albe e tramonti nella letteratura

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albe e tramonti nella letteratura
Liceo Scientifico Tecnologico “G. Galilei”
AREA DI ORIENTAMENTO CLASSE 1E
“ALBE E TRAMONTI NELLA LETTERATURA”
A cura degli alunni della classe I E,
coordinatrice del progetto prof.ssa Antonella Stoppari
Anno Scolastico 2009-2010
I PARTE
martina natalini 1°E
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Quan lo rosinhols escria
ab sa la parte dia el nueg,
Yeu SUY ab ma bell'amia
Jos la flor,
tro la gaita de la Tor
escria: "Drutz, LeVar al!
Qu'ieu vey l'alba CLAR el Jorn ".
Io
Mentre il tordo canta,
notte e giorno,
Sono con la mia bella
sotto i fiori,
fino a quando la nostra sentinella dalla
torre
grida: "Amanti, alzatevi!
ché io vedo chiaramente l'alba e il
giorno ".
Alba è un sottogenere della poesia lirica provenzale. Essa descrive il desiderio di amanti che,
dopo aver passato una notte insieme, si devono separare per paura di essere scoperti dai loro
rispettivi coniugi.
–Una figura comune presente ad Alba è la Guaita ("sentinella" o "guardiano"), un’amica che
avvisa gli amanti quando è
giunta l'ora di separarsi. Gli
amanti spesso accusano la
Guaita di sonnecchiare, o di
essere disattenta, e di
separarli troppo presto.
L'esempio
riportato,
composto da un anonimo
trovatore,
descrive
il
desiderio di un cavaliere per
la sua donna, il quale è
costretto a separarsi dopo
una notte d'amore proibito.
Pur essendo in genere
rappresentativo dello stile,
questo
componimento
particolare
utilizza
un
atipico
modello
strofico
(cioè un componimento nel quale un determinato periodo ritmico è ripetuto più volte).
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luca fabjanovic 1°E
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Veniamo alla canzone provenzale, che viene ripresa dalla poesia italiana. Per la metrica questa è la
forma più alta, più nobile. Dante ne fu il primo teorico e la considerò come la prima lirica dalla
funzione elevata. Gli autori più significativi sono:
Jaufrè Roudelle, Marc Abrux, Guglielmo IX d'Aquitania, Riccardo Cuor di Leone
Fu praticata da molti stilnovisti e di fatto ne esistono diverse varietà, ma secondo lo schema classico
risulta composta da strofe in endecasillabi e settenari con lunghezza e numero diverso fra loro.
Anche la disposizione delle rime segue uno schema costante. Occorre fare, però, una classificazione
dei generi per vedere come De André si fosse reimpossessato di questa nobile tradizione poetica
trasformandola, con il suo genio, in una canzone e in una poesia assolutamente moderna e attuale.
Per esempio, la Chason d’aube. E’ la canzone d’alba, una tematica molto frequentata dai poeti
provenzali ma anche dalla lirica italiana. L’alba nella quale ci sono due personaggi fondamentali, un
lui e una lei, che sono due amanti, due innamorati; e l’alba è il momento della separazione, perché
l’incontro è notturno. Perché è notturno? Per vari motivi. Perché è un amore vietato, i genitori di lei
non accettano questo fidanzamento, oppure lei è maritata, spesso con un ricco, vecchio, il castellano
stesso, e lei invece ama un bel giovane che va a trovarla nella notte. Poi arriva l’alba e all’alba il
giovane se ne deve andare. Oppure perché è un cavaliere e deve partire per la guerra, e la partenza
avviene sempre all’alba. Su questa tematica abbiamo un fiorire di liriche che descrivono il momento
drammatico e intenso, toccato da una profonda e dolente malinconia. Guardate allora con quale
estro e con quale talento De André coglie questo tema e ne fa una ballata.
La ballata del Miché (1961) che è tale e quale a una
chanson d’aube:
(…)
Quando hanno aperto la cella era già tardi perché
con una corda sul collo freddo, pendeva Miché.
Tutte le volte che un gallo sento catar, penserò
a quella notte in prigione quando Miché s’impiccò
Stanotte Miché si è impiccato a un chiodo perché
non poteva restare in prigione vent’anni lontano da te…”
La separazione fisicamente è già avvenuta. Miché, Michele, è
in prigione perché qualcuno voleva rubargli la sua amata. Ma
la separazione vera, esistenziale non c’è ancora stata perché
lui la porta nel cuore. Anche se è in prigione, lontano, sono
insieme perché sono uniti da questo legame d’amore. Però a
un certo punto egli si suicida e questo è il momento della
grande disperazione, eterna separazione. E quando si
suicida? All’alba. Ecco perché è una chanson d’aube. La
scrisse nel 1961.
Quanto era preveggente! Non v’è dubbio, in presenza di
Fabrizio De André ci troviamo di fronte ad un grande autore
moderno, un trovatore nel senso più nobile della parola.
Colui che componeva e cantava. Questo era De André.
di Antonio Tabucchi
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marco grimaldi e gianmarco padovani 1°E
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“Comincia la seconda parte overo cantica de la
Comedia di Dante Allaghieri di Firenze, ne la quale
parte si purgano li commessi peccati e vizi de' quali
l'uomo è confesso e pentuto con animo di
sodisfazione; e contiene XXXIII canti. Qui sono quelli
che sperano di venire quando che sia a le beate
genti.”
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
3
e canterò di quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
6
(…)
Dolce color d'orïental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta
che m'avea contristati li occhi e 'l petto.
Lo bel pianeto che d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente,
velando i Pesci ch'erano in sua scorta.
I' mi volsi a man destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente.
Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle!
Com'io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l'altro polo,
là onde 'l Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a' suoi capelli simigliante,
de' quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante.
