincita.
Chiamò l’American Lines e gli confermarono la disponibilità del suo volo,
già prenotato per il giorno dopo alle ore 10 del mattino.
Non contento telefonò al Gordon bleu: la voce gentile di un ragazzo da callcenter gli confermò la prenotazione.
Tornò in cucina a cercare del wiskey ma gli era rimasta solo della Pepsi Cola calda.
Si sedette in salotto davanti al televisore consultò i vari canali per capire se
gli era caduto il mondo addosso nelle ore in cui era sprofondato in un sonno
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irreale: tutto sembrava normale: la guerra in Iraq proseguiva, due suoi commilitoni erano saltati su una mina, Bush aveva commemorato la morte degli
eroi mentre il nuovo presidente dell’ONU cercava parole equipollenti tra loro nel protestare contro la morte di quei soldati e l’eccidio di 25 iracheni davanti ad un’agenzia di assunzione di nuovi poliziotti.
Il vento preannunciava tempo orribile in tutto il nord America mentre in California e in Florida le temperature erano superioni alla media.
Solo quando un volto molto sexy si sostituì allo speaker per reclamizzare il
nuovo rossetto di Guerlain, Zorano distolse lo sguardo e si concentrò sulle
ultime ore che erano trascorse della sua vita a sua insaputa: eppure il premio
era vero e confermato, ma perché nessuna pubblicità intorno?
Non doveva avere i fotografi fuori dalla porta? O i reporter di qualche giornale?
Il silenzio gli sembrava irreale ma Zorano incominciò a credere alla fortuna
e si mise a preparare quello che gli sarebbe servito per quella insperata, gratuita e ricchissima vacanza vinta solo per avere un’American Express.
Ormai sicuro di vivere una fortuna insperata uscì per fare alcuni acquisti per
il viaggio del giorno dopo e per sfruttare tutta la disponibilità della carta di
credito.
Mentre ad uno sportello della City Bank riversava sul suo conto personale
tutti i diecimila dollari della card e contemplava la contabile contenente
l’accredito che una deliziosa negretta gli aveva consegnato dal banco con
uno splendido sorriso, non si accorse che Saverio lo osservava alle sue spalle quasi sdraiato in una delle ricche poltrone in pelle riservate ai clienti facoltosi.
§§§
Saverio aveva manomesso il suo telefono la sera prima mentre Zorano era
fuori e aveva lasciato passare le telefonate agli amici mentre era intervenuto
modificando ogni volta la voce nelle chiamate che Zorano credeva di aver
fatto all’American Express, alla compagnia aerea ed infine dall’albergo di
Palm Beach.
Aveva anche provveduto ad una lettera del Quartier Generale del suo battaglione per completare il lavoro: Zorano, rientrando a casa se la trovò sotto la
soglia della porta, l’aprì e scoprì che “per meriti speciali” gli veniva concessa una licenza speciale di un mese.
Zorano finalmente intuì o credette di intuire che cosa c’era alle spalle: volevano il suo silenzio dopo il clamore suscitato dall’Italia per la morte del
funzionario Califano al posto di blocco in Iraq.
La CIA doveva aver agito “motu proprio” per metterlo in condizione di non
nuocere, di defilarsi dalla situazione che era diventata scottante.
Ci aveva pensato a lungo nelle settimane precedenti ma non se la sentiva di
recarsi in Italia a testimoniare per poi trovarsi incriminato e magari arrestato
per omicidio.
Per giunta al suo comando il generale McCornach lo aveva convocato e con
poche parole gli aveva detto chiaro e tondo come doveva comportarsi.
E così aveva fatto. Ecco perché si era “meritato” un trattamento così imprevedibilmente “generoso”.
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Era il pensiero che gli girava nel cervello mentre al Gordon Bleu di Palm
Beach -Florida, veniva ricevuto ed accolto dal volto ossequioso e cerimonioso di un receptionist.
Nella suite riservatagli si lasciò andare su un morbido letto mentre dal finestrone aperto sull’oceano gli giungeva il profumo del mare insieme alle voci
attenuate di persone festose che si godevano tra le onde la vacanza che avevano sempre sognato.
Anche Zorano sognava e godeva intensamente quegli istanti e mentre pensava che mancava solo un piccolo dettaglio, una bella donna giovane e disponibile accanto a sé, si addormentò sognando che avrebbe potuto trovare
facilmente quello che mancava prima di sera nella hall o nel ristorante
dell’albergo.
§§§
Lo scatto del collo gli aveva fatto colpire una superficie dura, ma da sotto in
su e sul momento non capì che cosa fosse successo. Pochi secondi e tentativi di muovere le braccia e capì: era chiuso in una bara!
Saverio gli aveva drogato il drink che la direzione dell’albergo gli aveva
preparato come offerta di benvenuto e, mentre Zorano dormiva saporitamente seguendo i propri sogni, Saverio aveva provveduto ad organizzare il trasporto inventando la propria professione di “funzionario delle pompe funebri locali”.
Poche ore dopo in un campo di banani alti e folti la bara fu “delicatamente”
depositata a terra e lentamente aperta.
Zorano era quasi morto per asfissia ma i fori che erano stati praticati sui lati
della bara gli permisero di sopravvivere: meglio sarebbe stato per lui morire:
il volto di Samuele lo osservava dall’alto mentre il militare cercava di realizzare che cosa gli stesse succedendo e tentava di sollevarsi.
Una mano pietosa lo aiutò ad alzarsi e a rimettersi in piedi; con uno sguardo
guardingo si rese finalmente conto che era veramente uscito da una bara e
che il sudore gli stava scivolando abbondante lungo il centro della schiena
accompagnato da un brivido incontrollabile.
E finalmente capì: un uomo giovane, un bianco dalla spalle possenti lo stava
osservando con due occhi scuri e penetranti. Fece appena in tempo a cogliere quello sguardo perché un secondo dopo un pugno terribile si abbatté sul
suo naso e lo fece svenire.
Una doccia gelata lo fece tornare in sé e questa volta la canna di una Magnum a un centimetro dai suoi occhi gli fece finalmente rinsavire il cervello,
i ricordi e le immagini che non avrebbe voluto ricordare.
Saverio non ne poteva più; era nauseato da tanti “interventi” che gli venivano ordinati da tanto tempo e gli era passata anche la voglia di vendetta e di
sangue umano.
Avrebbe volentieri tirato il grilletto ma preferì parlare a Zorano:
“Quando Califano si presentò al posto di blocco con l’auto che arrivava a
meno di quaranta all’ora, perché gli hai sparato?”
“Erano … erano … gli ord. …” ma non finì la frase: la canna dell’arma gli
ruppe il setto nasale con un rumore orribile e il sangue incominciò a colare
copioso dalle narici: una parte gli si infilò in gola quasi soffocandolo e Zorano non poté fare altro che cercare di liberarsi la gola sputando il proprio
sangue.
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“Non dire cazzate e attento a quello che inventi!” La voce di Saverio era diventata quasi un muggito “Se ci riprovi ti faccio saltare il cranio a bruciapelo!”
Zorano cercò nella mente sconvolta un’ispirazione ma non riusciva a inventarsi nulla. Quello che era accaduto gli scorse come un film davanti agli occhi in pochi secondi e rivide gli istanti uno per uno: prima la telefonata sul
cellulare da parte del maggiore che lo avvertiva dell’arrivo di Califano che
aveva recuperato la persona sequestrata, poi la scelta della posizione migliore per colpire, ed ancora l’arrivo della vettura civile, lenta, con i fari accesi,
uno straccio bianco legato in cima ad un ramo che si agitava fuori dal finestrino dietro il guidatore.
Era il nemico che aspettava da tempo per coprirsi di gloria, illuso di poter
approfittare di un’occasione irripetibile: aveva capito male? Aveva volutamente ignorato l’avvertimento che gli era giunto tempestivo dal cellulare?
Premette il grilletto tre volte in sequenza; la vettura prese a sbandare e finì
contro il muretto di cemento, poi un silenzio di morte aleggiò nell’aria mentre le ruote continuavano a scalciare nell’aria come le zampe di una zebra
morente.
Zorano non poté pensare, non poté gioire né spaventarsi: alle sue spalle
qualcuno lo afferrò per il collo e lo gettò indietro e quasi ci rimase sotto la
raffica del mitra di Zorano che sembrò prendere vita da solo e che si mise a
sputare colpi all’impazzata in tutte le direzioni. Ancora un gran silenzio, pochi secondi e poi le grida di spavento alle spalle di Zorano e di dolore sulla
strada davanti alla postazione.
Saverio lo osservava attentamente e capì che Zorano riviveva quei momenti
terribili. Si chiese se Zorano fosse veramente colpevole ma il militare americano esplose:
“Ebbene sparami se vuoi; quello che ho fatto lo rifarei perché quel figlio di
puttana si stava prendendo tutta la gloria per essere riuscito dove noi non eravamo riusciti: non era giusto che si prendesse tutta la gloria, un volgare
civile, un italiano di m …”
Ma non riuscì a finire la frase. Saverio d’istinto tirò il grilletto e metà del
cranio di Zorano si perse nell’aria in mille pezzi, come se fosse stata
un’anguria caduta dal terzo piano.
Un momento prima aveva provato pietà per un uomo che gli era sembrato
un vittima e poco dopo si era trovato davanti ad un criminale senza cuore.
§§§
Mentre sorseggiava lentamente una coppa di champagne che la hostess gli
aveva appena servito, sembrava stesse osservando attentamente la superficie
dell’oceano cinquemila metri sotto di sé e invece riviveva gli ultimi momenti della vita di Zorano.
Non aveva chiamato al solito numero e nel silenzio della sua mente salì una
marea di nausea e di tristezza: basta, si disse, basta! Ho bisogno di liberarmi
dell’odore del sangue delle mie vittime.
Ho bisogno di dare un senso alla mia vita. Non potrò uccidere mezza umanità solo perché qualcuno, seppur giustamente, me lo ordina a raffica, ogni
giorno.
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Il vicino di posto si voltò dall’altra parte, schifato del gesto di Saverio che
aveva preso in tempo il sacchetto di dotazione e vi aveva vomitato tutto, se
possibile anche i ricordi amari degli ultimi eventi.
§§§
VICENZA
Aveva lasciato la Smart a noleggio all’inizio di Borgo Aretino, in un parcheggio a ore e si era avviato per la strada che conosceva da anni. Mescolarsi tra la folla di turisti che si avviava verso la piazza di Santa Chiara gli dava
un senso diverso della realtà che stava vivendo ma ancor più il suo cuore finalmente si addolcì nel buio della chiesa.
Vi era entrato d’istinto, quasi guidato da una mano invisibile, un desiderio
di pace, di silenzio, di purezza. Appena entrato lo colse il gregoriano due ottave più in alto del vespro cantato dalle suore di clausura.
Provò una grande invidia e si chiese se non fosse ora di ritirarsi così, come
loro, dentro un convento a ritornare alla sua prima vocazione. Ma il pensiero
passò oltre e si sciolse in un accenno di ricordo.
Il canto lo assorbì in un mondo nuovo, quasi misterioso che volutamente
non volle profanare con stupide indagini mentali: il canto melodioso lo avvolse e rimase così fuori dal tempo e dal suo passato.
Era ancora assorto e perso con la mente che vagava libera in mondi diversi
quando sentì toccarsi una spalla; credette fosse il custode o qualcuno che lo
avvisava che era ora di chiudere le porte del tempio. E invece si vide cadere
tra le mani un foglietto. La snella figura femminile scomparve rapidamente
e tornò intorno a lui il silenzio e la solitudine di sempre, il presagio di
un’altra missione di sangue e di vendetta.
§§§
L’aeroporto distava circa dieci chilometri da Graz. Un semplice capannone
nascondeva il vecchio
F 104 che Saverio aveva recuperato pochi mesi prima dall’ex Germania
dell’Est per poche migliaia di dollari: doveva riuscire a volare una sola volta
e portare un carico letale piuttosto pesante.
Non poteva avere aiutanti e quindi aveva trascorso alcuni giorni a revisionare il velivolo in tutte le sue parti.
Mentre lavorava chiuso nel capannone ripensava alla telefonata.
Aveva cambiato la Sim del cellulare e aveva composto il numero; dall’altra
parte la solita voce gli aveva fatto i complimenti per la riuscita in America
con pochissime parole e aveva aggiunto:
“Vicenza: è ora di farla finita”.
Aveva proseguito dicendo che dopo oltre cinquant’anni era ora di smetterla
di sentirci debitori perché ci avevano aiutato a uscire da un conflitto senza
senso e aveva terminato con una frase lapidaria: devono imparare che il resto del mondo vale più di loro ed un giorno dovranno rendere conto di tutti i
guai compiuti in nome della democrazia (e qui la voce rimase sospesa per
qualche secondo) …. la democrazia del dollaro.
Saverio era rimasto esterrefatto: non aveva mai sentito un discorso così lungo ma evidentemente la Sua “benefattrice-istruttrice” doveva essere molto
arrabbiata con qualcuno in America.
99
I suoi contatti rimanevano un mistero ma aveva informazioni preziose e segrete che Saverio poteva solo intuire.
Si era addormentato su una brandina a terra, vicino al carrello del velivolo
quando fu svegliato da alcuni rumori all’esterno del capannone. Silenziosamente si allungò carponi con la Magnum in pugno, munita di silenziatore e
raggiunse una porticina sul retro: era la polizia che, forse avvisata da qualcuno che aveva visto movimenti durante il giorno, stava brandeggiando le
torce lungo le pareti del capannone.
Saverio decise di restare in silenzio ed attendere. Dopo pochi minuti i poliziotti bestemmiando in un tedesco dialettale si allontanarono. Si sentì il rumore del motore del loro veicolo affievolirsi man mano che si allontanavano
ma Saverio non tornò a dormire: doveva accelerare i preparativi perché la situazione si stava scaldando.
All’alba decollò dalla pista e mantenne il volo radente i boschi e i campi,
destando l’irritazione e la meraviglia dei contadini già nei campi, ma evitando così il rilevamento dei radar lungo il percorso.
Si alzò di quota quando fu in vista del confine e si precipitò nella valle del
Piave mantenendo una rotta sud per ingannare ogni sorveglianza, ma da Aviano si erano già levati in volo gli americani per incrociarlo e capire le sue
intenzioni.
Per un certo tratto fece finta di proseguire sulla direttrice Belluno – Treviso,
poi aprì il contatto radio. Il dialogo fu breve ma secco e preciso:
“Prego identificarsi e scendere a quota cinquecento” fu la voce degli americani ma Saverio interruppe il messaggio con un laconico:
“Nein!” ma poi proseguì e in fretta:
“Avvisate la base di Vicenza: tutti devono immediatamente sgomberare, civili e militari. Tra poco la base verrà ridotta in cenere. Ultimo ed unico avviso!” e Saverio chiuse il contatto radio.
Vide sul radar che i velivoli americani si stavano avvicinando minacciosi
con una manovra forzata ma ormai era troppo tardi.
Cambiò improvvisamente direzione come se volesse tornare indietro e lasciò i piloti sconcertati; cambiò ancora una volta direzione e si tuffò a sudovest in direzione di Vicenza: ci sarebbe arrivato in meno di dieci minuti ed
intanto i i velivoli in caccia avevano perso molto vantaggio.
L’unico pericolo poteva arrivargli da altre basi ma quella di Vicenza, messa
in allarme pensava solo ad uno sgombero il più rapido possibile di militari e
civili.
Anche nella città di Vicenza era suonato uno strano allarme e la gente si era
riversata per strada ma non poteva immaginare cosa stesse per accadere, finché un veicolo della polizia non attraversò il centro con l’altoparlante che
urlava ordini perentori di abbandono dell’abitato..
Saverio volò radente le case e i campi, sorvolò alcune colline dove vide distintamente i filari delle ottime vigne della zona e arrivò in vista di Vicenza
in pochissimo tempo, mentre i caccia erano ormai alle sue spalle. Per fortuna la zona da colpire era a nord-ovest della città e l’aeroporto gli apparve
come un miraggio sul radar.
Avvenne tutto in pochissimi istanti: i caccia erano a meno di un chilometro
dal suo vecchio F 104 ed avevano incominciato a provare le mitragliere, poi
partì il primo razzo aria-aria ma Saverio seppe per tempo diffondere nel cielo i suoi dissuasori, mentre si precipitava diretto sulla pista dell’aeroporto,
100
piena di velivoli fermi e silenziosi: erano scappati tutti e non c’era nemmeno
del fuoco di sbarramento.
La sorpresa, anche se annunciata era stata così imprevista che avevano pensato solo a scappare.
Saverio non voleva morti ma distruzione. Voleva distruggere con un solo atto, violento e irreversibile, ogni velleità di Bush e dei suoi generali spocchiosi.
E ci riuscì: passò sulla pista quasi a rasoterra e lasciò cadere il materiale
preparato per una esplosione ritardata. Giunto alla fine della pista si alzò in
verticale e si tuffò su quella che avrebbe dovuto diventare la nuova area destinata agli americani tra mille polemiche e qui scaricò il resto degli esplosivi.
Alle sue spalle le mitragliatrici crepitavano fuoco di morte e Saverio compì
l’ultimo gesto che aveva già preparato mentre meditava nel suo capannone
in Austria: alzò il muso dell’F 104 verso il cielo e lo tenne in verticale fin
che la potenza dei due motori riuscì a dargli spinta sufficiente.
I caccia tentarono di seguirlo ma non ce la facevano ad arrancare con la
stessa velocità.
I piloti stavano manovrando contro sole e non poterono vedere che Saverio,
giunto ormai al massimo della sua salita, aveva aperto il canopo e si era
proiettato nello spazio agganciato al suo seggiolino a oltre ottomila metri di
altezza. Mantenne chiuso il paracadute per non farsi individuare mentre il
velivolo riprese a scendere sempre più veloce avvitandosi su se stesso ed urlando tutta la ferocia dei motori che ormai erano con le turbine completamente fuse.
Quasi contemporaneamente il velivolo si perse nel fuoco indescrivibile delle
esplosioni che incominciarono a distruggere tutto quello che a terra avevano
intorno. Funghi che parevano bombe atomiche si levarono nel cielo e i piloti
inseguitori ebbero il loro bel da fare per allontanarsi il più rapidamente possibile.
Mezz’ora dopo tutto era distrutto: la base americana non esisteva più e tutto
il terreno che era destinato ai nuovi insediamenti militari era diventato
un’impossibile cratere di morte.
A qualche chilometro di distanza Saverio, aperto il paracadute di riserva,
poteva ammirare l’esito della sua mirabolante e velocissima operazione.
Gli americani avrebbero dovuto trovare altre soluzioni ai loro problemi.
§§§
101
ASSAD
Via Papiniano e via Beccaria erano piene di automezzi della polizia e dei carabinieri in attesa.
Assad stava per essere lasciato libero e le massime autorità di pubblica sicurezza, per ordine del ministro avevano predisposto un blocco stradale per
impedire qualunque tentativo da parte di malintenzionati.
Assad era in attesa nella sua cella che gli dessero il permesso di uscire ma
era stato vivamente esortato a non fare alcun gesto eclatante all’uscita, pena
un nuova incriminazione, la più assurda possibile.
I suoi avvocati si erano allineati con le raccomandazioni dei giudici ed Assad aveva assicurato che si sarebbe comportato bene: ormai la speranza di
uscire libero dall’inferno di S. Vittore dove aveva dovuto sopportare tutti i
peggiori soprusi lo portava ad essere più ragionevole ed accondiscendente.
Almeno in apparenza anche perché, una volta uscito in strada non sperava in
nessun aiuto: anche i suoi lo avevano abbandonato da tempo. Non aveva ricevuto più messaggi e si sentiva tagliato fuori.
Forse era tutto un bluff, perché era assolutamente necessario che egli potesse ricongiungersi con i suoi correligionari. Il loro silenzio era forse pilotato
da Al Queda.
Nel silenzio della cella stava meditando su tutte queste cose e stava cercando capire come avrebbero potuto agire dall’esterno per portarlo più lontano
possibile dalle autorità italiane, quando il secondino di turno gli aprì la porta
della cella:
“Hanno dato il benestare; ora tu puoi uscire, prendi la tua roba e seguimi”.
Assad si alzò lentamente, e raccolse sulle spalle lo zainetto con le sue poche
cose. Si voltò a guardare la stretta cella in cui era stato costretto a vivere per
tanto tempo, quasi sentisse un rimpianto per quel luogo così triste ed angusto.
In pochi istanti gli passarono davanti agli occhi tutti i fatti che lo avevano
portato a S. Vittore.
Era riuscito a completare il suo proselitismo aggiungendo decine di fanatici
(lui li considerava figli di Allah, quindi suoi fratelli) alle schiere pronte per
agire in tutto il mondo.
Era riuscito ad addestrarli per le azioni più decisive, poi l’intercettazione di
una sola telefonata imprudente lo aveva bruciato e due ore dopo si era trovato in quella cella dove per mesi si era chiesto se e chi lo avesse tradito.
Ma dopo quasi un anno finalmente un contatto gli aveva ridato fiducia e aveva ringraziato Allah per la bella notizia. Qualcuno da fuori stava organizzando le cose e questo gli avrebbe permesso di avere soldi, avvocati di fiducia e simpatizzanti della sua causa, contatti futuri sempre più concreti.
Mentre si avviava all’uscita lungo i corridoi della sezione di massima sicurezza cercava di pensare chi dei suoi migliori poteva aspettarlo fuori, sempre
che ci fosse qualcuno: negli ultimi giorni il silenzio era stato il suo cruccio
principale.
§§§
Fuori dall’ingresso uno sparuto gruppo di dimostranti in corteo con cartelli
che ricordavano i suoi delitti più efferati, a partire dall’organizzazione
dell’attentato alle due torri, erano stai dispersi rapidamente a furia di bastonate da parte della polizia. Tra di loro alcuni uomini di destra si erano pro102
clamati deputati e quindi intoccabili: erano quelli che le avevano prese di
santa ragione più degli altri ed allontanati rapidamente nelle vie circostanti.
§§§
Questo Assad non poteva saperlo e avrebbe certamente sorriso all’idea che
la polizia avesse difeso indirettamente la sua causa.
In piazza Aquileia, abbastanza lontano dal vivo della tensione, Saverio, dentro una Mercedes malandata e con targa araba, stava aspettando il momento
di entrare in azione; il cruscotto nascondeva, dietro innocenti tasti di serie
vari mezzi per i contatti radio che gli interessavano: doveva scoprire se i
suoi “confratelli” si erano organizzati per prelevare Assad o se altre organizzazioni (CIA in particolare) fossero pronte per intervenire e prelevare il
tunisino. Ed ancora temeva che agenti tunisini in borghese a loro volta si
preparassero a “prelevarlo” per trasferirlo in Tunisia dove lo aspettavano
venti anni di carcere duro.
Saverio lo voleva tutto per sé: aveva ricevuto ordini perentori: prelevarlo e
farlo fuori col massimo delle sofferenze, le stesse che aveva fatto provare a
migliaia di persone, torturandole ed alla fine uccidendole nei modi più crudeli, se possibile incrementandone la crudeltà.
Saverio aveva predisposto ogni cosa ma la nausea che provava per
quell’incarico superava la nausea per quell’essere umano più spregevole di
una bestia impazzita.
Si era fatto forte e per settimane, chiuso nel suo rifugio segreto in Umbria,
aveva letto e riletto pagine e pagine del Corano. Contemporaneamente aveva ascoltato i discorsi di Assad che aveva recuperato da vecchie intercettazioni che risalivano a prima del 2001.
Aveva potuto così convincersi che Assad non era un traditore dell’occidente
ma della sua stessa religione del suo stesso credo: era un bandito blasfemo e
turpe: meritava la morte peggiore.
§§§
La nebbia e il freddo stavano giocando a favore di Saverio: la temperatura si
manteneva rigida anche se la mattinata era inoltrata.
Nel momento in cui Assad si affacciò al cancello e stava per varcarlo, lo
sguardo smarrito alla inutile ricerca di un volto amico tra la folla che lo aspettava e si era precipitata cercando di superare la barriera di fotografi e
giornalisti, si udirono due spari quasi simultanei.
Contemporaneamente una guardia sulla destra di Assad cadde ferita a morte:
un cecchino che aveva messo sotto tiro Assad aveva mancato il bersaglio ma
non fece in tempo ad accorgersene: un colpo partito dal finestrino destro
della vecchia Mercedes di Saverio gli aveva tolto immediatamente la vita
bucandogli la fronte.
Un attimo dopo Assad si sentì afferrare per le spalle e spingere verso la
Mercedes. Cadde riverso all’interno sul sedile posteriore mentre Saverio, tra
uno sgommar di pneumatici, risalito a bordo di scatto, faceva ripartire la
vecchia Mercedes (che in realtà aveva il motore truccato) a tutta velocità
verso Corso di Porta Vercellina.
Assad stava cercando di rialzarsi e riprendersi dalla sorpresa quando la Mercedes, superato l’incrocio con piazzale Baracca di slancio, si buttò quasi ad103
dosso al distributore di benzina dell’aiuola centrale e si fermò
all’improvviso contro un grande platano.
Assad si sentì tirar fuori di nuovo da due mani di ferro e si ritrovò a correre,
quasi abbracciato ad uno sconosciuto che lo trascinò fino ad un fuoristrada
parcheggiato a pochi metri.
si ritrovò di colpo disteso sul pianale della parte posteriore mentre due potenti morse, forse due ganasce di metallo o qualcosa di simile, lo attanagliavano al fondo dell’automezzo.
Un momento prima che gli inseguitori della polizia raggiungessero la Mercedes, un fuoristrada a velocità normale si allontanava, guidato da Saverio
che, presa la giusta direzione, si avviava verso la vicina autostrada per Genova.
“Il grosso è fatto” pensò Saverio mentre Assad cercava di liberarsi la bocca,
anch’essa attanagliata nella morsa che lo costringeva disteso sul pianale della vettura. Non potendo parlare con chi lo aveva portato via non riusciva ad
immaginare se lo avessero rapito o salvato. Era ansioso di capire che cosa
stesse succedendo ma finalmente Saverio, dopo aver fermato il fuoristrada
in aperta campagna, aprì il portellone posteriore e lo mise in condizione di
muoversi e di parlare.
Assad si rialzò lentamente e si rivolse allo sconosciuto che poteva finalmente vedere ma non riconoscere perché nascosto da un passamontagna dal quale rimanevano fuori solo gli occhi.
Gli rivolse un’espressione in arabo ma si sentì rispondere in italiano:
“Ho capito che cosa hai detto perché conosco la tua lingua; ti conviene parlare italiano perché io so che tu lo parli molto bene. Ti conviene …”
E nel dir questo, fece comparire una pistola.
“Chi sei?” chiese Assad.
“La domande le faccio io, chiaro?” fu l’unica risposta. Un secondo dopo un
proiettile gli trapassò un polpaccio, seguito da un urlo disumano.
“E questo per farti capire che non ti ho rapito per salvarti, ma almeno ti ho
evitato un viaggio in America con qualche aereo della CIA”.
Assad rimase per un momento perplesso per capire quali fossero le intenzioni dello sconosciuto, poi incominciò a realizzare quello che gli stava succedendo: avrebbe potuto essere salvato con un volo clandestino della CIA e
trovarsi merce di scambio con gli agenti americani, mentre ora si rendeva
conto che era in mano ad un pazzo di cui non conosceva le intenzioni. Il dolore alla gamba era terribile mentre dalla ferita usciva copioso il sangue.
“Almeno aiutami!” gli gridò.
“Hai ragione: non devi soffrire, per ora”.
Saverio sparì verso la cabina e ricomparve con un barattolo.
“Che cos’ è? Chiese sospettoso l’arabo.
“Un unguento che ti disinfetta e ti cicatrizza” e Saverio, mentre gli spalmava
un po’ di grasso sulla ferita, gli mormorò:
“Questo è grasso di maiale e sarà il tuo viatico per l’aldilà ….”
L’arabo impallidì: il grasso di maiale, secondo la sua religione, unito al suo
corpo, se lo sconosciuto lo avesse ucciso, gli avrebbe impedito di penetrare
nel paradiso promesso nel Corano ai fedeli di religione araba: Assad, se avesse potuto, se lo sarebbe tolto leccandoselo.
Ma non fece in tempo pensare alle conseguenze che svenne sotto un forte
colpo alla testa, infertogli da Saverio.
104
Si risvegliò in una stanza dove Saverio lo aveva trascinato dopo aver raggiunto un casolare abbandonato nella zona di Tolcinasco. Qui lo aveva disteso a pancia in giù e saldamente legato su un tavolaccio usato forse per
scuoiare i maiali.
Non riusciva a capire dove si trovasse e che cosa volesse fargli quell’uomo.
