Raffaello da Firenze a Roma Anna Coliva

Transcript

Raffaello da Firenze a Roma Anna Coliva
Raffaello da Firenze a Roma
Anna Coliva
La mostra vuole esaminare il percorso che conduce Raffaello da Firenze a Roma. Il periodo cioè
che prende l’avvio da un apice di perfezione quale lo Sposalizio della Vergine datato 1504, quando
l’artista aveva ventun anni, e che termina quando tale perfezione umbra dell’emulo del Perugino della
Consegna delle chiavi della cappella Sistina è totalmente trascesa dal valore universale della stanza
della Segnatura.
Questo percorso di maturazione si svolse per la maggior parte a contatto con la cultura fiorentina
ed è delimitabile cronologicamente da due riscontri databili che, nella totale assenza di tracce
documentarie dell’artista negli anni fiorentini, sono da considerare importantissimi.
Il primo è la lettera datata primo ottobre 1504 scritta da Giovanna Feltria della Rovere a Pier
Soderini, governatore di Firenze, per presentare il giovane artista; il secondo è il pagamento per
“pitture nella camera di mezzo” (“La Segnatura”) registrato il 13 gennaio 1509, che attesta Raffaello
già attivo a Roma, dove si era stabilito con tutta probabilità nell’autunno dell’anno precedente.
I capisaldi pittorici tra cui delimitare stilisticamente il nostro campo d’indagine sono due opere
capitali, eseguite entrambe per committenti umbri, le uniche pale sia firmate sia datate dall’artista.
La prima, come si è detto, è lo Sposalizio della Vergine, dipinta per Filippo Albizzini che la
commissionò per la cappella dedicata a San Giuseppe nella chiesa di San Francesco di Città di
Castello; la seconda è la Deposizione per San Francesco al Prato a Perugia, datata 1507 ed eseguita per
la perugina Atalanta Baglioni.
Entrambe le opere possono essere riferite ad analoghe invenzioni compositive o tematiche del
Perugino, che sono rispettivamente lo Sposalizio per l’altare della Beata Vergine Maria e San Giuseppe
nella cappella dell’Anello del duomo di Perugia (1499-1504) e il Compianto di Cristo per la chiesa di
Santa Chiara a Firenze.
Lo Sposalizio della Vergine, al contrario della Deposizione, mantiene integro l’impianto iniziale
peruginesco. Rappresenta anzi il massimo raggiungimento cui poteva ambire il giovane pittore
attraverso l’insegnamento del più anziano maestro, ma ne è, allo stesso tempo, il superamento. Nella
costruzione architettonica e spaziale della pala i problemi della rappresentazione prospettica posti a
Urbino in ambito pierfrancescano o, comunque, nella cultura che aveva generato le “prospettive”
urbinati, si risolvono in una sintesi che è insieme ideale ed empirica. Lo spazio architettonico si
trasforma da paradigma teorico in misura naturale e il tempio sul fondo non è una proiezione
geometrica ma un elemento plastico di cui si percepisce l’ingombro, attorno a cui circola l’aria, capace
di muovere l’atmosfera che compenetra i corpi arrotondandoli nei contorni per meglio avvolgerli.
Quest’opera, dall’alto tono contemplativo, dove regnano l’ordine e l’armonia perfetti, punto di arrivo
della ricerca prospettica umbra e centro-italiana, si pone invece, per Raffaello, come punto di partenza
da cui iniziare il trasferimento della struttura architettonica dall’edificio allo spazio intero dell’azione.
È questa l’opera fondamentale per osservare come la forma a pianta centrale del tempio sia trasferita
sulla disposizione a cerchio delle figure e come l’intera composizione sia improntata a un’unità
classica che permette di superare anche il concetto di prospettiva geometrica, qual era stato
esemplarmente dispiegato nella Consegna della chiavi del Perugino nella cappella Sistina.
Dunque con la conclusione di questo dipinto Raffaello dovette ritenere esaurito il suo apprendistato
umbro e giunto il momento di trasferirsi a Firenze, consapevole delle avanzate ricerche che vi venivano
condotte in campo pittorico. Partì lasciando incompiuta l’opera cui stava lavorando in quel momento,
l’affresco per il monastero di San Severo che fu terminato nel 1521 dal Perugino.
Oltre ai sommi artisti del Quattrocento presenti con opere che erano ancora quanto di più attuale
potesse offrirsi a un giovane talento, in città erano presenti contemporaneamente, dal 1503, Leonardo e
Michelangelo, che avevano già portato a termine prove formidabili.
Leonardo, che prima del suo allontanamento da Firenze, nel 1482, vi aveva lasciata incompiuta
l’Adorazione dei magi e nel 1501 aveva disegnato per i Serviti il primo cartone con la Madonna e
Sant’Anna, al suo ritorno, nel 1503, eseguì in brevissimo tempo tre capisaldi, la Gioconda, la Leda e la
Battaglia di Anghiari, di cui solo la prima è giunta sino a noi. Il cartone della Battaglia di Anghiari fu
terminato nel 1505 e l’anno seguente fu trasferito sulla parete; nello stesso 1506 Leonardo abbandonò
nuovamente Firenze per Milano. Michelangelo aveva appena terminato il Davide (scoperto l’8
settembre 1504) eroico simbolo della libertà repubblicana.
In quel momento i due maestri erano impegnati a eseguire i cartoni a grandezza naturale degli
affreschi per la sala del Maggior Consiglio di palazzo Vecchio, raffiguranti scene di battaglie vittoriose
per i fiorentini che il governatore di Firenze Pier Sederini aveva voluto per celebrare la repubblica.
Il cartone di Leonardo per la Battaglia di Anghiari, iniziato nel 1503, era in via di completamento e
visibile nella sala del Papa in Santa Maria Novella; mentre quello di Michelangelo per la Battaglia di
Cascina, che il maestro approntava nello spedale dei Tintori, appena iniziato, era destinato a rimanere
incompiuto sino al febbraio 1505.
Con la naturale predisposizione all’assimilazione di mezzi espressivi e stilistici e alla loro
immediata rielaborazione, Raffaello seppe trarre da Firenze gli insegnamenti necessari per imporre alla
sua opera la svolta decisiva e lo fece con la prensilità di un giovane ma anche con la consapevolezza di
un artista nel pieno della sua maturità, deciso a competere con i suoi stessi modelli. Già su un disegno
preparatorio per gli affreschi di San Severo compare uno schizzo tratto dalla Battaglia di Anghiari,
eseguito a punta metallica, tecnica grafica nella quale Raffaello eccelse soprattutto negli anni fiorentini.
Questo disegno è la prova che l’artista conobbe precocemente il cartone leonardesco e che l’affresco
per Perugia fu progettato a Firenze.
È in questo momento della carriera pittorica di Raffaello, precisamente nell’ottobre del 1504, che si
colloca la lettera di Giovanna Feltria della Rovere in cui ella intercede per il suo protetto presso Pier
Soderini, probabilmente per ottenere al giovane pittore un buon incarico. Questo documento è molto
importante per collegare a una data precisa il trasferimento di Raffaello a Firenze, che altrimenti
mancherebbe di dati certi.
Si tratta però di una copia da un manoscritto in casa Gaddi trascritto da Bottari nel 1754 il cui
originale, venduto forse alla metà dell’Ottocento, non è mai stato trovato, ragione per la quale si è da
più parti ritenuto che la lettera fosse un’abile manipolazione.
Il suo contenuto appare però perfettamente verosimile, con un alto grado di coerenza rispetto a fatti
sia stilistici sia storici riguardanti Raffaello e ha riscontri oggettivi, come per esempio il maggior
numero di dipinti eseguiti – da quel momento – per committenti fiorentini rispetto a quelli per Perugia;
esattamente come era avvenuto nel precedente trasferimento dell’artista da Città di Castello a Perugia.
In esso si dice: “Sarà lo esibitore di questa [lettera] Raffaele pittore da Urbino, il quale avendo buono
ingegno nel suo esercizio, ha deliberato stare qualche tempo in Fiorenza per imparare. E perché il padre
so che è molto virtuoso ed è mio affezionato, e così il figliolo discreto e gentile giovane, per ogni
rispetto io lo amo sommamente, e desidero che egli venga a buona perfezione; però lo raccomando alla
Signoria Vostra strettamente, quanto più posso, pregandola per amor mio che in ogni sua occorrenza le
piaccia prestargli ogni aiuto e favore”.
L’elemento che ha fatto ritenere il documento un falso storico è la discrepanza fra la data della
missiva e il verbo che in essa è coniugato al presente [“che è molto virtuoso”], facendo ritenere che a
quella data Giovanni Santi fosse ancora vivo, mentre era morto nel 1494. È un passaggio che è stato
variamente interpretato e per il quale sono state date lezioni diverse. Potrebbe essere abbastanza
verosimile pensare a un errore di trascrizione di Bottari o piuttosto a un suo tentativo di scioglimento
del verbo con una interpolazione non del tutto inusuale, come era stato suggerito da Milanesi già nel
1878. Quello che certamente è da escludere è che Bottari abbia potuto fraintendere o peggio,
avvalorare, un documento che la sua enorme perizia filologica facilmente avrebbe riconosciuto per
falso.
Lo scritto comunque non può essere usato per tracciare una netta demarcazione tra il periodo
umbro e quello fiorentino di Raffaello né per far iniziare solo dalla sua datazione la conoscenza dei
fatti artistici fiorentini da parte di un giovane apprendista estraneo al nuovo ambiente.
Il testo della missiva sembrerebbe infatti provare che non si trattava affatto di un apprendista ma di
un artista provvisto di solida reputazione, in rapporto con le maggiori famiglie fiorentine quali i Doni e
i Taddei forse già dai primissimi anni del secolo, come annota Vasari con ricchezza di particolari,
desideroso di cimentarsi in prove impegnative di fronte all’ufficialità cittadina rappresentata al suo più
alto grado da Pier Soderini.
La vera importanza della lettera, che comunque non servì a procurare all’artista alcun lavoro,
consiste alla fine nell’attestare la determinazione di Raffaello di stabilirsi a Firenze in maniera più
stabile rispetto a quanto avvenuto in precedenza, decisione che non doveva precludere alcuna
possibilità di spostamento, come afferma Shearman interpretando in questo senso il contratto per la
pala commissionatagli dalle monache francescane di Santa Maria in Monteluce a Perugia. Stipulato il
12 dicembre 1505, nella clausola riguardante la risoluzione di eventuali dispute il contratto indica otto
diverse sedi processuali, Perugia, Assisi, Gubbio, Roma, Firenze, Urbino, Venezia, che
dimostrerebbero che l’artista aveva in programma numerosi soggiorni di studio o di lavoro fuori da
Firenze. A meno che la clausola non fosse una convenzione comune ai contratti, come la conclusione
della formula stessa sembrerebbe indicare: “et alibi ubique locorum et terarum, et ubi una pars alteram
invenerit ibi conveniri voluerint”.
La lettera di Giovanna Feltria, comunque la si consideri, non può in alcun modo costituire il
termine cronologico prima del quale la presenza anche assidua di Raffaello a Firenze possa essere
messa in discussione. Sono gli elementi oggettivi, vale a dire stilistici, a provare l’intensità della sua
frequentazione con le soluzioni più avanzate della pittura fiorentina dell’ultimo trentennio del
Quattrocento. Il livello di assimilazione che si registra nei disegni giovanili precedenti il 1504 va
valutato non solo in termini di completezza delle conoscenze che vi si trovano ma, come osservò
giustamente Shearman, anche di qualità di tali esperienze: e questa è sorprendente per il livello di
comprensione cui giunge e che presuppone il contatto diretto con gli originali.
I precoci, appassionati studi compiuti da Raffaello su Leonardo e Michelangelo ci sono
testimoniati dai disegni tratti dalla Battaglia di Anghiari, dal cartone per la Leda, dalla Battaglia di
Cascina.
La conoscenza di opere giovanili di Leonardo comportò infatti la trasformazione strutturale della
linea di contorno di Raffaello. È una conoscenza che si rivela già in disegni precoci come quello di
Oxford con una testa di ragazzo e una mano; così come sono ormai assodati i riferimenti a Leonardo, in
particolare all’Adorazione dei Magi, sia nel cartone sia nel disegno per la scena della Partenza di Enea
Silvio Piccolomini per il concilio di Basilea destinato a uno degli affreschi della libreria Piccolomini a
Siena.
La conoscenza dei raggiungimenti fiorentini riguardo allo studio della figura umana, e più
precisamente del nudo maschile, che era il tema di massima riflessione a Firenze, è già nel disegno per
la pala di San Nicolò da Tolentino conservato a Lille, precoce esordio su un soggetto destinato ad
acquistare sempre maggior importanza nell’opera di Raffaello.
Nello stesso tempo, anche sotto tali sollecitazioni, si afferma la forza individuale dell’espressione
raffaellesca nella capacità di sintetizzare in armonia anche le contemporanee ricerche di Michelangelo.
L’esempio del maestro contribuiva a dotare anche la linea dell’urbinate di forza strutturale. La
grandiosa semplificazione che Raffaello è in grado di ottenere nei suoi disegni, a cominciare da quelli
precoci, grazie ai contorni dalle linee semplici, sobrie, spesso fragili, sfrangiate e imprecise, così da
carpire la mobilità dei corpi nello spazio e la loro volubilità atmosferica, si avvale della tradizione
fiorentina del tratteggio parallelo o incrociato. Era una tradizione fortemente segnata dall’uso che ne
avevano fatto Leonardo e Michelangelo per espandere il volume dei corpi e creare vibrazioni
luministiche.
Allo stesso modo Raffaello assimila il genere tipicamente leonardesco dello schizzo
comprendendone le potenzialità di resa del movimento attraverso la sovrapposizione di fasi diverse
dell’elaborazione grafica.
