LookOut Magazine n. 7 - agosto 2013

Transcript

LookOut Magazine n. 7 - agosto 2013
eCoNomiA
Sistema bancario nel mirino |
GeopoliTiCA
L’evoluzione egiziana
|
SiCUReZZA
Sudafrica: allarme sicurezza
anno I - n. 7 agosto 2013
Crisi economica
ACHTUNG,
BABY!
E se la prossima vittima della recessione che ha colpito l’Europa
fosse la Germania di Angela Merkel?
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SommARio
eCoNomiA
8 Storia di un
“fuoco amico”
12 Vince sempre il banco?
16 Verità e favole
made in UE
RUBRiCHe
20 Dai diamanti
18
do YoU SpReAd?
Voci dal mercato globale
insanguinati al boom
economico
22 Gioco di squadra
GeopoliTiCA
26 La guerra per l’acqua
32 Timeline
26
SiCUReZZA
della “rivoluzione”
36 La sfida dei canali
40 Un storia in bianco
e nero
44 A quale partito
è iscritto Dio?
24
poliTiCAmeNTe
SCoRReTTo
Quello che gli altri
non dicono
30
dURA lex
Sotto la lente del diritto
38
l’ARABA feNiCe
Donne, società
e i tanti volti dell’Islam
48
A diRe il veRo...
L’analisi
di approfondimento
iNolTRe
6
mAppAmoNdo
40
50
UN liBRo
Al meSe
50
CoSì diCoNo
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
3
L’editoriale
Germania:
too big to fail?
N
el mese di agosto ricorre il secondo anniversario
della durissima lettera che la Banca Centrale Europea inviò al governo italiano. Era una lettera in 22
punti, nei quali venivano elencate tutte le misure finanziarie di ordine congiunturale e strutturale, che
il governo italiano avrebbe dovuto intraprendere per procedere
sulla strada del risanamento dei conti pubblici e ricevere il sostegno delle istituzioni europee.
Anche se la lettera portava la firma di Mario Draghi, molti commentatori individuarono dietro la rudezza di alcuni dei quesiti la
mano della Germania. Da quel momento, il main stream giornalistico italiano ha impiegato fiumi di inchiostro per dimostrare che Angela Merkel e i suoi consiglieri economici sono la causa della rigidità
delle misure di austerity imposte dall’Europa ai suoi membri.
Sono passati due anni dalla lettera della BCE e abbiamo pensato
fosse quindi opportuno dedicare una parte sostanziale di questo
numero del nostro magazine all’economia europea e alle sue prospettive di sviluppo o di crisi.
Le nostre analisi, come vedrete, si discostano in parte dall’attuale
pensiero dominante, quello che vede la Germania preda di un’ideologia dell’austerity che la rende protagonista delle politiche europee
che hanno portato alla “punizione” dei greci e dei ciprioti e alla tenuta di una economia europea ingabbiata dai rigidi paletti teutonici.
In realtà, non è così: anche la Germania lotta per sopravvivere e
il governo di Angela Merkel tenta di arrivare alle elezioni di ottobre evitando una crisi bancaria di grandi dimensioni. Infatti, tutte
le più grandi banche tedesche hanno in portafoglio titoli tossici a
volontà e titoli di investimento ad alto rischio, che potrebbero farle
esplodere da un momento all’altro.
Non poteva sfuggire nella nostra analisi il rapporto tra banche e cittadini. Da quando è stato abbattuto il confine tra banche di credito
e banche d’affari, i conti correnti dei risparmiatori sono divenuti investimenti e, come tali, soggetti a rischio. Un rischio che analizziamo
insieme a un quadro dell’economia italiana che presenta aspetti molto meno negativi di quelli che appaiono dai titoli dei giornali.
Un quadro generale che speriamo interessi i nostri lettori e che
abbiamo comunque completato con altri approfondimenti analitici
nel campo della geopolitica e della sicurezza.
mario mori
iNBox
il diReTToRe ediToRiAle RiSpoNde
Quel che resta
dell’URSS
Ciò che manca alla vostra analisi è contestualizzare, altrimenti
resta la solita propaganda in stile
occidentale che non serve a nulla per raccontare la Storia vera.