Ma quando lo scoprì incominciò a urlare e piangere, mentre recitava intercalati dei versetti del Corano senza un senso logico.
Glielo disse chiaramente Saverio, e lo fece proprio per farlo soffrire di più:
“Adesso inciderò dei tagli profondi sulla tua schiena e sui tuoi glutei, poi
immergerò tanto unguento di maiale nelle tue ferite: in questo modo tu non
andrai in paradiso quando ti ucciderò”.
L’effetto fu terribile e Assad divenne un essere inerme e tremante al pensiero di una morte così crudele:
“Tu non puoi farmi questo!” gridò.
“Tutto, ma non questo! – insistette a urlare, non sentendo alcuna risposta di
Saverio – dimmi che cosa vuoi …”
Assad era ormai disposto anche a tradire la sua causa pur di salvare la sua
anima. E questo lo aveva reso alla mercè di Saverio che, senza una parola,
ma agendo lentamente per farlo soffrire di più, incominciò ad incidere le
schiena del rapito con lunghi e profondi tagli diagonali.
Gli urli di dolore e raccapriccio salivano al cielo inutilmente perché intorno
al casolare c’erano solo centinaia di ettari di risaie deserte, abitate solo da
qualche airone e dalle numerose garzette.
Saverio operava con precisione chirurgica: continuando ad usare guanti di
lattice arrivò ai glutei con una decina di incisioni profonde: Assad era svenuto per il dolore ma Saverio proseguì nella sua crudele attività chirurgica,
riempiendo poi le ferite di un unguento che non era altro che grasso di maiale.
Mentre Assad era svenuto e sanguinante, Saverio lo ricaricò su una carriola
trovata abbandonata sull’aia e semidistrutta dal tempo e lo riportò al fuoristrada dove lo distese sul pianale.
Dopo averlo anestetizzato e addormentato del tutto, lo ricoprì con una vecchia coperta a disegni scozzesi e ripartì per un altro suo rifugio nascosto,
molto più vicino ad una vecchia pista abbandonata a sud di Taliedo, un vecchio aeroporto militare della seconda guerra.
Qui c’erano dei vecchi capannoni abbandonati di una industria che cinquant’anni prima aveva costruito aerei per l’esercito italiano.
§§§
Le autorità italiane navigavano nel buio mentre gli uomini della CIA cercavano una spiegazione collegati con la loro centrale operativa che a sua volta
chiedeva insistentemente chiarimenti.
Avrebbero dovuto prelevare Assad con un sotterfugio, portarlo direttamente
a Bergamo all’aeroporto d Orio al Serio come un turista di lusso per farlo
salire su un executive, diretto negli U.S.A. e qui, dopo una farsa di incarcerazione e di processo, concedergli molti privilegi dopo aver ottenuto da lui
nomi ed informazioni preziose.
Assad non poteva saperlo ma tutta la sua famiglia e molti altri suoi parenti
erano già stati prelevati da mesi e portati in America come ostaggi sotto va105
rie scuse e in momenti diversi e sarebbero diventati un’arma formidabile in
mano alla CIA.
Avevano sguinzagliato i loro migliori agenti segugi per ritrovare Assad ed il
suo rapitore ma non avevano in mano alcuna traccia. La Mercedes non offrì
loro nessun elemento anche perché Saverio aveva accuratamente usato
guanti di lattice durante tutta la fase del rapimento.
La notizia aveva già fatto il giro del mondo e gli uomini di Al Queda in Italia non sapevano come procedere perché dalla base in oriente non giungevano istruzioni.
§§§
Centralino della CIA in America; la telefonata di Saverio giunse come una
liberazione ma poco dopo dall’altra parte della linea si diffuse la sensazione
di avere a che fare con un pazzo pericoloso e terribilmente lucido e determinato. Il colloquio fu breve. Saverio aveva chiesto in inglese alla centralinista
di parlare con una persona precisa.
“In questo momento è in riunione e non posso disturbarlo” fu la risposta
stupidamente bugiarda della centralinista.
“Mi passi la sua segretaria ..” insistette Saverio.
“In questo momento è fuori ufficio …”
La solita manovra deviante che mandò in bestia Saverio anche se sapeva di
avere tutti gli assi in mano:
“Dica a quel deficiente che sta in ascolto silente che ho in mano Assad ….
Richiamerò fra dieci minuti!” e chiuse la comunicazione di colpo.
Nella sede della più grande organizzazione spionistica del mondo (almeno
così si vanta di esserlo) seguirono minuti di panico, gente che telefonava, altri che si riunivano di corsa in una saletta riservata per organizzare quello
che potevano, un velocissimo e preventivo contatto con cui comunicarono al
Presidente che “erano in possesso di una traccia importante”, convulsi tentativi di identificare da dove era giunta la telefonata.
Saverio, aveva fatto tutto collegandosi a distanza con una cabina pubblica
lungo l’autostrada Milano Venezia: l’aveva preventivamente dichiarata fuori
uso con un vistoso cartello ed usando un congegno molto ingegnoso, aveva
potuto fare partire dalla cabina la telefonata tramite satellite: gli americani
brancolavano nel buio.
I dieci minuti passarono in un soffio e nuovamente squillò il telefono del
centralino della CIA, ma questa volta Saverio aveva fatto fare alla comunicazione un percorso diverso.
“Adesso con chi sto parlando?” chiese subito.
“Generale Paul Davies”.
“Numero di matricola e reparto!”.
“Cosa?”
Saverio che stava bluffando, ripeté la domanda, aggiungendo che stava controllando i nomi su elenchi sul computer collegato con la CIA.
Al generale non restò che dichiarare i suoi dati personali che Saverio ricopiò
su un brogliaccio e attese.
Dopo pochi secondi Saverio rispose.
“Ho il vostro bel piccione, ma me lo tengo, per ora”.
“Che cosa vuole per uno scambio?”
106
“Dovrete entro quindici minuti diffondere tramite la Roiter la verità sulle
vostre illegali invasioni in Italia per rapire cittadini arabi o comunque sospetti. Dovrete confessare di aver violato ogni norma internazionale e dichiarare i nomi di tutti i vostri uomini sul territorio italiano. Queste persone
dovranno lasciare immediatamente l’Italia. Le autorità italiane stanno ascoltando questa conversazione e così pure i maggiori quotidiani italiani”.
Saverio ancora una volta chiuse la comunicazione dopo aver osservato il
tempo.
Diciotto secondi non sarebbero stati sufficienti ai tecnici della CIA per rintracciarlo.
Intorno al generale Paul Davies gli uomini confabularono affannosamente
cercando di prevalere l’uno sull’altro ed ottenendo solo di aumentare la confusione.
§§§
Saverio era incerto su come uccidere Assad e nella sua mente stava maturando un piano diabolico.
Ebbe la conferma che poteva agire a sua discrezione dopo una telefonata in
Umbria.
Distrusse il telefonino e col fuoristrada si avvicinò ad uno dei capannoni abbandonati. Aprì una porticina laterale e ritrovò pronto il Piper che aveva
preparato da tempo.
Non gli fu facile caricare il corpo di Assad ancora addormentato, fece scorrere le saracinesche per aprirsi un varco e cinque minuti dopo era in volo
sopra Milano.
Prima del decollo aveva portato alcune modifiche ai vestiti e qualche trucco
al viso di Assad che ora dormiva disteso sul pavimento dietro i sedili con un
volto che sembrava Bin Laden.
La CIA non avrebbe più ritrovato Assad ma si sarebbe improvvisamente ritrovata di fronte ad una sorpresa assurda.
Non avrebbero potuto collegare il suo rapimento con quello che avrebbero
ritrovato alcuni giorni dopo in una valletta vicino a Pescasseroli.
Due cacciatori stavano seguendole tracce di un cinghiale quando avevano
udito un’esplosione ed uno schianto al di là della collina che si alzava davanti a loro.
Faticosamente raggiunsero la cima e videro le fiamme in fondo alla valletta
che stavano divorando un velivolo leggero forse da poco atterrato su un
campo sufficiente per un atterraggio di fortuna.
Un corpo giaceva disteso di fianco all’aereo in fiamme. Si precipitarono per
il pendio ed intanto chiamarono il 112 per chiedere l’intervento dei carabinieri.
Ci vollero molte ore prima che alla CIA giungesse la notizia dell’importante
novità: le autorità italiane avevano spedito all’ambasciata americana tramite
il servizio del controspionaggio una foto del morto accanto al velivolo completamente distrutto dalle fiamme: poteva trattarsi presumibilmente di Bin
Laden o di un suo stretto collaboratore che gli somigliava moltissimo.
La foto fece il giro di vari uffici finché giunse al capo della CIA. La prima
analisi aveva confermato che si trattava di Bin Laden, misteriosamente morto, forse sbalzato da un velivolo leggero caduto nel centro Italia. Non erano
state trovate tracce di un pilota né (la CIA lo sapeva) poteva essere stato lo
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stesso Bin Laden a pilotare: non aveva alcuna preparazione né brevetto del
genere. Chi poteva aver portato fin là l’uomo più ricercato del mondo?
Saverio gongolava mentre sull’Autosole rientrava al suo rifugio ed ascoltava
le trasmissioni radio riservate: in tutto il mondo era stata data la notizia ormai certa della morte di Bin Laden, I servizi segreti di tutto il mondo erano
in fibrillazione mentre Saverio finalmente, esausto, si addormentava vicino al corpo nudo di Paola.
VINCENZO CALO’ E GLI STUPRATORI
“Agrigento Durante l’arresto il comandante ha dovuto calmare i militari inferociti
LIBERO DOPO TRE VIOLENZE STUPRA UNA BIMBA DI 4 ANNI
L’aveva portata con sé a firmare il registro dai carabinieri. Il violentatore abita nella stessa casa della piccola. La ginecologa che è intervenuta: un atto brutale e animalesco
AGRIGENTO — Nonostante avesse già stuprato tre bambine, in carcere c'è rimasto meno
di un anno. Tornato in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare aveva solo
l'obbligo di firma presso la stazione dei carabinieri. E qui, nel giorno di San Valentino, si è
presentato tenendo per mano una bambina di appena quattro anni che, subito dopo aver
lasciato la caserma, ha ripetutamente stuprato.
Una storia al limite dell'incredibile quella che arriva da Agrigento. Protagonista un pizzaiolo di 45 anni, Vincenzo Calò, lontano parente della sua ultima vittima che attualmente è
ancora ricoverata all’ospedale San Giovanni Di Dio di Agrigento. I carabinieri lo hanno
arrestato il giorno dopo la violenza. La rabbia dei militari era tale che si è temuto che
qualcuno volesse utilizzare le maniere forti già al momento della cattura. Davanti alla pizzeria di Calò si sono infatti presentati oltre cinquanta carabinieri, compreso qualcuno che
non era in servizio. Per evitare che la situazione potesse degenerare è dovuto intervenire
personalmente il comandante della compagnia di Agrigento, il colonnello ……..
A sconcertare i militari, che probabilmente sono stati assaliti anche dai sensi di colpa per
non essersi insospettiti nel vedere uno stupratore incallito tranquillamente in compagnia di
una bambina, sono stati i particolari della violenza. La ginecologa dell’ospedale di Agrigento ha detto che «la bambina porta sul corpo i segni non di molestie ma di una violenza
brutale e animalesca». In evidente stato confusionale era stata lei stessa a raccontare ai
genitori quel che aveva dovuto subire. «Mi ha fatto tanto male», ha detto in lacrime.
La violenza si sarebbe consumata sull'automobile di Vincenzo Calò che subito dopo aver
firmato il registro dei carabinieri si è appartato in una zona di campagna.
Al rientro a casa i genitori hanno capito subito che era successo qualcosa. La bambina era
come assente, irrigidita, i pugni serrati e il viso tirato. Per alcuni minuti è rimasta chiusa
nel silenzio poi, di fronte alle insistenze della madre, ha cominciato a raccontare ogni minimo particolare. E in ospedale i medici hanno constatato che era tutto vero. Non è escluso
che in passato Calò avesse già abusato della bambina. La madre si fidava di lui che, tra
l'altro abita nello stesso stabile. L'uomo andava a lavorare la sera dunque il resto della
giornata restava in casa e si offriva per tenere la bambina. Giovedì le aveva detto: «Perché
non mi fai compagnia? Debbo solo passare dai carabinieri e poi facciamo una passeggiata
in macchina». La piccola lo aveva seguito senza immaginare a cosa stava andando incontro.
Calò 4 anni fa aveva stuprato tre sorelline di Aragona, una di 11 anni e due gemelle di 8.
Anche in quel caso si trattava delle figlie di una coppia che l'uomo frequentava.
Arrestato, era rimasto in carcere per meno di un anno, fino al marzo 2005. Scarcerato per
scadenza dei termini di custodia cautelare era stato comunque condannato a 6 anni e 4
mesi ma non era tornato in cella perché intanto aveva presentato appello. Si era dunque
trasferito ad Agrigento, dove aveva aperto una pizzeria ed era stato abile a non far trapelare nulla del suo passato.
La scheda sulla pedofilia: secondo Telefono arcobaleno, i siti che ospitano contenuti pedopornografici sono più che raddoppiati dal 2003 ad oggi, registrando un aumento del 131%.
Quelli fatti chiudere sono passati dai 16.369 di cinque anni fa ai 39.027 del 2007 …….
108
Saverio non era riuscito a finire di leggere l’articolo sul quotidiano locale: la
stanchezza del viaggio, il caldo della camera del motel avevano vinto ed egli
era sprofondato in un sonno profondo ma abitato da sogni di lotta e di sangue.
Il fresco della sera e le voci provenienti dalla piscina dell’albergo sotto il
suo balcone spalancato lo fecero tornare alla realtà.
Era arrivato il mattino all’Akragas e aveva preso la camera che aveva prenotato per telefono con il nome che aveva sul passaporto che aveva esibito alla
reception.
Una doccia lo aveva riportato in vita. Sulla moquette giaceva la pagina del
giornale che aveva letto qualche ora prima e che lo aveva ossessionato con
un lungo incubo di sangue e di morte.
Gli ribolliva il sangue ma stava progettando un piano complesso che doveva
servire d’esempio a tutti i pedofili in circolazione.
Era tanta la rabbia che aveva in corpo che pensava di riuscire a scombussolare un mondo che viveva nascosto tra le pieghe di internet e nei posti più
impensabili della terra; si illudeva di riuscirci ma poi ritornava nella tristezza della realtà e si rendeva conto che la sua sarebbe stata sì un’azione eclatante ma che non avrebbe estirpato il male peggiore.
Era già buio quando si inoltrò lungo la via Atenea, mescolandosi tra la folla
dello struscio serale: le solite facce, la solita gente che non ha nulla da fare e
che cammina curiosa solo di scoprire i difetti del prossimo, l’Agrigento in
piazza, mentre Calò giaceva in una cella di isolamento del carcere di Agrigento appena fuori città.
Saverio era sicuro che la cella a quell’ora non era sorvegliata, eppure temeva qualcosa, persone che vivono nell’ombra e che al momento peggiore si
rivelano i veri capi di una giovane mafia senza scrupoli.
Per questo preferiva farsi vedere tra la folla: se qualcuno lo stava sorvegliando, avrebbe certamente fatto una mossa falsa. Perché era sicuro che o
parenti di Calò o amici degli amici che assecondavano quell’uomo per altri
loschi traffici lo stavano tenendo sotto controllo, un controllo silenzioso ma
pronto ad ogni evento.
Saverio era certo di una cosa sola: non esistevano soffiate o segnali su di lui;
quindi il fattore sorpresa lo avrebbe aiutato molto.
In fondo alla piazza Cavour, proprio davanti al portone della caserma della
polizia, giaceva in sosta un camper con targa tedesca, in modo da non destare sospetti nei nemici e da provocare prima o poi l’intervento dei poliziotti
per una sosta tanto stupida e fuori dagli spazi previsti.
E così avvenne: quando stava per salire, dopo aver aperto lo sportello, sentì
dietro di sé la voce italianizzata ma pur sempre siciliana:
“A vossia! La pare il modo di parcheggiare il suo camperre? Ah?”
Saverio si voltò e fece la faccia di chi è straniero e non capisce l’italiano,
“Nun lu capì? Ora ce lo faccio capire io: sa che è vietato parcheggiare di
fronte alla questura, ah?”
Saverio continuò la sua pantomima fino a che il poliziotto, spazientito incominciò ad alzare la voce.
“Chisto camperre lo deve levare di cca! Lu capisci?”
Nel frattempo intorno si erano raccolte alcune persone e Saverio era sicuro
che una di queste stava controllando la situazione per riferire a qualcun altro.
109
Finalmente il poliziotto, con l’aiuto di un signore presente riuscì a far capire
a Saverio che doveva “togliersi di ddocu!”
E Saverio obbedì, partendo per la strada che scendeva dietro Agrigento, seguito dagli occhi di tutti, anche di chi voleva capire che cosa ci faceva “stu
cristiano” ad Agrigento.
La zona di Agrigento bassa sembrava un antico paesaggio fatti case fatiscenti e di capanni addossati uno all’altro. Ogni tanto in mezzo alle costruzioni basse fatte di tufo e con pochissime finestre si apriva un varco che poteva assomigliare ad un vicolo.
Saverio si infilò col suo automezzo in quello che aveva già scelto poche ore
prima, abbastanza largo e indefinibile. Percorse poche centinaia di metri e
finì la sua corsa in un campo di fave, dove, nel silenzio assoluto, poté ammirare il piacere della massima solitudine, quasi fosse nel deserto di Tamanrasset.
Scese, chiuse accuratamente la portiera con delicatezza quasi non volesse
rompere la sacralità di quel silenzio infinito e risalì a piedi per un pendio che
lo riportava nel vecchio abitato.
Sicuro di essere finalmente lontano da sguardi curiosi e indiscreti, entrò in
una specie di stalla e risalì su un altro mezzo; era un cellulare della polizia
autentico, usato per trasportare i carcerati, che si era procurato poche ore
prima in un paese vicino.
Mise in moto e risalì ad Agrigento ma questa volta si diresse verso il carcere, in fondo ad una delle vie che scendevano verso S. Leone.
Pochi minuti dopo suonava al campanello del carcere, munito di divisa da
poliziotto e con in mano i documenti predisposti con la sua consueta abilità.
Chiese ed ottenne che gli venisse portato il carcerato Vincenzo Calò, ammanettato e con un sacchetto di plastica contenente i suoi effetti personali.
Lo fece salire da dietro nel cellulare, lo incatenò alla barra di sicurezza, salutò la guardia di turno con un mezzo sorriso e ripartì.
Al ritorno non fece la stessa strada ma prese la direzione di Canicattì.
Si fermò alcuni chilometri dopo in aperta campagna ed attese, mentre teneva
sotto controllo il suo ospite da uno specchietto retrovisore supplementare.
Passò un’ora quando vide avvicinarsi i fari di un veicolo; predispose il mitra
sopra le ginocchia, il colpo in canna, e attese.
Come prevedeva, l’auto, una innocente Fiat Multipla, accostò il cellulare e
rimase col motore acceso mentre l’autista, apparentemente disarmato scese e
si diresse verso di lui.
Il veicolo aveva i finestrini oscurati ma il rivelatore infrarossi che Saverio
teneva acceso sul sedile del passeggero gli indicava la sagoma di due perone
all’interno, accosciate tra i sedili posteriori.
L’autista fece il cenno di dire qualcosa quando Saverio con una sola azione
scatenò un caricatore sulle sagome che indovinava dietro i sedili e finì la traiettoria dei proiettili sull’uomo che stava avvicinandosi, catapultandolo contro la multipla dilaniato dalla grandinata di proiettili.
Dietro Vincenzo Calò sussultò spaventato e capì che in quel momento aveva
perso ogni illusione che si era fatta sperando in un agguato per farsi liberare
da amici della mafia locale.
Saverio ripartì a tutta velocità e riprese la strada per Agrigento Bassa.
Accostato al camper, aprì con cautela lo sportello del cellulare e assestò un
colpo in pieno viso a Vincenzo appena questi cercò di lanciarsi verso
l’uscita.
110
Vincenzo cadde riverso e svenuto mentre sparava copioso il sangue dal naso
rotto.
Con molta fatica se lo caricò sulle spalle e lo fece ricadere senza tante attenzioni sul pavimento del camper aperto. Salì a sua volta e iniziò a incatenare
il corpo ad alcuni ganci predisposti in modo che alla fine Vincenzo sembrava un Cristo crocifisso in piedi in mezzo allo spazio vuoto, legato braccia e
piedi alle pareti del camper in modo da non potersi muovere di un millimetro.
Gli aggiunse una catena intorno al collo, che agganciò nella cabina di guida
in modo da poterlo controllare in ogni suo movimento.
Richiuse lo sportello e, assicuratosi che non ci fossero in giro sguardi indiscreti, ripartì, questa volta imboccando la strada in direzione di Sciacca.
§§§
Lo faceva ridere il ripetuto segnale stradale lungo la statale: “tratto misto
lento veloce”. Ed era vero perché sul lato destro doveva spesso superare lenti carretti trascinati penosamente da vecchi asinelli mentre veicoli lanciati a
tutta velocità se ne fregavano dei pericoli di un traffico assurdo e lo superavano sulla sinistra costringendolo spesso, data l’andatura lenta che si era
imposto, a rallentare per non tamponare quelli più lenti di lui.
Andava piano anche per evitare l’attenzione di qualche pattuglia di carabinieri che in quel tratto spesso organizzavano un posto di blocco.
Ne superò indenne uno: i militari non degnarono di uno sguardo il camper e,
giunto dopo Montallegro al ponte sul Platani, girò a sinistra verso il mare.
Dopo sei chilometri era sulla spiaggia di Punta Bianca; nascosto da un fitto
bosco di tamarici lo aspettava un piccolo elicottero militare.
Mezz’ora dopo era in volo con il corpo di Vincenzo incatenato dietro di lui
sul pavimento.
Lampedusa gli apparve sull’orizzonte quasi contemporaneamente alla sagoma sul radar.
Scese a pelo del mare per non farsi scoprire dal radar dell’aeroporto e deviò
verso ovest, in direzione di Pantelleria, poi riprese la direzione giusta ed atterrò sullo scoglio di Lampione, attendendo la notte.
Sapeva che la sorveglianza sull’isola lasciava molto a desiderare; quando fu
buio riprese il volo e, quasi toccando le onde, raggiunse in pochi minuti la
punta ovest dell’isola dove atterrò a pochi metri dall’entrata dell’ex base
americana del lonar.
Spento il rotore, attese che il silenzio gli confermasse di non essere stato avvistato e, dopo aver controllato che Vincenzo fosse ancora addormentato,
scese dall’elicottero e si avviò all’entrata della base,
Aveva gli strumenti necessari per tagliare filo spinato ed altri blocchi materiali: di allarmi non se ne parlava nemmeno, dopo che gli americani, con
l’attivazione dei vari satelliti per il GPS avevano definitivamente rinunciato
a quella ridicola messinscena di alcune decine di anni prima: avevano inventato la base lonar per controllare ogni movimento nel Mediterraneo ed ora
tutto quello che avevano costruito sotto terra non serviva più.
Né valeva la pena smantellare le attrezzature, a parte alcune apparecchiature
segrete che una mattina di qualche anno prima avevano caricato su un loro
C-130 e se ne erano definitivamente andati.
111
Saverio temeva di trovare tracce di visite indesiderate degli isolani ma si rese subito conto che nella base non era entrato nessuno da tempo, salvo qualche topo e qualche conigli selvatico.
§§§
Aveva terminato un lavoro lungo e faticoso durante la notte e la mattina seguente era riuscito a mimetizzare l’elicottero all’interno della base che era
attrezzata con spazi sotterranei ideali.
Il corpo di Vincenzo giaceva solidamente legato ad una branda nel reparto
notte della base; la bocca chiusa da un solido cerotto, le braccia e le gambe
legate al letto, aveva gli occhi aperti e cercava di capire dove finalmente era
stato portato ma la stanza asettica non gli dava alcuna indicazione.
Saverio aveva sorvegliato per qualche minuto il risveglio del prigioniero,
poi era ripartito per la terra ferma con l’elicottero, eludendo le sorveglianze
dei radar dell’aviazione e della marina.
Due ore dopo saliva su un aereo di linea dell’Alitalia diretto a Roma.
A qualcuno potrebbe sembrare strano che Saverio avesse affrontato un viaggio così lungo per nascondere Vincenzo ma Saverio aveva progettato un piano complesso che aveva brevemente descritto col cellulare alla sua interlocutrice solita che aveva approvato con entusiasmo.
§§§
Ci volle molta pazienza e molta circospezione ma il viaggio successivo verso Lampedusa si svolse a bordo di un peschereccio di notevoli dimensioni:
la stiva era piena di uomini legati e accatastati come in una nave negriera.
Saverio aveva pazientemente rastrellato uno per uno tutti gli stupratori che,
dopo sommari processi e lievi condanne, erano o liberi di circolare o condannati agli arresti domiciliari.
Non aveva trascurato di identificare i giudici che avevano deliberato sentenze o chiaramente macchiate di dolo o comunque troppo ligie alla legge in
corso: nella stiva, accatastati con tutti i pedofili, aveva raccolto quattro giudici in odore di … leggerezza nel giudicare.
A mano a mano che riusciva a sorprendere i vari pedofili, con mezzi molto
spicci (o narcotici o azioni violente, alcune volte persino con una pistola a
scarica elettrica), li caricava sul camper che aveva riportato al nord e li
chiudeva in un grande magazzino abbandonato alla periferie di Napoli, un
magazzino sotterraneo di uno di quegli ospedali mai finiti di costruire e che
giacevano nella massima incuria, dimenticati da tutti, cittadini e autorità.
§§§
Mentre lo sciabordio del peschereccio accompagnava i suoi pensieri, teneva
d’occhio il radar per rilevare eventuali incursioni delle motovedette in perlustrazione: era un periodo di forte tensione a causa dei continui sbarchi di
clandestini a Lampedusa e, man mano che si avvicinava all’isola, il pericolo
di incontri non desiderati aumentava.
Era quasi il tramonto quando con una manovra perfetta era entrato col peschereccio nella grande grotta detta del Sacramento, nel mezzo della quale
troneggiava uno scoglio isolato che ospitava ogni genere di uccelli.
112
Per Saverio era una manna perché gli avrebbe permesso di nascondere il peschereccio da sguardi indiscreti di barche da pesca o motovedette che fossero passate in zona.
Avrebbe desiderato un aiuto, tanti erano i suoi prigionieri ma ogni presenza
estranea sarebbe stata contraria alla sua filosofia crudele di punizione. Non
avrebbe potuto agire senza subire in un futuro eventuali conseguenze poco
gradite.
§§§
All’alba, fece salire in coperta i prigionieri: erano tutti legati uno all’altro da
una pesante catena che si chiudeva in un lucchetto per ogni individuo. Erano
quindici uomini, tutti molto giovani ma inebetiti da forti dosi di calmanti e
di sonniferi.
Alcuni barcollavano sotto l’effetto dei medicinali che Saverio aveva fatto
ingerire.
Aveva lasciato i giudici sotto coperta ed aveva iniziato l’operazione di sbarco dei pedofili: il peschereccio era quasi accostato alla lingua di terraferma
che si allungava nella grotta e sarebbero bastate poche bracciate per raggiungere la riva.
Saverio spinse il primo in acqua costringendo così tutti gli altri a seguirlo
anche se cercavano di reagire in qualche modo: pochi minuti e tutti e quindici erano riusciti a salire sulla sponda. Uno stava per annegare ma il compagno più vicino, temendo di essere trascinato sott’acqua, lo aveva salvato
tenendolo a galla tirando a sé la catena. Era quello che si augurava Saverio e
finalmente aveva quindici pedofili tutti riuniti inconsapevoli di quello che li
aspettava. Non parlavano, erano storditi e non si rendevano ancora conto di
che cosa stesse succedendo.
Si erano distesi tutti spossati dalla fatica, anche perché erano digiuni da ventiquattro ore, avendo ricevuto da Saverio solo bottiglie di acqua minerale.
Saverio aveva messo in testa al gruppo un prete che, noto per i suoi abusi
sessuali era stato dapprima condannato a quattro anni di reclusione. Poi, sospeso a divinis, per intercessione del suo vescovo aveva ottenuto un trattamento di favore con un condono inaspettato che aveva provocato una forte
indignazione tra gli abitanti della parrocchia in cui aveva commesso i suoi
abusi.
Saverio lo aveva messo in testa al gruppo con un disegno ben preciso: voleva punire in quell’uomo la cattiveria degli altri con un trattamento esemplare.
Non dette il tempo al gruppo di riprendersi e minacciandoli con un mitra li
costrinse a rialzarsi e a procedere verso la ex-base americana.