Firenze è per Raffaello il luogo di più intensa sperimentazione di stile, di motivi, di arricchimento
delle molteplici possibilità espressive che pur in un artista dotato di sorprendente velocità di
apprendimento raggiungono una varietà, un’amplificazione di soggetti e di varianti compositive così
ampie, da portare a eccezionali rivolgimenti stilistici che costituivano le affermazioni sorprendenti
della sua formidabile creatività. Si assiste come a un accumulo di motivi, di cui emergono tracce a
volte appena abbozzate nella vasta produzione grafica. Nel periodo fiorentino, con più frequenza che
nel periodo romano, essi sono per composizioni o per progetti spesso non realizzati. A noi ora il
periodo fiorentino risulta come se l’artista avesse accumulato il più possibile di materiale e di idee che
potevano scaturire solo a contatto dei problemi, e delle soluzioni, poste dall’arte fiorentina, per farli
fruttificare più tardi, a Roma.
In particolare sembrano generarsi senza fine sempre nuove idee per il tema della Madonna con il
Bambino che, a parte la coerenza con le richieste della civiltà fiorentina del momento, manifestava
l’interesse per il soggetto dal punto di vista formale. Il problema era l’articolazione di due corpi nello
spazio, animati da moti di tenerezza umana e vivacità infantile nel contrappunto di ritmiche a
intermittenza roteanti e divergenti, che erano tra le più avanzate conquiste di Leonardo e della sua resa
pittorica della voluminosità dei corpi nello spazio atmosferico.
Il soggetto della Madonna con il Bambino era una tradizione diffusa maggiormente nell’Italia
settentrionale, mediata all’artista prima del suo contatto con Firenze e con le interpretazioni che ne
aveva dato Leonardo, piuttosto dal Pinturicchio che dal Perugino.
La frequenza di questo soggetto adatto alla devozione privata poteva derivare da una condizione
oggettiva dell’artista, che ai suoi inizi poté avere più facilmente commissioni di piccole opere piuttosto
che di vaste imprese pubbliche. Senza che in questo agisse una sua particolare volontà di sperimentare
sulla piccola dimensione anziché su quella della pala d’altare. Si può anche ritenere, come è stato
supposto, che questo gli permettesse di non aprire bottega a Firenze e gli garantisse una maggiore
mobilità, qualora l’artista meditasse già la partenza per Roma.
Sono ipotesi pienamente accettabili poiché coerenti con lo svolgimento storico dei fatti attinenti
alla sua biografia. Quel che è certo è che questo permise all’artista di lavorare sul tema di massimo
interesse per lui, lo studio della dinamica dei corpi in movimento, di cui l’azione, quella appresa per
esempio dalla Battaglia di Anghiari, era uno degli aspetti ma non ne esauriva il senso complessivo.
Il tema della Madonna con il Bambino dava a Raffaello la possibilità di unire due figure nello
spazio attraverso il movimento dei gesti e degli sguardi arrivando sempre a giustificare, con l’ineffabile
naturalezza degli atteggiamenti, la causa che dà origine alla “forma” della torsione, che domina le
ricerche formali in questi anni. Partendo dalla staticità delle madonne umbre, dove il contorno serviva a
delineare le figure sulla superficie, Raffaello comincia ad arrotondare i contorni espandendo
dall’interno il volume plastico delle figure e dotandole di una dinamica che le lega le une alle altre
secondo un ritmo scandito da moti sia fisici sia psicologici. Ma nella raggiunta scorrevolezza sensibile,
attribuisce al moto una causa così semplicemente naturale e attinente alla umana natura, da segnare una
posizione del tutto diversa dallo studio leonardesco sul movimento che nella sua universalità cosmica
trascendeva la causa umana e aboliva pertanto il primato gerarchico della figura, immergendola nella
fenomenologia del cosmo. Avveniva così che Leonardo, sia nella rappresentazione sia nell’uso
devozionale dell’immagine, tralasciasse, superandoli in un interesse di conoscenza della natura fisica
dei fenomeni e dunque (scientifica) dell’essenza e della reazione delle materie e dei corpi, quegli ordini
di significazione e quelle gerarchie che erano, al contrario, la ragione sociale dell’espressione artistica
di Raffaello, con tutte le proprie mediazioni e intermedie preoccupazioni, che quest’ultimo proprio in
quegli anni condusse alla più alta e unitaria dignità di ragione, come fosse un’insopprimibile qualità
naturale, tale che tanto il soggetto, tanto la disposizione devota del committente o del riguardante, sono
comunque parte del cerchio umano, serenamente comprensibile e praticabile.
L’interesse a sperimentare il piccolo formato dovette rispondere, in particolare nel periodo tra il
1504 e il 1505, a particolari stimoli culturali, poiché al formato corrisponde un’esecuzione – e a
contenuti – di ricercata eleganza, di finitezza preziosa della superficie, quasi da miniatura, di raffinato
concetto che per l’unica volta in Raffaello tocca la vena profana e cortese: il Sogno del cavaliere le Tre
Grazie (1504-1505). Ma anche il San Giorgio e il drago, che sotto le sembianze religiose cela il tema
cavalleresco per eccellenza. Questa produzione coincide con il periodo che Raffaello passò a più stretto
contatto con la corte urbinate per esaudire le richieste dei duchi che si fecero più insistenti dopo il
1503, quando ripresero il possesso di Urbino.
Questo particolare momento poetico coincide con il momento in cui Raffaello cominciò a eseguire
ritratti, circostanza che è da interpretare anche con la necessità di misurarsi con un genere di successo,
capace di introdurlo presso i più influenti circoli fiorentini.
Dei principali ritratti dipinti a Firenze le fonti però non parlano. Della Gravida, della Muta e della
Dama con liocorno non si conoscono né il committente né la datazione. L’unica eccezione è il dittico
con i ritratti dei coniugi Doni.
La Dama con liocorno rimane un enigma filologico: non è nota l’identità dell’effigiata, ne è incerta
la storia inventariale, che la registra nel 1623 nella collezione Aldobrandini ma con notevoli incertezze
dovute alla differenza di misure, dove però il soggetto è descritto con precisione, “una donna a sedere
con alicorno in faccia”. Essendo questa citazione precedente alla trasformazione dell’effigiata in una
Santa Caterina con la ruota, può fornire un termine post quem per la trasformazione stessa, la quale, dal
momento in cui avvenne, provocò confusione all’interno degli inventari seguenti, che venivano indotti
a confonderla con l’altra Santa Caterina di Raffaello ora a Londra (National Gallery).
Per la prima volta nel 1854, in una descrizione anonima del palazzo, compare un tentativo di
identificazione: l’opera è registrata come “Ritratto di Maddalena Doni Fiorentina”, notazione che si
ripeterà identica fino alla trattazione di Morelli, che ne iniziò la moderna vicenda critica con una
spavalda descrizione: una “giovane donna dalle guance pienotte e dallo sguardo un po’ vuoto, non è
altro che Maddalena Strozzi, compagna del fiorentino Angelo Doni composta sotto le spoglie di una
santa”.
Il riconoscimento inequivocabile della Maddalena Doni nel ritratto riemerso, assieme a quello
dello sposo Agnolo, solo nel 1822, a formare il dittico conservato a Pitti, fece tramontare
definitivamente l’ipotesi morelliana di identificazione, sebbene con un certo rimpianto per alcune
soddisfacenti risposte che tale riconoscimento poteva offrire. La singolare bellezza del dipinto, assieme
all’interpretazione come ritratto nuziale su cui tutti gli studiosi concordano, hanno fatto avvertire la
necessità di una committenza storicamente importante legata a una precisa occasione.
Dunque prima di archiviare definitivamente una questione che, in rapporto all’esemplare di Pitti,
non può avere che prove contrarie, si vuole tentare una via di analisi assolutamente empirica come
quella del confronto fisiognomico tra i due ritratti, che può rilevare più di una somiglianza, al di là di
una diversità che consiste soprattutto in elementi di immediata lettura, il colore di occhi e capelli e la
concretezza dei tratti del volto che nella dama di Pitti ritraggono con grande realismo un’esponente
della ricca borghesia fiorentina di inizio Cinquecento, contraria all’evanescenza sublimata della Dama
con liocorno.
È impossibile negare l’assoluta identità della forma della bocca, del mento, della parte inferiore
delle guance che hanno lo stesso innesto sul collo; oltre che del naso, il quale appare più delicato nella
Dama con liocorno solo per il trasfigurante chiarore e l’idealizzazione formale che pervadono la figura,
ma che è assolutamente identico nel dorso largo, nell’impostazione sulla fronte che allontana gli occhi
ugualmente tondi e dalla fissità un po’ “vuota”, come notava Morelli. Anche la forma della fronte
coincide perfettamente nelle due figure.
Che la somiglianza così marcata di dati fisiognomici non derivi da astratte stilizzazioni ideali è
provato dal fatto che, se si prendono altri ritratti di donna cronologicamente accostabili a questi, la
Gravida o la Muta, si osserva che i caratteri fisici sono completamente differenti. Se non fosse che la
Dama con liocorno ci appare così angelicamente bionda, sembrerebbe di ritrovarla qualche anno dopo,
più matura e opulenta, nel ritratto palatino.
Esiste un altro elemento – sempre nella superficialità della prima immediatezza visiva – che unisce
i due ritratti, ed è l’analogia davvero sorprendente dell’ornamento, lo stupefacente pendente che
inalberano le due dame e che non ha altro confronto, per ostentazione e dimensioni, nella ritrattistica di
Raffaello. Nel ritratto della Galleria Borghese esso costituisce anzi l’elemento più concreto e terrestre
di questa figura angelicata che in un paesaggio evanescente sorregge un animale favoloso.
Ma se ci si volesse addentrare più seriamente in questo percorso si potrebbero rintracciare alcuni
indizi e alcune possibilità.
Il doppio ritratto dei coniugi Doni a Pitti è concordemente considerato un ritratto di nozze, vale a
dire celebrativo degli sposi; ma altrettanto concordemente l’esecuzione, per precisi dati stilistici, viene
spostata a un’epoca leggermente successiva alla data del matrimonio di Agnolo e Maddalena, avvenuto
il 31 gennaio 1504. La datazione è generalmente collocata fra il 1505 e il 1506 o fra il 1506 e il 1507,
mentre Shearman propone addirittura il 1508. E in effetti la Maddalena Doni nel ritratto fiorentino
appare ben più matura dei quindici anni che avrebbe avuto alla data del matrimonio, essendo nata da
Giovanni e Lucrezia Strozzi nel 1489. Età che si addice invece perfettamente alla giovinetta effigiata
con il liocorno.
Secondo la consuetudine fiorentina dell’epoca le opere d’arte e, a maggior ragione, i ritratti delle
spose, venivano commissionati soprattutto in occasione del matrimonio, e una famiglia importante
come era divenuta quella di Agnolo Doni non aveva motivo di sottrarsi alla tradizione. Tanto più che
Agnolo era particolarmente attivo nella committenza artistica, aveva fatto eseguire una preziosissima
decorazione della propria camera nuziale a Morto da Feltre, divenuta un modello per Firenze, oltre ad
avere commissionato a Michelangelo il celeberrimo tondo. Quello che si vorrebbe qui ipotizzare è che
il ritratto di Maddalena Strozzi fatto eseguire in occasione del matrimonio del 1504 sia quello
conservato alla Galleria Borghese, e che solo in un secondo momento, probabilmente in occasione
della nascita a lungo attesa della primogenita, avvenuta nel settembre del 1507; o addirittura di quella
del figlio Francesco, avvenuta nel novembre del 1508, sia stato fatto eseguire il dittico conservato a
Pitti. Le forme della Maddalena Doni si addicono infatti a quelle di una giovane sui vent’anni,
appesantita, ma anche inorgoglita, dalla maternità.
A favore dell’identificazione della Dama con liocorno con la figura storica di Maddalena Strozzi
giocherebbe un’ulteriore coincidenza: la sua famiglia, discendente da Marcello Strozzi, del ramo
collaterale della celebre dinastia fiorentina, risiedeva nel Gonfalone dell’Unicorno del quartiere di
Santa Maria Novella. La scelta dell’unicorno come simbolo di verginità era perfettamente legittimo
come attributo di una promessa sposa ma non così consueto, agli inizi del Cinquecento, come lo era
stato in epoca tardo-gotica in un ambito di cultura cortese. Tant’è vero che l’attributo è divenuto
eponimo del quadro, analogamente a quanto è accaduto all’altrettanto stravagante ermellino della
Cecilia Gallerani di Leonardo. Come attributo della sposa era più consueto scegliere il cane, simbolo di
fedeltà. E in effetti Raffaello aveva dipinto un cane, cui fu sovrapposta solo in un secondo momento
l’animatissima figura del liocorno, come ben testimoniano le radiografie. Il motivo di tale mutamento
in corso d’opera non è mai stato spiegato e si potrebbe ipotizzare che fosse stato frutto di una notazione
emersa in un secondo momento per meglio connotare la precisa appartenenza della sposa alla famiglia
di quella contrada, e conferirle nome e cognome come in una celebrazione araldica del potere civico.