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Un tenero colore di zaffiro orientale,
contenuto nella limpida atmosfera,
pura fino al cerchio dell’orizzonte,
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procurò nuovamente gioia ai miei occhi,
appena uscii dall’aria infernale,
che aveva rattristato la mia vista e il mio animo.
Venere, il bel pianeta che predispone all’amore,
faceva gioire tutta la parte orientale del cielo,
attenuando con la sua luce quella della
costellazione dei Pesci.
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Mi volsi a destra, e diressi la mia attenzione
al polo australe, e vidi quattro stelle
che soltanto i primi uomini (Adamo ed Eva) videro.
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Il cielo sembrava gioire delle loro luci intensissime:
oh luogo settentrionale spoglio, dal momento
che ti è preclusa la possibilità di vederle!
Appena mi fui distolto dal guardarle,
volgendomi un poco verso il polo boreale,
nel quale l’Orsa Maggiore non era più visibile,
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vidi, vicino a me, un vecchio solo,
degno nell’aspetto di una riverenza tale,
che nessun figlio è tenuto ad una riverenza
maggiore verso suo padre.
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"Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?",
diss'el, movendo quelle oneste piume.
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"Chi v' ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
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Son le leggi d'abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?".
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(…)
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l'onda,
porta di giunchi sovra 'l molle limo:
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null'altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch'a le percosse non seconda.
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Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita".
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Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
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El cominciò: "Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a' suoi termini bassi".
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L'alba vinceva l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
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Noi andavam per lo solingo piano
com'om che torna a la perduta strada,
che 'nfino ad essa li pare ire in vano.
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Quando noi fummo là 've la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l'erbetta sparte
soavemente 'l mio maestro pose:
ond'io, che fui accorto di sua arte,
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L’alba trionfava sull’ultima ora della notte
che le fuggiva dinanzi, in modo che da lontano
distinsi il tremolio della luce sul mare.
Quando fummo là, dove la rugiada resiste,
opponendosi al sole e, per il fatto di essere
in una zona dove spira un venticello, evapora
poco,
126
Virgilio posò delicatamente entrambe le mani
sulla tenera erba; per cui io, che compresi lo
scopo del suo gesto,
porsi ver' lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoperto
quel color che l'inferno mi nascose.
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gli porsi le guance bagnate di lacrime;
su di esse egli fece riapparire il mio colorito
naturale che l’inferno aveva occultato.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
132
(…)
Dante 5Alighieri “Divina Commedia”, Purgatorio, I, 1-132
giancarlo croce 1°E
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Pallidetto mio sole,
ai tuoi dolci pallori
perde l’alba vermiglia i suoi colori.
Pallidetta mia morte,
a le tue dolci e pallide viole
la porpora amorosa
perde, vinta, la rosa.
Oh piaccia alla mia sorte
che dolce teco impallidisca anch’io
pallidetto amor mio!
Nella lirica, un madrigale, il poeta – esponente
della corrente letteraria del “Marinismo” – esalta
il pallore dell’incarnato della donna amata, segno
di eterea bellezza e nobiltà, al cospetto del quale anche l’alba, che tinge di rosso il
cielo (alba vermiglia), impallidisce (perde i suoi colori). Alla stessa stregua, anche il
poeta non può che impallidire di fronte a cotale diafana bellezza.
L’alba viene qui presa a pretesto nell’analogico e virtuosistico esercizio di “bello stile”
tipico della poesia del Barocco.
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davide giannini 1°E
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Sulla cima del monte indorato da’ pacifici raggi del Sole che va mancando io mi
vedo accerchiato da una catena di colli su’ quali ondeggiano le messi, e si
scuotono le viti sostenute in ricchi festoni dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i
gioghi lontani vanno sempre crescendo come se gli uni fossero imposti sugli
altri. Di sotto a me le coste del monte sono spaccate in burroni infecondi fra i
quali si vedono offuscarsi le ombre della sera, che a poco a poco si innalzano; il
fondo oscuro e orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del
mezzogiorno l’aria è signoreggiata dal bosco che sovrasta e offusca la valle
dove pascolano al fresco le pecore, e pendono dall’erta capre sbrancate.
Cantano flebilmente gli uccelli
come se piangessero il giorno che
muore, mugghiano le giovenche, e
il vento pera che si compiaccia del
sussurrar delle fronde. (…)
La vista intanto si va dilungando, e
dopo lunghissime file di alberi e di
campi, termina nell’orizzonte dove
tutto si minora e si confonde.
Lancia il Sole partendo pochi raggi,
come se quelli fossero gli estremi
addii che dà alla Natura; e le
nuvole rosseggiano, poi vanno
languendo, e pallide finalmente si
abbujano: allora la pianura si
perde, l’ombre si diffondono sulla
faccia della terra; e io, quasi in
mezzo all’oceano, da quella parte
non trovo che il cielo. (…)
Il brano proposto, tratto dalla Lettera
del 13 maggio del romanzo epistolare di Ugo Foscolo, offre una descrizione pacata e
allo stesso tempo fortemente suggestiva della campagna all’ora del tramonto; in essa
– secondo i canoni del Romanticismo – paesaggio e stato d’animo dello scrittore si
fondono in un connubio di natura e inquietudine dell’anima combattuta tra ragione e
sentimento, tra alte ispirazioni artistiche e senso angoscioso e ineluttabile della morte.
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daniel ferrara 1°E
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ESSTTAATTEE 1
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Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ’ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a sé l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
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Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
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Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
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Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, né d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.
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Il tema della poesia è la similitudine fra il tramonto della luna e il tramonto della
giovinezza. Il canto si apre con la splendida contemplazione della luna che illumina,
con il suo chiarore, la terra ed il mare,
creando, con la sua luce, il chiaroscuro
delle onde e dei riflessi marini e campestri.
Come la luna tramonta, l’orizzonte e il
mondo
perdono
il
loro
chiarore
definitivamente, le ombre della notte
spariscono e un buio totale e fitto, imbruna
le valli e i monti.