§§§
Una volta fatti scomparire tutti sotto terra si sentì finalmente al sicuro. Fece
entrare il gruppo nella stanza più grande dove erano ancora accatastate apparecchiature elettriche e un grosso generatore.
Attivò quest’ultimo e, raggiunta la tensione di corrente che desiderava mise
in atto la prima tortura:
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qualche secondo dopo tutti ricevettero un’abbondante dose di corrente, urlando e cercando di divincolarsi inutilmente: caddero quasi subito tutti tramortiti.
Saverio sciolse la catena del prete pedofilo e lo costrinse ad alzarsi e, mentre
gli altri si stavano riprendendo, lo sollevò e lo distese su un tavolaccio che
stava al centro della stanza.
Lo denudò, lo legò saldamente e per la prima volta parlò:
“Adesso tu ti masturbi fino a quando te lo dirò io!”
Il prete, lo guardò inebetito e cercò di fare un gesto di diniego; una manrovescio gli fece sanguinare il naso e poco dopo il malcapitato iniziò (sotto lo
sguardo o stralunato o divertito degli altri che non pensarono a cosa stesse
per capitare loro) a fare quello che Saverio gli aveva ordinato.
Finalmente il membro del prete fu abbastanza duro ed eretto e Saverio, con
un gesto fulmineo ed inaspettato, balzò di fianco al prete e con un affilato
coltello gli tagliò il membro alla base.
L’urlo che si levò fu ancora più impressionante della fontana di sangue che
schizzò nell’aria inondando tutto il pavimento intorno al tavolo.
I prigionieri rimasero atterriti e spaventati mentre Saverio, dopo che il prete
svenne mentre si stava dissanguando, gridò ad alta voce:
“Adesso tocca a voi e, se non fate quello che vi ordino, farete la stessa fine
di questo porco!”
Attese qualche istante per creare la suspense e continuò:
“Adesso ognuno di voi inculerà il vicino. Vi mettete in cerchio in modo che
vengano accontentati tutti. Chi smette o non ci riesce subirà il trattamento
che ho riservato a questo vostro compagno di vigliaccheria!”
E, mentre finiva di urlare gli ordini, aveva azionato una telecamera che riprendeva tutta la scena.
“Meno male che ho pensato ad una ripresa automatica” disse tra sé mentre
usciva stomacato all’aria aperta. “non sarei riuscito a farlo manualmente!”
§§§
Aspettò qualche secondo e da un oblò che aveva precedentemente scoperto
che permetteva di osservare l’interno della stanza, poté controllare cosa stavano facendo i suoi prigionieri.
Mancò poco che vomitasse anche l’anima: stavano veramente inculandosi
come bestie, anzi sembrava che qualcuno ne godesse.
Saverio non ne poteva più; eppure doveva completare la sua vendetta: il filmato avrebbe avuto un ruolo importantissimo.
Gli sarebbe bastato gettare un paio di ananas dentro la stanza per compiere
una strage di quei disgraziati ma aveva bisogno che fossero vivi.
Si limitò a cacciare dentro la stanza un candelotto lacrimogeno e tornò alla
barca dove prelevò i quattro giudici: ognuno era colpevole di decisioni troppo leggere per essere regolari e Saverio voleva da loro la verità.
Li costrinse a nuotare e a risalire la riva. Poi li portò al bunker e li fece entrare in una stanzetta; la parete aveva una finestra col vetro chiuso che dava
sulla sala in cui giacevano gli stupratori.
“Adesso osservate attentamente i vostri …. clienti!” urlò Saverio e cercate
di riconoscere quelli cui avete concesso stranamente la libertà.
Tu – e si rivolse a caso al primo – chi ti ha pagato e quanto ti hanno dato per
dare la libertà a dei farabutti!”
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Saverio non si rivolgeva a caso ma sapeva bene di che cosa era stato autore
il giudice Fantucci che ansimava mentre veniva colpito dalle immagini, soprattutto del prete che ancora riusciva ad avere sangue in quel corpaccio che
sembra sgonfiarsi mentre svuotava sangue e tutto quello che poteva far uscire dai suoi sfinteri ammorbando l’aria mescolata al puzzo del lacrimogeno.
Quelli a terra rantolavano e cercavano come salvarsi dal bruciore intenso
degli occhi, agitandosi e cercando di ridare al proprio corpo una parvenza di
dignità perché il lacrimogeno li aveva colpiti proprio mentre, con i pantaloni
calati, cercavano di attuare un’assurda operazione con il vicino.
Fantucci cercò di balbettare ma una sberla lo face volare a terra mentre un
rivolo di sangue gli colava dall’angolo della bocca.
“Parla con calma e racconta la verità, altrimenti ti faccio fare la fine del prete”
Le parole di Saverio lo bloccarono in una posa assurda mentre gli altri tre
giudici, avendo compreso le intenzioni dello sconosciuto persecutore, cercavano di pensare ad una soluzione di compromesso.
“E voi non pensate che ve la caverete meglio di Fantucci!”
Sentire il cognome del giudice fece capire loro che lo sconosciuto sapeva
molto di più di quello che temevano; rimanevano immobili e non osavano
parlarsi tra loro.
“Allora, Fantucci?”
Il disgraziato, balbettando le poche parole che riusciva a dire, confessò che
aveva ricevuto una somma ingente da uno sconosciuto. Ma Saverio estrasse
un coltello e gli puntò la lama alla gola:
“Tu non puoi più permetterti di dire ‘uno sconosciuto’: devi dirmi il nome !”
La voce di Saverio era alterata al punto che i prigionieri dall’altra parte del
vetro sentirono. Qualcuno si agitò più degli altri e cercò di buttarsi contro il
vetro ma era antiurto e il prigioniero, un uomo di circa venticinque anni andò a sbattere violentemente contro la vetrata, ricadendo quasi svenuto.
“Allora?” Ripeté Saverio, sempre urlando.
Il giudice sussurrò un nome: Saverio si chiese se fosse stato possibile, trattandosi di un deputato molto noto.
“Saresti disposto a ripeterlo in tribunale?” gli chiese.
“Nemmeno se mi ammazzano!”
“Sei sicuro di quello che stai affermando?”
“Se vuoi, ammazzami ma non lo farò mai: senza di me la tua testimonianza
non ….”
Ma Fantucci non fece in tempo a finire la frase: Saverio, preso da un’ira incontenibile con un colpo solo del coltello gli tagliò la carotide e Fantucci
crollò a terra, le mani a stringere la gola come per fermare il sangue.
Il suo corpo incominciò a tremare incontrollato e continuò per parecchi secondi, finché le mani caddero sui fianchi del corpo inanimato mentre il sangue zampillava come una fontana.
Gli altri guardavano impietriti mentre Saverio si avvicinò loro e sollevato il
più vicino per il collo, lo sbatté contro il muro di fronte:
“E tu, tu?”
“Io … !balbettò il secondo giudice ma un manrovescio lo fece crollare a terra sanguinante: Saverio era esploso in un’ira senza controllo, ormai nauseato
da tutto, dalla loro vigliaccheria, dal suo stesso schifo per quello che aveva
dovuto assorbire da giornali, dalla televisione, dai corridoi giudiziari dove si
era intrufolato per raccogliere le prove della corruzione dei giudici.
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Ormai sapeva tutto di loro ma voleva la loro confessione prima di massacrarli. Perché ucciderli e basta nella sua mente fuori controllo sarebbe stato
un tradimento per quei poveri bambini, per quelle giovinette rovinate per
sempre più nell’anima che nel corpo da quei disgraziati, infami …
“Infami! Infami! ….” Gridò scaraventandosi contro i tre giudici.
Non gliene fregava più niente del piano che si era prefisso per farli soffrire il
più possibile. La sua lama fece un volo unico rasente e tagliò tre gole in un
colpo solo.
I tre corpi crollarono a terra mentre si riempivano e si inzuppavano del loro
sangue.
Saverio non aspettò la loro morte e si precipitò nella stanza accanto dove i
prigionieri, ancora incatenati avevano assistito atterriti attraverso i vetri alla
carneficina.
La sua entrata creò un gran scompiglio mentre tutti cercavano di allontanarsi
verso la parete di fronte. Ma nessuno sfuggì al suo destino: in pochi secondi
tutti furono uccisi dal coltello di Saverio.
Chi cercò di difendersi tentando un assalto contro lo sconosciuto carceriere
si vide tagliare di netto braccia, mani, volti.
Pochi secondi e quindici corpi giacquero definitivamente per terra attorno al
tavolo dove il corpo del prete ormai era una crosta coagulata di sangue rappreso.
§§§
Avrebbe potuto ripartire con l’elicottero ma l’aria fredda del Canale di Sicilia gli ridava fiducia e vigore. Il battello, lasciata la grotta, aveva ripreso la
rotta verso la Sicilia ad una velocità decisamente più lenta, ma il profumo
del mare, la vista gioiosa dei delfini che accompagnavano lo scafo in una
compagnia inaspettata gli riempivano il cuore di fiducia ancora nel mondo.
Non riusciva a cancellare l’orrore della strage e si chiedeva se avrebbe potuto ripetere una tale mostruosità. Leniva il suo dolore solo la pietà verso le
creature che aveva vendicato e gli rodeva dentro di aver agito solo con un
piccolo campione della cattiveria di uomini pedofili, depravati e schifosi.
Ma sperava nell’effetto che avrebbe provocato a Roma negli ambienti politici della giustizia.
§§§
Aveva scaricato il misterioso, pesantissimo e puzzolente, sacco sulla spiaggia del Caos, a pochi chilometri da Porto Empedocle, dopo aver raggiunto la
riva con un piccolo guscio che quasi affondava per il peso.
Aveva lasciato anonimamente il peschereccio dondolarsi sulle onde che battevano la riva, fissato al fondo con una semplice ancora ed ora correva con il
camper verso nord, greve del suo carico di morte.
Un viaggio lungo ed estenuante lo vide entrare a Roma alle luci di un alba di
sole e di un cielo terso.
Non ne poteva più dell’orribile odore che emanava il suo carico, ma doveva
resistere per attuare il suo piano.
Finalmente, parcheggiato il camper davanti al Palazzo del Ministero di Giustizia, si era allontanato a piedi e aveva raggiunto una anonima Volvo la116
sciata poco tempo prima a poca distanza nel garage di un condominio della
capitale.
Stava percorrendo l’autostrada verso il nord, verso la sua sospirata Assisi
mentre ascoltava il comunicato sul canale della Rai:
A Lampedusa era esplosa la base che era stata degli americani.
Qualche ignoto aveva innescato del potente esplosivo che aveva completamente fatto crollare tutta la costruzione sotterranea, lanciando in aria ogni
cosa che si trovava all’interno.
La autorità erano tempestivamente intervenute sul luogo ma si erano trovate
davanti ad un immenso cratere dopo che la popolazione dell’isola si era riversata nelle strade, spaventata dalla fortissima esplosione, ripensando ai
missili di Gheddafi del 1986.
La colonna di fumo aveva subito orientato le ricerche a sul posto i carabinieri appena giunti erano rimasti esterrefatti nel vedere sui bordi del cratere
pezzi di cadaveri senza testa, uno addirittura mutilato dei genitali ed in avanzato stato di decomposizione.
Le ricerche brancolavano nel buio in attesa che la pietosa, meticolosa e raccapricciante raccolta da parte del RIS giunto immediatamente sull’isola potesse dare qualche indicazione agli inquirenti.
Intanto da tutta l’Italia giungevano notizie della scomparsa di molti personaggi noti alle forze dell’ordine dopo che la loro pena, già troppo lieve, era
stata ulteriormente ridotta agli arresti domiciliari: non si rintracciava più
nessuno degli imputati.
Invece del camper in sosta davanti al Palazzo di Roma non veniva ancora
data alcuna notizia ma bisognava attendere: prima che a qualcuno si svegliasse una certa curiosità per un automezzo che emanava un fetore di morte
proprio davanti al Palazzo di Giustizia sarebbe stato necessario molto più
tempo.
§§§
Dalla piccola casa che aveva affittato sul monte, ammirava il mare di nebbia
che si stendeva nella valle sotto di lui, mentre ascoltava le note malinconiche di Borodin che descriveva la steppa dell’Asia Minore.
Nebbia e musica, due cose impalpabili, senza corpo, inesistenti come materia, riuscivano a risvegliare nel suo animo la fantasia di mondi lontani, di
universi di altri pianeti, riempiendogli la mente di tristezza e il cuore di dolore per non poter dare corpo ai suoi pensieri ancora tumultuosi dopo
quest’ultima missione assurda e, pensava, forse anche inutile.
Il cellulare squillò improvviso nel taschino della sua camicia e Saverio cautamente rispose.
La voce di donna giungeva alle sue orecchie come un’eco lontana e parlava
di impresa titanica, di esiti futuri impensati e favolosi.
Cercò di ritornare in sé e di capire e finalmente si rese conto che dopo tanto
tempo qualcuno lo invitava finalmente ad un incontro importante.
§§§
117
MAURIZIO CORDOBA
Maurizio Cordoba poteva essere chiaramente dichiarato un vero maschio, un
bellissimo maschio di 35 anni, di origine siciliana, un sguardo fiero, palestrato, un portamento sfrontato che irrideva ad ogni tentativo di cercare di
ridurne la potenza d’impatto psicologico che aveva con tutti ma soprattutto
con le donne.
La prima vittima, appena giunta in Italia dal Brasile si era già staccata da lui
e dalle sue abitudini forti e troppo rudi appena in tempo e ringraziava il suo
Dio per essersi liberata dalla sua arroganza e prepotenza.
Ora viaggiava per nuovi lidi, accompagnandosi con un attore non più giovane e rallegrando grandi e piccini in uno spot televisivo che andava in onda
con assidua presenza su tutti i canali televisivi.
Maurizio, dapprima deluso per essere stato snobbato da una donna, (cosa
ignobile per un siciliano autentico come lui), si era poi orientato verso altri
lidi.
Cambiava donna ogni pochi giorni mentre si dava da fare con il suo mestiere: perché per guadagnarsi da vivere faceva il lavoro di ricattare persone note, attori, attrici, divi e divetti con materiale fotografico sempre molto imbarazzante per gli interessati.
Alcuni calciatori, regolarmente sposati si erano trovati a sborsare centinaia
di migliaia di euro per foto compromettenti con ragazze compiacenti che facevano da civette da richiamo per Maurizio.
Era riuscito con questo sistema ad incastrare anche un ministro importante e
molti uomini politici.
Ma tutto ciò non interessava Saverio: peggio per coloro che ci cascavano!
Era però il modo con cui Maurizio agiva credendosi un padreterno, uno che
non potevi bloccare se non con la forza.
E con la forza Saverio intendeva fermare la turpe attività di quell’uomo:
perché, se si fosse limitato ai ricatti forse …. Ma lavorava con la droga,
spacciava denaro falso, dichiarava in TV che usava il denaro per fare della
beneficenza in Africa (ma quel continente non aveva mai visto un quattrino).
Arrestato e condannato finalmente aveva osato paragonarsi con i casi in cui,
secondo lui altri dovevano essere puniti mentre si sentiva un perseguitato
dalla giustizia.
D’altronde a furia di pestare i calli altolocati prima o poi gli sarebbe capitato
qualcosa. Ma secondo Saverio, aveva bisogno di una lezione severa che
mettesse fine alla sua aggressività e tracotanza con il mondo intero: doveva
imparare a sue spese che il mondo, quello dei giusti, è fatto di persone oneste e non di furbi come lui.
Aveva organizzato un piano diabolico in ogni dettaglio, che mise in atto solo dopo essere sicuro di poterlo attuare con successo.
§§§
Maurizio aveva trascorso la serata e parte della nottata in un club riservato
di Roma, in mezzo a compari della sua specie ed ora (erano le undici del
mattino) era sprofondato tra le lenzuola con un’attricetta che gliela avrebbe
data con gusto, primo perché sperava in un ruolo in un film e poi perché il
maschietto prometteva ottime prestazioni sessuali.
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Invece era crollato addormentato subito dopo essersi disteso sul letto lasciando la giovine in bianco: questa si era rivestita e silenziosamente era
sparita precipitosamente verso lidi più soddisfacenti.
Da alcuni secondi il telefono sul comodino gli stava dicendo con insistenza
che qualcuno lo stava cercando. Ci impiegò molto a tornare tra i vivi ma finalmente riuscì ad afferrare la cornetta e biascicare un “pronto” che sembrava provenire dall’oltretomba.
“Sei sveglio?” seguì un lungo silenzio, poi rispose:
“Adesso sì; chi mi rompe i coglioni a quest’ora?”
“Come? Non riconosci gli amici?” poi un gran silenzio che durò troppo.
Maurizio sbatté la cornetta sul telefono con uno bofonchiante “vaffanculo” e
si girò dall’altra parte ritornando nel mondo da cui era stato svegliato.
Passarono alcuni minuti e il telefono riprese il suo tormentone; questa volta
Maurizio si srotolò dal lenzuolo e si mise seduto, afferrò la cornetta e urlò:
“… cazzo vuoi!”
Dall’altra parte una voce che fingeva di essere un suo amico disse solo:
“C’è un servizio … urgente :” e rimase in silenzio.
“Chi parla?” chiese, questa volta incuriosito Maurizio.
“Che ti frega? Ti interessa beccare Nartuzzo a casa di Chioccia?”
“Conosco Nartuzzo, ma Chioccia chi è?”
“Via Nazario Sauro, 53, quarto piano. Chioccia è già d’accordo per 10 mila:
glielo ho già anticipati. …. e … lascia la porta socchiusa …”.
E la comunicazione si interruppe.
Maurizio dovette pensarci un po’: gli sembrava tutto strano ma la voce di
chi gli aveva fatto la soffiata gli era nota: non si ricordava dove, ma gli aveva già parlato.
La mente annebbiata gli impediva di ricordare: la sera prima durante le abbondanti bevute Saverio era del gruppo e aveva parlato a lungo con lui, imprimendogli nel cervello il timbro della sua voce, parlandogli come se fosse
del mestiere, alludendo ad occasioni nei giorni successivi particolarmente
danarose.
Ma Maurizio non ricordava tutti questi particolari; gli rimaneva nel cervello
annebbiato il timbro della voce e gli sembrava di ricordare un amico, qualcuno con cui fare affari. Lo ricercò nella sua memoria sotto la doccia ma
non riusciva a ricordare chi fosse. Alla fine rinunciò: “Tanto – si disse – lo
ritrovo sul posto. M’ha detto subito …” terminò di pensare e preparò
l’attrezzatura che teneva sempre pronta per ogni chiamata.
Dieci minuti dopo era per strada con la sua BMW guidando abbastanza
tranquillo perché la mente gli si stava svegliando pian piano e aveva bisogno di riorganizzarsi su come procedere una volta sul posto.
§§§
Saverio lo stava aspettando nell’appartamento, la porta socchiusa, al buio
completo, mentre, munito di occhiali a infrarossi poteva dominare la situazione al buio.
Appena sentì l’ascensore in movimento si mise in posizione e pochi secondi
dopo Maurizio era crollato a terra, colpito dalla scarica di una pistola elettrica, di quelle che usano i poliziotti americani.
A Saverio bastarono pochi secondi per ricacciare il corpo inerte dentro
l’ascensore, premere il bottone del garage del palazzo, caricarsi il corpo sul119
le spalle e immobilizzarlo nel camioncino che si era procurato. Mezz’ora
dopo era in viaggio verso il suo capannone dove gli aveva preparato una cella blindata.
Quando Maurizio si risvegliò i faretti per la ripresa lo inondarono quasi accecandolo. Era completamente nudo, le mani legate dietro la schiena, al collo un legaccio che lo costringeva immobile a guardare il cielo
Saverio spense le luci e lasciò che Maurizio sul giaciglio, piangendo per il
dolore e la vergogna.
Saverio avrebbe voluto spiegargli il perché di quella messa in scena ma preferì andarsene in silenzio.
Rientrato al suo rifugio riprese la lettura del diario di Blake e continuò a
chiedersi perché a fatti concreti avesse alternato storie utopistiche mai realizzate.
Aveva stabilito di trasformare i suoi sogni in fatti concreti, almeno in parte
ed aveva organizzato il nuovo viaggio al sud, soprattutto nei dintorni di Palermo e di Trapani.
MANNA VARCHI E FIGLIA.
Manna aveva trascorso quasi tutta la notte agitata e semisveglia. La camomilla no l’aveva calmata e nemmeno le parole della figlia sonnolenta ma
anch’essa piuttosto inquieta.
All’alba le due donne si alternarono sotto la doccia e incominciarono a preparare tutto quello che speravano di portarsi in carcere.
Ad ogni momento l’idea tornava imperiosa e Manna si metteva a singhiozzare mentre la figlia cercava di incoraggiarla.
Ormai avevano perso ogni speranza, specialmente dopo la telefonata della
sera prima con il loro avvocato: le aspettava un lungo soggiorno nel carcere
di Opera. Poi. Chissà, con gli anni, forse i mesi … ma l’avvocato aveva evitato ogni tipo di illusione alle due donne.
Stava schiarendo e la luce del giorno si intrufolava tra le persiane come una
spia cattiva mentre per anni aveva rappresentato per tutte e due il felice
messaggio mattutino che avrebbe fruttato soldi a palate con la vendita dei
loro imbrogli.
Si erano ritrovate tutte e due sedute sul bordo del letto grande ma guardavano avanti nel vuoto. Non si parlavano e non riuscivano a pensare se non a
come si sarebbe svolta la scena fra poco.
Soprattutto le ossessionava la paura della gente che poteva esserci lì fuori ad
aspettarle.
§§§
Il doblò preso a noleggio era completamente anonimo e Saverio lo stava
guidando con andatura turistica, senza fretta: era in anticipo e sapeva che sarebbe comunque arrivato prima del corteo di auto della polizia carceraria,
delle autorità incaricate del definitivo trasloco delle due signore.
Temeva solo l’intralcio dei giornalisti e dei fotografi ma aveva provveduto
anche a questo con un piccolo sotterfugio.
Alle sette precise il corteo composto da due auto civili e da alcune gazzelle
della polizia si presentò al cancello della villa e entrò nel viale che portava
all’entrata principale.
120
Frenarono sotto la scalinata mentre scendevano alcuni funzionari: sembrava
quasi un film ma era la dura realtà, gonfiata ad arte dalla polizia dopo che
per mesi le due protagoniste erano state il bersaglio della trasmissione televisiva che le aveva scoperte e mese alla berlina.
Le autorità non potevano certo essere da meno della stampa e della tv.
Saverio era riuscito a sostituirsi all’autista del primo mezzo privato, quello
dove dovevano salire le due condannate, eliminandolo dalla scena nel momento stesso che questi si accingeva a salire alla guida con la divisa da poliziotto: era bastato un attimo di distrazione e una scossa della pisola elettrica
per farlo stendere di traverso sul sedile anteriore. Bastò una rapida manovra
ed ecco che Saverio poteva ora guidare tranquillo in mezzo alle autorità di
polizia, mentre il vero autista dormiva ormai sonni tranquilli nel bagagliaio.
Contro ogni aspettativa fuori dal cancello c’erano solo due incaricati della
TV che riprendevano la scena.
Le due donne salirono sulla vettura guidata da Saverio, mute, impietrite ma
pronte a esternare il grugno che avevano sempre mostrato alle telecamere e
ai giornalisti. Non ce ne fu bisogno: Saverio innestò la prima e si avviò per
la provinciale che portava a Milano, seguito dal corteo, ignaro di cosa stava
per accadere.
Tutto avvenne al semaforo della Quattro corsie che incrociava con la superstrada per Lecco. Al verde Saverio spense il motore, fece finta di riavviare e
poi scese facendo un gesto di scusa verso gli autisti che lo seguivano.
Risalì e ripeté i suoi finti tentativi fino a quando non vide il giallo dall’altra
parte del semaforo.
Al rosso, scattò come un fulmine attraversando l’incrocio e diede tutto gas.
Il resto del corteo, colto di sorpresa dovette fermarsi ed attendere il verde
successivo.
A bordo dei mezzi fermi in attesa c’era qualche perplessità ma non di più:
avrebbero raggiunto il mezzo con le condannate al semaforo successivo.
Ma all’incrocio dopo non c’era più traccia del veicolo guidato da Saverio.
Egli aveva esaminato attentamente il percorso il giorno prima e sapeva che
tra i due incroci avrebbe avuto una curva che lo avrebbe nascosto dalla vista
degli inseguitori e gli avrebbe permesso di imboccare una piccola laterale
quasi invisibile sulla destra che si perdeva tra i campi.
§§§
Mezz’ora dopo le due malcapitate che avevano intuito che qualcosa doveva
essere successo, ma non sapevano se sperare o preoccuparsi, venivano invitate a scendere davanti alla porta di una anonimo capannone in aperta campagna nella bassa milanese.
Si fronte all’incertezza e alla sorpresa, Saverio non disse una parola: puntò
contro di loro un mitra comparso improvvisamente da sotto la sua giacca e
con un gesto eloquente le costrinse a varcare la soglia del portone.
Si guardarono negli occhi ma non fecero in tempo a capire che cosa stesse
succedendo: ambedue caddero a terra tramortite da una scarica di una pistola elettrica.
Molte ore dopo si svegliarono in due stanzette diverse distese su due brande,
legate come salami, la bocca chiusa da un potente cerotto che impediva loro
di parlare ma non di lasciare passare un tubicino di plastica da flebo collega121
to in alto con un grosso recipiente pieno di una soluzione ultrasatura di sale
da cucina che si era già ben disciolto.
In questo modo le due malcapitate erano costrette ad ingoiare il liquido senza interruzione se non volevano morire soffocate.
Secondo Saverio obbligarle a ingurgitare tanto sale era la vendetta del loro
tentativo di imbrogliare il prossimo con la menzogna stupida del sale inviato
per posta, fatto pagare cifre assurde e che, se non si fosse sciolto al paziente
ingenuo e stupido non rimaneva che riconoscere di avere torto rispetto
all’effetto che aveva desiderato realizzare.
Saverio aveva lasciato loro libero il naso per respirare ma non avrebbero potuto urlare o gridare aiuto.
Separate, non sapevano nulla una dell’altra: questo avrebbe indebolito in loro ogni tentativo di reazione.
E Saverio doveva recarsi ad un appuntamento molto importante cui era stato
invitato.
FINALMENTE L’INCONTRO CON PIA DE UTO
Era entrato da poco nella chiesa di Santa Chiara ed era rimasto in ascolto del
vespro cantato dalle clarisse in un gregoriano più in alto di due ottave.
Dietro la grata potevano seguire in chiesa la messa, di cantare le lodi del Signore e di non essere viste.
Le voci così delicate ed altissime gli entravano nell’animo dandogli una
dolce pace interiore e risvegliando in lui i ricordi di un tempo in cui avrebbe
potuto diventare felice se la sua vita non avesse avuto una svolta così improvvisa e imprevista.
Stava meditando ad occhi chiusi, il capo nascosto tra le mani, seduto in una
panca in fondo alla chiesa quando una mano delicata gli toccò la spalla. Sollevò la testa di scatto e si trovò davanti il volto angelico di una giovane novizia che gli fece cenno di seguirlo senza parlare.
Grande fu la sua meraviglia mentre varcava la soglia di un mondo proibito
agli umani mortali: la clausura delle clarisse.
Seguì la silenziosa e misteriosa figura per vari corridoi fino ad una porta che
si aprì ad un lieve colpetto delle nocche bianche della suora. Mentre la monaca proseguiva nel corridoio, una mano gli afferrò un braccio e lo trascinò
quasi con violenza dentro quella che sembrava più una cella di clausura ma
arredata con molto gusto e su un lato di fronte ad un camino antico due poltrone di alto pregio: la mano era di una donna e Saverio poté finalmente conoscere di persona la Marchesa Pia De Uto.
Stava per dire qualcosa ma un cenno imperioso lo bloccò.
Chiusa la porta, la nobile figura si tolse il velo rivelando la sua veneranda
età e i dolci lineamenti del volto.
Saverio non se ne rese conto ma un istante dopo si sentì abbracciare affettuosamente come avrebbe fatto una madre con un figlio; lo colpì un delicato
profumo di erbe di bosco mentre la voce suadente di Pia lo accolse con un:
“Caro, finalmente posso stringerti a me e parlarti senza timore”.
Lo accompagnò ad una delle poltrone rivestite in tessuto gobelin e si sedette a sua volta di fronte a lui nella poltrona gemella.
“Mi è sembrato un secolo ma finalmente ti posso vedere di persona!”
Saverio non sapeva cosa dire: era rimasto colpito dalla dolcezza della sua
voce e l’incontro era per lui più importante di ogni cosa tanto che lo rendeva
più imbarazzato dell’incontro che aveva avuto col papa.
122
Pia se ne era accorta e lo guardava ammirata con i suoi occhi piccoli ma vivissimi e luminosi.