La fanciulla ha inoltre i capelli sciolti sulle spalle come si addiceva alla sua condizione di
giovinetta, mentre la donna del ritratto Doni ha i capelli raccolti in un “coazzone” come richiedeva il
suo stato di maritata. Quindi il dipinto fu concepito per una donna già moglie e non per una fanciulla
promessa. Non ultimo è da considerare il particolare del pendente che, pur corrispondendo nella scelta
delle pietre alla correttezza iconografica della connotazione della sposa (il rubino che conferisce forza,
lo smeraldo dai poteri taumaturgici e connessi alla castità, lo zaffiro simbolo di purezza e la perla,
allusiva anch’essa alla purezza e che veniva donata alle spose), ha una sua forte personalità e
concretezza visiva, è “un gioiello stupefacente”, che si configura, più che come attributo simbolico,
come indicazione di un’appartenenza concreta, un’identità precisa dell’effigiata. Quale si avrebbe, per
esempio, se fossero entrambi doni di Agnolo, di cui erano note la passione per i gioielli e la collezione
di gemme. Le due perle scaramazze a forma di pera erano poi, anche all’epoca, rarissime e di enorme
valore, e non potevano costituire dei generici attributi. Se si considera che nessuno dei ritratti femminili
di Raffaello ha un gioiello definibile, così come lo sono questi pendenti, di “esagerate proporzioni”;
che, pur nella diversità della forma dei castoni essi si assomigliano, si potrebbe dire,
“concettualmente”, attengono cioè a una stessa categoria, per il gusto estremamente ricercato ma anche
esibito, nonostante le regole imposte a Firenze dalle leggi suntuarie; che sul castone del pendente della
Maddalena Doni, come legatura in oro, compare il liocorno; tutto ciò fa concludere che non si tratta
che di indizi, che nessuno degli elementi qui citati può in alcun modo costituire di per sé una prova che
si tratti in entrambi i casi di Maddalena Strozzi. Ma se li consideriamo tutti assieme possono costituire
quanto meno una possibilità. Seguendo le implicazioni di tale possibilità ipotetica, la Dama con
liocorno della Galleria Borghese dovrebbe datarsi al 1504, al massimo agli inizi del 1505 considerando
che esiste sempre un lasso di tempo non facilmente quantificabile tra la commissione di un dipinto e la
sua consegna, la quale verrebbe dunque a cadere nel periodo in cui Raffaello è soprattutto
documentabile alla corte di Urbino.
La Dama con liocorno è dipinta come pura sostanza di luce, risalta per la sua luminosità espansa.
La materia sottile e trasparente di cui è costituita contrasta fortemente con quella dei ritratti del 15061507, cui si vorrebbe accostare, dove invece il colore dai toni cromatici forti e contrapposti è ben
iscritto in ampie superfici e non è dissolto dalla luminosità.
Le uniche opere che le si possono accostare sono i piccoli quadri che Raffaello eseguì per la corte
di Urbino, il Sogno del cavaliere e ancor più San Giorgio e il drago del Louvre, dove la testa del
cavallo è dipinta esattamente come l’unicorno ed è costituita della stessa sostanza materica, della stessa
tavolozza pallida, da un’analoga preparazione della tavola molto liscia e accurata, dalla stessa sottile
superficie pittorica. Qui il colore e la luce hanno la capacità di definirsi plasticamente e le figure
cominciano a nascere dall’interno e poi a espandersi, il chiarore che in queste opere domina e si
diffonde come una sorta di sostanza ideale ha poco in comune con l’addensamento tonale e materico
con cui sono campite, per esempio, le figure dei coniugi Doni. L’identità di scelta coloristica e di
stesura pittorica si riscontra anche nel confronto tra i paesaggi su cui si impostano il drago che lotta con
san Giorgio e la dama con l’unicorno; mentre nel Ritratto di Maddalena Doni di Pitti si percepisce
molto fortemente la maturazione in quel momento in atto attraverso la Deposizione Borghese, con cui
condivide la densità pittorica e la scelta coloristica.
Gli elementi che accomunano il San Giorgio del Louvre e di Washington, il Sogno del cavaliere e
la Dama con liocorno erano ben intonati al clima fatto di raffinatezze cortesi, di preziosità pittorica, di
ricercatezza nella scelta dei soggetti, che dominava la corte urbinate a partire soprattutto dal 1503 e
negli anni in cui Raffaello la frequentò più a lungo; e dove nel 1506 si trovavano assieme Castiglione e
Bembo. Non a caso nascono questi soggetti, unici nella vicenda pittorica di Raffaello: il liocorno, il
drago e il san Giorgio, l’allegoria profana, l’unica da lui dipinta, del cavaliere dormiente. Tutte queste
circostanze rinviavano alle figure ideali e favolose, ai riti e ai costumi di cui ci parla la letteratura
cortese cavalleresca, con i suoi animali favolosi, con i bestiari medievali, con la miniatura tardo-gotica.
L’intento anche stilisticamente araldico di rappresentazione di ritualità cortese è rivelato nei volti calmi
e perfettamente privi di espressione dei due san Giorgio, in cui Raffaello si discosta dalla naturalezza
espressiva che aveva già ben sperimentato e che, al contrario, sopravvive nei disegni preparatori, in cui
le figure compaiono a bocca aperta e con espressione più eccitata.
La Dama e le piccole tavolette eseguite per i Montefeltro si avvertono come una parentesi di
sofisticata stilizzazione nell’opera di Raffaello, mai più ripetute, ben diverse dai ritratti borghesi
fiorentini, che manifestano una differente, “energica volontà di esistere”. Sono tutte opere ben
collocabili fra il 1504 e il 1505, cui ora si vorrebbe aggiungere il ritratto Borghese.
D’altra parte un ambiente così intriso di umori letterari avrebbe potuto indurre a celebrare la ritratta
con le forme angelicate e immersa nell’atmosfera favolosa della Dama con liocorno, rendendola
antitetica rispetto al realismo ritrattistico della Maddalena Doni, ma anche agli sfumanti chiaroscuri di
Leonardo. Questo non rappresenterebbe inoltre l’unico caso, nell’opera di Raffaello, di trasformazione
idealizzata dell’effigiato. Già il ritratto di Giovane con la mela degli Uffizi, identificato con Francesco
Maria della Rovere erede del ducato di Urbino, eseguito anch’esso nella piena atmosfera della corte
urbinate intorno al 1504, poco prima della Dama con liocorno secondo la nostra ipotesi di datazione,
mostra sembianze del tutto diverse da quelle dello stesso Francesco Maria della Rovere che compare
ritratto due volte nella stanza della Segnatura, con lunghi capelli biondi e fattezze angelicate.
Il confronto tra i disegni preparatori per il San Giorgio e per la Dama con liocorno entrambi
eseguiti a penna, confermerebbe la vicinanza stilistica e cronologica fra le due opere. I disegni, come i
dipinti, documentano l’elaborazione di elementi tutti desunti da Leonardo, che nella fase grafica, per
quello che riguarda il San Giorgio, sono addirittura più accentuati rispetto alla trasposizione pittorica,
come dimostra la coda del cavallo poi eliminata nel dipinto, la cui spirale in movimento, nel foglio
degli Uffizi, bene coglie il dinamico turbinio leonardesco.
Il disegno con il ritratto di giovane donna del Louvre, in stretta relazione con la Dama con
liocorno, è considerato la prova più evidente dell’interesse di Raffaello per la ritrattistica di Leonardo.
La realizzazione pittorica in genere riconosciuta nel ritratto della Galleria Borghese si differenzia dal
disegno proprio per gli elementi più caratterizzanti l’individualità del personaggio, quali i tratti del
volto, l’acconciatura che nel disegno riproduce più esattamente quella della Gioconda, così come la
posa delle mani, che nel dipinto si devono scomporre per sorreggere l’attributo, il liocorno. Il tentativo
più riuscito da parte di Raffaello di cogliere il singolare, impercettibile atteggiamento fisiognomico
della Gioconda è piuttosto nel disegno con Ritratto di fanciulla conservato a Lille.
In Raffaello l’individualità dei tratti caratterizzati dalle guance e dal mento pingui, dal dorso largo
del naso, dall’occhio rotondo e un po’ vacuo, trasformano lo studio di un modello, quale è il disegno,
nel ritratto di una persona concreta, come era richiesto nella Firenze mercantile e borghese dei primi
anni del Cinquecento. La traduzione in pittura avviene però sotto l’influenza di una cultura
completamente diversa, quella squisitamente rarefatta della corte di Urbino, dove la luminosità di una
dimensione incantata e favolistica diviene corpo plastico e cromatico con chiarezza e trasparenza
interne, intriso di luce innaturale, lontana dalle atmosferiche immersioni paesaggistiche di Leonardo.
Per ottenere già nel 1504 la commissione del ritratto da parte di un’importante famiglia fiorentina,
Raffaelo doveva essere bene introdotto nella città.
Da quanto di lui si conosce sino al 1508, emerge con chiarezza la frequenza degli spostamenti.
Anche dopo il 1504, quando risulta più stabilmente a Firenze, la sua presenza in città non sembra
affatto più costante, egli continua a lavorare nella stessa misura per Firenze e per Perugia; dunque si
può per lo meno ipotizzare che lavorasse per Firenze anche stando a Perugia. Shearman immagina
addirittura che già al momento di stipulare il contratto per Monteluce, il 12 dicembre del 1505,
Raffaello non avesse più bottega a Perugia, poiché in una clausola si parla di un trasporto che non
sarebbe stato a suo carico (“excepto la gabella la quale sieno tenuti pagare et le vecture”), segno che
l’opera non viene fatta a Perugia, ma doveva esservi trasportata; pertanto lo studioso ritiene molto
verosimile che la sua bottega fosse proprio a Firenze. L’ipotesi che Raffaello alla fine del 1505 non
disponesse di una propria bottega a Perugia fa ritenere che neppure la pala Ansidei, commissionata tra
il 1504 e il 1505, fosse stata eseguita nella città perugina cui era destinata.
Un’assidua frequentazione fiorentina dell’artista ancora adolescente, ben prima dunque della
presentazione fattagli da Giovanna Feltria, è probabile già dalla fine dell’ultimo decennio del
Quattrocento, quando egli si muoveva al seguito del Perugino, se si considera che il maestro aveva qui
casa e bottega attiva dal 1493; ed è addirittura certa se si esaminano i primi disegni, che registrano le
ricerche più avanzate dell’arte fiorentina sino alle opere di Leonardo, con un grado di comprensione
tale da richiedere un contatto diretto e frequente, non una mediazione occasionale tramite il Perugino.
E se la frequentazione della città esistette, le innate doti di aperta comunicativa di Raffaello non
dovettero mancare di mettere velocemente a frutto le relazioni. D’altra parte è quanto riferisce
dettagliatamente Vasari, che ci fornisce anche un’ipotesi cronologica in cui collocare l’inizio di tali
relazioni. La prima, e più importante, è quella con Taddeo Taddei, dal quale “fu molto onorato”, forse
per i suoi legami con la corte urbinate, come ha ben dimostrato Cecchi, e che “lo volle sempre in casa
sua e alla sua tavola”, finché Raffaello, “che era la gentilezza stessa […] gli fece due quadri che
tengono della maniera prima di Pietro, e dell’altra che poi studiando apprese molto migliore”.
Dunque il rapporto stretto con Taddeo Taddei, e di conseguenza con le principali famiglie
fiorentine, che erano tutte imparentate tra loro, tra le quali i Doni, deve risalire a prima del
cambiamento stilistico che appare così evidente a Vasari. Se per Taddeo Taddei egli eseguì un quadro
che tiene “della maniera prima di Pietro”, esso doveva risalire a prima della Madonna Connestabile
(1503-1504) e della Madonna Terranuova (1504-1505), che segnano nettamente il cambiamento. È
stato ipotizzato che fosse proprio la Madonna Terranuova la prima delle opere citate da Vasari, ma essa
non avrebbe mai potuto essere definita “peruginesca” dallo storico, data l’attenzione critica con cui egli
legge tutta l’opera di Raffaello. I caratteri perugineschi infatti sono in essa nettamente superati sia da
Leonardo che da Michelangelo.
Vasari, che aveva appena individuato la linea di demarcazione con lo stile del Perugino nel
Matrimonio della Vergine, dove “espressamente si conosce l’augumento della virtù di Raffaello venire
con finezza assottigliando e passando la maniera di Pietro”, non avrebbe potuto non rilevare lo scarto
stilistico che collocava la Madonna Terranuova, in base alla sua stessa catalogazione, sul secondo
versante, con il “superamento” già avvenuto; pertanto si potrebbe pensare, per Taddei, a un’opera più
prossima a modelli stilistici rappresentati dalla Madonna Solly o da quella di Pasadena.
Contemporaneamente a quanto avviene nei ritratti, con la Madonna del granduca (1505-1506)
Raffaello segna un’importante svolta nello studio della figura monumentale attraverso il tema della
Madonna con il Bambino, mentre nella Madonna Terranuova, databile al 1505, per la prima volta,
dopo la lunga sperimentazione del tema compositivo a due figure, se ne inserisce una terza, il san
Giovannino. L’aggiunta di un terzo personaggio e, subito dopo, l’impianto monumentale conferito alla
Vergine dalla resa a figura intera, costituirono il raggiungimento ormai maturo di quell’inscindibile
unità che forma i primi nuclei plastici delle tre madonne fiorentine, la Madonna del cardellino (1505),
la Madonna del prato (1505-1506), la Belle Jardinière (1508).
L’introduzione del san Giovannino accanto al Bambino Gesù allarga la base su cui è impostata la
composizione, che ha il suo vertice alla sommità del capo della Vergine, dando origine a quella forma
piramidale di ispirazione leonardesca che costituisce un primo fondamentale nucleo plastico saldo nello
spazio. Attorno ad esso verranno man mano ad aggregarsi altre figure, per prima quella del san
Giuseppe nella Sacra Famiglia con l’agnello del Prado (1507), infine il san Giuseppe e la sant’Anna,
che portano a cinque il numero delle figure nella Sacra Famiglia Canigiani (1507) dando vita al gruppo
più complesso e articolato della serie, dotato di interazione compiutamente organica tra le figure, in
grado di generare una compenetrazione animata nello spazio atta a eguagliare il modello leonardesco.