Le dolci colline e le spiagge, dopo che la
luna, con la sua luce argentea, è
tramontata ad Occidente, non restano
ancora a lungo prive di luce, perché –
subito – possono vedere il cielo a
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Oriente che imbianca e scorgere di nuovo il sorgere dell’alba. All’alba segue, dunque,
il sole che, con i suoi raggi possenti, folgora la terra e il cielo.
Ma la vita mortale, dopo che la bella giovinezza è sparita, non si colora più né di luce
né di altre aurore. Allo stesso modo in cui il tramonto della luna lascia la terra al buio e
rende incerta la guida al carrettiere che va per le strade, così il tramonto della
giovinezza lascia la vita
degli uomini all’oscuro e
rende infelice l’età che
rimane a loro da vivere.
La bellezza del canto
deriva dalla stupenda
descrizione del notturno
marino,
rappresentato
con un linguaggio reale e,
a tratti, surreale, che si
tinge
di
un
manto
argenteo, nei particolari
in chiaroscuro dei campi
e
del
mare;
nel
dispiegarsi
del
tono
emotivo che va dalla
contemplazione affettiva
dello spettacolo naturale
notturno
alla
rassegnazione del poeta
verso la vita senza più la
rancori e la disperazione dei suoi anni giovanili. La canzone rappresenta, in sintesi, il
congedo dalla vita di Leopardi che mostra di essersi rappacificato e rasserenato con sé
stesso e con la Natura, che è molto più potente di lui e degli uomini.
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lorenzo frangipani 1°E
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D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno
Ed erra l’armonia per questa valle.
(…)
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo
(…)
Io solitario in questa
Rimota parte a la campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno
Cadendo si dilegua, e par che dica
Dopo il giorno sereno
Che la beata gioventù vien meno.
(…)
Come nella lirica precedente il sopraggiungere del crepuscolo, così ne “Il passero solitario” il
morire del giorno, nel rosseggiare del Sole che si dilegua tra monti lontani ferendo gli occhi del
poeta, sembra annunciare che anche la gioventù beata sta tramontando.
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vladimir shakbazyan 1°E
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Ho abbracciato l’alba d’estate.
Niente muoveva ancora davanti ai palazzi. L’acqua era morta. I campi d’ombra
non lasciavano la strada del bosco. Ho camminato, risvegliando gli aliti vivi e
tiepidi, e le pietre dure guardarono e le ali si alzarono senza rumore.
La prima impresa fu, nel sentiero già pieno di freschi e smorti chiarori, un fiore
che mi disse il suo nome.
Rido al wasserfall blond che si spettinò tra gli abeti: dalla cima argentata
riconobbi la dea.
Allora, tolsi ad uno ad uno i veli. Nel viale, agitando le braccia. Dalla piana,
dove l’ho denunciata al gallo. Nella città grande fuggiva tra i campanili e i
duomi, e correndo come un mendicante sui marciapiedi di marmo, io la
cacciavo.
Sopra la strada, vicino ad un bosco di lauri, l’ho circondata coi suoi veli
ammassati, ed ho sentito un poco il suo immenso corpo. L’alba e il bambino
caddero in basso al bosco.
Al risveglio era mezzogiorno.
La
lirica
descrive
l’abbraccio,
in
una
dimensione panica, di R.
con l’alba; R. è un
fanciullo
semi-divino
immerso
sensualmente
nella vita ombrosa, rorida
e pullulante dell’alba; si
sprigionano
l’eros
panteistico che spinge
all’esaltato inseguimento
della dea, fonte di gioia
estatica, e il desiderio di
fusione mistica con il
mondo e le sue forme
(cfr. “Meriggio” di G.
12
D’Annunzio).
alexander ginestous 1°E
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(…)
Io so i cieli scoppianti in lampi e le trombe
E le risacche e le correnti; so la sera,
l’alba esaltata come un popolo di colombe,
e ho visto talvolta ciò che l’uomo credette di vedere
Ho visto il sole basso, maculato di mistici orrori,
illuminare di lunghe coagulazioni violette,
simili ad attori di drammi antichissimi,
i flutti rotolanti lontano i loro brividi d’imposte
(...)
Libero, fumante,
violacee,
io che foravo il cielo
un muro
che porti, confettura
poeti,
licheni di sole e mocci
montato da nebbie
rosseggiante come
squisita per i buoni
d’azzurro
(…)
Ma, davvero, ho troppo pianto. Le albe sono strazianti,
ogni luna è atroce ed ogni sole è amaro.
L’acre amore m’ha gonfiato di torpori inebrianti.
Oh, esploda la mia chiglia! Oh, ch’io m’inabissi nel mare!
(…)
Un battello da carico, rimasto senza equipaggio, racconta la sua deriva, libera da
costrizioni: è l'avventura dei sensi, che deragliano in un'immediata adesione agli
elementi naturali, del pensiero che barcolla fuori dalle coordinate della logica, della
poesia che si frantuma e si ricompone di continuo in un fantasmagorico rutilare di
immagini:
strazianti
albe
brumose,
drammatici
tramonti
ossidrici.
Con
quell'accelerazione bruciante del tempo che fu tipica di Rimbaud, nel poemetto egli
rappresenta la sua stessa vita, il suo bisogno di andare alla ricerca dell’ignoto, la
necessità incombente di immergersi nel mistero universale. La poesia si sviluppa
attraverso immagini che non vogliono esprimere concetti, vertigini del “Veggente”,
13
come egli stesso si dichiarò, immagini allucinate che sviluppano in direzione simbolista
e surrealista, visioni che si condensano nei versi di questa raccolta, pietra miliare nella
storia della poesia moderna.
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marko lalic’ 1°E
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La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir de' tini
Va l'aspro odor de i vini
L'anime a rallegrar.