Era impaziente di averlo di fronte a sé ma aveva dovuto attendere che le circostanze le permettessero quell’incontro senza pericolo di interferenze.
Saverio continuava a restare muto, timido ed impacciato come un bambino
quando si sentì bussare lievemente alla porta.
I sensi di Saverio si tesero in allarme ma Pia rispose con sicurezza e tranquillità con un “Avanti” che lo rassicurò.
Entrò una giovane suora con un carrello che lasciò tra di loro ritirandosi subito dopo senza parlare.
Il profumo del caffè era invitante e Pia lo servì a Saverio con eleganza e lentezza appositamente per gustare le reazioni del volto di chi da un’eternità
avrebbe voluto avere come figlio.
“Ora che possiamo parlare tranquillamente posso dirti quello che tu non sai:
hanno finalmente aperto il camper davanti … “
Non poté proseguire perché Saverio trasalì: finalmente!
E Pia riprese:
“Ora sanno ed hanno collegato le teste mozzate dentro al camper con quello
che è successo a Lampedusa. Hai creato un’ondata di sdegno sufficiente a
mettere in movimento tutti coloro che la pensano come noi. Ormai la notizia
sta volando su tutti i telegiornali e l’opinione pubblica non è più silenziosa.
Ci sono state immediate reazioni di movimenti contrastanti, dai radicali contro la strage alla Chiesa che, come al solito lancia anatemi e prega per le anime di quei disgraziati, agli estremisti di destra che vogliono allargare il
cerchio della strage stanando tutti coloro che sono in giro per l’Italia colpevoli dichiarati e non”.
Fece una lunga pausa di silenzio; si soffermò a sorbire su un cucchiaino
d’argento una goccia di caffè mentre osservava gli occhi spalancati di Saverio che fremeva per saperne di più
E proseguì quasi con indifferenza:
“Hai fatto un bel … come diresti tu? Un bel casino!”
“Credo proprio di sì” riuscì a dire quasi in un soffio Saverio.
“Ho forse esagerato?” Aggiunse.
“Esagerato?” gli rispose Pia “Peccato che fossero così pochi. In Parlamento
si sta già delineando un gruppo deciso a far votare finalmente una legge che
per la prima volta in Italia forse riuscirà ad entrare in vigore”.
“Quale legge?” chiese incuriosito Saverio.
“Tu non te lo immagini ma fonti precise mi hanno informata poche ore fa”
E Saverio non stentava a crederle perché sapeva che Pia era una potenza segreta con agganci impensabili, vastissimi e molto efficienti.
“Sicuramente verrà emanato un decreto da parte della maggioranza, ovviamente suggerito dal governo che non vuole esporsi in prima fila, seguito a
breve da una legge analoga con la decisione più grave che l’Italia potesse
prendere …”
Sembrava che Pia lo volesse tenere sulle spine a bella posta ma la notizia era
troppo grossa.
“Che cosa decideranno?”
“La pena di morte, la pena di morte per tutti i reati gravi come quelli per cui
tu hai provveduto da poco …”
123
Anche Pia era commossa ed emozionata, ma proseguì cercando di esporre
con ordine le motivazioni che possono spingere un popolo a prendere decisioni così gravi.
“In momenti gravi vanno prese decisioni gravi: è come se fossimo in guerra.
Se fossimo in guerra entrerebbero in vigore le leggi militari. E noi siamo in
guerra. Basta, siamo stanchi di dover vivere con la paura per i nostri bambini, per le nostre ragazze: pedofili e stupratori con la nuova legge potranno
finalmente essere condannati a morte ed eliminati anche dal bilancio di
mantenerli in carcere con tutte le comodità che ora pretendono, avvocati
compresi. E non potranno più essere lasciati circolare dopo il primo reato. E
i loro avvocati …”
Prese un po’ di pausa per respirare meglio e finire il suo caffè. Poi:
“Tu sai che un avvocato che difende un innocente non può pretendere più di
quanto previsto dalle tariffe di legge. Ma quando difende un colpevole e
vuole ottenere che venga dichiarato innocente, si accanisce su ogni cavillo
possibile. E questo gli permette di ottenere dall’imputato una parcella ben
più sostanziosa. Sembra che nel decreto saranno previste pene pecuniarie a
discrezione del giudice per quegli avvocati che agiranno in modo plateale in
evidente mala fede.
Varrà per tutti l’aggravante dell’immediata esecuzione per coloro che verranno trovati a commettere questi tipi di reato in Italia pur non essendo italiani e senza permesso di soggiorno: i clandestini verranno estirpati e si spera che finalmente la smetteranno di pensare di venire nel paese di Bengodi.
I paesi di origine che riceveranno di ritorno i loro cittadini non condannati a
morte verranno chiamati a livello europeo a risarcire danni e a rimborsare
tutte le spese provocate dal loro comportamento”
Saverio sentì sollevarsi il cuore alla notizia e provò per un momento un sentimento di orgoglio per sentirsi in parte responsabile del precipitare degli
eventi.
Ma ogni suo sentimento si mescolò alla paura che si trattasse solo di un sogno.
“No, caro Saverio; vedo nei tuoi occhi meraviglia ed incredulità ma era necessario mettere lo Stato di fronte ad una situazione così grave per far capire
ai delinquenti che è ora di finirla.
Avremo addosso tutti i paesi “benpensanti” e tutti i soloni di ….”
Ma si fermò per non pronunciare una parola fuori luogo sulle sue labbra di
dona raffinata.
“Ma ci sarà una forte opposizione, la nostra costituzione …” osò dire Saverio, quasi prendendo le difese di un teorico senso socratico delle leggi.
“E’ vero, ma è per questo che verrà proposto un emendamento che dichiarerà il provvedimento solo temporaneo, necessitato da un situazione eccezionale e che verrà rimosso non appena la situazione tornerà normale. Dobbiamo correre il rischio di mettere in mano ai giudici e ai politici uno strumento
pericoloso che farebbe pensare a qualche nostalgico precedenti nefasti della
nostra Italia di prima della seconda guerra mondiale.
Ma è necessario agire così se vogliamo uscire da una situazione che sta ogni
giorno precipitando in un baratro di nefandezze e di degrado morale.
I cittadini sani, quelli che la pensano come noi, vogliono vivere serenamente
e in pace. Sono stanchi di fare la guardia si loro figli, specie se escono di sera, di custodire con le armi i loro beni che si sono guadagnati con anni di lavoro e di fatiche, rischiando di essere accusati di reati commessi in stato di
124
necessità. Loro assoggettati ad un processo, ridotti sul lastrico per le spese
processuali, impediti a circolare per lo stato, bloccati alle frontiere se vogliono andare all’estero, mentre quattro disgraziati senza patria e senza morale si possono permettere di entrare e uscire di prigione per ammazzare,
stuprare, rapire, commettere rapine odiose spesso anche con omicidi ….
Del resto sai che in America, dopo il rapimento del figlio di Lindbergh, approvarono una legge con pene durissime per casi simili. E perché non dovremmo farlo anche noi?”
“Ma avremo contro tutta la legislazione europea e …”
“Non ti preoccupare: sto già contattando chi potrà semmai cambiare la legge
anche in Europa”.
Rimase silenziosa, guardando Saverio con un sorrisetto che aveva qualcosa
di diabolico.
Saverio non sapeva più cosa pensare: se Pia riusciva ad arrivare così lontano, pensò per un attimo, forse ho a che fare con il padreterno in gonnella.
“So a che cosa pensi. Non ti preoccupare. Vedrai tu stesso che cosa accadrà
nei prossimi giorni.”
Poi, cambiando quasi voce e con un dolce sorriso continuò:
“E’ ora che ti prenda una bella vacanza. Non hai una certa Paola …..”
Vide Saverio trasalire e continuò:
“Non credi che io sappia tutto di te? Ora va, l’hai trascurata troppo e ha diritto di averti vicino in questo momento. Tu non lo sai ma ti sta aspettando
nella sua casa che è ….”!
“Qui vicino” continuò Saverio e proseguì commosso “Come posso ringraziarti? Sei stata troppo buona con me …” Ma non poté continuare: era troppo emozionato.
“Ringraziare me?” rispose Pia “Sono io che devo ringraziarti, è il mondo
che dovrà ringraziarti ed un giorno saprà chi ha provocato tutto quello che è
accaduto per ottenere quello che sta per succedere. Ma …. ora vai. Troverai
tutto quello che ti servirà per una meritata vacanza”.
§§§
Quattro giorni dopo Saverio e Paola si imbarcarono a Civitavecchia per una
crociera di sogno e sparirono tra le Canarie e le Isole di Capo Verde.
125
INSERTO SPECIALE
INSERIMENTO DELLA STORIA DI BLAKE
Dalla finestra della camera da letto Saverio stava contemplando la valle in
un tramonto che esplodeva in un fulgido cielo tinto di rosso vivo, oltre le
colline di Bettona, oltre la valle del Tevere, fino alla fine dell’orizzonte, fino
al monte Amiata.
Ripensava alla dolcezza del suo viaggio di nozze e alla tristezza che provocava la cattiveria umana qui nella sua terra.
Non che l’altro continente fosse il paradiso terreste, anzi, i delitti, gli omicidi, le rapine, in alcuni paesi anche le stragi tra faide di quartiere condivano
la triste cronaca dei telegiornali che aveva a volte seguito, mentre sua moglie, dopo aver fatto all’amore si addormentava esausta e felice come una
bambina alle prime esperienze amorose.
Mentre lei era sprofondata nei suoi sogni, Saverio ripensava allo strano incontro che aveva avuto e che sembrava fosse accaduto per caso, ma così non
era: aveva incontrato lo strano sconosciuto nella hall dell’albergo il penultimo giorno della sua permanenza in America.
Era sceso per pagare il conto quando era stato avvicinato da un uomo molto
distinto, vestito elegantemente: un abito chiaro di lino, una cravatta di Hermes di un pallido rosa e un volto ben rasato nel quale spiccava la lucentezza
di due occhi neri dalle pupille che avevano un’intensità di un laser.
Sembrava tranquillamente sprofondato in una delle poltrone vicine alla reception, mentre leggeva i giornali locali apparentemente con molta attenzione. Ma quando vide Saverio avvicinarsi al banco si levò in piedi di scatto e
si fermò ad osservarlo per qualche istante prima di avvicinarsi con indifferenza.
“Scusi” aveva attirato la sua attenzione e subito dopo gli chiese se era italiano e se si chiamava Saverio. Aveva un accento un po’ strano, una leggera
inflessione straniera, forse asiatica, indefinibile: ma parlava un italiano perfetto.
La naturale diffidenza di Saverio bloccò l’uomo che accennò ad un sorriso
ammiccante prima di continuare a parlare.
“Non tema, desidero solo parlarle …”
“Prego … “ rispose Saverio, gentile ma ancora guardingo.
“Possiamo sederci da qualche parte?” E gli indicò il gruppo di poltrone da
cui si era alzato.
Lo sconosciuto si avviò sicuro che Saverio lo seguisse e si sedette dopo di
lui in una delle eleganti poltrone.
“Posso offrirle un drink?” Ma Saverio accennò un no col capo e rimase ancora volutamente in silenzio ad osservare quell’uomo: aveva un qualcosa
che lo interessava, che sembrava attirarlo in una sensazione di simpatia, ma
nello stesso tempo non riusciva ancora ad intuire che cosa volesse da lui.
Fu a questo punto che lo vide aprire una borsa di cuoio che aveva tenuto
seminascosta a terra sul fianco esterno della poltrona:
“Da due giorni sto aspettando di poterla incontrare …” iniziò un po’ titubante lo sconosciuto e poi proseguì non sorprendendosi della reazione un po’
meravigliata di Saverio:
“Ho avuto l’incarico da una che non voleva presentarsi personalmente per
consegnarle questo plico”
126
E dicendo questo, aprì la borsa ed estrasse una cartelletta di plastica che evidentemente conteneva dei fogli o qualcosa di simile.
“Ecco … mi ha raccomandato di consegnarle questa cartella” E fece il gesto
di porgerla a Saverio che prese l’oggetto tra le mani con molta incertezza
non riuscendo a capire:
“Può dirmi il suo nome e anche quello della persona che la manda?”
“Non posso: ho promesso di non rivelare il mittente. Ho solo avuto l’ordine
di fare la consegna e lo sto facendo, sicuro di fare un’opera buona. … Del
resto anch’io ho avuto il mio tornaconto: un forte compenso per fare la consegna e stare zitto. Nemmeno io saprei dirle chi è la persona che mi ha incaricato perché …. Beh! … glielo dico: sono un sacerdote e il plico mi è stato
consegnato in confessionale: non potrei riconoscere il mittente. Mi ha solo
dato insieme una forte somma che mi sarà molto utile per i bambini della
mia parrocchia: sa, è una parrocchia alla periferia di questa città e i miei parrocchiani sono molto poveri …”
Si alzò e, dopo essersi scusato ancora, gli porse la mano:
“Devo scappare: i miei parrocchiani mi aspettano” Ed era scomparso, velocemente scomparso oltre la porta girevole dell’entrata dell’albergo.
Saverio era rimasto così, frastornato e indeciso con la cartella in mano tentando inutilmente di fermare lo sconosciuto.
Forse, pensò per un istante, è lo stesso mittente che ha messo in scena tutta
questa farsa per non rivelarsi: come poteva essere un prete di una parrocchia
di poveri presentarsi vestito in modo così elegante? Così … “laico”?
§§§
Stava ancora pensando a quello strano incontro mentre aveva iniziato a leggere la prima pagina di una specie di racconto che attirò subito la sua attenzione per l’intensità brulla del modo di scrivere del protagonista: sembrava
come un diario, una specie di diario di guerra.
Ma forse è meglio che vi riporto il testo integrale, così potrete capire che
razza di uomo fosse chi aveva deciso di rivelare la propria vita e le proprie
prodezze, vere avventure a volte quasi incredibili ma che potevano avere un
preciso riscontro in fatti che Saverio in parte già conosceva per altre vie.
§§§
Ed ecco il testo che Saverio ebbe la fortuna di leggere:
127
LA VERA STORIA DI BLAKE
La portiera blindata si aprì delicatamente, con una leggera pressione delle
dita. Jussef si lasciò scivolare al posto di guida; interruppe i vari sistemi
d’allarme componendo la combinazione sulla console del computer di bordo
di cui aveva aperto lo sportello sulla plancia di mogano.
Avviò il motore e accese le luci, ingranò la prima e si diresse all’uscita del
garage sotterraneo.
Da quel momento era in condizioni di massima sicurezza; a questo pensava
mentre indirizzava la lucente Cadillac nera all’imboccatura dell’uscita sul
marciapiede della Quinta Avenue.
Il muso anteriore alzato in salita gli nascose per un attimo la strada, poi uscì
orizzontale e il sole lo inondò di luce attraverso i doppi cristalli fumé a prova di proiettili.
Fuori New York bolliva nei suoi 38 gradi delle ore 16 del 2 agosto 1983.
Yussef gustò ancora di più il fresco dell’interno della lussuosa vettura e il
senso di benessere che gli diede il computer mentre gli ricordava con un
leggero lampeggiare rosso al 3° led della 2° fila sul cruscotto che aveva ancora le luci accese.
Si fermò sul passo carraio prima di spegnerle. Lo fece e il computer tacque.
Attese qualche istante; prima di uscire in strada voleva essere sicuro di potersi immettere nel traffico con comodità.
Stava per rilasciare col piede sinistro la frizione quando le luci del pannello
del computer si accesero all’improvviso tutte contemporaneamente.
Da quel momento iniziò un conto alla rovescia che durò meno di due secondi; in un così breve tempo la sua mente gli denunciò uno stato d’allarme e di
estremo pericolo, gli ordinò di premere il pulsante di apertura elettronica
della portiera e di catapultarsi fuori in mezzo alla strada. Al termine di
quest’operazione attese un altro secondo prima di gettarsi carponi lontano
dal pericolo.
Nel frattempo aveva sviluppato almeno quattro ipotesi diverse di tipo di esplosivo e di relativo mandante e vedeva nella mente la Cadillac in esplosione; aveva già pensato ad almeno due mandanti, ma il terzo secondo gli
scivolò in una nebbia senza spiegazioni: stava per rialzarsi appunto per correre al riparo, quando sentì che il suo io si stava sbriciolando verso l‘esterno
dal collo in su.
Non fece in tempo ad aggiungere nei suoi pensieri “… come una zucca
all’interno della quale esplodesse una granata anticarro”: il nulla lo aveva
sostituito in tutti i suoi processi mentali.
Sul tetto della casa di fronte qualcuno svitò il silenziatore, smontò il fucile
che aveva sparato un solo colpo, rimise i componenti, calcio, canna, caricatore nei vari alloggiamenti della valigia-custodia e inserì il tutto
nell’inceneritore del terrazzo.
Con indifferenza si mise il bossolo in tasca: lo avrebbe fatto sparire in fondo
all’oceano tra meno di un’ora.
Mentre usciva in strada mescolandosi tra la folla che si accalcava a guardare
i resti della testa di Jussef El Adjul sparsi sul marciapiede intorno al corpo e
schizzati a macchie sul muro dell’edificio e sulla Cadillac nera, non poté fare a meno di compiacersi con se stesso: un computer smanettato è sempre
pericoloso in mano ad un incompetente: la paura di un esplosivo che non
128
c’era aveva costretto il ricco uomo d’affari arabo a uscire dalla sua sicura
fortezza esattamente nel posto giusto e al momento giusto: il resto era stato
un gioco da ragazzi.
Si allontanò sorridendo, le mani in tasca, mentre rigirava nella sinistra il
bossolo avviandosi a prendere il bus in arrivo.
§§§
La morte di Jussef El Adjul provocò una catena di omicidi a cascata nelle
successive 48 ore in tutti e cinque i continenti.
Il singolo colpo sparato dal tetto fece contemporaneamente correre per la
città 12 pattuglie ufficiali, 15 autocivetta, 4 ispettori-capo, due magistrati,
un medico legale e un’ambulanza.
Il laboratorio della scientifica rimase impegnato al 5° distretto per tre ore sul
corpo del morto e per altre 24 sull’autoveicolo.
Alì Ben Aram, il legale ufficiale di Jussef El Adjul si presentò al 5° distretto, impeccabile nel grigio di shantung su cui spiccava il suo volto arabo,
scuro, gli occhi nascosti dietro occhiali con lenti a specchio. Pareva fosse
uscito da un frigorifero non ostante i 39 gradi esterni.
Fu ascoltato con molta pazienza e gli promisero che avrebbero fatto
l’impossibile per catturare l’assassino.
Quando il legale uscì dal 5° distretto, il tenente Young riuscì, con la rabbia
che aveva in corpo, a spaccare in due il telefono che aveva sulla scrivania, a
ferirsi, a bestemmiare e a far ridere il suo collega Walinsky che, in piedi,
appoggiato alla porta, stava imitando il dinoccolato Alì Ben Aram.
Stava mimando un morto: cinque minuti dopo il legale esplodeva con la sua
auto a meno di trecento metri dall’ufficio del tenente Young, mentre era
fermo al semaforo rosso tra la 42ma e la 6a.
I vetri dell’ufficio di Young e di Walinsky tremarono per il boato e lo spostamento d’aria.
Young non poteva accettare che il capo della più grossa organizzazione americana per la distribuzione della droga potesse permettersi, anche da morto, un avvocato così stronzo.
Alì Ben Aram era stato giustiziato su ordine di Cosa nostra: nelle cinque ore
successive alla morte del suo padrone l’organizzazione araba aveva fatto
sparire quattro oriundi italiani.
Lew Costello era appoggiato al banco di un venditore di hot dog quando la
scarica di pallettoni lo gettò tre metri oltre il banchetto in mezzo ad
un’aiuola, col ventre squarciato. Ebbe il tempo, prima di morire, di pensare
al movente: la vendetta dell’arabo, ma si portò dietro quest’ultimo pensiero
mentre piombava nel buio eterno.
Ben Lo Russo non seppe mai che cosa gli era successo; uno degli uomini di
Yussef gli scaricò la P 38 nel cervello, mentre era steso nel letto di una
squallida stanza di un motel di infimo ordine alla periferia di una piccola cittadina del New Jersey: la bionda che lo aveva portato lì era sparita, si era
tolta la parrucca ed era tornata la portoricana di sempre a fare il suo lavoro
nel suo appartamento della 44ma.
Jack Minuzzo vide il suo assassino: si era voltato sentendosi spingere mentre arrivava il convoglio della metropolitana; cadendo tra le ruote del convoglio che stava arrivando in quel momento si portò dietro quell’immagine;
il suo urlo si sciolse nello stridio del freno d’emergenza. Il lavoro dei pom129
pieri fu lungo e schifoso, ma alla fine riuscirono a raccogliere in un lenzuolo tutto quello che era stato Jack Minuzzo.
Vito Cascio fu l’unico a dare l’allarme: con una lama nella pancia e due coltellate nel petto riuscì ad attaccarsi ad un telefono pubblico, a fare il numero
e a parlare con la persona giusta. Disse solo:”Yussef” e aggiunse il nome
della via in cui stava morendo.
Dieci minuti dopo il suo cadavere era sparito, trasferito nel cortile di casa
Valenti, uno dei maggiorenti di Cosa nostra.
La battaglia tra le due organizzazioni più potenti nella distribuzione della
droga dalla costa dell’Atlantico a quella del Pacifico era esplosa con una
rabbia violenta, silenziosa, ma soprattutto concreta ed efficace.
La polizia di N. Y City ebbe stranamente meno lavoro: anche la pulce,
quando il topo combatte, se ne sta tranquilla: aspetta che la battaglia sia finita e si trasferisce sul topo che resta vivo.
N. Y. City fu scossa solo dagli omicidi tra le due bande, la polizia dovette
raccogliere i cadaveri e fare un inventario per sapere chi fosse rimasto vivo.
Per il resto, tutto sembrava essersi fermato per secoli in attesa di nuovi eventi.
§§§
Mentre Blake saliva su un aereo diretto in Europa, nel Bronx, in Virginia,
nell’Idaho, in California e nel South Dakota erano scoppiati più o meno
spontaneamente vari incendi in fattorie semiabbandonate.
Direttamente con segnalazioni telefoniche o indirettamente era riuscito a far
distruggere tutti i più grossi depositi e laboratori di preparazione, taglio e
confezione di droghe pesanti del Nord America.
Nelle successive due settimane in molti ospedali americani incominciarono
ad arrivare giovani sempre più numerosi, anche a gruppi, in preda a gravi
crisi d’astinenza: la droga era sparita dagli U.S.A. come d’incanto.
§§§
L’infermeria del carcere di Rebibbia era quasi buia. Le piccole luci bluastre
del servizio notturno davano un senso asettico e quasi di una morgue ai lunghi corridoi silenziosi sui quali si aprivano le celle.
La guardia seduta oltre il cancello a sbarre che dava nel corridoio non udì
alcun rumore fino a quando non si voltò per capire da dove provenisse come
un fruscio o un sibilo molto tenue.
Fece per alzarsi mentre cercava di voltarsi ma sentì come un blocco di legno
entrargli nella gola dall’esterno sotto la mascella. Non seppe mai che era
stato un dito: svenne prima. Due ore dopo veniva svegliato dal cambio del
turno successivo e allora solamente poté dare l’allarme: in pochi minuti fu il
finimondo di luci, di sirene intermittenti, di accorrere da tutte le parti di
guardie armate.
Nell’infermeria non era apparentemente successo nulla, a parte un solo particolare: Tommaso Esposito, il grande don Esposito per i napoletani, don
Mimì per gli amici, era scomparso.
In carcere quale sospetto capo della camorra napoletana, trasferito a Rebibbia per sicurezza, ricoverato nell’infermeria da due giorni grazie ai suoi po130
tenti mezzi e alle maniglie che poteva manovrare, Tommaso Esposito era,
sparito, come se se si fosse dileguato nel nulla.
Tano Castaldi, il famoso questore di ferro, avrebbe preferito spararsi in bocca, ma doveva ammettere che ancora una volta Esposito lo aveva fregato.
Aveva sempre sognato di vedere un giorno il processo di Esposito, con la
condanna finale a vita del capo di tutta la sua banda. Ora questa speranza
sfumava. Non aveva mai pensato o osato sperare di incontrarlo in un conflitto a fuoco, era contrario alla violenza e alle armi.
Blake invece no: Esposito non aveva fatto in tempo ad accorgersi della figura che si muoveva nel semibuio della stanza dell’infermeria senza alcun rumore. Quando lo vide capì ma fu troppo tardi. Pensò di morire e invece fu
solo addormentato con un pressione delle dita ai due lati della nuca. Il cloroformio fece il resto. Le altre figure nei pochi letti dell’infermeria non si erano accorte di nulla. Se qualcuno poi avesse visto qualcosa sarebbe stato
molto difficile saperlo. Negli interrogatori che seguirono il mistero rimase il
più fitto.
§§§
Tano Esposito tornò cosciente di colpo e si rese conto subito che a svegliarlo era il suo rapitore: a sberle. Non riusciva a vedergli la faccia nascosta da
un passamontagna di seta nero, vedeva però due occhi di luce blu che lo tenevano sotto mira mentre le mani pesanti gli piombavano sulla faccia come
mazzate. Il dolore fece rapidamente sparire l’effetto del cloroformio.
Ad un tratto lo sconosciuto smise e, fermo davanti a Tano, per la prima volta parlò: il suo italiano era chiaro e perfetto ma pareva emesso da una bocca
abituata a parlare in un’altra lingua.
“Esposito – disse – ora morirai, ma sveglio. La nave sta affondando”
Fu solo allora che Esposito si accorse nella penombra che l’ambiente doveva essere la stiva di un’imbarcazione; indietreggiò piano e sentì le pareti umide e curve.
Ci fu uno sbandamento e quasi perse l’equilibrio, un'altra piccola scossa e
allora si protese in avanti.
La mano di Blake lo respinse contro il metallo quasi schiacciandolo:
“Fra poco qui dentro nel buio i topi incominceranno a correre furiosi, cercando un via di scampo. Questa stiva è a tenuta stagna. Tu non morirai affogato ma distrutto a strappi e bocconi dai topi impazziti: ogni morso sarà la
vendetta di un drogato morto per mano tua e dei tuoi compari. Questa nave è
carica di droga a tonnellate, come negli ultimi viaggi, ma questa volta il viaggio finirà … no, non te lo rivelo: lo proverai tu da solo o lo indovinerai
mentre la nave scenderà ad oltre tremila metri di profondità in un mare di
cui non ti rivelo il nome.
Esposito trasalì e, inghiottendo la poca saliva che gli rimaneva, per riuscire a
parlare, balbettò:
“Allora tu sai …”
“Certo, caro Tano, so; questa nave affonderà fra poco con il suo carico che
vale alcuni miliardi di dollari; non ci saranno altre navi … dopo, perché tu
…. non hai pagato …”
“Come, non ho pagato. Ho pagato!” Cercò di urlare Tano ma usciva solo
una voce strana, gutturale da una gola tremante: “Ho pagato, in anticipo sul
solito conto …)
131
“Sì, in svizzera. Come vedi so anche questo ma a Ginevra il tuo uomo di fiducia ha avuto un brutto incidente stradale contro un camion lungo una parete di un tunnel. Io ho prelevato e intascato l’anticipo al suo posto. Certi
signori che tu conosci oltre cortina sono molto furiosi. Hanno perfino mandato un sommergibile per rintracciare questa nave, ma non faranno in tempo
a trovarla …”
Mentre l’uomo parlava, Tano cercava di mettere insieme le poche idee che
riusciva a pensare; forse una proposta … no … combatterlo no: era troppo
forte … tentare di impietosirlo … ma non fece in tempo:
“Tempo scaduto: so a che cosa stai pensando gli sibilò atterrandolo e tenendogli il medio piegato della destra sopra il pomo d’Adamo.
“Ma non hai possibilità” proseguì “Mi hai fatto parlare troppo e perdere del
tempo prezioso. La nave sta affondando … addio!”
I continui cigolii, le nuove inclinazioni e qualche squittio non lontano confermarono le sue parole. Tano si sentì perso e l’emozione gli allentò tutti gli
sfinteri: si sentì inondare di urina e di merda mentre ascoltava per l’ultima
volta lo sconosciuto.
“Con essa se ne vanno i tuoi miliardi e il tuo impero. Se ti interessa stai affondando a circa cento miglia da Capri, in vista della tua bella terra, ma
quando sarai ancora vivo, tu sarai ad una profondità di oltre mille metri
mentre verrai dilaniato pezzetto dopo pezzetto dai topi. Intanto la carica esploderà automaticamente una volta raggiunta la giusta profondità, così finalmente il mare ti nasconderà per l’eternità da questo pianeta che tu stavi
rovinando”.