Il movimento non deriva solo da una causa dinamica del soggetto rappresentato, ma è originato da
una serie di moti e reazioni mosse da un profondo sentimento di commozione; i pieni di una forma si
adagiano nei vuoti dell’altra con un fluire continuo e cedevole che non trova ostacoli, come in un
respiro della natura. Il mezzo tecnico che permette a Raffaello di realizzare una così naturale
compenetrazione è l’andamento curvilineo del segno, che tende a chiudersi armonicamente su se
stesso, come mostrano con maggiore evidenza i disegni, in cui la linea termina a volte con una specie
di riccio, o di occhiello, come nella grafica di tradizione quattrocentesca e tardo-gotica, che era stata
ormai superata dalla grafia di Michelangelo.
Le forme sempre più morbide e arrotondate di queste compenetrazioni compositive trasmettono
un’intensità emotiva resa anche attraverso la luminosità che emana dalle figure e si diffonde all’esterno
amalgamandole in un nucleo unitario e accentuandone il movimento. Questi nuclei compositivi, uniti e
contrapposti a masse d’intensità luminosa variabile entro una spazialità di monumentale classicità
“aristotelica”, andranno a comporre le complesse figurazioni delle Stanze.
L’intensificazione degli sguardi pensosi dei personaggi rende l’umanità del sacro evidente nelle
cose, semplice come un sentimento spontaneo, lega ancor più le figure tra loro creando un impatto che
fa vibrare il campo d’azione, cosicché sembra che l’emozione si riversi nello spazio e che il movimento
venga generato da essa.
La struttura compositiva delle grandi Madonne fiorentine è sempre stata individuata nella forma
piramidale di ascendenza leonardesca. Se si considera però come le forme, arrotondate, sembrino
generare all’intorno un moto circolare che ha il proprio centro all’interno della figura stessa; o come la
loro forma espansa riceva un chiarore che poi si diffonde nello spazio circostante creando una sorta di
rotazione aumentata dai profili sfumati, mai netti ma tratteggiati con chiaroscuri vibranti, o ancora,
come esse appaiano ruotare attorno a un perno, allora l’insieme di questi elementi fa sì che le Madonne
dalla volumetria vasta ed espansa debbano essere assimilate, piuttosto che a geometrie piramidali, a
cupole in grado di ruotare lentamente intorno al proprio asse sino a coinvolgere nel loro moto
l’universo che le circonda.
È stato detto riguardo agli affreschi delle Stanze che “Raffaello per primo fa percepire il cielo
come una volta, una cupola che racchiude tutte le cose”. Per giungere a questo risultato Raffaello fece
lenti passi di avvicinamento e sebbene il suo percorso sembri lineare, egli procedette a segmenti
problematici faticosamente sviscerati e risolti uno a uno. Nelle Madonne fiorentine egli portò a termine
uno di essi, quello del concetto architettonico e spaziale della cupola in quanto semisfera che racchiude
una porzione di spazio. Compie così il passo necessario per poter giungere all’apparizione epifanica
della Disputa, la cui perfetta armonia è racchiusa in una cupola amplificata, la volta celeste.
Nell’ultima delle tre Madonne a figura intera compenetrate del Bambino e del san Giovannino e
isolate nello spazio, nella più perfetta di esse, la Belle Jardinière, si arriva all’esito finale di una
composizione che acquista una forma a semisfera attraverso il succedersi delle curve, da quella
avvolgente delle spalle a quella del manto, fino al suo ripercuotersi nella centinatura della tavola. Il
continuo rimandarsi di forme sferiche permette una diffusione uniforme della luce e conferisce chiarore
espanso ai volumi. La forma geometrica della sfera costituisce la figura stessa e ne dà la struttura come
se, nel percorso che divide queste opere dallo Sposalizio della Vergine, che rappresentò il maggiore
risultato nell’ambito di uno spazio e di un edificio costruiti in prospettiva architettonica, l’architettura
fosse passata dall’esterno delle figure, come motore del loro rappresentarsi, al loro interno e ne
determinasse il movimento.
Il concetto compositivo di circonferenza sferica ruotante intorno al proprio asse ha il suo punto di
arrivo, riguardo al tema della Madonna con il Bambino e san Giovannino, nella Madonna d’Alba, che è
inserita in un profilo circolare come fosse la sezione di una cupola: questa viene ribadita dalla rotondità
della tavola. L’asse di rotazione è posto al centro della Vergine e attorno ad esso le tre figure ruotano
prendendo la spinta dal piede avanzato di Maria e si avvolgono da destra verso sinistra come indica
l’inclinazione aerodinamica dei corpi e l’intersecarsi delle linee di profilo fattesi quasi ellittiche sotto la
pressione del movimento di questo piccolo cosmo rotante.
L’epicentro del corpo individuale delle figure come punto di partenza del movimento è il motivo
individuato da Oberhuber come determinante per l’avvio della fase più complessa dell’artista, quella
del passaggio da una figurazione statica a una raffigurazione del movimento e, di conseguenza, da una
rappresentazione contemplativa, sacra, alla rappresentazione “storica” dove è raffigurata l’azione del
dramma. Il concetto di historia, definito come genere figurativo da Leon Battista Alberti, implicava
caratteristiche che attenevano al modo della rappresentazione e non al suo contenuto.
Questa trasformazione avvenne con un’elaborazione faticosa e incessante e fu messa in atto nella
serie di studi che portarono dallo scioglimento della composizione statica, tradizionale, di un
Compianto del Cristo morto che costituiva il punto da cui prese le mosse Raffaello, in un fatto
dinamico con un percorso narrativo di cui sono descritti il punto di partenza e quello di arrivo
attraverso il movimento dei corpi e degli animi e che approda nella trasformazione della Deposizione
Borghese. Quest’opera, “la più grande e la più bella tra le pale d’altare che l’hanno preceduta”, è anche
la più complessa composizione eseguita da Raffaello prima delle Stanze, la prima rappresentazione in
forma di pala d’altare che mostri il corpo di Cristo trasportato alla tomba, soggetto riservato sinora alle
predelle o agli affreschi.
Il movimento complessivo parte dall’interno di ciascuno dei corpi, dal loro epicentro, che non è più
quello della composizione81, coincidente cioè con il punto di fuga prospettico; il movimento ha origine
dall’interno, “non soltanto nella rappresentazione di una figura dignitosamente in piedi, ma anche in
quella di chi porta un carico”.
La Deposizione Borghese costituisce il superamento della tradizione della pala d’altare dal punto
di vista contenutistico, in quanto contraddice la funzione di statico oggetto di contemplazione per il
riguardante, mettendo in atto una serie di modifiche che rivestono anche il piano strutturale. Per
esempio vi si aboliscono gli elementi costruttivi che conducono al punto di fuga prospettico.
Alla costruzione della pala d’altare mancano gli elementi laterali sia intesi come tavole autonome
sia come figure poste ai lati dell’immagine centrale con il compito di guidare lo sguardo verso il fulcro
prospettico in cui era collocato l’oggetto della contemplazione. Nel caso della Deposizione l’insieme è
un’ancona composita, ma molto semplificata, costituita da un’unica tavola centrale, da una cimasa
rettangolare con il Dio Padre benedicente posto di tre quarti, da una predella a figure stanti, isolate e
monocrome, senza funzione narrativa, contrariamente a quanto implicava la tradizione figurativa delle
predelle. Le tre parti hanno una spazialità autonoma e comunque diversa da quella della tavola centrale,
cosicché non si ricostruisce l’unità spaziale dell’intero polittico attraverso articolazioni prospettiche
unificanti, come avveniva in opere di poco precedenti come la pala Colonna o la pala Ansidei.
Dunque mancarono alla pala gli artifici di spazialità illusionistica atti a collegarla con il mondo
reale dello spettatore, cosicché il grande pannello centrale si apriva come una finestra, delimitato solo
dalla cornice, come un “grande quadro incorniciato dispendiosamente”.
La precoce rimozione del dipinto della cappella, il successivo trafugamento un secolo esatto dopo
la sua collocazione, così come il completo rifacimento dell’interno della chiesa che comportò lo
spostamento di tutti gli altari, non giovarono alla chiara comprensione della soluzione compositiva che
Raffaello intendeva dare all’insieme della pala.
L’opera nota come Deposizione, ma che rappresenta più precisamente il “Trasporto di Cristo al
sepolcro”, fu commissionata a Raffaello da Atalanta Baglioni, secondo quanto riferito da Vasari nella
lunga trattazione che dedica al dipinto e da cui è derivata tutta la storiografia successiva, senza che
però sia mai emersa alcuna prova documentaria a sostegno di tale tradizione. La quale però non è mai
neppure stata smentita; al contrario, documenti indiretti sono coerenti con quanto riportato da Vasari,
rinforzando molto la veridicità della tradizione.
Dice Vasari che “lo pregò Madonna Atalanta Baglioni che egli volesse farle per la sua cappella
nella chiesa di San Francesco una tavola”; e qualche pagina dopo: “In San Francesco [a Perugia] finì
l’opera della già detta Madonna Atalanta Baglioni, della quale aveva fatto, come si è detto, il cartone in
Firenze”. Pochi anni più tardi, nel 1507-1508 circa, in una missiva indirizzata all’amico e collaboratore
Domenico Alfani (“Menecho”) rimasto a Perugia, Raffaello lo pregò di sollecitare “madonna le
Atalante” di saldargli il quadro, che non può che essere la Deposizione, confermandone così la
committenza.
Fu Vasari stesso a focalizzare l’esegesi della pala sulla qualità di appropriata rappresentazione e
sulla sua pertinenza nel rappresentare “il dolore che hanno i più stretti ed amorevoli parenti nel riporre
il corpo d’alcuna più cara persona, nella quale veramente consiste il bene, l’onore, e l’utile di tutta una
famiglia”.
Soltanto nell’Ottocento, per merito di Burckhardt, che si era ispirato a una cronaca dell’epoca, si
affermò pienamente la leggenda che l’opera fosse stata richiesta da Atalanta per ricordare l’uccisione
del figlio Grifonetto, avvenuta nel luglio del 1500 nel corso di una sanguinosa faida familiare. Ma è
un’ipotesi che si confaceva piuttosto al pathos romantico e letterario di gusto ottocentesco e poté
forzare la realtà dei fatti, considerato che forse Grifonetto non fu neppure sepolto nella cappella, o che
comunque la consuetudine delle cappelle sepolcrali voleva che fossero aperte estesamente ai membri
della famiglia. Questa cappella in ogni caso fu acquistata nel 1499, dunque prima dei fatti che
portarono alla morte di Grifonetto, pertanto si indebolisce l’ipotesi che vi si volesse commemorare un
fatto di cronaca, seppure legato alla famiglia; di conseguenza anche l’intervento decisivo e diretto della
committente nel mutamento compositivo della scena di passione diviene più opinabile, dal momento
che comunque il soggetto rimase perfettamente appropriato a un altare sepolcrale per la famiglia
Baglioni. La chiesa di San Francesco al Prato ospitava già, di Raffaello, l’Incoronazione della Vergine
nella cappella funeraria degli Oddi. La coincidenza della presenza delle due pale d’altare di Raffaello
nella stessa chiesa (che era però, va ricordato, la chiesa preferita dalle maggiori famiglie perugine per
le proprie cappelle funerarie) ha fatto ipotizzare che il tema potesse essere stato scelto per creare un
legame contenutistico fra le due. Ma la figura della Vergine nel Trasporto ha una parte troppo defilata
rispetto a quella che riveste nell’Incoronazione per costituire il culmine del fatto narrato, come
presupporrebbe una sequenza celebrativa delle Storie della Vergine.
Considerata l’importanza dell’opera, la documentazione appare comunque scarsa e di carattere
principalmente deduttivo, mentre la mancanza di un contratto non consente di precisare con esattezza
la data d’inizio del lavoro né di avanzare ipotesi sul ruolo del committente, che sicuramente dovette
intervenire nella scelta del soggetto; ma questo non significa che ci fu un ulteriore intervento nel modo
di rappresentare iconograficamente e, ancor più, compositivamente, tale soggetto.
Fortunatamente sopravvive un ingente numero di disegni preparatori dell’opera – secondo solo a
quello di studi per la Disputa – tutti databili, secondo il parere concorde degli studiosi, tra il 1506 e il
1507, i quali permettono di fissare con buona approssimazione al 1505 il momento dell’allocazione
della pala a Raffaello, allorché l’artista si trovava a Perugia per dipingere la pala Ansidei, avallando
pienamente il racconto vasariano. L’insieme delle elaborazioni grafiche testimonia quanto il lavoro
dell’artista sia stato lungo e laborioso, e dà significato cogente alla frase di Vasari che annota come
Raffaello, ritornato da Perugia a Firenze attendendo “con incredibile fatica gli studi dell’arte, fece il
cartone per la detta cappella”.
Il cartone citato da Vasari è andato perduto, così come non ci sono pervenuti gli schizzi per le idee
compositive iniziali, cosicché il primo disegno riferibile alla Deposizione Baglioni è considerato da
alcuni studiosi il Compianto sul Cristo morto conservato all’Ashmolean (cat. 24), di cui è considerato
preparatorio, per il gruppo di figure sulla destra, uno studio di nudi che ha sul verso lo schizzo per il
corpo del Cristo, della stessa raccolta. Per altri è invece da ritenersi precedente il foglio del museo del
Louvre, perfettamente rifinito come un disegno di presentazione. Reputerei piuttosto convincente
questa seconda ipotesi e molto opportuno riconsiderarla. Innanzi tutto in questo disegno si percepisce
una derivazione più esatta dal Compianto del Perugino ora a Pitti, verso cui l’adesione compositiva, ma
ancor più contenutistica, è totale, essendovi rappresentata una pura opera di contemplazione, in cui si
fondono l’iconografia del Compianto e quella dell’Adorazione. Lo dimostra anche il gesto delle mani
dell’uomo con il turbante in alto a sinistra, che mutua lo stesso atteggiamento con cui è raffigurata dal
Perugino la Maddalena al centro, completamente immobile e placata intorno al dramma. Solo nel gesto
della Maddalena che sostiene la gamba abbandonata di Cristo con il braccio sinistro questo primo
disegno si differenzia marcatamente dal Compianto del Perugino. Questo gesto, come mi fa notare
Sylvia Ferino, coincide con quello già sperimentato da Raffaello in un disegno molto precoce che
parrebbe in stretta connessione con la Pietà nella predella già parte della pala Colonna e ora a Boston.