Giuseppe Chiappi
Caro Chiappi noi la storia,
quella vera, cerchiamo di scriverla ogni giorno. Non è detto
che ci riusciamo sempre ma comunque ci proviamo. Non capisco la sua
critica sulla mancanza di contestualizzazione. A me sembra proprio
il contrario. Non abbiamo certamente tranciato giudizi sulle repubbliche nate dalle ceneri dell’URSS
usando il moralismo occidentalista
all’americana. Abbiamo solo notato che saltato il “tappo” comunista,
buono o cattivo che fosse, la situazione in quei territori si è fatta instabile: senza giudizi di valore o
fendenti moralistici. Tutto qui.
Cuba e il pasticcio
nordcoreano
Come si fa a credere a Cuba?
Vi ricordate 40 anni fa, quando
dissero che le armi sovietiche
non esistevano, e oggi invece ce
le ritroviamo a Panama?
Manuel Godano
Cuba è in “guerra”, se non a
livello militare, quantomeno
a livello politico-ecomico con
gli Stati Uniti. Come alleati le sono
rimasti forse solo i nordcoreani. Alla fine ha sempre ragione Churchill: “In guerra la prima vittima è
la verità”.
L’attentatore di Boston Dzhokhar Tsarnaev
su Rolling Stone: giusto o sbagliato?
I media catturano l’attenzione della gente per guadagnare soldi,
passando sopra qualsiasi tipo di cadavere. Le persone non si dovrebbero fare condizionare da queste strategie di vendita.
Maria Aranini
Il gusto per lo scoop purtroppo sconfina facilmente nel cattivo gusto.
Dove non possono arrivare le leggi, dovrebbe arrivare la buona educazione e la correttezza dell’informazione: dovrebbero essere queste le
uniche “barriere” per la libertà di informazione.
Chi prenderà il posto di Zeta-40 alla guida
dei Los Zetas?
Il colpo sarebbe stato acciuffare El Chapo Joaquín Guzman.
Francesco Atzeni
Il problema con la guerra alla droga è che non si può pensare di vincerla con un colpo solo. L’arma nucleare contro i cartelli non esiste.
È un conflitto fatto di piccole vittorie e, spesso, di grandi sconfitte come l’uccisione del responsabile della lotta ai cartelli criminali Miguel Ramonet Salazar. Per questo sarà una guerra lunga, che difficilmente vedrà
una fine finché il Nord America continuerà a essere il cliente privilegiato
dei fornitori messicani.
Anno I - Numero 7 - agosto 2013
DIRETTORE RESPONSABILE
Luciano Tirinnanzi
@luciotirinnanzi
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EDITORE
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Registrata presso il Tribunale di Roma n. 13/2013 del 15/01/2013
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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mAppAmoNdo
STATi UNiTi
Wikileaks, manning
evita l’ergastolo
Bradley Manning, la gola profonda dell’esercito americano
coinvolto nel caso Wikileaks, è
stato condannato dalla Corte
Marziale di Fort Meade per
aver violato più volte l’Espionage
Act. Manning non è stato però
riconosciuto colpevole del reato di connivenza con il nemico.
Se avesse subito il massimo della
pena, avrebbe dovuto scontare
136 anni di carcere.
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meSSiCo
Si mette male per
i los Zetas
Dopo l’arresto del leader “Zeta40”, alias Angel Trevino Morales,
catturato nella città di Nuevo
Laredo al confine vicino al confine con gli Stati Uniti, adesso i
Los Zetas devono vedersela anche con la concorrenza. A lanciare la sfida per il dominio del
mercato del narcotraffico sono
i Cavalieri Templari, che hanno
già fatto sentire la loro presenza
eliminando il vice ammiraglio
della marina messicana, Carlos
Miguel Salazar.
mAli
Keita in testa
per la presidenza
Secondo i risultati comunicati
dal governo del Mali, l’ex primo
ministro Ibrahim Boubacar Keita ha ottenuto un ampio vantaggio rispetto agli sfidanti alle elezioni presidenziali del 28 luglio.
Per lui si prospetta dunque una
vittoria netta. Dietro di lui si posiziona Soumaila Cissè, ex presidente della Commissione dell’Unione Economica Monetaria
dell’Africa Occidentale. Affluenza oltre il 50%.