Esposito non si accorse di essere rimasto solo nella stanza unicamente dopo
aver sentito sbattere un portello che si richiuse nel buio. Si alzò per raggiungere il barlume apparso per un momento ma inciampò in un mare d topi famelici che prima scapparono d’istinto ma poi si lanciarono sull’inaspettata
fonte di cibo per placare la loro fame.
§§§
Il 7 agosto 1983 alle dieci del mattino Palermo era inondata di sole. Le strade, nonostante il caldo e la giornata festiva, brulicavano di gente a piedi e di
automobili strombazzanti.
Sulla circonvallazione, lucida come una palla di biliardo, la Kawasaki sfrecciò a quasi cento all’ora, cosa quasi usuale a Palermo. Due vigili, gli unici
su un percorso di oltre 20 km., non persero nemmeno il tempo di leggere il
numero di targa. Se avessero guardato meglio si sarebbero accorti che la
targa mancava.
La grossa moto prese direttamente l’autostrada per Trapani, infilandosi tra
due lunghe file di veicoli. Il caldo rendeva gli automobilisti furiosi e ansiosi
di uscire da Palermo per raggiungere le varie spiagge lungo la costa. Per
questo la moto creò ancora maggiore confusione.
Era quello che Blake voleva: prima della deviazione per Punta Raisi si erano
già avuti i primi tamponamenti e l’autostrada ora era completamente chiusa
e bloccata..
I tre elicotteri in perlustrazione lungo la costa ricevettero l’ordine di intervenire per cercare di dipanare il blocco che si era creato.
Dalla corsia d’emergenza di un tratto più avanti dell’autostrada, resa appositamente deserta provocando gli incidenti accaduti, Blake controllava sui
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quadranti della moto spenta e montata sul cavalletto il movimento degli aerei in arrivo.
Al posto del contagiri il radar gli segnalava i velivoli in volo. Dalle due capaci borse rigide laterali aveva estratto i vari componenti e aveva rapidamente completato le operazioni che aveva precedentemente programmato.
Ora, a terra, disteso e nascosto dietro il guard-rail, il lanciamissili terra aria,
modello SK 91 era pronto e armato; anche la sua Magnum 44 gli pesava sotto l’ascella, dandogli la sicurezza necessaria.
L’executive apparve sul radar quasi contemporaneamente al DC–10, volo
AZ 114 Roma – Palermo. Aveva già avuto l’ok. Per l’atterraggio e si era già
allineato sul radiofaro.
Il pilota del DC–10 lo vedeva davanti a sé e più in basso a circa nove miglia.
L’esplosione dell’executive fu un abbaglio accecante. D’istinto il comandante dell’aereo di linea inclinò la cloche e si riportò sul mare, allontanandosi dal pericolo ma non era necessario: tutto era stato calcolato in modo
che il suo atterraggio non subisse contrattempi.
Tre minuti dopo era scattato l’allarme. Blake, che in quel punto aveva trovato il giorno prima un varco per la parte discendente, stava tornando a velocità moderata con la sua Kawasaki al bivio per l’aeroporto.
Venendo da sud si può evitare tutto l’apparato di controllo prendendo
l’uscita per Terrasini, infilandosi nell’unica strada che, inoltrandosi apparentemente in mezzo a delle trazzere e superato il passaggio a livello, si infila
lentamente nell’abitato.
Così fece Blake e presto si trovò oltre la piazza principale, già in uscita sulla
strada che costeggia la pista.
Circa quattrocento metri dopo, una deviazione lo riportò sulla strada per
l’aeroporto. Lasciò la Kawasaki alla prima linea di parcheggio; dentro le
borse rigide entrarono il completo di pelle e il casco. Ora Blake era un distinto signore, quasi palermitano nel suo completo di lino bianco, una cravatta color salmone e un panama leggero e color crema.
Mentre entrava nella sala d’aspetto, il pilota del DC-10 era seduto in uno
degli uffici che danno sulla parte riservata al personale e stava compilando
un modello 27. Accanto aveva l’uomo della torre di controllo che, vistosi
sparire l’executive dal radar, aveva d’istinto alzato gli occhi verso il mare
aperto in direzione nord: aveva visto l’esplosione nella sua fase finale e aveva subito dato l’allarme. Aveva ancora davanti ai suoi occhi l’immagine dei
pezzi d’aereo proiettati in tutte le direzioni.
La guardia di finanza era uscita con la motovedetta di turno e, maledicendo
la sfortuna domenicale, stava ancora raccogliendo pezzi d’aereo e parti di
corpi straziati alle quattro del pomeriggio.
Solo a tarda sera il questore e il prefetto poterono comunicare al ministro
degli interni che su quell’aereo stava volando il capo, vero o presunto, del
clan dei “Marsigliesi”.
Jean Le Duc, il capo dell’organizzazione del transito e della raffinazione
della droga tra l’oriente e l’America nel bacino del Mediterraneo, stava nutrendo centinaia di pesci al largo di Isola delle femmine, insieme agli altri
corpi dei suoi più fedeli collaboratori.
D’un colpo il clan dei Marsigliesi aveva perso completamente la testa della
sua organizzazione.
Era di questo che don Salvatore Badenti voleva sentire parlare l’uomo vestito di lino bianco e con la cravatta rosa che, seduto accanto, sul sedile poste133
riore di una Mercedes bianca vecchio modello ma lucida come se fosse uscita in quel momento dalle officine Benz, stava osservando il panorama largo
e brullo che si stendeva intorno ai tornanti che li portavano verso Carini.
Sopra di loro incombeva sulla Montagna Lunga la grande Croce, il ricordo
di un episodio precedente. Tra i passeggeri di allora era perito il padre di
don Salvatore perché i Marsigliesi si erano offesi per uno sgarbo. Oggi don
Salvatore vedeva finalmente vendicato suo padre per sempre e questo gli
riempiva il cuore di una grande pace e soddisfazione, ma insieme aveva un
grande vuoto nello stomaco, come un pugno o una caverna enorme, incolmabile..
A circa un chilometro da Carini prima dei due ultimi tornanti quattro uomini
armati di mitra aspettavano con calma: l’auto del capo mafia stava salendo
tranquilla. Erano uomini di don Salvatore e aspettavano l’arrivo del padrone
per uccidere su suo ordine lo straniero: don Salvatore non poteva pagarlo
diversamente; Blake doveva sparire come prevede la legge vecchia come il
mondo che l’organizzazione di don Salvatore rispettava sempre.
Ma Blake se lo aspettava. Aveva continuamente osservato nello specchio retrovisore l’autista e aveva notato che nelle curve a sinistra abbandonava
l’osservazione di quello che poteva succedere sul sedile posteriore.
Aveva pochi secondi per agire ma ci riuscì, come era sua abitudine, con apparente indifferenza.
Dopo una delle curve l’autista si rivoltò a guardare nello specchio retrovisore e fu la sua fine: lo straniero era scomparso, mentre don Salvatore, gli occhi chiusi, stava eretto sul sedile, dondolando poco, ma con un coltello piantato in gola.
La frenata violenta proiettò in avanti il cadavere del capo mafia. L’autista
spense subito il motore, scese dalla sua parte e aprì precipitosamente lo
sportello dal lato del morto.
Gli altri uomini erano in appostati un chilometro più avanti e non potevano
né vedere né sentire.
Blake premette con calma il grilletto e vide l’autista scattare all’indietro
come fosse stato colpito da un ariete: allargò le braccia in alto e cadde disteso senza un gemito.
Il sangue bagnava in silenzio la camicia bianca fresca di stiro, mentre Blake,
richiusa la portiera, era ripartito con la Mercedes. Don Salvatore sul sedile
posteriore pareva dormisse.
Dall’alto i quattro uomini armati videro la Mercedes fare le prime curve dei
tornanti e si appostarono in attesa di vederla comparire davanti a loro dopo
la terza curva.
Nel caldo due cicale stavano impazzendo sugli eucaliptus che delimitavano
la tenuta alle porte del paese. Era proprio quella di Don Salvatore la Mercedes che comparve e tutti e quattro gli uomini incominciarono a sudare di
più.
Blake, sceso dalla vettura all’ultimo momento, si appostò: tirò secco i quattro colpi necessari e non si curò nemmeno di verificare se erano tutti cadaveri: aveva tirato ai loro cervelli, non al cuore e sapeva quanto valeva la sua
mira. Appena trenta metri più in basso nella Mercedes mod. del 75 don Salvatore giaceva morto.
Il campanile della chiesa di Carini batteva mezzogiorno quando un uomo
dagli occhi d’acciaio e il vestito bianco di lino stava pagando una porzione
di pane e panelle nella rosticceria della piazza centrale.
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Si avviò con calma dalla parte opposta della piazza, piena di contadini vestiti della festa e in attesa del nulla della domenica.
Si infilò nel vicolo a sinistra, salì su una vecchia 127 rossa targata Palermo
e si mosse lentamente, guidando con una mano e tenendo nell’altra il pane
con le panelle che gustava piano piano con voluttà.
§§§
A seimila metri arrancare in salita è estremamente faticoso specie se si è arrivati fino a duemila metri portati da un elicottero: mancano il riscaldamento
muscolare e l’assuefazione progressiva alla scarsità di ossigeno.
Blake, figlio di un principe nepalese e di madre siberiana, era abituato a
questa fatica. Il suo passo cadenzato e regolare lo portava in poche ore alla
sella isolata a quota 6.096 dove si ritirava a vivere quando non scendeva per
una missione.
La sella era abbastanza larga per atterrare in elicottero, ma il suo desiderio
di solitudine era grande come il panorama che si apriva davanti
all’imboccatura della grotta in cui scompariva. Inoltre salire a piedi gli permetteva di nascondere ogni eventuale indicazione circa il suo rifugio.
Nessuno poteva immaginare che Blake abitasse lì. Nella valle, il villaggio,
vicino al quale egli lasciava il suo elicottero personale su un pianoro nascosto da diverse collinette boscose era già nel buio della notte: quattro case
fatte di pietre tenute insieme da fango secco e pietrisco, quasi tutte deserte
per tutto l’anno, tranne a primavera quando qualcuno osava portare le proprie mandrie fin lì, per sfruttare la poca erba che riusciva a crescere in mezzo alla pietraia che dominava il largo pianale.
Egli invece, prima di ritirarsi, attendeva lassù che il sole scomparisse a ovest
dietro le ultime cime: il panorama sterminato gli dava il brivido di decine di
raggi verdi in mezzo all’improvvisa esplosione di fuoco del sole morente
mentre scompariva dietro le cime più lontane.
Catene e catene di montagne si susseguivano sempre più sbiadite e anonime
all’orizzonte man mano che si iscuriva il cielo e finalmente il cielo si accendeva di tutto il popolo di stelle che l’occhio umano poteva pretendere di vedere: in nessun altro posto del pianeta si sarebbero potute contare tante stelle
e persino alcuni batuffoli che per Blake, appassionato di astronomia dicevano che a milioni di anni luce altre galassie e ammassi giganteschi lanciavano
per tutto l’universo segnali luminosi a velocità della luce per perdersi inutilmente nel vuoto cosmico, deserto e senza che qualche altro spettatore potesse godere di quello spettacolo meraviglioso e misterioso.
Il silenzio sembrava rompersi all’improvviso passaggio di qualche stella cadente ma era solo un’impressione della mente di Blake che restava ad ammirare tutto, incantato e che si chiedeva perché Dio, se c’era, rimanesse nascosto agli occhi dell’uomo in chissà quale altro universo.
§§§
Dietro la sella si apriva un’altra valle oltre la quale altre cime, altre catene di
montagne eterne, ricoperte di nevi cadute prima della nascita dell’uomo,
135
scomparivano lentamente, inghiottite dal buio della notte, senza alcun minimo segno di vita, senza che un lume si accendesse in qualche anfratto.
La luna, levante al quarto, già riluceva nitida e, per effetto del vento, sembrava ancor più vicina al pianeta, tanto che si poteva distinguere a occhio
nudo l’increspatura sui bordi al confine dei suoi crateri maggiori.
Il silenzio era fatto di qualcosa di positivo in quella solitudine; aveva un
corpo ed era la migliore compagnia di Blake.
Accese un una lampada tascabile e si inoltrò nella grotta a passo svelto. Nel
buio era ormai abituato da anni, ma si fermava sempre davanti ad un cunicolo nel muro ad altezza d’uomo dove aveva a suo tempo scoperto un’antica
pergamena che poi rileggeva una volta che si rifugiava nella sua misteriosa
dimora e che teneva nascosta in un cofanetto d’avorio:
Beato te, vecchio antenato,
sì, proprio tu ,
che hai già pagato il tuo tributo
ai posteri.
Tu, se sapessi di me oggi,
vorresti il mio turno
nella vita.
Ma io so di te e tu m'ignori.
Non hai di che lagnarti:
non sei più, da allora.
Tu mi hai regalato,
però
il racconto della tua vita.
Ed io l'ho qui, tra le mie mani:
scivola lentamente come sabbia tra le dita
Ma prima che si perda tutto
nell'oblio del vento,
confuso tra gli altri ricordi
che vanno tutti verso lo Spirito,
al centro dell'universo,
lo fermo qui.
Le ore che io vorrei passare
guardando lo stesso cielo
che indagavi tu,
le ho già trascorse in te.
Io non posso, tu l'hai fatto:
avevi il tempo per farlo.
Al di là di una luce tenue una lunga vetrata dava accesso alla sua casa, e
Blake rientrava grazie ad un pulsante nascosto nella roccia accanto da un
sasso mobile.
Per tutta la salita a piedi aveva ripensato ai vari interventi cui era stato costretto e alle conseguenze. Non poteva illudersi di aver debellato la droga
per sempre, ma certamente aveva creato un tale scompiglio che si sarebbero
voluti mesi prima che qualcun altro riuscisse a riorganizzare il traffico internazionale della droga sui mercati occidentali.
Ma egli doveva colpire il male all’origine: questo sarebbe stato l’unico modo per eliminare la pestilenza che si era abbattuta sull’umanità.
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Nel suo rifugio aveva ogni comodità: l’impianto di alimentazione energetica
a batterie solari era sufficiente per tutte le sue necessità. A quella altitudine
aveva sole per quasi tutti i giorni dell’anno, esclusi i momenti di grandi
tempeste di neve. Ma aveva anche costruito un impianto che sfruttava
l’energia del vento: inoltre aveva la riserva di un gruppo elettrogeno
d’emergenza ma che giaceva da tempo inutilizzato. I pannelli solari, sopra le
rocce che sovrastavano la grotta erano invisibili perché mimetizzati anche
per eventuali viste dall’alto o addirittura da satelliti spia.
Era invece Blake che a sua volta sfruttava i satelliti spia russi e americani,
cinesi e israeliani, inglesi e francesi, gli impianti satellitari e ogni sistema,
compreso il GPS che gli davano la possibilità di intercettare qualunque trasmissione in parlato o in immagine, in chiaro o criptata che si diffondeva
nell’atmosfera.
La sala in cui si divertiva con le sue apparecchiature era la penultima che si
apriva nella profondità della grotta.
Avrebbe voluto attivarle anche ora ma aveva assoluto bisogno di immergersi in quella che egli chiamava “cella della vita e della morte”.
Vi entrò rapidamente e si chiuse dietro una pesante porta metallica, lasciando fuori il mondo.
Il soffitto era a cupola, illuminato con lampade alla luce di Wood, in un riposante blu cobalto. Si distese supino su una stretta brandina e attese che i
suoi occhi si abituassero; azionò il pulsante al suo fianco e il soffitto si aprì
lentamente ronzando: Blake era diviso dalle stelle ora solo da una cupola di
cristallo perfettamente trasparente.
Lì Blake interrogava l’universo e si sforzava, dopo ogni missione, di purificare la propria mente e il proprio cuore.
Aveva un bisogno infinito di ritrovare in quel posto sempre una finestra aperta sui misteriosi messaggi che gli inviava l’universo.
Erano messaggi silenziosi che si sforzava di capire e soprattutto di trasformare in realtà. Ma la cosa più difficile era spogliarsi di tutto l’odio e di ogni
desiderio di vendetta, della eccitazione maniacale di cui si caricava in ogni
missione: nemici della lucidità, nemici della verità e della pietà verso i suoi
simili.
Quando doveva intraprendere una nuova missione tornava nella cella della
vita e della morte e lì svuotava tutto se stesso per riempirsi solo dell’energia
vitale necessaria per non fallire la missione. Quando agiva non era più Blake, l’uomo: era una macchina carica di energia illimitata, sovrumana, perfetta.
§§§
Erano già passati alcuni giorni. Gli effetti delle sue incursioni si erano fatti
sentire. La stampa e la televisione avevano incominciato a collegare gli eventi e i giornalisti avevano fatto a gara con i politici, i sociologi e gli psicologi per dare una spiegazione ai fatti, trovare le cause e di qui risalire alla
possibile immagine dell’organizzazione o del singolo ((ammesso che avesse
agito da solo una e non diverse persone in modi tanto simili) che era riuscito
a sferrare un colpo così duro al mercato della droga.
Ben pochi e isolati uomini di buon senso accennarono ai veri benefici che
potevano derivarne e ai pericoli derivanti dal fatto che altri potessero presto
prendere il posto degli eliminati.
137
A questo stavano pensando seriamente i veri fornitori e Blake, che sapeva
chi erano, aveva già organizzato un piano .
Nella sala delle apparecchiature, il suo “laboratorio” aveva anche due computer gemelli che tra l’altro erano in grado di simulare situazioni diverse sulla base di una banca dati che Blake continuava ad aggiornare ed arricchire.
Quest’ultima era alimentata con migliaia di informazioni che Blake riusciva
a immettere via satellite e a decifrare se criptati.
Per questo Blake conosceva i due principali obbiettivi da colpire: una vasta
area che andava dalla Turchia attraverso Siria, Iraq, Iran, Afghanistan fino ai
confini col Tibet e con l’India e a nord per tutta l’area di competenza dei
Russi fino alla Mongolia del Nord.
E una che dal Tibet scendeva nelle infinite valli della Cina.
Sia pure con qualche differenza, la tecnica di coltivazione consisteva in vaste aree estensive alternate a coltivazioni tradizionali di frumento o mais o
riso.
Nei territori russi fino ai confini con la Mongolia lavoravano prigionieri
“politici”. Erano in realtà giovani completamente drogati ai quali veniva riservato un trattamento di cui non potevano lamentarsi: droga gratis e lavoro
per una specie di paradiso, avendo a disposizione la materia prima, causa
della loro malattia. Man mano che morivano o impazzivano venivano eliminati e sostituiti con nuovi elementi raccolti nelle varie città in cui la droga
dilagava tristemente.
Molti europei, venuti a conoscenza di questi “campi di lavoro” erano da
tempo “scomparsi” dall’Europa, reclutati con buoni ingaggi iniziali e con
promesse poi non mantenute.
Ma in quei campi venivano spesso inviati anche dissidenti politici;
l’arcipelago Gulag si era così allargato e rinnovato in un’altra triste realtà:
purtroppo la depressione che colpiva queste persone favoriva l’abitudine alla droga e la relativa assuefazione al punto da ottenere altri individui eliminati dai fronti politici.
La coltivazioni cinesi invece erano organizzate diversamente: molti erano i
contadini che lavoravano l’oppio col sistema tradizionale. Ciò aveva permesso al governo cinese di mettere in piedi un sistema semplice e molto efficiente.
Ambedue le aree erano sotto un ferreo controllo e da circa due anni avevano
silenziosamente raggiunto la massima estensione.
In confronto, ogni coltivazione di droga nel resto del pianeta era semplicemente ridicola.
La CIA aveva cominciato da poco a rendersi conto di quanto fosse estesa la
piaga, anche perché ciascuna delle due aree agiva in modo da non invadere
il resto della catena distributiva e della diffusione del prodotto.
Tutto il resto della catena funzionava col solito sistema tradizionale. I canali
erano rimasti gli stessi. I luoghi dai quali partivano i rifornimenti originari
non erano mai cambiati e la quantità immessa sul mercato era sempre contenuta.
In questo modo era difficile destare sospetti e rivelare collegamenti. Il prezzo restava alto e la super produzione veniva immagazzinata.
Ambedue le grandi potenze avevano un solo scopo: ridurre l’occidente ad
una massa di individui sempre più degradati, debilitati, impotenti, contaminati tutti da ogni tipo di droga minando alla base la civiltà che faceva da
troppi anni da argine alle mire delle due organizzazioni politiche rosse.
138
§§§
Dieci anni prima, in una notte dell’estate del 1973 il figlio ventenne di Blake era morto in un conflitto a fuoco con una banda di spacciatori: Francis
aveva scelto di fare il poliziotto contro il volere del padre che allora era un
comune ingegnere elettronico si una importante società inglese operante in
India.
La madre di Francis era morta un anno dopo, stroncata da una overdose: la
morte del figlio l’aveva sconvolta e aveva cercato il suicidio proprio con la
droga che suo figlio aveva combattuto.
Nel dicembre 1973 Blake si era ritirato sulle montagne del Nord. Aveva abbandonato tutto e aveva cominciato a vivere come un eremita, della carità
dei villaggi di montagna del Nepal.
Dopo due anni passati da mendicante meditando giorno dopo giorno, era
riuscito ad arrivare alla decisione definitiva e a dare alla sua vita futura un
preciso scopo. Ci vollero quasi altri otto anni prima di sentirsi pronto, ma
ora finalmente era giunto il momento di realizzare concretamente tutto ciò
che per tanto tempo aveva programmato in ogni minimo particolare.
Da un lato la necessità della solitudine per purificare sempre più il proprio
animo ed adattarlo al karma e dall’altro la necessità del segreto, lo avevano
portato a fare tutto da solo e vivere in un posto così isolato.
Di lui il mondo sapeva ben poco: la società per la quale aveva lavorato per
tanti anni come uno dei massimi dirigenti progettisti aveva accettato le dimissioni. Il giorno dei saluti il titolare non era riuscito a dirgli niente: capiva
che la morte del figlio e della moglie lo avevano sconvolto a tal punto da
fargli prendere una decisione così drastica e assurda per un uomo d’ingegno.
Ma farsi allievo Zen era un modo piuttosto strano di reagire anche se comprensibile. Così la pensavano più o meno gli amici e i pochi parenti con i
quali aveva allora ancora qualche contatto.
Anche nei villaggi vicini al suo rifugio non si sapeva molto di più: un monaco zen che, essendo vissuto con gli occidentali sapeva anche pilotare
l’elicottero o un piccolo Cessna che ogni tanto si levava in volo per destinazioni ignote.
Per mesi e mesi, un pezzo alla volta, a dorso di mulo, era riuscito a portarsi
nel suo rifugio tutto quello che gli serviva.
Non aveva scoperto il rifugio a caso: lo aveva cercato ricordando un’antica
leggenda che suo padre gli aveva raccontato. La leggenda parlava di una
valle in fondo alla quale, altissima una sella stava tra due cime; queste di
notte sembravano le orecchie di un grande lupo quando c’era plenilunio e,
per uno strano effetto inspiegabile, le loro ombre invece di allargarsi si
stringevano fino a lambire il villaggio.
Su quella sella alla base della cima di sinistra c’era l’apertura della sua grotta.
In essa era vissuto oltre mille anni prima un Buddha che aveva lasciato di sé
solo uno scritto in sanscrito, su una pergamena che Blake aveva ritrovato in
quel cunicolo, conservata in un corno d’animale.
Beato te, vecchio antenato,
sì, proprio tu ,
che hai già pagato il tuo tributo
139
ai posteri …….
Chi fosse arrivato (a conferma che il posto era giusto) avrebbe trovato la
pergamena, racchiusa in un corno di un animale antichissimo, ormai estinto,
progenitore del mammut e vissuto nella storia del pianeta precedente a questa.
Blake aveva trovato quella grotta e anche ora aveva tra le mani il corno contenente la pergamena. Appoggiato su un sostegno d’ebano da quasi otto anni
era tenuto da Blake su un altare naturale di pietra d’alabastro nella cella della vita e della morte.
Davanti al sostegno giacevano la katana e il tanto che il suo maestro Zen gli
aveva regalato il giorno in cui aveva deciso di ritirarsi definitivamente nel
silenzio meraviglioso della meditazione di quel rifugio.
Ricordava ancora l’ultimo koan che il maestro gli aveva proposto dicendogli:
“non è da risolvere, è da vivere”: ecco:
Posso uccidere un uomo a fin di bene?
Posso lasciare che un uomo
uccida un altro uomo
a fin di male?
E se il mio male è il suo bene
e se il mio passato è il suo futuro?
e se la sua morte è il suo futuro?
e se la mia morte è il suo passato?”
E su queste parole ogni volta meditava; sapeva che la risposta finale c’era,
ma non poteva prevedere quando sarebbe arrivata.
Nella meditazione trovava però soprattutto la lucidità di azione, la scelta
delle giuste decisioni, la certezza di operare in armonia con l’universo e la
purificazione dell’odio e dal desiderio di vendetta personale: i due ritratti di
sua moglie e di suo figlio ai lati delle armi e del corno dell’antico profeta gli
inviavano messaggi d’amore, non di odio o di desiderio di vendetta.
§§§
Ed era amore quello che sentiva dentro di sé mentre, raggiunto nuovamente
il villaggio, stava avviando le turbine dell’elicottero.
La libellula d’acciaio obbedì dolcemente, ronzando e poi puntando dritto a
sud, verso una località dove si sarebbe nuovamente immerso nella civiltà.
Le colline ricoperte di lecci e di querce piccole emergevano dalla nebbia del
mattino che incominciava ad alzarsi scaldata e dilatata dal sole nascente.
Ben presto la vallata si liberò e apparve ricca dei suoi campi di papavero
d’oppio.
Per il sentiero che usciva dal villaggio in fondo alla valle si avviavano al lavoro donne e uomini con passo svogliato, lento ma regolare: ogni quarto
d’ora un elicottero con la stella rossa sul fianco appariva a caso, ogni volta
da un punto diverso, come fosse un gioco a sorpresa.
Ormai la colonna di deportati lo sapeva ed anche quelli giunti solo il giorno
prima erano già stati informati dai compagni.
140
Nell’intervallo di quel quarto d’ora dovevano comunque lavorare, perché ai
bordi dei campi, sui piccoli rilievi che costeggiavano le coltivazioni erano
appostati militari armati, distribuiti a coppie e muniti di binocoli.
La valle era lunga quasi un chilometro e larga altrettanto. L’elicottero di
sorveglianza apparve questa volta da sud, passò molto basso, attraversò tutta
la valle verso nord e superò le colline. Lo avevano seguito lo sguardo dei
militari a terra, incuriositi dalla mancanza delle solite insegne.
I deportati sembravano non essersi nemmeno accorti del suo passaggio.
Il boato prese di sorpresa tutti; si rizzarono a guardare verso nord in tempo
per vedere sorgere da dietro la collina la rovente immagine di volute rosse e
nere dell’esplosione che si innalzava nel cielo, lasciando capire che cosa
stesse succedendo: l’elicottero russo, colpito in pieno, era precipitato in una
nube di fuoco e di fumo facendo esplodere tutte le munizioni e i razzi che
aveva a bordo: per l’equipaggio la morte fu istantanea..
I militari a terra si misero a correre urlando in russo espressioni incomprensibili di rabbia e di raccapriccio.
I deportati per un momento non si mossero, si guardavano l’un l’altro: non
era mai successa una cosa simile e non sapevano che cosa sarebbe stato più
conveniente fare in quel momento.
La reazione istintiva era di correre dietro i militari ma una nuova immagine
sbucò dal fumo che scendeva da nord: una grossa libellula a doppie pale apparve minacciosa in mezzo al fumo che stava diradandosi e, dopo essere rimasta per qualche secondo immobile, sospesa nell’aria, si precipitò con un
sibilo orrendo nella valle a bassa quota.
Da lontano il crepitio delle mitragliatrici giunse quasi insieme alle figure dei
militari che cadevano, falciati e colpiti a morte.
I deportati d’istinto alzarono le braccia alzandole in segno di festa o di resa
inconscia ma due razzi partiti dai fianchi dell’elicottero esplosero a metà
vallata, lasciandoli interdetti: non capivano più niente e allora si misero a
correre verso il villaggio, sperando di salvarsi.
Fu un bene che non ci riuscirono: l’ombra dell’elicottero li coprì indifferente
e li superò: un secondo dopo il gruppo di capanne che costituivano il villaggio parve esplodere simultaneamente tutto insieme.
Il fragore delle esplosioni durò a lungo; il terreno sembrava volesse squarciare il petto a quei poveretti distesi nei fossi, nei solchi, nei campi, in qualunque anfratto dove tentavano di scomparire dalla faccia della terra.
Il silenzio giunse all’improvviso dopo un tempo che era sembrato
un’eternità: ma dal momento dell’esplosione dell’elicottero russo erano passati solo quattro minuti.