Gira su' ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l'uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d'uccelli neri,
Com'esuli pensieri,
Nel vespero migrar.
Nella lirica "San
Carducci,
l'atmosfera
giorno di San
l'11 novembre
della Maremma
Questo giorno è
importante per
perché segna la
nei campi e
sventura, cioè
vino dai tini,
messo
a
nelle botti.
All'allegria del
prima parte si
malinconia del
autunnale
nebbia e colto
tramonto della
rossastre nubi".
Martino",
descrive
festosa
del
Martino,
cioè
in
un
borgo
Toscana.
molto
i
contadini
fine della lavoro
l'inizio
della
del travaso del
dove è stato
fermentare,
borgo
della
contrappone la
paesaggio
avvolto
nella
all'ora
del
seconda: "tra le
«La nebbia, sciogliendosi in una leggera pioggerella, risale per le colline rese quasi ispide dalle
piante ormai prive di fogliame e, spinto dal vento freddo di nordovest, il mare rumoreggia
frangendosi sulla scogliera, con onde dalla bianca spuma. Ma per le vie del piccolo paese
contadino si diffonde, dai tini dove fermenta il mosto, l’odore aspro del vino nuovo che rallegra
i cuori. E intanto sulla brace del focolare scoppiettano le gocce di grasso che cadono dallo
spiedo su cui cuoce la cacciagione; e il cacciatore se ne sta sull'uscio a guardare stormi di
uccelli che, a contrasto con le rosse nubi del tramonto, sembrano neri, come quei pensieri che
si vorrebbe mandar via lontano».
15
16
kleodis rami 1°E
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Un bubbolio lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare;
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.
Pascoli presenta un
tramonto: da una
infuocato dal brillare
che cala, e dall'altra
cui
si
stanno
nere nubi di un
mezzo
alla
casolare bianco si
alla luce di un lampo
paesaggio
al
parte
il
mare,
dei raggi del sole
le montagne, su
addensando
le
temporale.
In
campagna
un
distingue
grazie
improvviso.
Il poeta descrive la
sensazioni, che si
dopo l'altra nella
del tuono; il colore
dell'orizzonte; il nero
minacciose
del
mezzo al quale si
nuvola sfilacciata più
bianco del casolare
all'improvviso e che
dall'analogia.
Il
utilizzato fa ricorso
sensazioni,
alle
colpiscono
del lettore: è come
non ci si affida alla
delle figure ma solo
scena attraverso le
susseguono
una
poesia: il rumore
rosso
delle
nuvole
temporale,
in
staglia
qualche
chiara; il colore
che
appare
è
reso
linguaggio
solo
alle
impressioni,
che
l'immaginazione
un quadro, in cui
linea dei contorni
al colore.
17
fabrizio rocca 1°E
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97
7
Dov’era la luna? Ché in cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:,
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava nel cuore un singulto:
chiù…
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…
La lirica rappresenta un’unione esemplare di impressionismo e simbolismo, resa
dall’efficace immagine della luna, che nuota – espandendosi – in un’alba perlacea e
lattiginosa, accesa di tanto in tanto da bagliori di lampi.
Dai campi si diffonde il lugubre singhiozzo dell’assiuolo, che evoca nel poeta, per
analogia, il ricordo della morte.
18
veronica d’agostino 1°E
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03
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Il giorno fu pieno di lampi;
ma
ora verranno
le stelle,
le tacite stelle. Nei
campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei
pioppi
trascorre
una
gioia
leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che
pace, la
sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida
sera.
E', quella infinita tempesta,
finita
in un rivo
canoro.
Dei
fulmini
fragili restano
cirri di porpora e
d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima
sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula
cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
19
In tutta la poesia è forte l’identità, oltre che fonica, lessicale e semantica, per mezzo
della quale il gioco di opposizioni tra il giorno e la sera si snoda come un percorso che
va progressivamente da un livello descrittivo verso una sempre maggiore
interiorizzazione.
Tale scenario si mostra in modo eloquente fin dall’incipit della prima strofa: "Il giorno
fu pieno di lampi; / ma ora verranno le stelle / le tacite stelle". Nei versi successivi
segue la distensione, con l’epanalessi di "stelle / le tacite stelle" e la gioia leggera che,
come una carezza, passa attraverso le foglie tremanti dei pioppi. Nella chiusura
l’opposizione è ripetuta in una serie di
esclamazioni: "Nel giorno, che lampi, che
scoppi! / Che pace, la sera!". La prima
opposizione introduce quella, più estesa, dei
quattro versi che seguono. Essa fa perno
sull’anafora "Di tutto quello ... / di tutta
quell’" e sulla successione di quattro coppie
parallele aggettivo/sostantivo che connotano
i vari elementi entro i quali gioca
l’opposizione: il "tumulto" e la "bufera",
rispettivamente "cupo" e "aspra", termini
che non hanno bisogno di spiegazione per la
loro puntualità, lasciano il posto nell’"umida
sera".
Nella terza strofe si ha il passaggio dal livello
descrittivo
ad
un
primo
livello
di
interiorizzazione. Dopo una nuova, elegante
immagine di fulmini, che si trasformano in
nuvole ("cirri") di porpora e d’oro, ecco per la
prima volta il sintagma, "stanco dolore", che
connota sia lo stato d’animo della
stanchezza, sia quello del dolore, che si
scioglie,
nella
sera
pascoliana,
nella
possibilità del riposo.
La strofe si chiude nel contrasto tra la
"nube... nera”, che ha turbato il giorno e
“quella più rosa", che tinge il cielo dei colori
di porpora e d’oro negli ultimi istanti di
tramonto, quelli in cui il dolore e
l'inquietudine si stemperano e si chetano in
quel canto di culla: la ninna nanna di una
madre al suo bambino.