ReGNo UNiTo
Benvenuto George
Alexander louis
È nato il 22 luglio George Alexander Louis, figlio di William duca di Cambridge e di Catherine
Elizabeth Middleton, terzo in
linea di successione al trono.
La scelta è ricaduta su un nome
tradizionale e all’insegna della
continuità, favorito anche dai
bookmaker. George è stato il
nome di sei re britannici.
iRAQ
luglio di sangue
In Iraq sono state oltre 850 le
vittime nel solo mese di luglio.
Dall’inizio del 2013 i morti sono più di 3.000, il bilancio peggiore dal 2008. Nello scontro
settario tra la minoranza sciita
al potere e la maggioranza sunnita è ormai evidente la mano
di Al Qaeda, che punta alla destabilizzazione del Paese per
mettere le mani sul petrolio.
CoReA del NoRd
il mistero della
Chong Chon Gang
A metà luglio, all’imbocco sul
versante caraibico del canale di
Panama è stato sequestrato un
cargo battente bandiera nordcoreana. A bordo, tra tonnellate
di sacchi di zucchero, era nascosto un arsenale di armi provenienti da Cuba. L’Avana si è
difesa dicendo che si trattava di
armi obsolete d’epoca sovietica.
Ma ormai la frittata era fatta, e
adesso Cuba e Nord Corea dovranno darne conto alla comunità internazionale.
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eCoNomiA
Germania
Modelli bancari
e ricette tedesche
La solidità
del sistema creditizio
Italia
Dalle regole UE alla
sfida per la crescita
Angola
Sviluppo e paradossi
America
Latina
Economie
a confronto
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eCoNomiA
Germania |
Storia di un
Il fallimento del sistema
della “banca universale”
e la necessità manifesta
di separare banche
di investimento e di
risparmio, riportano
al “peccato originale”:
l’ipoteca tedesca
sul modello bancario
comune
“fuoco amico”
N
B. Woods
el luglio scorso, la
senatrice democratica del Massachusetts, Elizabeth
Warren, e il senatore repubblicano dell’Arizona sconfitto nelle elezioni
presidenziali del 2008, John
McCain, hanno presentato al
Senato statunitense un progetto di legge per la reintroduzione del Glass-Steagall Act, cioè la
legislazione della Grande Depressione che separava l’attività
delle banche commerciali da
quella delle banche d’investimento, abolito dal Gramm-Leach-Bliley Act durante l’Amministrazione Clinton (1999).
La proposta dell’inedita coppia di senatori bipartisan giunge dopo che, da oltre tre anni,
il progetto di riforma previsto
dal Dodd-Frank Act è ancora bloccato dall’azione delle potenti
lobby finanziarie. La necessità
di operare una scissione tra la
raccolta del risparmio e l’attività
di banca d’investimento rappresenta la presa d’atto formale del
fallimento del modello della
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eCoNomiA
“banca universale” che si è affermato negli anni
Novanta nei mercati finanziari mondiali.
Se negli Stati Uniti la responsabilità finale di
una simile scelta ricade sull’amministrazione democratica di Bill Clinton - complici la più prolungata crescita economica mai registrata nel Paese
e l’incessante attività di deregolamentazione dei
mercati - in Europa è l’emanazione della Seconda
Direttiva in materia bancaria (89/646/CEE) che
sancisce l’affermarsi del modello bancario tedesco, ritenuto superiore al sistema del doppio circuito e al gruppo polifunzionale.
La motivazione di fondo che guida questa imponente ristrutturazione bancaria è essenzialmente la profittabilità: la banca universale è lo
strumento idoneo a garantire, attraverso processi
di fusione e di incorporazione che assicurano la
presenza di economie di scala e di produzione
congiunta, l’efficiente competizione nei mercati
globalizzati e deregolamentati, dove si affermano
sempre più quei prodotti dell’alchimia finanziaria denominati “derivati”.
Quindi, l’Unione Europea nasce con questa
forte ipoteca tedesca, che prima impose il proprio modello bancario e poi dieci anni più
tardi imporrà le parità di conversione tra le
valute nazionali e l’euro. Le conseguenze
di tale acquiescenza ai diktat tedeschi sono
sotto gli occhi di tutti: sistemi economici
nazionali fortemente sofferenti e sistemi
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LOOKOUT n. 7 agosto 2013
bancari fragili e vulnerabili, compreso quello
tedesco.