L’aria era irrespirabile. Dalle macerie del villaggio in fiamme si levarono
nauseabonde volute di fumo: l’oppio già pronto in pani da spedire stava
bruciando il raccolto di un’intera stagione.
§§§
Quest’episodio era accaduto in primavera e si era ripetuto in molti punti
lungo il confine meridionale russo.
141
A questo stava pensando Yuri Adrianov mentre guardava con attenzione le
fotografie che gli erano pervenute insieme alla lettera e alle bobine contenute in un plico secretato.
Le foto riguardavano decine e decine di piantagioni disseminate in tante diverse regioni: questo faceva immaginare che razza di organizzazione era stata messa in moto per dilagare così rapidamente dappertutto.
La lettera che era allegata dattiloscritta diceva:
Ai responsabili politici dell’Urss
Ai responsabili politici della Cina
e p.c.
-al Presidente U.S.A., - al presidente dell’Onu, - ai direttori responsabili dei
quotidiani e delle emittenti televisive mondiali più importanti:
oggetto: COLTIVAZIONI DI OPPIO
Invitiamo i responsabili politici dell’URSS e della Cina a distruggere entro
quarantotto ore tutte le coltivazioni, tutte le riserve e tutti i depositi di oppio
e derivati, esistenti sui propri territori e su quelli di altri stati, ma che sono in
pratica sotto il vostro controllo e di darne diretta e ampia conferma al presidente dell’ONU e ai direttori di tutti i maggiori quotidiani e di tutte le emittenti televisive del pianeta in modo che si presenti come la notizia più importante del secolo, definitiva e senza eccezioni.
Alleghiamo le istruzioni per poter provvedere alla distruzione in così breve
tempo tramite metodi chiaramente descritti.
L’operazione verrà seguita in “diretta” tramite satelliti a voi sconosciuti (e
qui Blake stava bleffando). Ne sono prova le documentazioni fotografiche
allegate nelle quali le diverse colorazioni individuano tutte le coltivazioni
esistenti al 2 marzo 1983.
Il presidente U.S.A. e i direttori dei quotidiani e delle emittenti televisive
sono pregati di mantenere il segreto nelle prime quarantotto ore e di far conoscere alla pubblica opinione il contenuto della presente, decorso il suddetto periodo, unicamente per evitare improvvisi e mafiosi accaparramenti e
solo dopo decorso il suddetto periodo, ed essersi consultati tra di loro e con i
responsabili politici dei due paesi destinatari dell’ordine di distruzione.
Ciò per facilitare l’effettiva e completa distruzione di tutte le fonti di approvvigionamento e di tutte le scorte nascoste nei vari magazzini del mondo.
I paesi minori, produttori di morte per droga riceveranno istruzioni per la distruzione dl loro oppio solo dopo che voi avrete obbedito alla nostra richiesta e comunque non oltre settantadue ore.
Per evitare che i responsabili Russi e Cinesi pensino che la presente richiesta non sia seria, si prega di esaminare i filmati contenuti nelle bobine allegate.
Le conseguenze, in caso di mancato rispetto ed attuazione della richiesta
vengono mantenute segrete per evitare rappresaglie o altre diavolerie da parte vostra per cercare di individuarci. Ogni vostro tentativo in tal senso avrà
solo la conseguenza di altre improvvise catastrofiche distruzioni di strutture
di vostra competenza (palazzi, città, aeroporti, basi militari anche sotterranee, ecc, ecc).
Non costringeteci a mettere in atto decisioni di cui dovreste poi amaramente
pentirvi.
142
Ci auguriamo di potervi alla fine ringraziare per il vostro buon senso in cui
confidiamo, la vostra celere e immediata e completa obbedienza alle nostri
richieste: Grazie a nome di tutta la popolazione del pianeta”
§§§
Quasi alla stessa ora il ministro della difesa cinese Uan-Zeng stava visionando le bobine allegate al plico: in primavera erano accaduti effettivamente
episodi isolati lungo la frontiera a sud. Un elicottero, sempre lo stesso, era
comparso all’improvviso nelle zone di coltivazione dell’oppio e aveva provocato danni ingenti, distruzione di velivoli militari ma isolati, senza un
nesso logico, quasi un’azione isterica di una pulce su un grosso cane quale
era lo stato cinese.
I collaboratori di Uan-Zeng avevano condotto rapide e diligenti indagini;
avevano solo accertato che le azioni non erano avvenute ad opera dei Russi
e che non c’entrava alcuna grande potenza.
Alla stessa conclusione era giunto, a distanza di migliaia di miglia, Adrianov.
I due uomini, lontani tra loro mezzo pianeta, stavano osservando attentamente le riprese dall’elicottero delle repentine azioni belliche che Blake aveva appositamente filmato per i destinatari dei messaggi.
§§§
In America il Presidente con i suoi più vicini collaboratori stava analizzando
il materiale ricevuto.
Davanti al Presidente, Alex Finday, aveva lasciato precipitosamente la base
militare, chiamato d’urgenza, aveva visionato con lui e con i collaboratoti
presenti il materiale. Alla fine alla domanda del Presidente rispose:
“Identico! Uguale a quello che ho ricevuto personalmente dalla stessa misteriosa fonte”.
“Che cosa pensa di fare?” chiese il presidente.
“Di attenermi alla istruzioni: tenere il segreto richiesto per le ore che restano, poi rimettiamo in discussione tutto con lei in relazione alle reazioni degli
altri destinatari”
Il presidente a questo punto non si lasciò perdere un’occasione in più per
punzecchiare il capo della CIA:
“Come abbiamo fatto noi a non accorgerci in tempo?”
La risposta fu più stupida che vaga:
“E’ un’analisi che solo a posteriori si può accettare per vera”
“Ma chi può esserci dietro tutta la faccenda? Qui sono da escludersi le grandi potenze, i nostri maggiori nemici, ma … chi può esserci dietro questo …
permettetemi una volta tanto di dirlo: questo gran casino? Escludiamo pure
che dietro a questa storia ci sia una grande potenza ma potrebbe essere
un’ipotesi valida l’intenzione di far distruggere tutta la droga del mondo a
fin di bene?”
“D’accordo sulla sua prima affermazione – intervenne John McLunsky
“qualcosa sarebbe trapelato attraverso i nostri canali di spionaggio:
d’altronde non può essere il lavoro di un maniaco che agisce da solo, non ce
la farebbe a organizzare questo casino mondiale!”
E, mentre si accendeva un grosso sigaro, riprese:
143
“Non sono d’accordo invece sulla seconda …”
“Come? – interruppe il presidente – Proprio lei della CIA? …”
“Perché si meraviglia? Non siamo sempre dei puttanieri!”
“Veramente non escluderebbe il fine … benefico?”
“Provi a pensare: A) il capo dell’organizzazione araba per la droga in USA è
stato ucciso. B) il gruppo dei Siciliani è stato praticamente smantellato. C)
Sappiamo per certo che da due settimane non entrano più grossi quantitativi
di droga nel paese. D) Sono stati distrutti i laboratori più importanti esistenti
nel paese
E) Ci fanno scoprire che razza di complotto avevano organizzato e messo in
atto Russia e Cina ai danni delle generazioni dei giovani in occidente ….”
“Aggiunga” interruppe un altro collaboratore “ che Cina e Russia non sapevano nulla l’una dell’altra, come si capisce dalla lettera e dalle foto …”
“Certo; e poi informano noi, i nostri giornali le emittenti televisive e il presidente dell’ONU!”
“Quindi secondo lei, qualcuno sta lavorando, … come dire … alla luce del
sole, solo contro tutti …?”
Intervenne il vice presidente: “Pensi Presidente: chi potrebbe trovare vantaggio dalla eliminazione totale della droga?”
“Credo tutta l’umanità” fu la riposta spontanea ma forse un po’ ingenua del
presidente.
“Sì, ma alla lunga ….” Proseguì il Vice, appoggiandosi al bastone cui s’era
abituato dopo l’attentato subito “ma è tutto a vantaggio dell’occidente entro
breve tempo. Occorre chiarire a Russia e Cina che noi non c’entriamo!”
“Penso che questo lo avranno molto chiaro e se avranno qualche dubbio,
non debbono fare altro che telefonarci ….”
§§§
Uan-Zeng normalmente decideva da solo, ma di fronte alla gravità delle minacce preferì convocare d’urgenza il suo Stato Maggiore. La riunione fu
breve e concreta e la decisione fu unanime: parlare con Adrianov; l’URSS
doveva dare conferma e spiegazioni; sarebbe stato molto utile una consultazione tra i due capi.
Erano già trascorse 24 ore dall’ultimatum e gli scambi di telefonate, le riunioni plenarie, le analisi fotografiche, chimiche sul materiale usato e sul plico, la lettera, ecc. non avevano dato né ai Russi né ai Cinesi alcun elemento
che permettesse ai rispettivi servizi segreti di rinvenire alcuna traccia.
I colloqui in via riservata tra i due Capi di Stato erano stati poco convinti:
dapprima freddi e diffidenti, poi tempestosi, poi ancora prudenti e alla fine
molto tiepidi, ma alla fine dovettero dichiararsi reciprocamente un po’ di fiducia, sia pure con riserva.
Restavano ora solo ventiquattro ore e un problema: che cosa fare. Accettare
e operare come da istruzioni o resistere e vedere se si trattava di un bluff?
Fingere per trovare nel frattempo una soluzione di compromesso?
Erano orientati verso questa ipotesi ma Blake stava giocando con loro una
partita a scacchi a distanza e si era preparato da molto tempo: la loro idea
era una mossa prevista ed aveva pronta la contromossa: sulle telescriventi
del servizio segreto cinese e del KGB comparvero due messaggi identici esattamente alla venticinquesima ora:
144
“Non girare intorno al pozzo col secchio vuoto: c’è chiaro di luna e io so
che tu vuoi rubare l’acqua: rubala e io ti ucciderò”
Russi e cinesi furono d’accordo anche su un’altra cosa: non parlarne con gli
americani. Poteva essere un loro bluff quel “per conoscenza” incluso nella
missiva iniziale.
Del resto loro non si erano fatti vivi, i servizi segreti non avevano scoperto
nulla, quindi … ma erano speranze stupide di chi teme una mazzata che non
si aspetta.
§§§
Quando McLunsky entrò nello studio ovale, il Presidente era in piedi, le
spalle alla porta; fuori l’autunno pareva tremare nel tramonto ancora caldo.
Il presidente si voltò e gli andò incontro e McLunsky gli porse il foglio originale:
“I russi e i cinesi non si decidono. Conviene telefonare ad Adrianov sulla linea rossa pregandolo di informare anche Uan-Zeng.
Se non provvedono ad iniziare subito i lavori non faranno in tempo a rispettare l’ultimatum.
Per convincerli confermi loro che ha ricevuto il plico per conoscenza. Minacci di renderlo pubblico. Li avvisi che entro le ore 13 di Mosca, cioè fra
due ore in una zona deserta del Mare Glaciale Artico verrà fatta esplodere
una bomba atomica di piccola potenza e che non provocherà morti ma molti
danni, se non si decidono ad obbedire all’ultimatum.
E, aggiunga che, se non inizieranno i lavori, una seconda rappresaglia è prevista direttamente sulla città di New York …”
“… New York? E che cosa c’entriamo noi?”
“E’ molto chiaro, signor Presidente: questo la costringe a telefonare e Adrianov non può non crederle perché il danno avverrebbe su territorio
U.S.A. Ciò gli toglierà ogni dubbio, … almeno lo spero, se dovesse osare
pensare che siamo noi gli autori di tutto questo macello”
“E’ questo che mi consiglia?...”
“Ne ho parlato anche col Vice: è anche lui d’accordo!”.
La guerra dei nervi si era scatenata al Cremlino e a Pechino, ma Adrianov
nella telefonata col presidente U.S.A. mantenne la massima freddezza dimostrando apertamente molta diffidenza. Non si assunse alcun impegno, non
fece promesse, non lanciò accuse. Quando il Presidente U.S.A. incominciò a
sottolineare l’estrema gravità delle conseguenze di quello che Russi e Cinesi
stavano permettendo da tempo nei propri paesi, si limitò a poche parole ben
cadenzate:
“Non siamo noi i compratori!”
§§§
Alle ore 13 del fuso orario di Mosca avvenne l’esplosione esattamente a
mille metri d’altezza: un pallone sonda di grosse dimensioni, zavorrato opportunamente e dotato di giroscopi si era levato dal pack a quell’altezza solo
pochi minuti prima. I radar lo avevano subito individuato e i MIG 23 erano
scattati per raggiungerlo ma non fecero in tempo: l’esplosione ne distrusse
due. Il pilota del terzo (che morì poi due giorni dopo) fece in tempo a descrivere la piccola esplosione atomica.
145
L’area rimase contaminata, carica di radiazioni, ma l’assenza di vento nelle
ore successive e un composto chimico speciale che reagisce in presenza di
radioattività in certe condizioni ambientali, fece precipitare tutte le scorie
senza creare rischi di fallout.
Quando i russi finalmente si decisero ad iniziare la distruzione delle coltivazioni come da istruzioni, Blake inviò un nuovo telex al Presidente U.S.A:
“Metropolitan – terzo palco, seconda fila. Bomba convenzionale di alta potenza. Innescata per l’esplosione ad ore 10 e minuti 15 locali”.
Ma Blake aveva previsto anche gli eventi successivi e le cose si svolsero esattamente come lui desiderava.
Le operazioni di distruzione, sia da parte dei Russi che da parte dei Cinesi
erano iniziate con regolarità e Blake via satellite ne stava verificando il progressivo andamento.
Nelle zone di competenza russa i deportati furono dei preziosi collaboratori
mentre sui territori cinesi le autorità dovettero garantire ai contadini che sarebbero altrimenti rimasti privi di sostentamento precise conversioni integrali delle colture con forti compensi.
Ma Blake il 28 dicembre 1982 era stato ospite di Sir Ashley, un suo vecchio
compagno di studi, nominato baronetto nel 1975, dopo che non ottenne il
Nobel pur avendone tutti i titoli per le sue precise scoperte e innovazioni nel
campo della biogenetica.
Alla periferia di Oxford, Ashley viveva in un piccolo e confortevole cottage
di stile vittoriano; sul retro, in fondo al giardino un piccolo fabbricato nascondeva il suo laboratorio personale.
Blake lavorò alacremente con Ashley fino al 4 gennaio. Alla fine partì
dall’aeroporto di Heathrow con un piccolo tubetto di plastica tra le proprie
medicine: conteneva la deviazione genetica di un tipo comune di farfalla, la
volgare cavolaia, ma il suo DNA era stato modificato in modo da farle desiderare come cibo solo il papavero da oppio mentre era ancora allo stadio di
verme.
La velocità di riproduzione era stata accelerata; non era possibile recuperare
l’oppio ingerito dal verme in nessun modo perché l’apparato digerente modificava le molecole iniziali in modo così radicale da impedire ogni tentativo di recupero o di trasformazione.
La farfalla (anche allo stato di verme) era comunque fortemente resistente ai
normali tipi di insetticidi in uso.
Da gennaio a marzo Blake aveva effettuato le prove e alla fine, soddisfatto,
aveva predisposto il suo piano scadenzando le varie tappe; le incursioni sporadiche e isolate con l’elicottero non avevano destato particolari attenzioni
ma gli avevano permesso di cospargere milioni di esemplari su tutte le zone
sorvolate.
Dal computer aveva avuto tutti i dati e le stime di previsione di sviluppo. Il
ciclo massimo iniziava a esplodere in quel momento. La riproduzione a ritmo esponenziale avrebbe distrutto tutto l’oppio esistente in Asia nel giro di
tre settimane.
Farfalle, candide e fresche nel loro volteggiare sui campi a centinaia di milioni, ingentilirono tre settimane d’autunno d’oriente.
La varie stazioni cinesi di controllo dell’agricoltura avevano incominciato a
segnalare il fenomeno a Pechino.
Anche dai centri di raccolta russi partivano segnalazioni per Mosca.
146
E la comunicazioni divennero sempre più allarmanti perché alle farfalle si
accompagnava il fenomeno dei vermi: gli omega avevano invaso ormai tutte
le coltivazioni e distruggevano famelici ettaro dopo ettaro come un vero flagello di Dio ogni minima piantina di papavero d’oppio.
A proposito di Dio, Ashley gli aveva detto salutandolo a Heathrow:
“Ho chiamato alfa questa farfalla perché quando fra qualche mese il tuo
progetto si realizzerà sentirò suonare le trombe dell’Apocalisse e la voce di
Dio si leverà alta con parole più che significative ed appropriate ai tuoi vermi;
“Io sono l’Alfa e l’Omega!”
Non si smentiva con il suo humour inglese e a quelle parole Blake stava ripensando mentre sorrideva, soddisfatto dei dati che gli forniva il computer
nel suo rifugio: le analisi spettrometriche delle fotografie satellitari gli dimostravano che le coltivazioni di papavero da oppio stavano autodistruggendosi.
In pochi giorni la stampa occidentale si era scatenata in una lotta senza quartiere contro il blocco asiatico. I non allineati rimasero incerti per poco tempo
ma alla fine dovettero unirsi al coro di sdegno.
I piccoli paesi coltivatori si accorsero ben presto che l’intervento di Alfa
(così ormai era stata ufficialmente chiamata la farfalla che stava distruggendo l’oppio in tutto il mondo) era già stato programmato anche sui loro territori e aveva dato il via alla distruzione totale delle coltivazioni.
Alla fine di settembre il mondo si era finalmente completamente liberato
dalle coltivazioni di droga.
Anche i depositi, attaccati dai vermi di Alfa, si svuotarono e il mondo iniziò
una nuova era di pace e di salute serena per i popoli di tutto il pianeta.
FINE DEL RACCONTO DI BLAKE
147
PRETI GAY
Il bubbone era esploso in seguito al servizio di Panorama. Era così ben dettagliato e preciso che colpiva i lettori per la durezza dello schifo che provocava e per la commistione tra religione e omosessualità di preti che dopo
aver scopato e fatto all’amore con i loro compagni, celebravano subito dopo
la messa nella stessa stanza, cambiandosi solo d’abito e indossando i paramenti sacri.
Saverio, che aveva avuto alle spalle in tempi lontani un minimo di cultura
religiosa (ricordate l’inizio di questa storia?) aveva una gran voglia di punire
severamente questo uomini scandalosi ma preferiva agire solo a colpo sicuro.
Sistemazione definitiva dei tre prigionieri nel capannone
Saverio partì per Roma ma prima passò a sistemare i suoi “carcerati” nel capannone dove li aveva lasciati.
Dopo aver legato le due donne su una sedia di ferro, aveva inserito un apribocca da dentista in bocca alla Varchi e uno alla figlia. Non avrebbero mai
potuto liberarsene.
Saverio avvicinò un reggi flebo che reggeva un bidone da cinque litri di liquido sconosciuto e invisibile ed inserì a ciascuna delle due donne un tubo
in discesa in bocca, aprì il rubinetto che liberava la discesa del liquido ed assicuratosi che lo ingoiassero anche se tentavano di opporsi, le salutò con un
gesto delle dita di una mano quasi alla militare e con un sorriso sornione:
“Avrete tanto sale che riuscirete nei vostri sortilegi prima di riuscire a morire”.
Mentre Saverio usciva dalla stanza, lo stomaco delle due si stava riempiendo
di una soluzione ultra satura di sale marino disciolto in acqua. Tentavano
inutilmente di vomitare il liquido ma la sonda era stata inserita direttamente
nell’esofago: ogni minuto che passava le portava verso una morte atroce che
per la legge del contrappasso dantesco che Saverio amava usare nelle sue
“esecuzioni” avrebbe fatto entrare nei loro cervelli bacati, anche se per
un’ultima volta nella loro vita, il senso assurdo dei loro inganni col sale con
cui si erano procurate milioni di soldi, ingannando gli ingenui.
Saverio aveva già provveduto ed in modo abbastanza semplice a prelevare
tutti i soldi che avevano accumulato su loro conti off-shore e a farli pervenire quasi tutto il ricevuto alle opere di beneficenza che la marchesa,
quand’era in vita, aiutava da tanti anni (orfanotrofi, centri ci recupero per
drogati, vecchi terminali, ecc).
Inoltre Pia aveva molti amici al catasto che, dopo le opportune spiegazioni
avevano d’ufficio volturato gli immobili di proprietà delle due megere a favore di enti per l’accoglienza di orfani e di anziani.
Queste cose non venivano fatte alla luce del sole ma in silenzio ed in modo
efficace e concreto.
Saverio ricordava una sua amica Giovanna che molti anni prima le aveva
suggerito un detto: meglio accendere una candela in silenzio in casa tua che
dei candelabri nel tempio col frastuono dei cimbali e dei tamburi: il mondo
continua a fare la sua parte di stupida opulenza sbattuta in faccia al prossimo
tanto per ingannarlo mentre Saverio in silenzio operava per aiutare quella
parte di umanità che aveva tanto bisogno di aiuto.
148
Ma in quel momento doveva completare la distruzione di Maurizio Borona.
Aveva già predisposto tutto prima: ora non restava che attuare la sua vendetta.
Maurizio, legato ad una banda di ferro, senza materasso né giaciglio, aveva
tutta la schiena trafitta dall’intelaiatura metallica della rete e pur essendo un
ottimo atleta, incominciava a non sopportare più il dolore dei fili di ferro che
gli stavano procurando dei solchi nel corpo.
Vedere aprirsi la porta e trovarsi di fronte il suo carceriere in fondo gli fece
quasi piacere nella speranza di un cambiamento: non sapeva cosa lo aspettava.
Aveva la bocca chiusa da un grande cerotto che gli permetteva solo di assorbire un po’ d’aria. Cercò di parlare ma si sentì nella stanza un sordo mugugno senza senso:
“Come? Non ti capisco” lo sfotté Saverio ridendo. “Ripeti per favore: che
cazzo di una lingua stai usando? Arabo? Cinese?”
E intanto avvicinò alla branda uno strano aggeggio, come una specie di alto
seggiolone che era abbastanza largo per metterlo sopra il corpo di Maurizio,
a cavallo della branda. appoggiando le basi ai lati esterni.
In cima al trabiccolo un potente flash troneggiava, rivolto a faccia in giù
proprio in direzione del volto di Maurizio.
Saverio si avvicinò e lo rese inerme con un’iniezione di anestetico.
Mentre Maurizio si addormentava, gli aprì un occhio per volta e gli fissò
sulle palpebre delle graffette da chirurgo che costringevano a mantenere gli
occhi sempre aperti.
Saverio, dopo aver contemplato con un sorriso cattivo la bellezza del colore
degli occhi del suo prigioniero, fece una prova facendo fare un singolo scatto al flash sovrastante: la luce potente del faro che aveva preparato inondò
gli occhi del prigioniero il cui cervello, raggiunto dal lampo di luce attraverso gli occhi aperti, ebbe una reazione improvvisa e provocò un sussulto al
corpo di Maurizio.
Saverio rinforzò i legacci che gli sembrarono insufficienti alla bisogna e
provò un altro scatto. Il corpo del malcapitato sussultò perché, anche se
Maurizio dormiva profondamente sotto l’effetto dell’anestetico, il suo cervello era ben sveglio e si incazzava di brutto sotto il lampo potentissimo e
improvviso che gli colpiva le sinapsi.
Saverio ebbe la controprova con una foto, vide che tutto era a posto, gli fece
un’altra iniezione per risvegliarlo e quando vide che stava tornando cosciente, accese il flash continuo ed attese qualche secondo. Vide l’effetto che otteneva e, contento, uscì, riprese la guida della sua Volvo verso Roma.
Circa un mese dopo, terminata la missione romana ritornò nel suo capannone dove i cadaveri di tre persone incominciavano a puzzare.
Li caricò sul pulmino che aveva rubato in un paese vicino e li portò
sull’autostrada verso Firenze. Al primo autogrill parcheggiò il pulmino sul
retro, scaricò la enduro che si era portato dietro e tornò a casa la sera stessa
per godersi un momento di pace, fregandosene delle notizie del Telegiornale
che commentava il ritrovamento dei tre cadaveri. Nei commenti soprattutto
dominava la nota stramba con cui il commentatore si chiedeva che cosa avesse a che fare il Borona con le Marchi madre e figlia.
149
Prosegue l’esperienza con i preti gay
Roma è una città strana ma bellissima perché è tutto e niente. Per Saverio
era un ritorno a ricordi vicini e lontani ma pensava a tutt’altro: sapeva che i
preti (non osava dissacrare la parola sacerdoti che per lui era ancora qualcosa di sacro), se vengono toccati sul vivo, se vengono colti in castagna, diventano più cattivi dei serpenti a sonagli.
Per questo se ne stava in un bar di piazza Esedra a sorbire una birra mentre
pensava intensamente come agire; il bar, aveva saputo, era spesso un punto
di ritrovo per questi preti deviati e per i loro compari.
Ma non gli ci volle molto, visto che si era truccato un po’ il viso con qualche ritocco adatto all’adescamento che pensava di realizzare.
Bastò avere un po’ di pazienza ma dopo circa un’ora un uomo (almeno così
sembrava a Saverio che fingeva di starsene nelle nuvole a pensare ai fatti
suoi), alto e molto dignitoso nel portamento, si sedette al tavolino vicino
mettendosi seduto in modo da guardare Saverio direttamente.
Ordinò una birra con una voce chiaramente molto affettata e un modo di gestire inequivocabile e si mise a sorseggiare rilassandosi nel tepore di un tramonto romano classico.
Ogni tanto gettava uno sguardo sorridente verso Saverio che, dopo due sorrisi decise di corrispondere con uno sguardo tra il perplesso e l’interessato.
Bastarono pochi secondi e la conversazione tra i due divenne spontanea su
Roma, il turismo lo splendido autunno col classico ponentino e via via le parole andarono verso il piacere di vivere in una città dove la religione si sposava gradevolmente con il saper vivere.
Mezz’ora dopo Saverio era stato invitato per la sera stessa a cena in casa di
alcuni amici vicino a via Della Conciliazione dallo sconosciuto che ora era
noto a Saverio come Gianni.
Il pesce aveva abboccato, pensava Gianni tornando a casa e pregustando
una nuova esperienza.
Il pesce aveva abboccato, pensava Saverio, e riorganizzava le sue idee per
come meglio agire nelle ore successive.
Aveva predisposto l’esplosivo C4 in uno spoiler con maniglia e si era presentato all’indirizzo verso le sette di sera, come gli era stato indicato.
Gli aprì dal citofono una voce suadente e si trovò davanti ad un vecchio ascensore romano trasparente a vetri. Gli avevano detto al secondo piano; entrò nell’ascensore e pigiò il bottone. Si accorse, passando al primo piano che
c’era una larga porta aperta su un appartamento già piuttosto affollato di figure poco vestite e indifferenti a chi potesse vederle passando sul pianerottolo.
L’ascensore si fermò con un sussulto violento al secondo piano, a fine della
sua possibile corsa perché sopra non c’erano altri piani. Gli venne incontro
subito il nuovo amico, Gianni, che lo estrasse quasi a forza dall’ascensore
per abbracciarlo teneramente e accennando un bacio sulle guance: in questo
modo gli aveva già lanciato un messaggio di conferma semmai avesse avuto
qualche dubbio.
Gianni mentre lo precedette in una stanza molto ampia dove su vari divani
erano distesi o accovacciati o solo sguaiatamente seduti molti uomini, tutti
in costume semiadamitico, osservò lo sculettare voluto di Gianni
Solo uno, uscito da una retro che doveva essere la cucina, aveva un grembiulino femminile, ma solamente davanti. Passandogli accanto civettuolo gli
mostrò il culo nudo con due vistose chiappe foruncolose.
150
Saverio ebbe subito un senso di nausea e gli montò un desiderio molto forte
di andarsene ma doveva stare al gioco.
Gianni lo presentò a voce alta dichiarandolo “un nostro nuovo amico” che ci
darà tanta felicità” e poi, rivolto a Saverio con una voce effeminata e vellutata di un tono più basso ma in modo che gli altri sentissero, proseguì:
“ …. e tanto amore, speriamo tutti”.
La frase fu accolta da un gran sorriso da parte di tutti gli astanti che, dopo
aver teneramente applaudito con mani affusolate e dai movimenti equivoci,
ripresero le loro attività di carezze e di eccitazioni del compagno vicino su
varie parti del corpo.
Gianni, che sembrava il padrone di casa batté le mani due volte e poi annunciò:
“Ora facciamo una breve cena frugale come si conviene a dei bravi sacerdoti. E … dopo cena ci ritireremo nelle stanze del primo piano formando le
coppie a sorpresa come facciamo ad ogni incontro, in un gioco che ci piace
tanto”
Era un modo indiretto di informare Saverio e sembrava avesse finito quando
all’improvviso aggiunse:
“E vedremo chi sarà il primo fortunato che potrà godere dell’amo .. della
compagnia e dell’amicizia del nostro nuovo amico. Tu Saverio sai che dovrai imparare varie cose ma sono convinto che ti troverai subito a tuo agio”.