E' la magia della sera, nel lirismo melanconico dal sapore agrodolce, riscontrabile nel
dolore di vivere, nelle proprie emozioni e negli ovattati richiami dei cari che non ci
sono più.
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alessandro morato 1°E
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Coglierai sul nudo lito,
infinito
di notturna melodia,
il maritimo narcisso
per le tue nuove corone,
tramontando nell'abisso
le Vergilie,
le sorelle oceanine
che ancor piangono per Ia
lacerato dal leone.
Andrem pel lito silenti;
sentiremo la rugiada
lene e pura
piovere dagli occhi lenti
della notte moritura,
tramontando nel pallore
le Vergilie,
le sorelle oceanine
minacciate dalla spada
del feroce cacciatore.
Forse volgerò la faccia
in dietro talvolta io solo
per vedere la tua traccia
luminosa,
e starem muti in ascolto,
tramontando in tema e in
duolo
le Vergilie,
le sorelle oceanine
a cui l'Alba asciuga il volto
col suo bianco vel di sposa.
Alcyone contiene tre belle visioni del sorgere del giorno; si trovano, anche non
propriamente romane, sparse e quasi perdute in poesie che non hanno nell' insieme
vigor di unità. Quest'alba agosto, in cui le parole si fanno più che colore, diventano
una tenue sostanza aerea e luminosa, è in Villa Chigi: come nell'alba prima la luna
d'agosto mancando, pallida, effonde un riso che non fu mal più impalpabile e delicato.
21
veronica d’agostino 1°E
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I miei carmi son prole
delle foreste,
altri dell'onde,
altri delle arene,
altri del Sole,
altri del vento Argeste.
Le mie parole
sono profonde
come la redici
terrene,
altre serene
come i firmamenti,
fervide come le vene
degli adolescenti,
ispide come i dumi,
confuse come i fumi
confusi,
nette come i cristalli
del monte,
tremule come le fronde
del pioppo,
tumide come la narici
dei cavalli
a galoppo,
labili come i profumi
diffusi,
vergini come i calici appena schiusi,
notturne come le rugiade
dei cieli,
funebri come gli asfodeli
dell'Ade,
pieghevoli come i salici
dello stagno,
tenui come i teli
che fra due steli
tesse il ragno.
Nella lirica la parola è legata alle origini, è
dunque in grado di riprodurre l’essenza
delle immagini. L’atmosfera è quella che
caratterizza Alcyone: foreste, mare,
sabbia, sole, vento, in un’aspirazione alla
dimensione “panica” della natura.
22
vladimir shakbazyan 1°E
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Nel suo docile manto e nell’aureola,
Dal seno, fuggitiva,
Deridendo, e pare inviti,
Un fiore di pallida brace
Si toglie e getta, la nubile notte.
È l’ora che disgiunge il primo chiaro
Dall’ultimo tremore.
Del cielo all’orlo, il gorgo lividi apre.
Con dita smeraldine
Ambigui moti tessono
Un lino.
E d’oro le ombre, tacitando alacri
Inconsapevoli sospiri,
I solchi mutano in labili rivi.
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24
nicholas paltrinieri 1°E
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Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge di un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio i fragori del sole
fatto sangue. E’ mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
Non s’ammassano più come frutti, nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.
Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva, c’era un giovane dio
Che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.
Ora pesa
La stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza pena: la calma stanchezza dell’alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.
5
10
15
20
25
__________________________________________________________________________
Interpretazione –
Da giovane dio a uomo: questo l’itinerario di ogni umana creatura; cioè dalle illusioni e dai sogni – che
proiettati sulla realtà la mitizzano – alla consapevolezza, al morto sorriso di chi ha compreso. Dalla
smisurata fiducia che ci fa sentire giovani dei, alla stanchezza che pesa su tutte le membra. E’ un tema
presente nella poesia di tutti i tempi, ma da Pavese rivissuto in questi versi con mirabile novità di accenti,
con straordinaria capacità di trasformare il tessuto logico-meditativo in immagini di stagioni e di sole e di
nubi e di acque. Come gli antichi miti con le vicende di dei ed eroi fornivano una spiegazione ai fenomeni
naturali, così fa Pavese: e così la dolorosa scoperta della realtà, cioè il passaggio dal mito alla storia, dalle
fiducie illimitate del giovane dio al morto sorriso dell’uomo, è descritto in una dimensione da mito
naturale, diventa la montagna che non tocca più il cielo, il gran sole finito, le spiagge oscurate.
Metrica Versi liberi. Poesia antiermetica
Analisi lessicale 3. il sole… remoto: il sole (con tutto ciò che di vitale esso richiama) in quel giorno di scoperta, di
disincanto, sarà lontano e non nella fase meridiana, ma la tramonto.
5. spiagge: luoghi dei sogni del giovane dio.
11.-12. nell’acqua… ciottolo: la limpida trasparenza, (emblema di una condizione d’innocenza, di non
ancora acquisita consapevolezza del limite e del dolore) è solo un ricordo, ormai.
15. libera strada: che non presenta ostacoli a percorrerla, aperta alla libera esplicazione di tutte le
potenzialità del giovane dio.
25
16. Non si… d’estate: “l’età giovanile (l’estate) ignora i limiti spaziali e temporali, non sa nulla di quel
limite supremo che è la morte” (G. Zagarrio - T. Di Salvo)
26
mattia antonelli 1°E
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Tu sei l’alba,
i vestiti
ancora aspersi di rugiada
nel cuore i misteri della notte
e negli occhi luccichii di stelle.
Io sono il tramonto,
foglie secche nell’anima
e negli occhi
rossastri bagliori
di un sole cadente.
Ma dentro sento
tanta voglia d’amare
come se io e te
non fossimo poi
così diversi
in fondo,
soltanto il giorno ci divide.
Alba e tramonto è un libro di poesie dal lirismo struggente, quasi una confessione in versi
dell'anima e dell'essere uomo "in questa fragile barca / in questa foglia al vento / che è la vita".