Vale la pena fare alcune considerazioni: la Germania, dopo gli USA e il Regno Unito, è il Paese
che più si è impegnato nei salvataggi bancari,
spesso con vere e proprie nazionalizzazioni. La
Deutsche Bank, cioè la maggior banca d’investimento europea (e la sesta nel mondo), risulta
coinvolta nei più importanti scandali che hanno
colpito le borse europee: dal Libor, o tasso interbancario di riferimento, alla più recente accusa
di aver cospirato, insieme ad altre 12 banche, per
impedire lo spostamento degli scambi dei derivati su piattaforme informatiche più trasparenti e meno rischiose. Per
finire con l’accusa di aver nascosto miliardi di dollari di
perdite sui derivati durante la
crisi, per evitare il salvataggio
da parte del governo tedesco.
Considerando lo stato della
Deutsche Bank, recentemente ricapitalizzata per 2 miliardi
eCoNomiA
Il dizionario
Il Fondo Monetario Internazionale nasce su impulso degli Accordi di Bretton Woods
del 1944 per regolare la cooperazione economica tra Stati e le svalutazioni monetarie. Oggi include 188 Paesi ed è guidato da Christine Lagarde. L’accordo istitutivo dice che il FMI deve: promuovere la cooperazione monetaria internazionale; facilitare l'espansione del commercio internazionale; promuovere la stabilità e
l'ordine dei rapporti di cambio evitando svalutaioni competitive; dare fiducia agli Stati membri rendendo
disponibili con adeguate garanzie le risorse del Fondo per affrontare le difficoltà della bilancia dei pagamenti;
abbreviare la durata e ridurre la misura degli squilibri delle bilance dei pagamenti degli Stati membri.
di euro (azione da molti analisti
considerata insufficiente al punto
che Thomas Hoenig, vice presidente del Federal Deposit Insurance
Corporation, ha dichiarato che Deutsche Bank è “spaventosamente sottocapitalizzata”) e la pendenza di procedimenti per pratiche anticoncorrenziali che potrebbero rendere inadeguati i 2,4 miliardi di euro accantonati
per coprire eventuali condanne; considerata la crisi profonda della Commerzbank, la seconda banca privata tedesca; considerato infine lo stato problematico di molte altre banche tedesche, la contrarietà della Cancelliera
Merkel alla ristrutturazione del debito
sovrano di Grecia e Cipro più che una
scelta dettata dai guadagni sui titoli di quei Paesi
e dai bassi costi del proprio indebitamento statale, appare motivata da ragioni di sopravvivenza
del sistema bancario nazionale, non in grado di
affrontare una svalutazione del proprio attivo.
Considerando, da ultimo, che le stime del Fondo Monetario Internazionale accreditano la crescita della Germania dello 0,6% nel 2013 e di un
incerto 1,5% nel 2014 (media della crescita annua del PIL nel periodo 1995-2004: Germania
1,3%, Francia 2,2%, Italia 1,6%), il totale fallimento del sistema fondato sulla “banca universale”, la destrutturazione dei sistemi produttivi dei
Paesi UE e la lunga recessione nella quale si dibatte l’economia continentale, vale la pena di
chiedersi per quanto ancora vada riconosciuta ai
tedeschi la legittimità di una così problematica
leadership.
L’UE nasce con forte ipoteca
tedesca: prima imponendo
il proprio modello bancario
e poi la parità di conversione
tra valute nazionali ed euro
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eCoNomiA
Germania |
Salvare la banche
per evitare
crisi sistemiche,
grazie all’aiuto
dello Stato,
non basta più.
Come gestire le
“too big to fail”
che cadono
nella spirale
della crisi del
sistema creditizio?
12
Vince sempre
il banco?
L
a Grande Recessione iniziata con
la crisi dei mutui subprime nel
2007, ha modificato la struttura
dei mercati finanziari attraverso
l’impetuoso susseguirsi di fallimenti, fusioni e acquisizioni di banche e compagnie di assicurazioni. Al fine di evitare ulteriori fallimenti e incontrollabili reazioni a catena,
come quelle seguite alla bancarotta di Lehman &
Brothers, i processi di concentrazione non sono
stati lasciati all’azione delle forze del mercato, ma
coordinati dal governo degli Stati Uniti (Tesoro e
Fondo Federale di Assicurazione sui Depositi FDIC) e dalla Federal Reserve (FED).