Saverio, che non aveva avuto paura di dichiararsi col suo vero nome, sorrise
e invece di rispondere in qualche modo a Gianni, disse:
“Scusate ma sono reduce da un lungo viaggio e sono molto stanco. Posso lasciare in un angolo il mio spoiler?”
Subito uno dei più giovani corse a prendergli lo spoiler e lo portò accanto ad
una vetrina piena di bicchieri di un servizio baccarà che, secondo Saverio,
doveva essere molto costoso.
Dalla cucina tornò lo sculettante mentre tutti si sedevano al tavolo centrale.
Gianni recitò in latino una breve preghiera, poi chiese chi doveva ancora dire messa.
Tranne il giovane gentile, gli altri alzarono la mano e così Saverio ebbe la
sicurezza che erano tutti preti.
Mentre mangiavano Saverio nella conversazione con Gianni e con gli altri
seppe che la casa di due piani aveva solo due appartamenti e tutti e due erano di proprietà della Curia, prestati a Gianni in comodato per ospitare preti
di passaggio a Roma che non riuscivano a trovare alloggio.
A questo punto Saverio ebbe anche la sicurezza che nell’edificio non sarebbero state presenti altre persone estranee a quel pazzo modo di interpretare
quella che chiamarla “vocazione” sarebbe stata una vera bestemmia.
Il cibo era buono e la cena proseguì allegra con racconti tra lazzi su storie di
personaggi noti e insospettabili ma pur essi gay e di travestiti d’alto bordo.
Saverio dovette sentire nominare nomi che credeva persone del tutto estranee ad un mondo così depravato.
Si rideva molto e molte battute erano piuttosto lascive.
Qualche frecciatina a Saverio era arrivata ma nessuno aveva superato il livello della discrezione che sembrava essere l’unico muro di omertà che serpeggiasse tra i sette presenti, Saverio escluso.
Seppe però che erano in parte italiani e in parte francesi, tutti provenienti da
diverse parrocchie. E questo gli bastò per prendere la decisione definitiva.
151
Arrivò il momento più importante: finita la cena si distesero sui divani in attesa del caffè e del giochino del sorteggio delle coppie.
Seppe che dopo gli incontri che si sarebbero svolti tutti nelle stanze del primo piano, ognuno poi a suo piacimento poteva tornare al secondo piano per
dire messa nel salone che nel frattempo Gianni aveva aperto alla vista degli
astanti: oltre una larga porta con battenti di legno scolpiti con immagini sacre, la stanza era arredata come fosse una piccola chiesa, con immagini sacre alle pareti e vari tavolini coperti da tovaglie di lino dove spiccavano calici e patene, insieme a messali su piccoli leggii. Ogni tavolino aveva pronto
un piccolo portacandela con un cero già pronto per essere acceso al momento della celebrazione.
Fu a questo punto che Saverio, colto da un conato di vomito, chiese con gesti eloquenti dove fosse il bagno tenendo chiusa la bocca con una mano.
Quando fu finalmente solo in un picco gabinetto inondato da profumi femminili stomachevoli, alzò la tavoletta e vomitò tutta la cena.
Si ripulì con l’acqua tiepida del lavandino accanto e guardò il suo viso pallido e stravolto: non riusciva a credere a quello che aveva visto e sentito e
sperava che il C4 facesse l’effetto voluto e al momento giusto.
Cercò una scusa e trovò aiuto proprio facendo giungere col secondo cellulare uno squillo al cellulare che usava sempre che richiuse proprio mentre
rientrava nel salone.
Gianni gli si era precipitato incontro per chiedergli se stava bene ma Saverio
fece un gesto negativo con la testa.
La preoccupazione di Gianni fu superata dalla squillo del cellulare di Saverio che con indifferenza e quasi sbuffando accettò la chiamata:
“Sì?
“Ah, buona sera! Sì sono in casa di … di amici, di nuovi amici … romani”
A questo punto Gianni gli fece un cenno come per dire di non approfondire i
dettagli, mentre Saverio proseguiva:
“E’ proprio necessario?”
Alcuni istanti di silenzio, poi Saverio proseguì:
“Veramente avevo un altro impegno questa sera con i miei nuovi amici …”
Finse di ascoltare una richiesta un po’ pressaante, poi riprese:
“E va bene, ma le posso dedicare pochi minuti” e chiuse la conversazione.
“Gianni proseguì “mi dispiace ma devo andare: sarà però un impegno breve
che non posso rinviare”
“Ma chi è?” provò a chiedere Gianni.
“Non posso dirtelo; sappi che … ti posso solo dire che veste preferibilmente
di rosso”
Gianni rimase di stucco perché credette di aver scoperto una tresca ad alto
livello tra Saverio e qualche alto prelato. Rimase a bocca aperta ma non osava parlare.
“Non preoccuparti, Gianni, fa parte del nostro ambiente!” disse Saverio e
calcò la voce su quel “nostro”. E proseguì:
“Ma sarà una cosa breve, te lo prometto. Sarò qui per la messa. A proposito,
hai dei paramenti per me?”
E, al cenno affermativo di Gianni, aggiunse:
“A che ora circa inizierete le celebrazioni?”
“ Fra circa mezz’ora, non so se farai in tempo”
“Lo spero, eventualmente ritardassi puoi aspettarmi?”
152
“Certamente caro Saverio, anche se gli altri se ne andranno io abito qui e ti
aspetterò con ansia; anche perché spero che mi racconterai qualcosa di ….
interessante”
“Se potrò, volentieri” e, facendo un cenno di saluto a tutti i presenti, si avviò
all’ascensore,dicendo che avrebbe ripreso il suo spoiler quando tornava, accompagnato da Gianni che avrebbe voluto dargli un bacio ma per fortuna di
Saverio gli sportelli del vecchio ascensore si chiusero prima e dopo pochi
secondi Saverio era finalmente in strada, a respirare il profumato ponentino
romano, lontano da quell’ambiente che non credeva fosse esistito sulla faccia della terra.
“Meglio l’inferno, mormorò svicolando in una traversa vicina e raggiungendo il parapetto del fiume.
Il sommesso rumore delle acque del Tevere, sia pure fangose, gli sembrarono una musica celestiale.
Intorno non passava nessuno e Saverio con calma tirò fuori il detonatore a
distanza, pronto per l’uso e preparò l’innesco, attendendo l’ora giusta per azionarlo.
Avrebbe voluto allontanarsi di più ma sapeva che aveva un segnale piuttosto
debole con tanti edifici intorno.
Un secondo dopo aver premuto il tasto, anche se si aspettava il botto,
l’esplosione lo colse quasi di sorpresa, mentre con calma, senza destare sospetti eventuali, si avviava alla sua vecchia Volvo parcheggiata tre vie più in
là.
Mentre percorreva la via Salaria verso Settebagni per ritornare a casa sulla
A1, aprì la radio che annunciò la notizia che aspettava: un’esplosione aveva
fatto crollare un intero edificio in un quartiere di Roma. Erano accorsi polizia e pompieri, ambulanze e una folla di curiosi.
Dalle macerie erano stati estratti i corpi di molti uomini, quasi tutti stranamente vestiti da prete ma con sotto la tonaca solo le mutande.
Le autorità stavano brancolando nel buio non riuscendo a identificare i cadaveri e a risalire al motivo dell’esplosione, anche perché, verificato che
non si trattava di una fuga di gas, gli artificieri accorsi avevano scoperto
tracce di C4 tra le macerie e quindi si incominciava già a parlare di un attentato. Ma contro chi?
Saverio proseguì soddisfatto, chiuse il telefono che disarmò della sim come
al solito e che poi fece volare dal finestrino di destra oltre la corsia
d’emergenza. La sim invece, dopo essere stata masticata un po’, si perse
sull’asfalto maciullata qualche chilometro dopo.
Tre ore dopo poteva finalmente addormentarsi accanto a sua moglie che aveva temuto per la sua vita. Teneramente abbracciati, si addormentarono sognando ognuno la speranza di un figlio.
153
ATTENTATO AL PAPA
Saverio aveva completato la lettura durante la traversata dell’Atlantico in
aereo mentre sua moglie, che soffriva il mal d’aria, dormiva accanto a lui,
persa in sogni sereni a volte, a volte pieni di incubi.
Saverio era riuscito a finire la lettura del lungo racconto della gesta di Blake
pochi minuti prima di atterrare a Fiumicino ed era rimasto sconvolto da alcune delle avventure narrate in terza persona: perché era chiaro che era lo
stesso Blake a raccontare la propria vita e le imprese che aveva compiuto.
Ma soprattutto non riusciva a capire del lungo racconto che cosa fosse vero
e che cosa fosse invece solo una complessa e inverosimile storia dove la realtà si confondeva con la fantasia in un’allucinante verità di fatti mai accaduti o che stavano per accadere.
E qui Saverio finalmente intuì lo scopo di quella strana confidenza che Blake aveva onorato di fargli: non era solo un racconto ma la terribile consegna
per nuove missioni che Saverio avrebbe dovuto compiere in futuro.
Era rientrato nella nuova casa che aveva acquistato ad Assisi e stava in piedi
ad ammirare la valle che ospitava la basilica, giù a S. Maria.
Dalla valle saliva il suono del campanone della Porziuncola che segnava il
vespro, mentre nella via sottostante decine di turisti si incamminavano frettolosi verso la Basilica in attesa dell’arrivo del Papa da Roma: l’elicottero
aveva già segnalato il suo arrivo mentre sorvolava Spoleto e risaliva verso
Assisi portando il Capo della Chiesa di Roma per un rito solenne, previsto
all’interno della Basilica superiore: sarebbe atterrato nella piazza la cui pavimentazione era stata rifatta di recente, contrariamente alle notizie ufficiali
che davano l’atterraggio sul retro del chiostro per ragioni di sicurezza.
Saverio si stava chiedendo perché l’elicottero con cui arrivava da Roma non
avesse mai avuto una scorta di sicurezza adeguata contro eventuali attacchi
di terroristi.
Alcuni anni prima si era posto ad un incrocio della via detta “Francesca” e,
parcheggiata la sua Volvo poco oltre, aveva finto di trovarsi nella posizione
più adatta per lanciare un razzo terra-aria o sparare un colpo di bazooka contro l’elicottero del Papa che allora atterrò nel giardino dell’Istituto del Sordomuti: sarebbe stata una tragedia possibile che, per fortuna dell’umanità,
non era mai accaduta.
Il rumore costante delle pale dell’elicottero papale arrivò prima della sua sagoma: un puntino lontano che pian piano stava ingrandendosi nel cielo terso
del tramonto. E il segnale del suo arrivo incominciò ad aumentare facendosi
sentire sempre più chiaro.
E finalmente la figura del velivolo apparve luccicante nei raggi del tramonto
nel cielo sopra la valle, dopo aver superato il fungo di Monte Falco.
Dalle strade della città e dalla piazza dove sarebbe atterrato, giù a S. Maria
davanti alla Porziuncola, da ogni posto di Assisi dove si erano accampati i
pellegrini in attesa, i nasi all’insù osservavano trepidanti l’elicottero che ingrandiva sempre più mentre iniziava la discesa.
Fu un attimo: da qualche posto indefinito della valle salì velocissima una
scia di fumo giallo. Penetrò nell’elicottero ed esplose con un boato assurdo
che percorse tutta la valle con un cupo rimbombo mentre i rottami del velivolo in fiamme cadevano in un silenzio di morte nella pianura, o velocemente per il peso, o come se planassero leggeri e morti.
Ma di corpi non se ne videro, nemmeno quello inconfondibile perché vestito
di bianco, del papa. Eppure …
154
Da ogni angolo ci fu una immediata reazione di spavento, urla dissonanti ed
un accorrere di centinaia di persone verso il luogo in cui stavano cadendo i
pezzi del velivolo.
Le sirene dei pompieri riempivano l’aria con il loro acuto impazzire, mentre
dall’ospedale vicino erano già partite tre ambulanze, anticipate e seguite da
auto della polizia e dei carabinieri.
Saverio aveva avuto l’accortezza di puntare un potente binocolo verso
l’elicottero già da una manciata di secondi prima dell’esplosione e aveva potuto così vivere ogni minimo dettaglio dell’arrivo del missile terra-aria: purtroppo aveva potuto vedere i corpi dei due piloti lanciati a decine di metri di
distanza nell’aria ma non aveva visto alcuna sagoma che potesse far pensare
al papa e … rimase seriamente a pensare ad un dubbio cui doveva dare con
urgenza una risposta.
Uscì di corsa di casa con la sua vecchia Enduro, ma incurante di quelli che
correvano verso il luogo in cui dovevano essere caduti i rottami, si mise a
correre in direzione contraria per raggiungere pochi minuti dopo il chiostro
che sta sul retro della basilica.
Salì di corsa la scalinata che portava ai piani superiori e si lanciò verso una
porta che sembrava un’umile entrata per una delle celle dei frati.
Un poliziotto in borghese gli si parò davanti e gli puntò la pistola ma un secondo dopo era disteso a terra, stordito da un poderoso pugno allo stomaco
e disarmato.
Incurante del malcapitato, la pistola del poliziotto in pugno, abbatté la porta
della cella e si buttò dentro a capofitto con una capriola per difendersi da
eventuali nemici.
Si rialzò di colpo nel silenzio che lo accolse nel semibuio della stanza e si
trovò di fronte al papa che lo guardò tra lo spaventato e lo sbigottito per
quell’improvvisa irruzione non prevista.
Era quello che sperava avessero fatto: l’elicottero era stato solo un pretesto e
qualcuno aveva abboccato tentando di compiere un assurdo omicidio.
Ormai non poteva più contattare la sua mecenate perché Dio l’aveva accolta
in cielo da tempo. Ma aveva alcuni amici fidati di cui non avrebbe mai rivelato nomi e funzioni.
Compose un numero sulla tastiera del Nokia e attese:
“Sì?”
“Come previsto: ci hanno provato ma lui … è qui davanti a me. Come proseguo?”
Ricevette le istruzioni e si sedette davanti al papa:
“Faremo per ora risultare che Lei è morto nell’incidente: ci serve per attendere la reazione degli autori che fra poche ore si vanteranno della … bravata”
“Ma il mondo …”
“Per ora non si preoccupi del mondo ma della sua persona: Lei potrà essere
anche il sostituto di Dio ma è fatto come me e per giunta è molto … vec …
anziano, per cui è bene che per questa notte provi il piacere di dormire nascosto in una delle celle del convento.”
Compose un altro numero e poco dopo comparve il responsabile delle relazioni pubbliche dei frati conventuali. Si inginocchiò a baciare l’anello e,
senza dire nulla, dopo essersi rialzato, prese il papa per mano, lo sollevò
quasi di forza e lo costrinse a farsi seguire in un corridoio che si apriva se155
gretamente in fondo alla stanza in cui il papa era rimasto ospite per alcune
ore.
Gli occhi di Saverio incrociarono quelli del tedesco per alcuni istanti: non si
dissero nulla, ma Saverio sapeva leggere la riconoscenza: eppure non aveva
fatto nulla, si diceva, a parte il fatto che si era portato il papa da Roma la
mattina prima con una vecchia Lancia ed il papa travestito da contadino
umbro.
Tornò lentamente per vie traverse a casa e rimase sotto il portico ad ascoltare i commenti radio e tv concitati sull’attentato e la morte del papa.
Nessun accenno al ritrovamento del cadavere: anche a questo Saverio aveva
provveduto, aiutato da un amico medico del vicino ospedale: gli aveva preparato rivestito degli abiti talari un vecchietto morto da poche ore in corsia
per insufficienza cardiaca. Il corpo era stato ritrovato dai pompieri, ignari di
tutto e immediatamente le autorità avevano provveduto al trasporto della
salma nella basilica inferiore, chiuso in una bara provvisoria e piantonato da
decine di poliziotti in borghese.
Le TV di tutto il mondo sembravano impazzite nel rilanciare la notizia, nel
mettere in onda le poche immagini a disposizione, nell’iniziare a rievocare
con il solito metodo del “coccodrillo” che ogni redazione che si rispetti ha
sempre pronto, la figura del Pontefice da quando era ancora un seminarista
in Germania sotto Hitler.
§§§
Saverio era sceso a valle ed aveva iniziato un’esplorazione dettagliata del
punto dal quale aveva visto partire il missile che aveva colpito l’elicottero.
Ogni centimetro quadrato era setacciato con uno strumento particolare, che
aveva la potenza di un microscopio ma era anche dotato di poteri di rilevamento del tutto particolari. Questo gli permise di raccogliere tracce precise
molto piccole ma importanti perché tutte risalenti a due DNA ben precisi:
quelli dei probabili due attentatori.
Due ore dopo con l’aiuto di un suo amico in polizia ottenne l’identità di due
arabi di origine siriana: avevano ricevuto l’ordine di espulsione alcuni mesi
prima ma per la legge italiana chi viene arrestato per furto ed associato alle
carceri deve restarci in attesa del processo relativo: gli extracomunitari lo
sapevano ed approfittavano di questo mezzo per restare in Italia.
Saverio, con un ordine di trasferimento falso si presentò al carcere di Capanne ed ottenne di far uscire i due arabi. Li fece caricare sul furgone del
carcere di Perugia che si era procurato con una certa abilità e fatica ed era
ripartito.
Nel suo rifugio aveva fotografato i due volti, aveva messo i loro nomi sotto
le foto ed aveva spedito tutto via internet alla redazione di un quotidiano
dove aveva un amico cui doveva un gesto di riconoscenza per alcune operazioni nel passato.
Il giorno dopo le foto pubblicate sulla prima pagina del quotidiani provocarono un putiferio internazionale tra CIA, Polizia Italiana, Ministero degli Esteri ma soprattutto aveva provocato l’uscita allo scoperto di una cellula di
Al Queda: su un sito internet la cellula rivendicava la paternità dell’attentato
al papa ed inneggiava alla morte del Capo della Chiesa di Roma e al coraggio dei due “martiri” che credeva già morti, avendo scoperto che erano stati
prelevati dal carcere di Perugia.
156
Era quello che Saverio voleva. Al suo amico giornalista aveva fornito il materiale per giustificarsi con gli incaricati delle indagini: busta anonima timbrata come inviata per posta e giunta anonima alla redazione, copia delle foto e nomi relativi.
Nel rifugio segreto Saverio aveva messo i due attentatori in una cella a zero
gradi e li aveva quasi ammazzati assiderati. Finalmente poté completare il
suo piano: dal convento via canale Privato TV fece vedere ai due arabi esterrefatti il papa che conversava tranquillamente con alcuni frati.
“Come vedete, avete fatto un buco nell’acqua”.
I due tacevano.
“Non dite nulla ?” Non siete delusi? Sapete che il vostro “eroismo” di merda
vi porterà ad una morte infame e senza gloria appena il papa ricomparirà in
pubblico, sputtanando i vostri “Capi”?
Attese che i due, gli occhi sbarrati avessero una qualche reazione ma visto il
loro mutismo proseguì:
“Visto che nella vostra religione il grasso di maiale sul corpo al momento
della morte vi condannerebbe all’inferno, vi ho preparato una bella sorpresa”
E dette queste parole, dopo averli facilmente denudati perché non riuscivano
a reagire con i muscoli rattrappiti dal freddo, afferrò una pentola già pronta
su un fornello da campagna e ne rovesciò il contenuto sulle loro teste: una
colata di grasso di maiale li ricoprì scottandoli in tutto il corpo.
Cercarono di liberarsi dai legacci stretti con cui li aveva bloccati a terra ma
non poterono fare nulla. Quando videro Saverio imbracciare una specie di
scimitarra affilatissima capirono che per loro era finita. Le loro teste rotolarono nella stanza e Saverio, stomacato dalla schifezza del sangue che colava
le mise in un bidone per il trasporto della benzina ancora con gli occhi sbarrati e, sperava Saverio, ancora con qualche barlume di coscienza prima che
la morte non li rapisse per portarli nel loro inferno.
Il furgone con il bidone sul rimorchio si fermò davanti alla caserma dei carabinieri del capoluogo. Era notte fonda e le telecamere esterne avrebbero
certamente filmato il suo arrivo. Per questo aveva usato un furgonato rubato
a pochi chilometri di distanza e si era accuratamente mimetizzato con una
tuta nera ed in testa una maschera di Pippo di Walt Disney.
Scaricò silenziosamente il bidone davanti all’entrata e, prima che qualcuno
uscisse a curiosare, era già sparito nella notte: nel bidone, un cartello spiegava con poche parole di chi erano le teste mozzate.
Quello che accadde dopo è storia conosciuta da tutti: il papa ritornò a fare il
papa, in oriente caddero molte teste per l’insuccesso e la derisione con cui
tutti i giornali e quotidiani del mondo misero in ridicolo l’organizzazione
dei terroristi.
Molti miti caddero, specialmente tra i “volontari martiri” che ora avevano
molta più paura dell’occidente e di finire nel grasso di maiale come i loro
predecessori; inoltre incominciavano a capire che razza di bufala c’era dietro l’iniziazione a diventare degli “eroi volontari” di un presunto Dio che
non era il vero Dio ma una divinità che gli arabi si inventavano di volta in
volta per giustificare la loro sete di conquista domata per troppi secoli
dall’occidente.
Anche loro, come i cristiani, erano riusciti a creare una religione fatta su misura per i propri interessi, che se ne fregava delle sacre scritture loro proprie:
il Corano non insegnava quello che loro praticavano con terroristi, morti vo157
lontari in mezzo a decine di vittime innocenti: una lotta destinata nel tempo
ad essere soppressa dagli stessi arabi, almeno quelli benpensanti.
Finalmente una domenica all’Angelus apparve il papa alla solita finestra in
piazza S. Pietro. La piazza era gremita di folla ma molti erano gli agenti in
borghese che osservavano attentamente ogni persona, ogni movimento sospetto, borse e sacchi e tutto ciò che poteva contenere armi: ma ormai per Al
Queda iniziava un periodo di acquiescenza che sarebbe durato a lungo prima
di trovare nuovi “volontari” così cretini da essere disposti a “morti eroiche”.
Saverio, appoggiato ad una delle colonne del lungo porticato osservava divertito alcuni bambini che strillando giocavano al mondo su un disegno in
terra fatto col gesso mentre il papa parlava ai fedeli e raccontava la sua avventura, ma solo in parte, avendo ricevuto da Saverio l’ordine di non parlare
del modo in cui il nemico era stato ingannato.
Segretamente aveva fatto in modo che la banca del Vaticano versasse una
cospicua somma ai familiari dei due elicotteristi caduti nell’adempimento
del loro dovere.
Saverio decise di andarsene e, mentre si allontanava, stava pensando alla
bellezza di un figlio e a sua moglie che lo aspettava in Umbria.
§§§
MEDITAZIONE SUL MONTE E IL RICORDO DI PIA
Erano trascorsi alcuni giorni che Saverio aveva dedicato ad una attenta rilettura del diario di Blake; nella sua testa continuava ripetersi un ritornello pieno di dubbi: era evidente che gran parte del racconto era solo una pura fantasia senza fine, un’ottimistica visione di un mondo di là da venire, che Blake aveva sognato e sperato di realizzare o di contribuire a dargli una sostanza durevole.
Ma qualcosa, il suo karma, il suo destino gli avevano impedito quasi certamente di realizzare gran parte di quella che sembrava storia ed era invece
solamente utopia.
Nel presente il mondo era tutto uno sfacelo.
Pochi, tra governanti e persone influenti della cultura, dell’economia, delle
scienze, riuscivano ancora a dire qualcosa di giusto, di ciò che si doveva fare, anzi che si sarebbe dovuto fare. I rappresentanti religiosi avevano perso
completamente il senso della realtà parlando alle folle senza mordente, senza dare un corrispettivo alla richiesta di sacrifici.
I miliardi di gente comune non avevano alcuna intenzione di mettersi a fare
all’improvviso i “martiri” o gli “angeli della bontà”: interessava loro solo
quello che era necessario per vivere ogni giorno: una casa, un lavoro, dei figli da educare e far crescere con tutto ciò che i venditori di merda offrivano
dagli schermi televisivi, nei grandi magazzini, sulle pagine pubblicitarie.
Si era perso pian piano il senso del tempo vero della vita: quello che contava
era “cosa riuscirò a realizzare oggi”, e domani si ricominciava come se fosse stato il primo giorno di una vita routiniera di merda.
La velleità delle parole, dei congressi, dei gran incontri internazionali incentrati sui temi più difficili per l’umanità rimanevano parole morte, scritte su
trattati mai rispettati, mai conclusi, mai realizzati nemmeno in parte perché
alle spalle delle figure ufficiali che si davano da fare fingendo un grande zelo politico e sociale c’erano i pescicani, quei potenti ai quali non interessava
il futuro prossimo degli eventi del pianeta ma quelli giornalieri che davano o
158
potevano dare alle loro imprese di morte il massimo profitto in dollari, in
euro, in ricchezze immediate, tanto enormi che nessuno di loro comunque
sarebbe riuscito a godere: la loro età media superava i settant’anni e ancora
pochi decenni nei casi più longevi avrebbe cancellato la memoria dei loro
volti e dei loro nomi ma non le conseguenze dei loro misfatti.
Ma i buoni c’erano, pensava Saverio mentre meditava sotto il portico in un
allucinante tramonto di luce meravigliosa che il sole mandava ancora agli
uomini come un messaggio di speranza in cui nessuno più credeva.
Era solo un sole che tramontava, una sera che seguiva con relativa cena davanti ad un televisore che avrebbe riempito i loro occhi e le loro menti delle
notizie di stupri, di cibi trovati avariati nei magazzini dei grandi centri di distribuzione, di imprenditori che avevano inquinato fiumi e laghi o che avevano evaso tasse per miliardi di euro, di mafiosi cui venivano sequestrati
beni ingenti che lo stato dopo doveva faticare a utilizzare in modo buono e
utile per l’umanità.
Eppure sarebbe stato facile invertire la rotta e ricominciare daccapo: ma se
non avveniva tutto in una sola volta ed in tutto il pianeta, ci sarebbe sempre
stato un folto gruppo di banditi senza scrupoli pronti ad approfittare dei
buoni per fotterli in tutto quello che avrebbero iniziato ad avviare sul sentiero del bene.
E Saverio finiva sempre questa sua meditazione triste pensando al motivo
per cui in un universo così vasto e vuoto, largo trenta miliardi di anni luce,
sette miliardi di passeggeri cercavano in tutti i modi di distruggere la nave
su cui navigavano solo da pochi milioni di anni, assurdamente simili ad un
branco di topi che, quando la nave sta affondando riescono a cannibalizzarsi
l’un l’altro, ripetendo dall’eternità dell’uomo il rito orribile dell’omicidio di
Abele.
Dal salone era uscita silenziosa la sua sposa con in mano un sapiente aperitivo che sapeva sarebbe piaciuto a suo marito. Gli si avvicinò e lo fece sobbalzare quando gli pose la mano calda e tenera sul capo.
Saverio si voltò e le sorrise.
Lei gli si sedette in grembo quasi avesse letto nella sua mente tutto quello
che stava tristemente scorrendo e, deposto l’aperitivo sul tavolino, lo baciò a
lungo.
Ogni tristezza si era allontanata nella notte che stava per incominciare ad
annunciarsi da est con l’imbrunire e nel silenzio di quel giardino due cuori si
scambiarono la serenità dell’amore che li univa, isolandoli dal mondo.
§§§
Seduto su un sasso informe in una gola stretta del Subasio, contemplava
quel quasi anonimo marmo che portava inciso solo il nome: Pia.
Saverio era lì da alcune ore e continuava a pensare.
Era riuscito con un sotterfugio a rubare l’urna con le ceneri della donna che
lo aveva guidato per tutta la vita e aveva scavato sul Subasio, in quella stretta gola, una fossa piccola ma profonda perché nessuno capisse o scoprisse:
si era limitato a porre una lastra di marmo, squadrata in modo grezzo e
sbocconcellata, larga solo trenta centimetri, sopra la buca ricoperta con un
leggero strato di cemento a sua volta ricoperto di graniglia e ancora poi di
piccoli sassi apparentemente innocui ma che erano incollati al cemento sottostante.
159
Sopra la lastra vi era inciso solo il nome: Pia.
E nessun altro al mondo avrebbe mai saputo che Saverio aveva obbedito alla
richiesta della sua Pia, contenuta in una piccola busta che aveva trovato tra
le carte che gli erano state consegnate alla morte di quella meravigliosa
creatura, non una donna ma un essere al di sopra di tutto e di tutti.