Il collegamento con un disegno così antico, così come il riutilizzo di un motivo del proprio repertorio,
potrebbe avallare l’ipotesi che quella di Parigi sia veramente la prima idea maturata dall’artista.
Nel foglio di Oxford al contrario si comincia a scorgere qualche azione, sia di tipo emotivo, con
l’intensità espressiva con cui vi si descrive il pathos della Vergine, sia fisico: il gruppo di destra si
consulta con lo sguardo in modo appena più trafelato rispetto all’immota meditazione del san Giovanni
nel foglio del Louvre, così come la pia donna a sinistra della Vergine fa percepire l’arresto seguito
all’accorrere, mentre la Maddalena giunge le mani protendendosi. Si avverte qui come un
impercettibile avvicinamento verso la narrazione di un’azione e, di pari passo, il primo allontanamento
dalla formulazione integralmente contemplativa che discendeva dal Perugino. La derivazione diretta da
un modello non presentava particolari esigenze di modifiche compositive: si spiegherebbe così perché
il disegno di Parigi si presenti subito come un esemplare finito senza bisogno di prove e schizzi; che
cominciano ad essere numerosi, invece, proprio a partire dal Compianto di Oxford. Si vorrebbe cioè
affermare che la trasformazione dal modello statico e contemplativo in quello dinamico e narrativo
comincia ad avvertirsi a partire da quest’ultimo disegno, che è da considerarsi il primo della serie delle
prove preparatorie per il risultato definitivo della nuova idea; il foglio del Louvre, al contrario, costituì
il punto di arrivo, immediatamente raggiunto, dell’idea di partenza. Se si antepone il disegno
dell’Ashmolean a quello di Parigi, si dovrebbero anteporre ad esso anche i due schizzi preparatori per il
gruppo di destra, che proprio a partire dal foglio londinese comincia a marcare la propria autonomia.
Nel disegno parigino il gruppo autonomo non sembrerebbe essere stato previsto, ma riassunto nella
figura del solo san Giovanni.
Compositivamente il disegno di Oxford è più complesso a causa dell’aggiunta del gruppo di destra,
in cui Raffaello sta studiando il fluire dei nessi compositivi che legano le figure l’una all’altra
trasmettendosi tra loro il movimento. Graficamente risulta invece meno complesso rispetto all’altro e
questo potrebbe avere indotto a ritenerlo anteriore.
È da notare che nel disegno di Oxford Raffaello riutilizza uno studio compositivo per la Madonna
del prato nella pia donna in piedi all’estrema sinistra. Questo potrebbe confermare l’esecuzione della
composizione di Vienna al 1506, posteriore dunque a quella della Madonna del cardellino, e fare così
avanzare ulteriormente nel corso dello stesso anno il disegno di Oxford per il Compianto.
Fu solo dopo questi due disegni che Raffaello cominciò a elaborare un trattamento compositivo del
soggetto completamente diverso.
L’elaborazione di questa nuova concezione del tema da raffigurare presupponeva una prima,
essenziale modifica, la separazione netta tra i due gruppi, quello di destra, che infatti comincia ad
essere elaborato autonomamente, e quello dei portatori che si allontanano con il cadavere di Cristo.
Nelle tappe seguenti si comincia infatti a compiere l’azione del sollevamento. Mano a mano che lo
studio procede e il contenuto narrativo si sostituisce a quello contemplativo, si afferma il concetto di
separazione, di allontanamento del cadavere di Cristo da Maria, come aveva intuito Shearman.
È stato concordemente ripetuto che Raffaello potesse aver seguito qui un antico modello,
probabilmente un sarcofago con la raffigurazione del trasporto del corpo di Meleagro, ispirandosi ad
esso per mutare la composizione del dipinto.
Questo cambiamento costituisce lo snodo inventivo, compositivo, contenutistico più importante del
percorso fiorentino dell’artista e gli permetterà di superare tutto ciò che fino a quel momento la
tradizione figurativa centro-italiana, umbra e toscana, gli aveva trasmesso, e aprire la sua maniera a
quell’equilibrio “antico” che costituisce il suo stile classico, quello proprio della successiva attività
romana.
In questo salto Raffaello brucia tutti insieme i capisaldi figurativi della tradizione e, in fondo, ha
poca importanza stabilire quale di essi abbia prevalso nel momento preciso del suo mutamento rispetto
alla forza complessiva che la sedimentazione di tali ricordi conferisce alla sua straordinaria capacità di
rinnovare fondandosi su di essi. Il modello compositivo riconosciuto da Raffaello come autorevole fu
certamente l’antico, in cui trova posto anche la sollecitazione prodotta dai sarcofagi con il trasporto
dell’eroe e di Meleagro in particolare, per la risoluzione di precisi elementi compositivi che
l’insegnamento di Alberti poteva aver reso più autorevole.
Ai suoi esordi umbri risalivano i ricordi di Luca Signorelli, con il quale l’urbinate fu in stretto
rapporto in particolare negli anni 1501-1502, quando ebbe modo di apprendere i risultati più avanzati
rispetto al problema del nudo virile in azione. L’approfondita conoscenza della scena del Compianto
nel duomo di Orvieto doveva risalire a quel momento, quando i rapporti con il più anziano maestro
sono documentati con certezza.
Fondamentale fu anche la conoscenza del Trasporto di Cristo alla tomba dipinto da Michelangelo
per Sant’Agostino a Roma nel 1500-1501 e mai terminato, che implica un dato essenziale quale la
conoscenza dei fatti romani prima del trasferimento tra il 1508 e il 1509. L’importanza della fonte
michelangiolesca dovette essere pari a quella rappresentata dall’incisione di Mantegna con la
Deposizione nel sepolcro, con la quale soprattutto si possono stabilire i più precisi riferimenti formali.
Il riconoscimento delle fonti iconografiche o, ancor più, dell’ispirazione poetica, non attenua la lotta,
“l’incredibile fatica” compiuta dall’artista per giungere al risultato finale, che si sente in atto in tutta
l’elaborazione grafica.
Al momento della preparazione di quest’opera risale uno dei suoi unici disegni per lo studio
anatomico dei corpi. Si tratta dello studio della Vergine sorretta da una pia donna compiuto a partire
dallo scheletro, imitando nel procedimento Leonardo e Michelangelo. Raffaello non era
particolarmente dotato nello studio anatomico, perché le sue conoscenze del corpo umano erano
limitate, nel senso che seguivano la tradizione umbro-fiorentina del tardo Quattrocento, mancava in
esse l’indagine autoptica del corpo umano che è prassi sperimentale e difficoltosa (oltre che di difficile
attuazione) di Michelangelo e Leonardo, con moventi ed esiti diversi. Le sue anatomie potevano anche
risultare deboli, nel senso che appaiono piuttosto applicate alla sembianza esteriore che non risultanti
da un processo che dalla struttura interna emerga sino alla superficie. Questo esempio eseguito proprio
per la Deposizione costituisce dunque una novità ed è stato considerato, insieme ad altri elementi quali
il riferimento iconografico al trasporto di Meleagro, frutto delle ricerche avviate alla luce di un
rinnovato interesse dell’artista nei confronti di Leon Battista Alberti.
I precetti teorici di Alberti riguardo all’elaborazione del concetto di historia come narrazione
drammatica imponevano che essa contenesse in sé varietà e decoro, osservazione naturale e conoscenze
scientifiche, quali la prospettiva. Vi si fa anche specifico riferimento al metodo di disegnare i corpi
partendo dallo scheletro per individuarne meglio le proporzioni.
Diventa cruciale dunque, a questo punto della preparazione finale del dipinto, comprendere le
motivazioni del cambio di concezione, quanto possano avere orientato la scelta fatti esterni quali
l’intervento del committente o il subentrare di un diverso e preciso riferimento iconografico. O che
piuttosto tale scelta fosse dovuta a esigenze tutte interne all’evoluzione inventiva e dunque di esclusiva
pertinenza del percorso artistico.
Il laborioso, sofferto percorso grafico dovrebbe aver già dato una risposta, perché vi si vedono in
atto tutti i tentativi per giungere alla soluzione finale. Ma la serie stessa dei disegni non è completa,
manca infatti il cartone unitario o comunque un disegno che comprenda il collegamento tra i due
gruppi: ma su questo punto, come vedremo più avanti, si può proporre una spiegazione, se non una
soluzione. Dovrebbe essere definitivo, per eliminare l’ipotesi di un cambiamento dovuto all’incontro
improvviso con una fonte iconografia adatta, quale poteva essere un bassorilievo con il trasporto di
Meleagro, l’esame del disegno di Deposizione quasi commovente per l’ansia di sperimentare che
trasmette: i due portatori cominciano qui a sollevare il corpo di Cristo che è appena staccato da terra e
appaiono circospetti nel compiere l’azione così come lo è l’artista nel disegnarla. La figura sulla
sinistra è derivata dal disegno con Arcieri davanti a un’erma di Michelangelo a Windsor Castle che
sarà a sua volta trasformato nel Mosè inginocchiato nel cartone di Capodimonte del 1514 preparatorio
per Mosè davanti al roveto ardente nella stanza di Eliodoro.
Nel disegno seguente il Cristo è completamente sollevato, ma ancora offerto in contemplazione
alle figure astanti, segno che il cambio di concezione, vale a dire l’idea dell’avvio alla tomba e
dell’abbandono di Maria, non è ancora pienamente deciso: se ne avrà un primo accenno solo nel foglio
seguente, dove il gruppo si è costituito in modo rispondente alla versione dipinta ma è statico, incerto
se articolarsi in movimento oppure no: pertanto risulta evidente che nessuna suggestione esterna è
intervenuta nell’invenzione del tema, al massimo può essere sopravvenuto un modello a fornire spunti
per particolari come la Maddalena che solleva la mano inerte del Cristo. Solo dopo però che la
decisione sul cambiamento tematico era stata presa. L’uso di alcuni precisi spunti compositivi non
implica la ricerca di modelli dalla tradizione, semmai è la conseguenza dell’immersione totale che
Raffaello compì nella speculazione sull’antico, con una sconosciuta profondità concettuale,
un’identificazione sia spirituale sia di forme che li fa riemergere naturalmente tra le sue mani.
Certamente il cambiamento di concezione all’interno del tema della Passione di Cristo non derivò da
sopravvenute, nuove, conoscenze iconografiche, poiché il tema che Signorelli aveva già usato attorno
al 1501 negli affreschi di Orvieto era ben noto a Raffaello per lo stretto legame tra i due artisti a
quell’epoca, pertanto egli era bene a conoscenza di tale possibilità iconografica prima di affrontare la
serie di studi per la Deposizione.
Anche l’eventualità di un intervento del committente nel manifestare la volontà di mutare la scena
del Compianto in quella del Trasporto per renderla più aderente all’episodio riguardante la morte
violenta di Grifonetto, così come è descritto dalla Cronaca perugina, potrebbe essere ridimensionato se
tale riferimento rimanesse circoscritto alla sola suggestione letteraria e romantica trasmessaci da
Burckhardt. Si è detto che un’antica iscrizione emersa abbastanza recentemente consacrava l’altare dei
Baglioni al Salvatore e, di conseguenza, prevedeva una scena della Passione che infatti fu stabilita in
un Compianto, scena perfettamente appropriata a riferirsi a una madre che piange un figlio.
Il tema, come si è detto, fu certamente convenuto tra le due parti: ma se l’artista avesse deciso di
formulare lo schema in modo differente un ulteriore intervento del committente non sarebbe stato
necessario dal momento che il contenuto non fu in alcun modo alterato. Ma poi rispetto a quale
modello avrebbe dovuto essere mutato? Potrebbe allora prender corpo l’ipotesi che il disegno del
Louvre, perfettamente rifinito come si addiceva a un modello di presentazione, potesse essere quello
mostrato inizialmente ad Atalanta.
Già Sylvia Ferino ha dimostrato come il rilievo con la morte di Meleagro fosse ben conosciuto nel
rinascimento e usato anche nelle scene narrative riservate alle predelle, concludendo di conseguenza
che il cambiamento avvenne esclusivamente in termini artistici, senza mutare i contenuti che
riguardavano la fase culminante della Passione di Cristo.
Si può senz’altro concordare nell’affermare che il mutamento nella trattazione del soggetto della
Passione fu dovuto esclusivamente a finalità espressive e fu generato dalle condizioni particolari in cui
l’artista si trovò a operare: l’essere a Firenze, l’importanza dell’opera, la necessità di dimostrare la sua
adeguatezza ai problemi artistici che vi si dibattevano. Il vero quesito pertanto deve riguardare le
finalità espressive.
L’ultimo disegno tra quelli conservati è concordemente ritenuto lo studio degli Uffizi, perché è il
più completo e rifinito, quasi perfettamente rispondente al dipinto e con il fondo quadrettato, da
considerarsi dunque, con buone probabilità, preparatorio per il cartone.
È un disegno di estremo interesse soprattutto nei particolari in cui si differenzia dal quadro finito.