Scrive Lenio Vallati: "Amo gioire e soffrire / la mia effimera / condizione di uomo. / Amo lottare,
/ anche solo / per un fuscello di sogni." E il canto del poeta si eleva altissimo verso arcobaleni di
speranza. Il tutto nell'arco dell'alba e del tramonto, tra il frusciare delle notti nelle stagioni
dell'esistenza, mentre ali di gabbiani planano sul mare e le cicatrici della vita fanno male fino a
spezzare il cuore.
La poesia del Vallati è un inno che canta la condizione umana con espressione calda, viva,
amorosa, vincolata ad uno stile proprio che, senza vuota declamazione, fa cultura nel vero
senso pieno della parola e si apre ad una visione nuova, sorretta da un'acuta ed estrema
sensibilità indispensabile a far vibrare le corde del sentimento.
Una poesia che sboccia dal profondo dell'animo perché "un foglio bianco è il cuore. Si
cancellano i ricordi con la cimosa del tempo, per scriverci nuove parole con l'inchiostro caldo
dell'amore."
27
nicholas paltrinieri 1°E
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Nello stagno si riflette
un raggio di sole
a dipingere chiaro scuri
sull’umida tela
China ai piedi del greto
miro i cerchi concentrici
di un sasso lanciato
fra gli atomi d’acqua
Malinconia si rifugia
dietro rovi di more
mani vuote lasciano
striate orme a pelo d’acqua
L’orizzonte s’incupisce
nell’incedere del tempo
fino a vestirsi di nero
un’altra notte è scesa
Fra gli argini dell’iride
ribelli i pensieri fuggono
in giogo della corrente
come una barca senza timone
Nell’alta marea delle emozioni
una face asperge l’anima
rimane accese la speranza
fra l’alba e il tramonto.
28
dalia messa 1°E
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Guardo la pioggia scendere
-agitataconfondendo un sospiro
con un alito di vento.
Guardo un fiore sbocciare
-lentoconfondendo il suo semplice profumo
con il tuo.
La vita è confusione
destini intrecciati
strade in salita
etichette sull'anima.
Io ho strappato l'etichetta da me,
per questo non guardo quella degli altri.
Mi confondo e posso sbagliare.
Guardo il sole nel tramonto abbassarsi
-teneramentead abbracciare l'altra terra
che ancora dorme
e risvegliarla
-dolcementecarezzandola, e di nuovo mi confondo
perché penso a te, quando
nel crepuscolo del cuore
sei comparsa al momento del tramonto
come alba festosa.
E lì dimori come un raggio di sole
che ho rubato
perché il mio cuore
non conosca più tramonto
e buio.
Guardo la pioggia scendere:
in ogni goccia sento te
e voglio lasciarmi bagnare
ancora,
sempre,
per confondermi dentro te.
www.poesie
www.poesieracconti.it
29
davide refatti 1°E
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La spada del sole
“…Il riflesso sul mare si forma quando il sole s’abbassa: dall’orizzonte una
macchia abbagliante si spinge fino alla costa, fatta da tanti luccichii che
ondeggiano; tra luccichio e luccichio, l’azzurro opaco del mare incupisce la sua
rete…
E’ l’ora in cui il signor Palomar, uomo tardivo, fa la sua nuotata serale. Entra
nell’acqua, si stacca dalla riva, e il riflesso del sole diventa una spada
scintillante nell’acqua che dall’orizzonte si allunga fino a lui.
Il signor Palomar nuota nella spada o per meglio dire la spada resta sempre
davanti a lui, a ogni sua bracciata si ritrae, e non si lascia mai
raggiungere…Mentre il sole scende verso il tramonto, il riflesso da biancoincandescente si colora d’oro e di rame. E dovunque il signor Palomar si sposti,
30
il vertice di quell’aguzzo triangolo dorato e’ lui; la spada lo segue, indicandolo
come la lancetta dell’orologio che ha per perno il sole…’.
rossella arcaini 1°E
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Pag 14: Le fantasie di una terra calda dagli orizzonti sconfinati, branchi di
animali nelle savane, una fattoria sugli altipiani dove vivevo con la mia
famiglia, cavalvcare all’Alba sulle pianure, accamparmi la nottte sulle rive di un
fiume; dove viveva gente dalla pelle scura che parlava lingue strane che
riuscivo a capire, che era ancora vicina alla natura e ne conosceva i segreti …
piste rosse e polverose nella boscaglia, antichi laghi popolati dai fenicotteri,
ruggiti di leoni nell’oscurità immensa e bufali mugghianti… tramonti d’oro e
fuoco e giraffe, tamburi nella notte…
Pag. 28: il sole mi sembrava alto e luminoso, ma non conoscevo ancora i
tramonti repentini dell’equatore. Molto presto il cielo si sfumò di rosso cupo e
porpora, come se un fuoco immenso fosse stato acceso da una grande mano
sotto il limite dell’orizzonte. Le rare nubi si orlarono d’oro, mentre il sole,
rotondo e arancione come una moneta arroventata, scendeva sempre più in
fretta, e presto scomparve. Ebbi il tempo dio vedere la strana distesa color
indaco dell’Oceano Indiano, piatta come uno specchio e increspata solo intorno
alla barriera corallina. Le palme divennero scure di colpo, i fari delle macchine
si accesero sulla strada asfaltata, e fu notte.
Pag. 144: a Laikipia il mio momento preferito è quello che precede il tramonto,
quando tutto sembra ricoperto di un pulviscolo dorato e una luce soffusa
delinea i profili delle colline. Il verde argenteo dei leleshwa si mescola con il
31
colore scuro e lucente dell’euclea, come in un mezzo punto di sfumati verde
salvia. L’acqua delle dighe riflette il cielo, famiglie d’oche egiziane nuotano
tranquille disegnando increspature nere sulla superficie specchiata e i pellicani
pescano in piccoli gruppi coordinati, come ballerine.