Stava seduto da tempo e rivedeva gli ultimi momenti felici della sua vita: un
momento prima che sua moglie col figlio in grembo venisse falciata in una
via della città giù nella valle da un marocchino ubriaco.
Ora era solo e restava ad ascoltare il silenzio del vento tra le fronde degli
abeti intorno.
§§§
IL MAROCCHINO CHE GLI AVEVA UCCISO LA PRIMA MOGLIE E IL FIGLIO IN GREMBO
Ricordava ogni istante del processo per direttissima che il furbo marocchino
aveva chiesto per ottenere la riduzione della pena ed un posto al caldo dentro le mura di un carcere italiano.
Aveva saputo con piacere che in appello il marocchino poco tempo dopo
aveva ottenuto gli arresti domiciliari e lo aveva atteso a lungo giorno dopo
giorno per ottenere la sua giustizia.
Prima però aveva conosciuto il nome del giudice che aveva trattato con tanta
generosità (e ingenuità) l’imputato. Lo aveva atteso sotto casa e lo aveva
gambizzato con due colpi di pistola. Lo aveva poi caricato subito
sull’ambulanza che si era procurato ed era uscito di città a sirene spiegate
come se stesse per prendere la direzione dell’ospedale, ma giunto alla statale, la imboccò e finalmente poté sparire tra i boschi a nord.
Quando tirò fuori il giudice dall’ambulanza aveva tra le mani un vecchio
svenuto e rimbambito. Gli aveva disinfettato le ferite che avevano smesso di
sanguinare, da un thermos che aveva portato con sé gli aveva somministrato
un forte caffè per farlo ritornare ad uno stato sufficientemente cosciente per
capire e lo aveva fatto sedere sul bordo del portello posteriore aperto
dell’ambulanza. Il giudice non connetteva ancora anche perché non aveva
riconosciuto Saverio.
“Si ricorda di me?”
Il Giudice era muto, gli occhi socchiusi, sembrava dormisse ma il cervello
stava lavorando alacremente per capire con chi aveva a che fare: certamente
qualcuno che voleva vendicarsi per qualche sua sentenza.
Sapeva di essere noto per il modo in cui applicava la legge senza il minimo
dubbio se stava agendo nel giusto o solo obbedendo ai codici.
“Si ricorda di Abdul Jassen Ardat?”
Questa volta nella mente del giudice si aprì uno spiraglio e davanti ai suoi
occhi passò la figura del marocchino cui aveva concesso gli arresti domiciliari.
“Chi è lei?” chiese intuendo finalmente in che situazione si trovava.
“Si ricorda della donna che il suo imputato ha ucciso insieme ad una creatura che non era ancora nata?”
“Chi è lei?” Insistette il giudice come se il resto della vicenda non lo riguardasse.
“Io sono colui che ti ucciderà come un cane perché la donna che è morta era
mia moglie e portava in grembo nostro figlio!” sembrava più un rantolo cu160
po che una voce urlata dall’oltre tomba quella che Saverio emise mentre lo
teneva per il bavero e gli sputava parole e saliva sul volto a pochi centimetri
dal suo volto.
Il giudice tacque impassibile; poi tentò di divincolarsi mentre emise un lamento fievole di parole assurde:
E’ la legge; ho applicato la legge e bas..”
Ma non riuscì a finire la frase: la pesante mano di Saverio si stampò sul suo
volto come una mazzata che lo tramortì ma non abbastanza da farlo svenire.
Un secondo colpo a man rovescio lo abbatté sul pavimento dell’ambulanza e
lo fece addormentare.
Si risvegliò seduto al posto di guida, con le mani legate al volante
dell’ambulanza e lo sguardo atterrito avanti a sé mentre vedeva il veicolo
correre su una strada che non conosceva.
Di fianco a lui Saverio con la sua mano sinistra sul suo braccio lo aiutava a
tenere il volante mentre con un piede teneva schiacciato l’acceleratore.
Era quasi il tramonto e la luce diffusa bassa del sole non impediva di vedere
la strada, il marciapiede che scorreva di fianco, le case in lontananza, le auto
che venivano incontro.
Il giudice non riusciva a capire le intenzioni del suo rapitore fino a che non
vide: davanti a sé improvvisamente da un portone uscì un uomo che voleva
attraversare la strada. Non poteva riconoscerlo e l’ambulanza gli piombò
addosso guidata proprio da lui: stava per uccidere un uomo e allora tutto fu
chiaro nella sua mente ma troppo tardi per cercare in qualche modo di evitare l’omicidio.
L’ambulanza investì in pieno l’uomo scaraventando il suo corpo a molti metri come se fosse un manichino senza vita, le gambe al vento che sbattevano
nell’aria, le mani alla ricerca di un appiglio, poi il tonfo mentre l’ambulanza,
dopo averlo scaraventato in avanti gli passava sopra.
Il giudice sentì distintamente lo scricchiolio di ossa che si frantumavano e
inorridì, mentre Saverio, lo sguardo perso nel vuoto, frenava il veicolo; poi
scese dalla parte destra e passò davanti al muso del’ambulanza schizzato di
sangue fino ai vetri del finestrino.
Aprì la portiera dalla parte del giudice, tagliò le corde che lo tenevano legato
e lo tirò giù a terra con uno strappo improvviso. Il corpo del giudice gli cadde addosso e Saverio lo sostenne in piedi per un attimo mentre gli urlava la
sua prossima morte:
“Ora tocca a te, brutta bestia, tocca a chi si è permesso di essere indulgente
con l’assassino di mia moglie e di mio figlio. Morirai come lui e come morirono loro!”
La spinse in mezzo alla strada; il giudice, le gambe legate, cadde lungo disteso; mentre tentava di divincolarsi, Saverio salì sull’ambulanza e innestò
la marcia indietro. Frenò ancora e discese. Afferrò per una gamba il corpo
martoriato del marocchino ancora vivo ma che stava morendo per le ferite
riportate e lo trascinò a fianco del giudice in modo che i due corpi fossero
uno vicino all’altro, immobili, mentre nei loro due cervelli vagava debolmente ancora un barlume di speranza nella ricerca di una salvezza impossibile.
Saverio risalì sull’ambulanza, le fece fare ancora una decina di metri a marcia indietro, poi mise la marcia avanti e schiacciò l’acceleratore fino in fondo.
161
Gustò sadicamente il rumore delle ossa dei due corpi che si spezzavano sotto le ruote mentre la carne si spappolava schizzando sangue in ogni direzione. Si sentì un solo urlo, poi il silenzio della morte che si ghermiva le due
anime per l’eternità e chiudeva definitivamente ogni minimo avanzo di vita.
Saverio mezz’ora dopo, caricati dentro l’ambulanza i due corpi, si diresse in
una valletta deserta persa tra le colline; aveva disposto due chili di T4 dentro
l’abitacolo, accanto ai due corpi.
A poche decine di metri azionò un piccolo telecomando ed un’esplosione
spaventosa lanciò nell’aria i pezzi più minuti di lamiere contorte e di parti di
corpi umani resi irriconoscibili.
Saverio era un pignolo; raccolse con una pala i pezzi puzzolenti dei due crani e di ciò che avrebbe potuto far riconoscere chi fossero i morti e sotterrò
tutto a poca distanza in una parte del bosco mai praticata dentro una buca
profonda.
Finalmente poteva ritornare a piedi a casa sua: credeva di provare soddisfazione per l’atroce vendetta ma si rese conto che nulla era cambiato rispetto a
poche ore prima: il dolore per la morte della moglie e del futuro figlio era
sempre lì a mordergli nel petto come una tarantola velenosa e non lo avrebbe abbandonato mai.
Nei giorni successivi però fece pervenire a nome di una a suo tempo ben conosciuta “signora Pia” un messaggio al Capo dello Stato in cui, ricordandogli che è il massimo magistrato italiano, che uno dei suoi collaboratori, per
l’errore di aver messo in libertà quel marocchino, era stato liquidato in modo definitivo insieme all’imputato che era stato la causa della morte di due
persone in auto mentre guidava ubriaco.
Era un comunicato generico ma al Quirinale ottimi incaricati scoprirono
presto il nome del magistrato assente, del marocchino e del relativo processo.
Saverio non correva pericoli perché aveva agito in modo da non essere raggiunto dalle indagini.
Nel frattempo però una circolare criptata venne inviata a tutti i magistrati in
Italia con la raccomandazione di agire applicando le pene in modo tale da
non subire la stessa sorte. Era quello che Saverio sperava di ottenere: in pochi giorni furono revocati centinaia di arresti domiciliari e le carceri incominciarono a pullulare di nuovi inquilini: tutto materiale utile a Saverio per
estendere la sua vendetta a tutti gli ubriachi o drogati che erano stati in precedenza “graziati” con pene miti nel rispetto stupido di leggi sbagliate.
Saverio non riusciva ancora a rendersi conto del putiferio che aveva provocato ma ora poteva dedicarsi attivamente a “sistemare” in modo definitivo
molti (che guidavano ubriachi o drogati o senza patente) colpevoli della
morte di poveri innocenti.
Sarebbe stato un lavoro lungo ma avrebbe contribuito a creare un buon deterrente nelle persone che prendevano con leggerezza la decisione di guidare
anche se non in grado di essere sobri e attenti.
Prima però doveva attuare un preciso piano nei confronti di una persona nota e strafottente che aveva bisogno di una lezione esemplare.
Questo gli avrebbe anche permesso di avere più tempo libero per ripensare
alle utopie di Blake e alla sua illusione di cambiare il mondo.
162
MONREALE E DINTORNI
Era giunto da poco a Monreale in moto: gli serviva non destare sospetti e
all’arrivo al parcheggio davanti al famoso Duomo sembrava un turista del
nord un po’ imbranato a sistemare le borse sui fianchi della moto.
Non voleva perdere l’occasione di rivedere il Pantocratore e con gran meraviglia rimase fermo in mezzo alla navata centrale ad ascoltare il grande organo che stava eseguendo la Toccata e Fuga in re min di Bach: la stessa che
aveva potuto ascoltare vent’anni prima. Si commosse ricordando quei momenti magici in cui, ancora ragazzo, aveva potuto riempirsi il cuore di quella musica divina.
Non riusciva a staccarsi e continuava a ripetersi di dentro:”divina! divina!”
mentre continuava a rimanere ammaliato dal volto severo del Cristo
nell’abside, lo stesso che Zeffirelli aveva immortalato nel film Fratello sole,
Sorella luna.
Lo ricordate?: il grande regista aveva ambientato San Pietro di Roma proprio dentro il Duomo di Monreale e Saverio ricordava ancora il volto umiliato e triste del papa, impersonato da Alec Guiness che alzava il braccio e
puntava l’indice proprio verso il Pantocratore che assisteva impotente come
immagine ma non come destino al riconoscimento che il papa era costretto a
fare dell’umiltà di Francesco.
§§§
Dopo aver gustato in una trattoria della via davanti al duomo una squisita e
ineguagliabile pasta con le sarde, aveva ripreso la strada; si era ripreso dalla
stanchezza del lungo viaggio in moto dall’Umbria lungo tutta l’Italia del sud
ed ora stava salendo dietro Monreale lungo le stradine dove era riuscito a
suo tempo a catturare il creatore dei “pizzini”.
Sapeva dove si sarebbe fermato di preciso per poter sorprendere con una pesante punizione i destinatari nella loro tana .
E ci riuscì molto bene.
Una settimana prima era sceso in Sicilia con la Tirrenia a bordo della sua
vecchia Volvo alla quale era molto affezionato ma come quando si decide di
sopprimere un cane troppo vecchio per sopravvivere alla propria vetustà.
Era notte fonda quando raggiunse S. Giuseppe Jato, proseguì per San Cipirrello che è praticamente attaccata e raggiunse un piazzale ricoperto di calcinacci ed erbacce che gli abitanti usavano per il mercato dei cavalli due volte
l’anno. Sulla via a monte dello spiazzo, la sua Volvo lo aspettava per il colpo finale: ma era ancora presto per l’esecuzione del suo progetto.
Aveva lasciato la moto più in basso all’incrocio con la 113 ed ora a piedi si
avvicinò alla Volvo, disinserì l’antifurto e salì a bordo.
Nessuno aveva notato i suoi movimenti anche perché in quel punto non
giungeva la luce fioca dell’unica lampadina comunale sulla strada che passava alla base dello spiazzo.
Si richiuse dentro e si distese verso i sedili posteriori dove aveva predisposto un passaggio che gli permetteva di starsene disteso utilizzando parte del
bagagliaio.
I vetri oscurati avrebbero impedito a chiunque di curiosare dentro
l’abitacolo.
163
Era dotato di un telefono particolare, preparato con molta perizia nelle settimane precedenti. Aveva una caratteristica: riceveva il parlato di tutte le telefonate in corso nel raggio di cinquecento metri.
Non aveva fatto una grossa invenzione, aveva solo copiato, però anche migliorato, la tecnologia a disposizione delle forze dell’ordine per individuare
tramite GPS la localizzazione dei telefoni accesi nella zona.
Era quasi l’alba e avrebbe desiderato un buon caffè mentre si stiracchiava silenziosamente dopo aver dormicchiato un paio d’ore.
Ma la sua attesa non era stata inutile.
Sapeva, per notizie che era riuscito ad avere, che quella mattina ci sarebbe
stata un’importante riunione nella villa che si affacciava sul lato destro dello
spiazzo.
I vari capi zona delle contrade da Palermo a Trapani e fino ad Agrigento
stavano per riunirsi proprio lì per eleggere il nuovo capo di tutta la costa mafiosa della Sicilia occidentale.
La causa? Era morto di morte naturale il “Grande Vecchio” da tutti rispettato per la sua preveggenza e per aver condotto nel più assoluto anonimato la
mafia siciliana per oltre trent’anni.
Nessuno aveva mai saputo della sua esistenza, salvo i suoi “picciotti”; eppure era stato l’autore e l’ispiratore delle più importanti azioni, dei più grossi
delitti ed attentati che la mafia aveva condotto in Sicilia e dall’isola su fino a
Milano e all’estero in Germania, in U.S.A. e a volte perfino in oriente
Il successore era il nipote del “Grande Vecchio” perché aveva dimostrato
negli ultimi attentati una precisione e una valentia ineguagliabili. Portava il
rispetto di tutti i capi zona e la massima fiducia in quello che sarebbe stato il
proseguimento naturale di una generazione importante.
Erano le sette e già si videro alcuni movimenti: con aria indifferente alcuni
veicoli giunsero davanti al cancello della villa del Grande Vecchio e lasciarono scendere di volta in volta figure eleganti, spesso in doppio petto, scarpe
lucidissime, cravatte vistose, che entrarono nell’atrio al pian terreno.
Da una delle finestre al primo piano, a fianco del terrazzo ingombro di fiori
e di panni stesi ad asciugare, un volto era apparso più volte a controllare lo
spazio antistante a centottanta gradi, mentre Saverio, nascosto dentro il bagagliaio ascoltava gli annunci dei vari arrivi.
Aspettava soprattutto l’arrivo dell’uomo che molti anni prima era riuscito a
sciogliere il corpicino di un bimbo nell’acido, solo per vendicare lo “sgarbo” che aveva commesso il padre nel far sapere alcune cose ad un famoso
colonnello che credeva stesse dalla loro parte. Ma il colonnello lo fregò elegantemente e la mafia per mano di Matuzza, si vendicò compiendo il grave
misfatto della scomparsa del corpo di quel bimbo innocente.
A Saverio la cosa rodeva tanto di dentro che voleva assolutamente ottenere
una vendetta adeguata al delitto commesso.
Mentre ripassava tutta l’operazione controllando se aveva preparato tutto
con la sua solita precisione, si accorse che qualcuno, mandato dalla persona
che si era affacciata al primo piano della villa, si era avvicinato alla Volvo,
aveva cercato di capire che cosa ci fosse dentro l’abitacolo ma i vetri oscurati glielo impedirono.
Provò le maniglie per vedere se era aperta ma in quel momento un fischio
dalla finestra al primo piano lo richiamò indietro: anche Saverio che per un
momento aveva temuto di essere scoperto, sentì la conversazione e finalmente fu certo che stava arrivando Matuzza con il suo vice.
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Pochi secondi dopo apparve a piedi a monte dello spiazzo, passò di fianco
alla Volvo e proseguì indifferente fino all’entrata.
Dentro in un ampio salone tutti i partecipanti lo stavano aspettando e, quando si aprì la grande porta in legno massiccio lasciando entrare Matuzza ed il
suo vice, tutti si alzarono per ossequiarlo.
Fece un gesto benevolo come per dire “state comodi, non v’incomodate” e
si sedette al primo posto a destra della poltrona a capotavola.
Saverio immaginò il seguito: dallo scalone era sceso il nipote del Grande
Vecchio, ricevuto da un attento battimani, cui rispose con un sorriso forzato
e teso: per la prima volta prendeva in mano le redini di un’organizzazione
che manovrava centinaia di uomini, miliardi di dollari e di euro, decine e
decine di mercati in tutto il mondo che producevano utili enormi ogni ventiquattro ore tra droga e riciclaggio di denaro “sporco”.
Si sedette e gli altri lo imitarono.
Lasciò che alcuni istanti di silenzio componessero un equilibrio di distanze
gerarchiche e, le mani giunte quasi in preghiera, disse :
“Vogliamo osservare qualche minuto di silenzio in onore di mio nonno!”
Ci fu chi si nascose il volto tra le mani, che si chinò piegando il capo tra le
ginocchia, chi con aria serafica si mise a contemplare il soffitto affrescato
con scene di caccia, come a cercare il volto del trapassato per implorargli
benevolenza e benedizione.
Saverio rotolò al posto di guida, si alzò lentamente e osservò che, per non
destare attenzioni particolari, non erano state poste guardie fuori dal cancello; ma Saverio sapeva che dietro le finestre del pian terreno alcuni volti tenevano sotto osservazione tutto quello che si poteva osservare intorno alla
facciata della villa.
Saverio avviò il motore ed la Volvo partì con un filo di gas lentamente come
se stesse allontanandosi dalla villa, scomparendo lentamente allo sguardo attento delle guardie.
Cinquanta metri dopo la strada faceva una curva a sinistra che la immetteva
sulla strada che passava appena sotto la villa, ma Saverio proseguì la discesa
fino all’incrocio successivo dove questa volta voltò a sinistra e, sempre in
silenzio proseguì, superando il punto in cui poco sopra c’era la villa.
Due incroci dopo fece fare alla Volvo ancora una curva a sinistra e dopo pochi metri si trovò alle spalle della villa. Le strade erano ancora deserte e il
profumo di un caffè appena fatto, proveniente da qualche appartamento a
pian terreno lo colpì facendogli venire un gran voglia .
Si fermò a fianco del marciapiede che costeggiava la villa e, aperto lentamente lo sportello scivolò via quasi strisciando; riaccostò lentamente lo
sportello senza fare alcun rumore e, sempre carponi si allontanò nel silenzioso vuoto della strada deserta, per cadere volutamente oltre il marciapiede
opposto dove la casa di fronte sorgeva lasciando libero una specie di corridoio a cielo aperto che correva sotto il livello stradale dove erano stesi panni
ad asciugare.
Saverio restò a terra invisibile a chiunque, per molti minuti; solo quando fu
sicuro che nessuno lo aveva notato, si allontanò, sempre senza uscire da quel
corridoio a cielo aperto nella direzione opposta a quello che aveva usato per
accostare la Volvo accanto alla villa.
Ormai i tempi si stavano consumando in fretta e Saverio sapeva che non poteva avere ancora molto tempo a disposizione prima che qualcuno della riu165
nione si accorgesse del fatto che la Volvo era scomparsa da un parte per riapparire dal lato opposto della villa.
Giunto all’incrocio finalmente poté svoltare nella via che scendeva a valle e
rialzarsi sicuro che nessuno lo avrebbe più notato.
Si mise a correre a perdifiato, raggiunse la moto che aveva lasciato accanto
all’entrata della sacrestia della parrocchia, dove nessuno avrebbe osato toccargliela.
Rimase in ascolto per cogliere eventuali altre conversazioni telefoniche ma
il silenzio gli confermò che in quel salone della villa orma c’erano tutti: dodici capi zona, dodici “apostoli” i più importanti capi mafia della Sicilia occidentale stavano già pregustando il piacere di una interessante dissertazione
da parte del nipote del Grande Vecchio: avrebbe loro comunicato i dati di
bilancio dell’ultimo anno, le quote che si sarebbero spartite, i nuovi progetti,
le notizie intorno ai nuovi appalti del Nord già conquistati tramite ditte ormai da tempo “affiliate” all’organizzazione, i ricavi riciclati in Vaticano da
alcuni monsignori compiacenti, e via di seguito: sarebbe stata una piacevole
riunione dei soci di una delle più grandi aziende mondiali.
Saverio attese con impazienza il momento che aveva già programmato: i
tempi che si era prefissato era stati rispettati al secondo ed ora poteva finalmente dare il via ai fuochi d’artificio.
Accese il motore della potente Harley Davidson e, mentre si avviava verso
la periferia per ritornare sulla 113 in direzione di Palermo, premette un pulsante rosso che sembrava impaziente di azionarsi sul largo e comodo manubrio della moto.
Due secondi dopo un’esplosione gigantesca riduceva in pochi istanti una
villa piena di gente in briciole. Dalla pianura Saverio poteva osservare il
fungo che si alzava dal luogo in cui pochi istanti prima sorgeva una villa
piena dei più importanti capi della mafia della Sicilia occidentale, ormai decapitata.
Saverio, senza fermarsi, azionò il telefonino, scattò un paio di fotogrammi e
sempre dal telefonino, spedì le immagini via sms ad un cellulare che in quel
momento era acceso, adagiato sul comodino di un importante personaggio
dell’antimafia di Palermo che stava ancora gustando il piacere di un sensuale abbraccio di sua moglie.
Il telefonino ronzò interrompendo i suoi approcci.
Si voltò, accese e lesse il messaggio; azionò le istruzioni e poté contemplare
un’immagine che insieme lo riempì di gioia ma anche di paura. E lui sapeva
perché.
Saverio, mentre lasciava la circonvallazione per entrare nella zona portuale
per imbarcarsi non poteva certo vedere il volto del destinatario delle immagini ma sapeva che cosa stesse provando, soprattutto la paura di quello che
sicuramente gli sarebbe capitato un po’ di tempo dopo.
E, mentre dal ponte più alto salutava Palermo, pensò con rimpianto alla sua
vecchia Volvo che aveva sacrificato per un giusta causa. Ma già pensava alla nuova Volvo che aveva prenotato per le sue azioni future.
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CAIO BISTICCI (CESARE BATTISTI)
Stava elencando su un foglietto una serie di nomi che gli arrivavano direttamente dalla voce dello speaker sul telegiornale: un lungo elenco di malfattori che pensavano di farla franca e mentre pensava a come agire si chiedeva
perché tanta cattiveria al mondo: se un Dio esisteva, aveva certamente abbandonato da tempo le creature che aveva creato, disgustato dalla depravazione imperante.
E sempre ricordando che era solo un umile strumento, si diresse con la nuova Volvo ad un magazzino che conosceva abbandonato nelle campagne verso Rieti: doveva organizzarlo per accogliere in modo adeguato un bel po’ di
persone da vari punti dell’Italia e alcuni anche dall’estero.
Aveva avvisato la moglie che sarebbe stato intanto via per alcuni giorni
all’estero ma non le disse altro e si imbarcò per il Brasile a Fiumicino su un
normale aereo di linea.
Non si era ricordato che nell’emisfero sud erano in piena estate e dovette fare acquisti di abbigliamento adeguati. Nella stanza del motel in una via adiacente al carcere centrale di San Paolo, aspettava e studiava.
Finalmente si mosse con la rapidità del fulmine: Caio Bisticci era appena
uscito per l’ora di permesso che gli veniva concessa ogni giorno e si stava
dirigendo ad un bar dove qualcuno lo stava aspettando.
Ma non ci arrivò mai: una potente scossa elettrica sul fianco destro lo tramortì e gli fece perdere i sensi.
Quando si risvegliò si trovò legato alla base di un tronco di un albero in
mezzo ad una foresta sconosciuta. Comodamente seduto davanti a lui Saverio aspettava che si risvegliasse.
Saverio lo aveva strettamente legato, facendolo stare seduto ma nudo e con
le gambe legate a pioli che lo costringevano a tenerle spalancate.
Caio si stava chiedendo che cosa fosse successo ma Saverio parlò per primo:
“Non farti domande e non chiedermi chi sono; non ti risponderei. Tu sai
quello che hai combinato in Italia e ti piace prenderci per il culo, ma ora è
giunto il momento di pagare …”
Rimase in silenzio mentre nell’aria si diffondeva un canto misto di vari tipi
di uccelli tropicali.
Faceva molto caldo e Saverio aveva avuto l’accortezza di scegliere per Caio
una posizione in pieno sole.
Caio incominciava a sudare copiosamente e non solo per la paura che si stava impadronendo dei suoi pensieri.
Il silenzio di Saverio era inquietante ma solo quando una lunga fila di gigantesche formiche incominciò la scalata delle sue gambe nude ma sporcate di
miele, Caio incominciò a tremare, perché sapeva che di lì a poco …..
Saverio in silenzio si alzò e, dopo averlo guardato duro negli occhi, si allontanò: sapeva che cosa sarebbe successo di lì a poco e, quando era già lontano su un sentiero che lo avrebbe riportato sulla strada del ritorno, incominciò a sentire gli urli: pian piano e metodicamente milioni di insetti famelici
di una specie tipica della zona stavano divorando la pelle e la carne di Caio
proprio iniziando dai suoi genitali nudi al vento. Poche ore e il suo scheletro
sarebbe apparso irridente alla luna che stava salendo.
Saverio, mentre un aereo di linea lo riportava in Italia, stava studiando le sue
mosse successive ma stava anche ascoltando un programma radio che riusciva a captare con una sua radio personale: manifestazioni in tutta Italia
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contro la mafia, con in testa la voce rauca ma potente di don Ciotti. Alla sua
voce si alternavano quelle di vedove e di figlie che avevano perso negli anni
mariti o fratelli o figli, uccisi dalla mafia.
E pensava: non serve a niente tutto il baccano che fanno, non serve a niente:
occorre arrivare alle radici. Nemmeno la strage che era riuscito a organizzare di recente era servita a far capire ai lucidi e testardi capi che la dovevano
smettere. Erano necessari mezzi più duri e drastici, anche a costo di coinvolgere la vita di innocenti.
Nel magazzino che aveva predisposto, aveva raccolto esplosivo sufficiente
per far saltare una città intera e la sua prima operazione di pulizia fu a Bari:
aveva rubato un autocarro-cisterna che era riuscito a riempire con un acido
terribile, capace di rendere inutilizzabile un terreno di decine di chilometri
quadrati. Con la cisterna alla quale aveva agganciato un sistema di diffusori
a spruzzo, durante una notte buia era riuscito a percorrere quasi tutto il terreno intorno agli edifici di Punta Perotti. Prima però aveva predisposto la
cariche necessarie nei punti giusti.
All’alba il sole inondò gli edifici attraversando gli spazi tra i pilastri e iniziò
la sua diuturna operazione di riscaldamento dei muri: bastò lo sbalzo di
temperatura di pochi gradi e i sensori si azionarono da soli.
Saverio assisteva comodamente sdraiato a letto in un Hotel della costa le
immagini che gli arrivavano direttamente dalla spianata attraverso un suo sistema personale di trasmittente e si stava sorbendo una deliziosa spremuta di
arance quando iniziò lo spettacolo pirotecnico che colse tutti i baresi, privati
cittadini, mafiosi, forze di polizia, pompieri e molti tristemente interessati a
quello che stava succedendo.
Come una catena silenziosa sul suo schermo le costruzioni si accartocciarono una sull’altra, mentre da lontano arrivavano i fragori delle esplosioni.
Pochi secondi dopo si videro arrivare i primi mezzi dei pompieri ma subito
dopo gli uomini fuggirono spaventati, chi era riuscito ad afferrarle in tempo
in cabina aveva i volti nascosti da maschere, altri con fazzoletti bagnati:
l’acido sparso la sera prima sotto il calore del sole stava facendo evaporare i
suoi miasmi terribili e provocando morte in chiunque si avvicinasse.
Quasi contemporaneamente, su un fax privato, ma che Saverio conosceva
bene, arrivò la notizia:
“e questo è solo l’inizio”.
CONCLUSIONE
Qui termina, per il momento, la storia di Saverio, di Pia De Uto e
dell’utopia che pervade i buoni di spirito che ancora sperano
nell’uomo.
Forse un giorno scriveremo un aggiornamento ma per ora accontentiamoci di queste poche azioni di vendetta.
PERCHÉ IL MIGLIOR PERDONO
È LA VENDETTA!
Assisi, 16 agosto 2010
Giuseppe Amato
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