Questi ultimi riguardano la mancanza del gruppo con lo svenimento della Vergine a destra, forse
oggetto di uno studio separato da unirsi in seguito sul cartone e l’inversione tipologica tra i due
portatori, quello a destra, vecchio, che diviene giovane e viceversa; ma soprattutto la figura di donna
che ancora nel disegno preparatorio compare dietro la Maddalena.
Tali differenze in un disegno quadrettato e quindi pronto per il trasporto, non sono affatto
superficiali, soprattutto se si tratta dello spostamento di un’intera figura, e potrebbero persino far
pensare all’esistenza di un ulteriore disegno definitivo, intermedio tra quello degli Uffizi e il dipinto;
oppure al cartone citato da Vasari in cui fossero stati preventivamente eseguiti tali cambiamenti.
L’esecuzione di una serie di indagini diagnostiche è sopraggiunta a fornire un aiuto determinante
per una possibile spiegazione. Le analisi furono eseguite nel 1995 nell’ambito di una campagna
finalizzata a preparare un intervento di pulitura che allora si ritenne non necessario effettuare e che fu
realizzato solo di recente, limitatamente allo strato più superficiale delle vernici. Attraverso la
radiografia, sostenuta dal raffronto con i dati forniti dall’infrarosso e dalle indagini a luce radente, si è
potuto accertare la presenza di un’incisione che corre lungo tutto il perimetro del dipinto, a tratti
ricoperta da strati pittorici, che costituisce un chiaro indizio della tecnica di trasporto del disegno
preparatorio tramite la quadrettatura. Altre tracce di quadrettato si sono evidenziate nella zona in alto a
sinistra. Tali tracce sono straordinariamente rispondenti alle proporzioni che la quadrettatura ha nel
disegno degli Uffizi e potrebbero confermare che fu questo il disegno utilizzato per il riporto. Altri
evidenti segni di incisione, probabilmente eseguiti a punta di piombo, che sono stati rilevati sulla parte
inferiore a sinistra, formano il disegno architettonico degli scalini, esattamente come compaiono nel
disegno fiorentino. Nel dipinto il pittore li riveste per trasformarli in roccia, dunque in elemento
naturalistico che si amalgama al paesaggio. Questo procedere dallo strato più interno a quello visibile
del “rivestimento” richiama, per analogia, lo studio anatomico del disegno del British per la Vergine
che, secondo i precetti albertiani, doveva partire dallo scheletro per giungere alla figura.
I profili sono apparsi invece delineati con una tecnica diversa, un tratto grafico deciso composto
con brevi segni sia paralleli che incrociati resi per lo più a pennello, che si trasforma in sottile intreccio
di tratteggi per definire le ombre.
Ma la scoperta veramente inaspettata è stata quella di una sagoma scura, di forte radiopacità, segno
della presenza di incarnati finiti, in esatta corrispondenza con la zona che avrebbe occupato la figura di
donna dietro la Maddalena, che compare al centro del disegno fiorentino . Questa, nel dipinto, è stata
spostata a destra a sorreggere da tergo la Vergine e tale mutamento dovette avvenire quando il dipinto
era pressoché finito: lo prova il fatto che questa figura fu eseguita con la tecnica del disegno libero
tracciato direttamente a pennello sopra lo sfondo di paesaggio, quindi il cambiamento di posizione, dal
centro, dove era stata ultimata come indica la radiopacità rilevata, alla estrema destra, fu compiuto
dopo che fu eseguito il paesaggio, al contrario di tutte le altre figure eseguite invece “a risparmio” del
fondo.
Questa importante scoperta, messa in rilievo per la prima volta da Sylvia Ferino, dimostra
innanzitutto che quello degli Uffizi è veramente l’ultimo disegno preparatorio; che non fu mai eseguito
un disegno comprendente anche il gruppo delle pie donne sulla destra poiché la figura che vi è stata
trasposta nel dipinto, in una posizione dominante, è proprio quella che è stata rimossa dal gruppo
centrale con il Cristo, come rivelano i precisi particolari dell’acconciatura; che probabilmente non è
mai esistito un disegno complessivo né un cartone, poiché le radiografie evidenziano la
sovrapposizione delle campiture pittoriche tra i due gruppi di figure con la possibilità addirittura di
intravedere tracce del velo e del braccio destro della Vergine sotto il fianco destro del portatore.
Sono tutti elementi inerenti alla prassi esecutiva che provano come i due gruppi siano rimasti sino
alla fine disgiunti tra loro e spiegano la sensazione di composizione irrisolta spesso avvertita dalla
critica. Se l’unione fra i due gruppi fu definita solo sul piano pittorico, questo significa che per
Raffaello non costituiva il punto fondamentale, di conseguenza l’idea centrale alla base della nuova
risoluzione compositiva incentrata sul movimento non poteva essere quella di mettere in scena il tema
del dramma della separazione tra i due gruppi.
L’ipotesi che Raffaello considerasse trascurabile il problema della connessione tra i due gruppi
rispetto al tema centrale del Trasporto potrebbe essere dimostrata anche dall’indefinitezza grafica che,
nel foglio degli Uffizi, hanno le figure femminili rispetto a quelle maschili, ulteriore elemento che
suggerisce che in quel momento la ricerca finale fosse ancora in corso riguardo alla composizione nel
suo insieme. La figura di donna nella posa e con le fattezze di quella che appare sul dipinto non
compare mai in studi precedenti a questo degli Uffizi, compreso il foglio dedicato al gruppo delle
Marie.
Il secondo degli importanti cambiamenti che sono sempre stati notati tra il disegno finale e il
dipinto è l’inversione di tipologia tra le figure virili di destra e di sinistra: quella che nel disegno è
giovane e inclina il capo con tenerezza verso la Maddalena, nel dipinto si trasforma nel vecchio barbato
derivato dal san Matteo di Michelangelo, di cui Raffaello eseguì anche il disegno, che fissa lo
spettatore con sguardo intenzionale. In corrispondenza di questo volto la radiografia restituisce di
nuovo una maggiore radiopacità, segno di un pentimento che ha trasformato la tipologia originaria del
giovinetto imberbe in quella realizzata nel dipinto.
La trasformazione radicale in corso d’opera di questa figura potrebbe essere nata da un’opportunità
iconografica presentatasi all’artista. Infatti, così trasformata, essa risponde all’iconografia di san Pietro,
come indicherebbero il vasto manto giallo dorato e la tunica verde, piuttosto che a quella di Nicodemo
o di Giuseppe d’Arimatea, secondo l’identificazione dei due personaggi nella corretta lettura delle
Scritture. Questo è l’unico personaggio che guarda verso lo spettatore con intenzionalità, come a
trasmettere la sua testimonianza evangelica. Lo sguardo “fuori campo” non è stato previsto in nessun
disegno, dunque è legittimo pensare che sia anch’essa un’idea sopraggiunta in fieri; non è neppure
contemplato nel disegno derivato dal San Matteo di Michelangelo.
L’altro elemento legato a questa figura e messo fortemente in risalto nel dipinto è il poderoso passo
impostato sul gradino che nel dipinto è stato reso come di roccia, o di pietra: e su di essa san Pietro
poggia.
La tipologia originaria, giovanile, del presunto san Pietro come appariva nel disegno preparatorio,
è stata trasferita invece nel vigoroso portatore di destra, vero cardine dell’intera composizione. Su di
esso non compaiono strati più spessi di colore o pentimenti, dunque se ne deve dedurre che questa
figura fu eseguita dopo quella modificata, quando il cambiamento era stato deciso e pertanto fu dipinta
direttamente con le fattezze giovanili necessarie per renderla il centro simbolico e divinizzato del
dramma. Questo dovrebbe far escludere che Raffaello avesse voluto raffigurarvi Grifonetto perché, se
così fosse, ne avrebbe predisposto le fattezze sin dall’inizio. Un cambio così sostanziale in corso
d’opera testimonia piuttosto di una pulsione creativa impellente, anche drammatica, che non sembra
adatta a rientrare nei confini di un mero problema di convenienza iconografica.
I ripensamenti effettuati sul dipinto non riguardano dettagli compositivi, come avviene di solito,
ma hanno una valenza espressiva molto chiara. Il giovane inarcato all’indietro sotto il peso di Cristo,
figura quasi divinizzata che ha in sé il valore di fulcro narrativo, ottiene tale ruolo altamente
drammatico grazie allo spostamento della donna dal centro al gruppo di destra. Il nucleo centrale viene
così liberato e, di conseguenza, viene accelerato il movimento dinamizzante delle due diagonali
compositive che si incrociano.
Attorno al vuoto formatosi nel mezzo della composizione si mette in rotazione un vortice ellittico.
Rispetto al disegno l’impeto del movimento è incomparabilmente aumentato e raggiunge la sua
massima intensità nella figura della Maddalena che arriva di corsa, come mostrano i capelli al vento
(che nel disegno sono ancora raccolti) e frena il suo impeto piegando il ginocchio (che nel disegno è
teso per fare da perno al suo composto, pietoso, piegarsi sul Cristo) esattamente come nello schizzo
magnificamente sintetico della collezione Custodia. Nel disegno degli Uffizi la Maddalena non può
correre (e di conseguenza non piega il ginocchio), perché ne sarebbe stata ostacolata dalla figura dietro
di lei. Per accentuare il pathos, per drammatizzare la scena sino al culmine raggiunto nel dipinto,
Raffaello ha dovuto cambiare sino all’ultimo, compiere sul dipinto un passo ancora rispetto alla serie di
disegni che lo ha condotto all’esecuzione. Questo ci permette di affermare che nel disegno del Louvre,
più precisamente nel patetico piegarsi della Maddalena sul Cristo e nel gesto meditativo della donna
alle sue spalle, è contenuto l’ultimo residuo dell’originaria concezione del dipinto come Compianto,
come statico oggetto di contemplazione. Mentre solo nel dipinto è realizzata la conquista della nuova
idea compositiva.
Le modifiche in corso d’opera di un quadro così lungamente preparato, faticosamente studiato in
almeno sedici disegni, dimostrano che la finalità non solo tematica e compositiva ma più intimamente
contenutistica era quella dell’animazione derivante da una forte carica emozionale, di un movimento
che crea il sentimento, per raggiungere il quale Raffaello si servì anche di fonti iconografiche a lui ben
note, quali i bassorilievi con la morte di Meleagro – riprese già da Signorelli a Orvieto –, l’incisione di
Mantenga o il Trasporto di Cristo alla tomba di Michelangelo. Ma che non costituirono per Raffaello,
in questa fase, né esclusivi punti di ispirazione né termini dialettici di confronto. Le motivazioni del
cambio di interpretazione di un episodio della Passione, trasferito dal momento della Deposizione al
momento del Trasporto, nacquero dall’esigenza di rendere più concentrato il messaggio originario
tramite la dinamizzazione delle forme, furono piuttosto di ordine espressivo che non letterario,
iconografico, tematico, e richiedevano un definitivo cambiamento rispetto alle proprie fonti di
ispirazione figurativa che si trovarono all’improvviso a coincidere più con Roma che con Firenze o con
l’Umbria.
Tra gli scopi che Raffaello intendeva raggiungere con la Deposizione vi era la raffigurazione del
movimento che implicava conquiste tecniche realizzate modificando la stessa superficie pittorica finita,
come lo sciogliere al vento le chiome della Maddalena, o piegarle il ginocchio, o far fluttuare in una
scia dinamica i capelli del portatore giovane.
La sofferta conquista finale della Deposizione Baglioni è di aver trasformato il movimento cosmico
di Leonardo in drammaticità narrativa, agìta da figure che hanno in più però la fisicità raggiunta da
Michelangelo e che sono divenute figure antiche come le statue, romane, storiche, retoriche.
La prima formulazione completa di esse è il portatore centrale che da uomo maturo barbato è
trasformato in giovane e per il quale non esistevano precedenti iconografici, se li ricercano con i soli
mezzi della filologia. È una figura sconosciuta, nata dalla pittura stessa, capace di incarnare ogni nuovo
simbolismo, emblema dell’unione profonda tra ispirazione cristiana e antichità classica, rivissuta nella
sua idealità ma anche nella sua fisicità: in esso una tensione vibrante nasce dalla pressione dei piedi sul
terreno, sale sino a inarcare il dorso e guizza come un colpo di frusta nel movimento contraddittorio
della nuca, la fa crescere su se stessa e la rende gigantesca. Da essa, di lì a poco, nasceranno figure
antiche ancor più nuove, eroi o semidei di lettura iconografica impenetrabile, il giovane messaggero
che accorre da sinistra nella Scuola d’Atene, il genio quasi in volo al centro della Cacciata di Eliodoro:
“vittoriosi nell’espressione e con i capelli agitati, questi giovanetti sembrano appartenere tutti alla
stessa stirpe”. Nel giovinetto della Deposizione la reincarnazione della pura bellezza nasce dalla
resurrezione di Cristo, che il dramma celebrato nel dipinto annuncia come imminente, realizzando in
esso la più profonda unione tra spirito cristiano e antichità classica.
In quest’opera avviene la trasformazione dalla concezione “preromana” in “romana” attraverso
l’antico e la storia. La precoce conoscenza che di Roma ebbe Raffaello fu una straordinaria esperienza
intellettuale, di portata ben superiore a quanto possa essere misurato con i parametri oggettivi pertinenti
alla disciplina storico-artistica quali lo stile, la forma, la filologia. Raffello si appropria con
stupefacente naturalezza dei sommi raggiungimenti che Roma poteva offrirgli: la statua, la
monumentalità architettonica, una precisa qualità dello spazio.