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La protagonista di questo libro è una ragazza: Kuki Gallmann e racconta la sua
storia in prima persona.
Siamo verso la fine della prima guerra mondiale. Il padre di Kuki era in guerra,
mentre lei, insieme a sua madre e sua nonna era rifugiata in campagna nella
casa di suo nonno.
Il padre di Kuki era stato catturato e portato in una sala di torture vicino a
Conegliano. Nessuno uscì vivo da quel posto, tranne lui.
Kuki si appassionò presto della natura, leggendo i libri che suo padre le portava
dal lavoro. Lei leggeva soprattutto libri d’avventura e libri che parlavano
dell’Africa. Per questo dentro di lei crebbe un sogno: quello di andare a vivere
in Africa. Kuki crebbe e al liceo incontrò Mario, tra loro fu amore a prima vista.
Kuki ebbe un figlio da Mario: Emanuele. Quando Emanuele ebbe poco più di
due anni i genitori si separarono.
A Venezia, dove viveva, Kuki era circondata da molti amici tra cui Paolo e sua
moglie Mariangela e Chiara. Un giorno i quattro decisero di lasciare a casa i
bambini piccoli (Mariangela e Paolo avevano due ragazze) per una serata
danzante. In strada era molto buio ed ebbero un incidente: Kuki fu catapultata
fuori dalla macchina e sbalzata nel prato adiacente la strada: si
ruppe un
femore ed una costola. Mariangela morì sul colpo mentre Paolo e Chiara
rimasero quasi illesi. Kuki dovette stare per molto tempo a letto immobile e
quando potè alzarsi dovette affrontare più di un anno di fisioterapie.
Paolo andava speso a trovare Kuki in ospedale e la loro amicizia profonda si
trasformò presto in amore. Anche Paolo era molto appassionato della natura e
del paesaggio africano. Lui era vissuto qualche anno in Kenya e negli ultimi
anni passava parte dell’estate in Africa. Le sue due figlie Livia e Valeria erano
ormai cresciute e vivevano fuori casa.
Un’estate Paolo portò Emanuele e Kuki, ancora invalida, in Kenya. Entrambi se
ne innamorarono immediatamente! L’anno successivo decisero di trasferirsi lì.
Abitarono per un periodo in un albergo a Nairobi e più tardi si stabilirono in un
ranch a Laikipia: Ol Ari Nyiro. Emanuele si affezionò subito a Paolo, lo
considerava il suo migliore amico ed insieme trascorser molte giornate
avventurose: a caccia, a pesca o semplicemente a passeggiare per ammirare lo
stupendo paesaggio africano.
In Kenya Kuki ebbe modo di conoscere molte persone con cui strinse amicizia
molto in fretta: la famiglia Block, Colin (un medico), Mirimuk (un cacciatore e
capo delle guardie del ranch), Simon (il loro cuoco personale) e Luka (un amico
fidato di Paolo).
Per un loro anniversario Paolo regalò a sua moglie un uovo di struzzo
annunciandole che, al suo interno, aveva nascosto un messaggio per lei, lo
avrebbe tenuto appeso sopra il letto. La curiosità di Kuki di aprire quell’uovo
era infinita ma resistette per anni.
Dopo alcuni anni di serena convivenza Kuki rimase incinta. Due mesi dopo
Paolo ebbe un incidente d'auto e morì, fu seppellito nel ranch dove aveva
32
vissuto con Kuki ed Emanuele. Poco prima di morire, Paolo aveva assicurato a
sua moglie che il loro figlio sarebbe stato in qualche modo la sua
reincarnazione e quindi rimasto per sempre accanto a lei.
Nemmeno dopo la sua morte Kuki ebbe il coraggio d aprire quell’uovo, che
rimase lì, chiuso, sopra il letto.
Emanuele divenne così l’uomo di casa e portò avanti il ranch come un vero
adulto nonostante avesse soltanto diciassette anni. La sua passione per i
serpenti e i rettili lo teneva molto occupato e quando in collegio superò gli
esami di latino, biologia, inglese e francese con la lode, gli venne regalato un
raro libro sui serpenti.
Pochi mesi dopo la morte di Paolo nacque Sveva: aveva due bellissimi occhi
azzurri e i capelli biondo-dorato del padre. Kuki assunse una tata: Wanjiru,
bravissima, simpatica e molto affettuosa con la bambina. Sveva crebbe
stupendamente e si affezionò molto al fratellastro Emanuele.
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34
II PARTE:
“GLI ASTRI
NEL MITO”
35
paolo lorenzoni 1°E
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Winajoo, capo degli immortali, viveva sul fondo della laguna. Un giorno prese la
decisione di creare il mondo, cominciando dall'Isola di Rossel, dove decise di
porre la sua dimora poi, scaldando l'aria e l'acqua, con un gran fuoco creò le
nubi, creò poi le altre isole.
Il dio serpente Mbasi, viaggiava nei
dintorni dell'isola con la sua sposa, in
una barca dove aveva collocato il
Sole, la Luna, un maiale, un cane e un
albero secolare, con l'intento di
assegnare ad ognuno di loro un luogo
su cui stabilirsi e prosperare.
Mbasi portò il maiale a nord, e lì lo
lasciò libero, poi portò il cane a sud e
lo lasciò andare, cercò un fertile
terreno per l'albero e ve lo depose,
affidandogli la protezione di quella
terra propizia.
Nel frattempo dal dio serpente e dalla
sua sposa era nato un uovo, da cui
sarebbero nati gli esseri umani.
Ma il sole e la luna si erano conosciuti e
sapevano che Mbasi voleva condurli in
due luoghi opposti, per questo fuggirono.