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
Gli USA, sotto l’Amministrazione Bush (ottobre 2008, con
Henry Paulson ministro del Tesoro), hanno stanziato 700 miliardi di dollari per i salvataggi
bancari attraverso l’Emergency
Economic Stabilization Act
(EESA) e poi, sotto l’Amministrazione Obama (marzo 2009,
con Timothy Geithner ministro
del Tesoro), hanno anche garantito e concesso prestiti agevolati per ritirare dal mercato i
titoli tossici, ovvero i derivati
eCoNomiA
più rischiosi sui mutui subprime, attraverso il Public
Private Partnership Investment Program for Lagacy
Assets (PPIPLA).
Il 4 novembre 2011, il Financial Stability Board (FSB), che
coordina l’azione delle autorità monetarie e finanziarie dei
Paesi membri del G20, ha definito un gruppo di 29 banche
considerate troppo grandi per
fallire (TBTF ovvero “Too Big
To Fail”), cioè così grandi e
legate al sistema finanziario
da rendere il costo economico e sociale di un loro fallimento insostenibile per l’intera economia mondiale.
La presa d’atto dell’eventualità di un’irreversibile crisi sistemica associata alla bancarotta
di questi giganti ha indotto i
governi nazionali a cercare di
rispristinare le condizioni minime di un corretto esercizio dell’attività bancaria e finanziaria
attraverso la loro ricapitalizzazione. Il salvataggio delle “Too
Big To Fail” è avvenuto attraverso un processo di adeguamento
del capitale proprio, con prestiti a tassi agevolati o, in circostanze estreme, come nel caso
della Royal Bank of Scotland,
attraverso la nazionalizzazione.
In assenza di alternative praticabili, questi provvedimenti sono stati finanziati con la fiscalità
generale, creando così distorsioni e inefficienze che hanno accresciuto il rischio di comportamenti opportunistici (azzardo
morale) e di nuove e più estese
emergenze nei mercati. Contemporaneamente, i Paesi
dell’Unione Europea - in particolare Regno Unito, Germania,
Belgio, Olanda e Francia - hanno dovuto sostenere diverse
banche nazionali
di dimensioni ragguardevoli,
anch’esse pericolosamente in crisi di
solvibilità, attraverso aiuti pubblici di alcune migliaia di miliardi
di euro, fino a realizzare in alcuni casi delle vere e proprie nazionalizzazioni. E questo pur
non trattandosi di
istituti compresi
tra quelli sistemici:
Lloyds TSB, HBOS,
IKB, Commerzbank,
Sns Reaal, Dexia, etc.
Cos’ha determinato un simile
sconquasso e la
crisi di un sistema
che pure aveva garantito il corretto
funzionamento dei
mercati bancari e
finanziari per oltre
settant’anni?
Le varie commissioni d’inchiesta
identificano
tre
cause fondamentali nella crisi del sistema bancario e finanziario mondiale: la struttura patrimoniale delle
banche; la commistione dell’attività
di raccolta del risparmio e del finanziamento degli
investimenti (si veda l’articolo precedente); lo sviluppo
incontrollato del
mercato dei titoli
derivati.
Le 29 “infallibili”
1. BANK of AmeRiCA
2. BANK of CHiNA
3. BANK of NeW YoRK melloN
4. BANQUe popUlAiRe Cde
5. BARClAYS
6. BNp pARiBAS
7. CiTiGRoUp
8. CommeRZBANK
9. CRediT SUiSSe
10. deUTSCHe BANK
11. dexiA
12. GoldmAN SACHS
13. GRoUp CRédiT AGRiCole
14. HSBC
15. iNG BANK
16. Jp moRGAN
17. lloYdS BANKiNG GRoUp
18. miTSUBiSHi UfJ fG
19. miZUHo fG
20. moRGAN STANleY
21. NoRdeA
22. RoYAl BANK of SCoTlANd
23. SANTANdeR
24. SoCiéTé GéNéRAl
25. STATe STReeT
26. SUmiTomo miTSUi fG
27. UBS
28. UNiCRediT
29. WellS fARGo
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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eCoNomiA
Sul mercato dei titoli derivati
si è già scritto (LookOut n.2 marzo 2013). Vale solo la pena
ricordare che, nonostante i
propositi di riforma, i primi
provvedimenti legislativi (European Market Infrastructure Regulation) e l’istituzione delle
Controparti Centrali nei mercati asiatici e statunitensi, le
banche TBTF, una volta superata l’emergenza, hanno ripreso
a operare massicciamente su
questi mercati come e più di
prima della crisi dei mutui subprime, portando a dicembre
2012 il loro valore a oltre 632
mila miliardi di dollari, di cui
oltre il 40% concentrato tra: JP
Morgan, CityBank, Bank Of
America e Goldman & Sachs
Bank. E questo a fronte di un
PIL mondiale di 72 mila miliardi di dollari, rispetto ai 595 mila miliardi di dollari (con PIL
mondiale 55 mila miliardi di
dollari) del 2007.