La conquista della bellezza ideale avvenne con semplicità, si realizzò attraverso l’antico, da lui
accolto come un modello da far vivere, senza dovere inventare nulla di nuovo. L’antico da Raffaello
non è interpretato come un repertorio formale né come un habitus umanistico dell’intelletto; e neppure
come un modello etico cui ritornare per rifondare un’ideale età dell’oro. L’antico è un modo di sentire
semplice, pieno di umanità e anche di fisicità che scorre naturalmente nel fluire eterno, e dunque
contemporaneo, della natura, dell’umanità, del divino. E così il modello vive.
Nell’esegesi del dipinto Vasari loda la resa degli affetti (“il dolore che hanno i più stretti e
amorevoli parenti nel riporre il corpo d’alcuna più cara persona”), la verosimiglianza delle situazioni
(“la perdita di colui nel quale consistevano il bene, l’onore e l’utile di una famiglia”) in cui il
riguardante si ritrova come se fossero sotto i suoi occhi. Sottolinea pertanto come principale qualità
dell’opera l’appropriatezza e la rispondenza ai precetti del decoro, aderente alla norma classica e
dunque aristotelica. Il concetto di storia nel riferimento ad Aristotele giunge a Raffaello con il tramite
di Leon Battista Alberti. È un recupero che figurativamente fa riferimento al particolare sistema
compositivo del bassorilievo antico, ancor più che del sarcofago, nella sua forma a fascia e in
composizione antiprospettica perché nell’unità classica è superata anche la prospettiva.
Nel concetto aristotelico di storia l’arte – che deve imitare il vero – nella resa del racconto deve
restituire la verità, secondo parametri di unità di tempo e spazio e interconnessioni compositive che per
Raffaello potevano essere garanzia di autorità per riferimento alla classicità. E il riferimento alla
classicità a giudizio di Alberti è particolarmente eroico da parte dei moderni in quanto più difficile
poiché il classico va recuperato oltre la parentesi sospesa dalla civiltà cristiana medievale.
Nel rappresentare la storia secondo la concezione aristotelica, Raffaello descrive il movimento
tramite i capelli al vento o il ginocchio piegato nella corsa, ma non ne evoca l’effetto. Ciò che si
realizza con evidenza è la rappresentazione immobile del movimento, dalla quale è eliminata la
transitorietà empirica del divenire, che è implicita nel movimento. Il divenire è formalmente definito
nella trasformazione dello schema centralizzato in composizione a sviluppo orizzontale, in una
struttura compositiva che segue il modello del fregio: che è l’invenzione classica per la resa della
continuità della storia.
In questo si comprende il riferimento a Michelangelo, nella Pietà come nel San Matteo, per il quale
invece il movimento è immobilizzato perché non deve imitare la mobilità in divenire della natura ma
rendere l’immobilità eterna della verità. Tale superiorità è nell’antico, nella propria classica capacità di
resa del vero.
Nella Deposizione Raffaello aspira all’opera perfetta in cui si appropria del segreto degli antichi
che sono la perfezione. Non avrebbe cercato il modello del fregio, e in ultima conseguenza delle
raffigurazioni come quelle di Meleagro, se non si fosse posto il problema dell’opera perfetta, in cui è
superata anche la prospettiva.
Raffaello porta tutte le qualità al massimo grado riducendole all’unità, misura classica e
aristotelica, e in questo supera anche il movimento che diviene immobile e assoluto: vale a dire
perfetto, perché ciò che è perfetto non deve cambiare.
Qualche anno dopo effigia Aristotele.
La trasformazione del contenuto investiva necessariamente anche la struttura dell’opera. Infatti la
pala Baglioni fu fortemente innovativa nel configurare un grande comparto quadrato evitando la
costruzione al suo interno di una fuga prospettica centralizzante in cui convergessero sia la cimasa che
la predella, con la conseguenza di eliminare la verosimiglianza di tutto ciò che è esterno alla
prospettiva dell’icona; mentre lo schema a fregio implica una precedenza e un seguito potenzialmente
infiniti.
Il problema di Raffaello non dovette essere quello di risolvere un conflitto fra tradizione e
innovazione nell’ambito del genere pala d’altare, incorporando in essa una pittura di storia e
trasformando l’ancona devozionale in “quadro da galleria di pittura”, dal momento che egli ritornò alla
tradizione della grande pala ogni volta che lo ritenne necessario, come dimostrano sia opere
contemporanee come la pala Dei sia le tavole d’altare degli anni romani, nelle quali l’immagine, pur
con gli sbalorditivi cambiamenti cui è sottoposta da Raffello nel giro di pochi anni, è pur sempre
un’immagine devozionale centrata e statica.
Sembrerebbe invece lecito immaginare che Raffaello pensasse proprio a una grande opera pubblica
del genere di quelle che stavano eseguendo Leonardo e Michelangelo a palazzo Vecchio, piuttosto che
a un dipinto da quadreria, nella quale risolvere in uno spazio adeguato il genere “pittura di storia” che
lo spazio di un’ancona monocentrica finiva per contraddire. Un’opera che presupponeva un racconto
eroico interpretato da figure in grande scala, monumentali come i nudi nella Battaglia di Cascina,
comprese in uno spazio altrettanto monumentale. Raffaello insomma pensava all’affresco.
Consideriamo di nuovo la pala Baglioni nel suo insieme strutturale. Doveva apparire come un
grande riquadro incorniciato a filo del muro della chiesa, poggiante su una predella formata da figure
stanti e monocrome, inserite in nicchie a finto marmo. Come si è detto in precedenza, l’immagine da
contemplare non è introdotta da piani architettonici organizzati su una linea di fuga convergente nel
fulcro, dunque mancava il concetto di prolungamento nello spazio dipinto dello spazio reale dello
spettatore. Questi piuttosto doveva sentirsi coinvolto narrativamente vedendo svolgersi dinnanzi a sé il
racconto, oppure percorrerlo muovendosi da destra verso sinistra, poiché compositivamente Raffaello
aveva rotto la simmetria prospettica della pala introducendovi il movimento laterale desunto dalla
tipologia del bassorilievo e dei sarcofagi.
È un insieme compositivo organizzato come riquadro per un affresco piuttosto che per un’ancona e
delimitato dalle paraste piatte della cornice originaria135. Ma l’elemento più significativo per
dimostrare la volontà di assimilare la pala Baglioni a un affresco è la predella. Essa, infatti, è composta
da figure stanti, isolate e a monocromo, che fingono delle statue inserite in nicchie di un basamento di
marmo, a evocare la funzione delle cariatidi nei basamenti degli affreschi.
Raffaello era molto impegnato dal problema dello zoccolo come elemento di sostegno visivo per
gli affreschi e sappiamo che a Roma, intorno al 1514, lavorava alla decorazione di quello per la stanza
di Eliodoro. I disegni che ne rimangono corrispondono pienamente a quanto egli aveva realizzato, in
nuce, nella pala Baglioni: si tratta infatti di figure isolate e stanti, eseguite a monocromo, a fingere
statue o cariatidi. Nella predella della pala Baglioni Raffaello rivela di nuovo nella statua, e dunque
nell’antico e nel valore simbolico della sua monumentalità, la sua profonda fonte di ispirazione, il
tramite per poter compiere il passaggio dal quadro d’altare alla grande superficie affrescata, che era
l’impegno che l’attendeva a Roma.
Un’idea molto precisa di come poteva apparire un vasto riquadro dipinto poggiante su uno zoccolo
a figure monocrome poteva venirgli dalla cappella Carafa eseguita da Filippinio Lippi tra il 1489 e il
1494 nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma.
Non giunge certo come cosa nuova l’attenzione di Raffaello per le grandi imprese ad affresco del
fiorentino: egli eseguì schizzi sia dagli affreschi della cappella Strozzi che da quelli della cappella
Carafa. E che il Trionfo di san Tommaso, con la monumentalità dell’impianto architettonico dipinto e
l’unità concettuale che raggiunge, sia la sola opera che possa essere messa a confronto con la stanza
della Segnatura, è tesi perfettamente sostenibile.
Quello che qui si vuole aggiungere è la considerazione circa l’interesse che Raffaello rivela per
l’uso che dell’ornamento fa Filippino, a partire dallo zoccolo monocromo a finto bassorilievo sino alla
straordinaria decorazione a grottesche che riveste i pilastri e le mezze paraste marmoree nella cornice
della pala d’altare. A questo modello decorativo può essere suggestivamente accostato il fregio che in
origine separava la cimasa dal campo centrale della pala Baglioni.
Il gusto decorativo che sottende l’insolito fregio raffaellesco ha un preciso confronto, a
quest’epoca, con la decorazione a grottesche che riveste le modanature architettoniche della Minerva.
Gli elementi formali, quali i motivi a palmette, i grifoni, le teste d’ariete, così come quelli coloristici
con la preziosa scelta dell’oro sul blu cobalto; ma anche la ritmica compositiva con cui sono scandite,
conferiscono loro una declinazione del linguaggio decorativo differente da quello che poteva derivargli
dalle interpretazioni più nervose e spezzate del Pinturicchio, che pure gli erano così familiari. Raffaello
dovette essere attratto dalla disinvoltura con cui Filippino maneggiava l’antico, che rivelava una
familiarità con Roma superiore a quella di tutti gli altri fiorentini. Nel disegno del 1503-1504, Raffaello
riprende proprio un elemento decorativo usato da Filippino, oltre che alla carafa, anche nell’acroterio
marmoreo per la tomba del padre Filippo. Non solo, la ricostruzione della pala Baglioni, così come
apparirebbe nella riunificazione di tutte le sue parti, presenta uno schema assai simile a quello della
finta pala che Filippino inserisce sopra l’altare maggiore della cappella Carafa.
Con la Deposizione Raffaello porta a termine il suo lavoro più ambizioso e certamente il risultato
raggiunto con quest’opera dovette essere di forte impatto, ponendolo in grande evidenza a Firenze
presso i potenziali committenti proprio nel momento in cui potevano offrirsi interessanti possibilità di
portare a termine, o impostare da capo, quanto intrapreso da Leonardo e Michelangelo a palazzo
Vecchio. Leonardo infatti nel 1506 aveva rinunciato all’incarico di portare a termine la sua scena di
battaglia mentre Michelangelo, avendo accettato la committenza da parte di Giulio II per la statua del
papa da farsi a Bologna sulla facciata di San Petronio, dichiarava di avere intrapreso altre strade, in
particolare quella per Roma.
Raffaello doveva aver fatto attentamente le proprie considerazioni riguardo al momento di vuoto,
per lui propizio, che si era venuto a creare sulla scena artistica della città tra la fine del 1506
(Michelangelo si era riconciliato con il papa a novembre) e l’inizio del 1507. Il profondo cambiamento
che egli imprime alla pala Baglioni per rendere l’opera adeguata a rispondere alle sfide aperte dai due
sommi artisti potrebbe collocarsi proprio in questo preciso giro di mesi. Ciò spiegherebbe la sua
impazienza, non appena conclusa l’opera, nel sollecitare allo zio Simone Ciarla una nuova
raccomandazione a Pier Soderini da parte di Francesco Maria della Rovere, che era nipote del papa.
Questo ha fatto anche supporre che la lettera, datata al 21 aprile del 1508, volesse in realtà sollecitare
l’allocazione per sé di una delle stanze Vaticane, piuttosto che di palazzo Vecchio: “me faria grande
utilo per l’interesse de una certa stanza da lavorare, la quale t[oc]ha a sua S. de alocare”141.
Interpretazione anche avvalorata dalla coincidenza della sua chiamata a Roma, proprio all’inizio
dell’anno successivo, da parte dello stesso pontefice.
La sequenza dei fatti, così come la familiarità con cui verrebbe indicato il papa, troppo abbreviata
anche per una missiva che comunque era di carattere strettamente privato, la noncuranza con cui si
accenna a “una certa stanza”, sono elementi da valutare prima di escludere che fosse proprio Firenze la
scena su cui Raffaello voleva affermarsi.
Si potrebbe ipotizzare che la data della lettera non fosse molto lontana dal momento in cui fu
terminata la Deposizione, perché è verosimile pensare che l’artista volesse avere al più presto un
qualche effettivo riscontro del suo impegnativo lavoro.
I dati stilistici infatti, nonostante quanto proclamato dalla datazione posta in evidenza dall’autore,
hanno una maturità tale da far coincidere esattamente il momento dell’esecuzione della Deposizione
Baglioni con quello della Belle Jardinière, i giorni estremi del 1507 se non gli inizi del 1508, per
alcune sottili analogie, come l’innalzamento del bordo del terreno alle spalle delle figure, che nei due
dipinti si pone alla stessa altezza: o l’addensamento cromatico dei toni verso timbri più fondi, dovuto a
una tecnica coloristica che in entrambe coincide nel maggior arricchimento delle proprie possibilità,
come rivela la lavorazione dei verdi ottenuti senza l’apporto di rame ma con l’aggiunta di quantità
differenti di pigmenti gialli.
L’aspettativa che Raffaello poneva nella realizzazione della pala Baglioni, la certezza dell’effetto
che un’opera così innovativa avrebbe provocato a Firenze, pone con forza un altro problema, quello del
luogo di esecuzione.
Se si suppone che il luogo fosse Perugia, bisogna ammettere che Raffaello accettasse di mostrare a
Firenze solo i disegni preparatori e l’eventuale cartone di un’opera in cui poneva le sue massime
aspettative, che doveva procurargli ammirazioni e incarichi nella città, per l’elaborazione della quale
aveva predisposto un apparato complesso di disegni preparatori nei quali si manifesta una sofferta
elaborazione sfociata in un risultato sorprendente, più nuovo di tutto quanto sino ad allora era stato
prodotto, che doveva collocarlo sullo stesso piano dei due grandi maestri da lui eletti a modello.