Mbasi e la sua sposa furono tramutati in
pietre, forse per aver permesso la fuga
del Sole e della Luna, o forse per aver
provocato la loro infelicità.
Un giorno il Sole andò a fare il bagno nell'acqua calda del mare, nel frattempo
la Luna si era immersa nelle acque fredde di un vicino fiume. Winajoo era
consapevole del loro amore e li fece ascendere al cielo entrambi: sarebbero
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stati insieme per l'eternità. Ma ormai il Sole era diventato troppo caldo e la
Luna troppo fredda e la vicinanza dell'uno rendeva la vita insopportabile
all'altra. Il paziente e saggio Winajoo decise allora che l'uno avrebbe percorso
le vie del cielo di giorno e l'altra di notte: sempre vicini, non si sarebbero mai
più incontrati. (Da una leggenda dell'Oceania)
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Gli indiani piedi neri narrano di un povero indiano che viveva di caccia e di
bacche insieme alla moglie e ai due figli. L’uomo sospettava che la donna
andasse ad incontrare un amante. Deciso a scoprire chi fosse, si rese conto che
era un serpente a sonagli. Brucio la tana dell’animale e corse a casa. La donna,
furiosa, lo insegui minacciando di ucciderlo. Il marito le trancio il capo con
un’ascia ma il corpo continuo a braccarlo. Il destino dell’indiano, il Sole, era di
inseguito per sempre dalla moglie decapitata, la luna, decisa a vendicarsi.
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damiano visintin 1°E
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Nella mitologia scintoista giapponese, Izanagi e Izanam, rappresentano gli antenati
originali, la prima coppia. Dopo la morte della moglie, l'inconsolabile Izanagi partì per
la “terra delle tenebre” (Yomotsukuni) nella speranza di riportarla indietro. Non vi
riuscì e sentendosi macchiato da quel ravvicinato incontro con la morte, andò a lavarsi
al mare. Quando Izanagi si lavò il viso, dall'occhio sinistro emerse la dea del Sole,
Amaterasu, e dall'occhio destro il dio della Luna, Tsuki-yomi. Ad Amaterasu venne
asseg
nato il
gover
no del
cielo,
ma tra
i suoi
compit
i vi era
anche
la
tessitu
ra
delle
vesti
delle
sacerd
otesse
shintoi
ste.
Nella
mitolo
gia
Papua si parla di Dudugera. Egli fu concepito in maniera misteriosa. Un giorno sua
madre si trovava in un giardino presso il mare quando vide un grande pesce che si
trastullava nell'acqua bassa. Attratta dallo splendore delle sue squame, entrò in acqua
e si mise a giocare con lui. Il pesce era in realtà un dio. Qualche tempo dopo la gamba
della donna, contro cui esso si era strofinato, cominciò a gonfiarsi e a dolere e, quando
il marito incise il rigonfiamento, ne balzò
fuori un bambino: Dudugera. Crescendo,
l'aggressività di Dudugera incuteva
timore negli altri ragazzi, che avevano
paura di giocare con lui, e suscitava una
tale avversione che venne gravemente
minacciato. La madre, per metterlo al
sicuro, decise allora di inviarlo da suo
padre. Scese dunque al mare e il dio
pesce comparve, prese in bocca suo figlio
e si allontanò verso oriente. Prima di
essere portato via, Dudugera raccomandò
alla madre di rifugiarsi all'ombra di una
grande roccia perché egli stava per
diventare il Sole, flagello dell'umanità.
Sua madre e i suoi parenti seguirono il
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consiglio e dal loro riparo videro il calore del Sole aumentare e distruggere a poco a
poco le piante, gli animali e gli uomini. Mossa a pietà da quello spettacolo, la madre di
Dudugera decise di fare qualcosa. Un mattino, al sorgere del Sole, gli gettò della calce
sul viso: in cielo si formarono così delle nubi che da allora proteggono la Terra
dall'effetto nefasto del calore del Sole.
Nareau, divinità creatrice degli abitanti delle Isole Gilbert, nel Pacifico settentrionale,
all'inizio del tempo era da solo. Così, impastando sabbia e acqua, creò due esseri
primordiali, maschio e femmina. Nareau chiese loro di aggiungere al Creato l'umanità
poi se ne andò in cielo. Sfortunatamente sorse una lite tra i due, che si concluse con
l'uccisione e lo smembramento del componente maschile della coppia. Il suo occhio
destro venne gettato nel cielo d'Oriente e divenne il Sole; l'occhio sinistro fu lanciato
nel cielo d'Occidente e divenne la Luna; il cervello andò a formare le stelle, la carne e
le ossa divennero isole e alberi.
Tra gli Esquimesi si narra una vicenda più gioiosa: due giovani, fratello e sorella, si
rincorrono
per gioco in
cerchio,
sempre più
velocemente
finché
salgono
verso il cielo
e diventano
rispettivame
nte il Sole e
la Luna.
Tra
gli
Aborigeni
australiani il
Sole
era
visto come
una
donna
che
si
svegliava
ogni giorno
nel
suo
accampamento a Est, accendeva un fuoco, e preparava la torcia di corteccia che
avrebbe portato attraverso il cielo. Prima di esporsi, lei amava decorarsi con ocra
rossa e gialla, la quale, essendo una polvere molto fine, veniva dispersa anche sulle
nuvole intorno, colorandole di rosso, l'Alba. Una volta raggiunto l'Ovest, sudata e
sporca per via del lungo cammino, si lavava e rinnovava il trucco, colorando ancora di
giallo e rosso le nuvole nel cielo, il Tramonto. Poi la Donna-Sole cominciava un lungo
viaggio sotterraneo per raggiungere nuovamente il suo campo nell'Est. Durante
questo viaggio sotterraneo il calore della torcia induceva le piante a crescere.
(Tratto da http://ventitre.noblogs.org/post/2007/04/05/il-sole-miti-e-leggende)
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