Sembrerebbe più logica l’ipotesi che Raffaello eseguisse per intero l’opera a Firenze, per poi farla
trasportare in Umbria. Il problema riguardante il luogo fisico dell’esecuzione si era già posto a
proposito della pala di Monteluce, che si è poi dimostrato essere stata dipinta fuori da Perugia. Se già
nel 1505 Raffaello non aveva in uso una bottega a Perugia, a maggior ragione non doveva averla alla
fine del 1507.
L’esecuzione della tavola a Firenze è un’ipotesi che potrebbe essere comprovata almeno da due
fatti concreti. Il primo fu che, non appena l’opera venne ultimata, egli ricevette finalmente
un’importante commissione fiorentina per un lavoro di grandi dimensioni, la Madonna del baldacchino
per la cappella Dei nella chiesa di Santo Spirito.
Il secondo deriva dai risultati delle analisi, che hanno dimostrato cambiamenti in corso d’opera
sino all’ultimo momento, anche se non radicali per l’insieme compositivo, certo di fondamentale
importanza per il significato finale dell’opera. Ma soprattutto confermano che non ci fu il momento in
cui il maestro considerò l’opera conclusa e definitiva, se non dopo l’ultima pennellata, dunque
l’elaborazione fu continua e l’esecuzione non avvenne in maniera automatica dal cartone, se pure un
cartone finale ci fu mai stato. Se Raffaello sapeva di non avere concluso le fasi preparatorie e si
riservava di apportare i mutamenti e la soluzione finale solo in pittura, significava che accettava di
mostrare il risultato definitivo di un’opera per lui così importante fuori da Firenze. È un’ipotesi che
appare inverosimile.
I risultati raggiunti da Raffaello nella Deposizione hanno posto un ulteriore, importante
interrogativo riguardo ai rapporti con Roma prima della data documentata del gennaio 1509.
Numerosi indizi sia formali sia più profondamente connessi allo stile rendono un fattore
indispensabile la sua conoscenza di fatti romani, non solo di ambito figurativo – poiché in questo caso
potevano essere acquisiti attraverso disegni, taccuini, incisioni – ma veri approfondimenti che le
inconfutabili argomentazioni di Shearman devono far ritenere certi.
La Deposizione Borghese svela molti elementi che possono provare la conoscenza diretta che egli
poteva avere di Roma.
La concezione generale innanzitutto, poiché Raffaello in essa assimila idee suggerite dal Trasposto
di Cristo al sepolcro che Michelangelo aveva eseguito a Roma. Il corpo di Cristo ha inoltre un forte
ricordo della Pietà eseguita da Michelangelo nel 1499-1500 per la cappella di Santa Maria della Febbre
annessa al vecchio San Pietro, conoscenza che si rivela ancor più forte attraverso il disegno con il
Trasporto del British, in cui la citazione è maggiormente evidente.
Le teste dei portatori di sinistra, in particolare quello che si è ipotizzato essere san Pietro, cui
Raffaello ha conferito in fase di stesura pittorica una configurazione profondamente classica, rivelano
la conoscenza della statua del Laocoonte, scoperta il 14 gennaio 1506. Come narra Vasari, a Roma fu
promossa da Bramante una competizione per il miglior modello in cera realizzato dagli artisti accorsi al
momento della scoperta, che dovette verosimilmente tenersi tra il 1506 e il 1507 e sulla quale a
Raffaello fu richiesto un parere. I riflessi del Laocoonte sulla rappresentazione del dolore sopportato
stoicamente, da cui Michelangelo stesso alla fine del 1506 aveva tratto il San Matteo, destinato a
rimanere incompiuto, si riflettono nelle teste virili e sono anch’essi prova di una conoscenza di Roma e
del suo ambiente, da parte di Raffaello, precedente al 1508-1509.
La Deposizione Baglioni, pur non raggiungendo quella chiarezza contenutistica e compositiva che
esploderà solo nella stanza della Segnatura come una rivelazione, contiene il germe di alcuni elementi,
quali l’articolazione dei gruppi complessi di figure nello spazio e l’amplificazione monumentale dello
spazio stesso, che raggiungeranno la piena maturazione a Roma. L’enfasi spaziale del dipinto è
costruita solo dalle figure che aumentano la scala dimensionale e si allargano lungo tutte le direttrici
spaziali, mentre l’impiego dell’architettura è limitato all’accenno di scalinata sulla sinistra che permette
l’inserimento della seconda fila di figure nella profondità della scena.
Anche nella Disputa è stato rilevato come i tre gradini che conducono all’altare siano l’unico
elemento architettonico che vi compare. Nella Deposizione è già definibile “architettonico” il rapporto
tra la plasticità dei corpi, moltiplicata dal loro intersecarsi, e lo spazio che si mette in moto attorno ad
essi, come attorno alla forma a cupola delle tre Madonne fiorentine. Lo spazio che circonda i nuclei
solidi delle figure si definisce in base ad essi, come intorno a un edificio. L’elemento che si riferisce
costruttivamente a un dato architettonico è invece la predella con le Virtù teologali (cat. 18, 19, 20)
eseguita, come si è visto, al modo di un basamento marmoreo con cariatidi, che poteva avere un
possibile modello di riferimento nella cappella Carafa.
La profonda conoscenza che Raffaello aveva della cappella eseguita da Filippino Lippi a Roma è
documentata dal disegno datato del 1503-1504 con Studi per la decorazione di una trabeazione,
conservato all’Ashmolean Museum di Oxford, derivato dal coronamento della cornice nella finta pala
d’altare alla Minerva e considerato una delle prove della presenza a Roma di Raffaello prima del suo
trasferimento definitivo alla fine del 1508.
Se Raffaello ebbe modo di soffermarsi all’interno della cappella Carafa prima del 1508, si
spiegherebbe meglio come egli avesse già elaborato, al momento di predisporre i progetti per la stanza
della Segnatura, il concetto di una monumentale architettura dipinta capace di amplificare i contenuti
narrativi che vi erano svolti e realizzare una compiuta continuità tra paesaggio naturale, spazio
architettonico dipinto, spazio architettonico reale ma concluso come quello di una cappella, spazio
aperto in cui l’osservatore è collocato al centro dell’organismo prospettico di osservazione.
La cappella Carafa a Santa Maria sopra Minerva era l’unico modello di spazio amplificato con
forme architettoniche dipinte prima della stanza della Segnatura e il Trionfo di san Tommaso
rappresentava il principale caso di unità concettuale espressa attraverso la costruzione architettonica.
L’intero assieme affrescato offriva la soluzione esemplare al problema del passaggio naturale
dall’architettura vera a quella del dipinto, che caratterizzerà gli affreschi romani di Raffaello; il quale
ribadirà ancora il suo interesse verso Filippino nella sala di Costantino, con la sistemazione delle
personificazioni delle Virtù ai lati dei papi, così come apparivano alla Minerva accanto a san
Tommaso.
Se si accetta l’ipotesi di una precoce e profonda conoscenza di Roma da parte di Raffaello prima
dell’epoca documentabile del suo trasferimento, si comprende come egli si sia potuto appropriare e
abbia fatto sedimentare la nuova dimensionalità che l’Urbe spalancava agli artisti, lo spazio romano
che sopraffà all’interno del Pantheon, nella vastità delle volte, sotto i rosoni e i lacunari delle terme di
Diocleziano, che costituisce una specifica “qualità” ambientale. La realizzazione di uno spazio
immenso, monumentale, vissuto dall’interno come se fosse dipinto su quattro lati per inglobarlo, si
dispiega per la prima volta ancora in un’opera fiorentina, nella Madonna del baldacchino del 15071508, dove compare come nicchia l’abside del Pantheon.
È un’esperienza da considerarsi necessaria per la Deposizione al pari del riferimento alla statuaria
antica, nel processo di progressivo cambiamento delle proprie fonti figurative che divengono “romane”
nella dimensione eroica delle figure nello stesso modo che nell’amplificazione monumentale dello
spazio.
Si vorrebbero aggiungere almeno altri due fattori non surrogabili altrove, la cui avvenuta
assimilazione rese Raffaello immediatamente pronto alla realizzazione delle Stanze: l’uno è costituito
dai mosaici paleocristiani che potrebbero avergli dimostrato la natura trascendente della trasformazione
del colore in luce che nasce dall’interno della materia. Il secondo è l’interpretazione che della retorica
monumentale della romanità aveva dato Melozzo da Forlì: ma le due questioni sono in qualche modo
destinate a intrecciarsi.
L’affresco con l’Ascensione di Cristo dipinto da Melozzo da Forlì nell’abside della chiesa dei Santi
Apostoli, poi demolita fra il 1702 e il 1711, rappresentava, probabilmente, il più vasto affresco sino a
quel momento eseguito.
L’opera rientrava nel vasto programma di renovatio urbis intrapreso da Sisto IV e fu condotto a
termine presumibilmente intorno al 1481, negli stessi anni che vedevano le equipe fiorentine al lavoro
nella cappella Sistina e nelle quali Melozzo non fu ingaggiato forse perché impegnato nella grande
decorazione ai Santi Apostoli.
L’impresa di Melozzo si pone quasi come contraltare della cultura pittorica integralmente
fiorentina e umbra che veniva dispiegata, in un grandioso punto d’arrivo, nella cappella Vaticana.
La perfetta geometria fiorentina, che racchiudeva lo spazio in una prospettiva illusionistica, è
contraddetta da Melozzo attraverso una sorta di arcaismo che lo conduce a ricercare le fonti
iconografiche nell’antichità non classica ma paleocristiana, quali le absidi medievali risplendenti di
mosaici.
L’umanesimo “medievale”, come l’abside dei Santi Cosma e Damiano da cui ricava più di una
suggestione, si trasforma nel “rinascimento” più attuale, nella costruzione spaziale ottenuta dalla sola
forza plastica dei corpi in rapporto con uno spazio solido, capace di sostenerne il peso e di porsi in
rapporto attivo con le loro masse e le loro articolazioni complesse. Lo spazio solido, di entità fisica in
grado di interagire, così come l’amplificazione dimensionale delle figure che tendono alla scala
monumentale, sono tra gli elementi che maggiormente caratterizzano il completo rivolgimento di
impostazione del Raffaello romano rispetto alle premesse fiorentine. Le masse corporee sono vaste,
amplificate, e altrettanto lo sono gli spazi con cui si alternano e i gesti magniloquenti; entrambi
tendono alla monumentalità che conferisce loro misura classica. Questo interagire tra spazi densi e
masse ampie e possenti ebbe il suo raggiungimento nell’affresco purtroppo distrutto con il Miracolo di
san Giacomo nella chiesa di San Biagio a Forlì. Qui l’organizzazione di spazio e di gruppi di figure, la
scansione di masse piene e masse vuote, il ritmo compositivo e persino il particolare del lino
abbagliante che costituisce il fulcro dell’azione, è quanto di più vicino alla Messa di Bolsena possa
essere individuato.
La forza impositiva della composizione, che è ancora schiacciante, nonostante la frammentarietà,
nel Cristo benedicente dei Santi Apostoli, deriva anche dalle qualità luministiche della materia
pittorica, vera pittura di luce dotata di un intrinseco valore formale, atto a divenire valore trascendente
grazie alla trasformazione della materia in luce.
Melozzo compie tale processo traslando la tecnica musiva che attraverso la qualità luminosa delle
tessere attribuiva valore di trascendenza alle absidi paleocristiane: disseminando cioè l’intera superficie
di una grande quantità di gocce di cera impastate con polvere d’oro che formavano una mandorla di
luce intorno al Cristo e vi stendevano un velario luminescente e vibrante. Raffaello dimostra la
profonda comprensione dell’opera di Melozzo riservando ai mosaici un’attenzione che costituì una
vera riscoperta, prima introducendoli nel soffitto della stanza della Segnatura già nel 1509 dove furono
eseguiti ad affresco, in una perfetta imitazione. Più tardi invece, nella cupola della cappella Chigi
(1512-1513), li realizzò pienamente, secondo la tecnica originale. Era così rinvenuta una nuova fonte,
esclusivamente “romana”, per attuare il progetto di conferire dignità storica al moderno attraverso
l’attualizzazione dell’antico.
Se si volesse poi ritenere non casuale una linea di interesse che unì certi fatti romani, basterebbe
considerare l’attenzione dimostrata da Filippino Lippi verso Melozzo stesso quando derivò da quelle
della stessa abside dei Santi Apostoli le figure rivolte verso l’Assunzione della Vergine nella parete di
fondo della cappella Carafa o gli angeli musicanti che fluttuano tra le nuvole.
Ai Santi Apostoli, diversamente dall’esempio di Filippino Lippi alla Minerva, l’enfasi visiva delle
forme si ottiene senza un’architettura dipinta e la monumentalità delle figure è raggiunta con
l’amplificazione del volume e del gesto nello spazio.
Insomma, nell’opera di Melozzo si trova posto il problema che solo Raffaello porterà a soluzione,
la trasformazione dell’intera speculazione umanistica, attraverso la monumentalità dell’impianto
formale e l’amplificazione del gesto, in vigorosa comunicazione retorica. Le impostazioni melozzesche
non cessarono di essere stimolo per le risposte definitive che Raffaello seppe dare, come testimonia la
sua ultima opera, la Trasfigurazione, che è l’estrema evoluzione del Cristo benedicente dei Santi
Apostoli.
La ricerca di una via “romana”, e di uno stile “vaticano”, in un progetto di rinascita e di
rifondazione dell’Urbe, poteva essere ben incoraggiato se non diretto dallo stesso Giulio II che, come
cardinale Giuliano della Rovere, commendatario dei Santi Apostoli, aveva chiamato Melozzo per gli
affreschi dell’abside, e come papa aveva voluto accanto a sé Bramante e Raffaello.