Il capitale proprio - che come
ogni imprenditore sa è fondamentale nel garantire i diritti
dei creditori nelle banche - ha
subìto un progressivo e inarrestabile ridimensionamento, che
ha portato il coefficiente di patrimonializzazione da percentuali superiori al 50%, quindi simili a quelli di ogni impresa della seconda metà dell’Ottocento,
ai valori inferiori al 5% dei nostri giorni (alla fine del 2006 la
situazione era la seguente: RBS
4,5%, Lloyds 3,3%, Barclays
2,7%, Deutsche Bank 2,9%,
UBS 2,3%).
L’insufficiente capitalizzazione ha reso le banche molto vulnerabili e fragili, per la ridotta
capacità di assorbire le perdite
dovute alla crisi. Infatti, la combinazione dell’esiguità del capitale proprio a fronte degli impieghi, sintetizzata da un rapporto di leva finanziaria - anche
detto leverage ratio: rapporto tra
il capitale netto e il totale delle
attività - di oltre 40 punti (cioè
il doppio di quello ritenuto
normale sulla base dei dati
Il dizionario
Il 5 agosto del 2011 il governo italiano ricevette la famosa (e contestata)
lettera della Banca Centrale Europea. Il “diktat” conteneva un elenco
d’impegni immediati: accrescere il potenziale di crescita; assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche; correggere il bilancio; prevedere la riduzione automatica del deficit; controllo dell’indebitamento. Dopo quella
lettera, la BCE acquistò titoli italiani per 160 miliardi di euro e il governo s’impegnò al pareggio di bilancio, poco prima di decadere.
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eCoNomiA
storici: la Deutsche Bank ha
una leva superiore a 50), e il
malfunzionamento del sistema
di ponderazione dei rischi
dell’attivo (Basilea I e II), tutto
ciò ha reso le banche incapaci
di sostenere le svalutazioni del
loro attivo.
In questa condizione, nel dicembre 2010, il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria
(BCBS, Basel Committee on
Banking Supervision) ovvero il
Comitato dei Governatori delle
Banche Centrali, ha approvato l’accordo
“Basilea III” che
impone nuovi requisiti patrimoniali e un diverso sistema di
ponderazione
dei rischi connessi agli impieghi bancari (Basel
III - A global regulatory
framework for more resilient
banks and banking systems, December 2010, revised June 2011).
Ma la ferma opposizione delle
banche ha determinato un ritardo nell’applicazione delle
norme di Basilea III e, soprattutto, un vero e proprio sabotaggio della riforma strutturale del doppio circuito (Retail Investment).
Così, con i bilanci statali stretti tra il fiscal compact e la recessione generalizzata, e ormai
dissanguati per i continui e ingenti finanziamenti al settore
bancario, l’Ecofin - nel timore
di dover affrontare una nuova
crisi con pochi mezzi a disposizione - ha annunciato il cosiddetto “Accordo sui fallimenti
ordinati delle banche”. Tale accordo (raggiunto a Bruxelles il
27 giugno 2013) sancisce il passaggio dal salvataggio da parte
degli Stati alla suddivisione delle
perdite all’interno della banca
stessa.
In base al meccanismo definito, in caso di fallimento le perdite saranno coperte, in ordine: dagli azionisti, dagli obbligazionisti e infine dai depositanti, fatti salvi i depositi inferiori a centomila euro che sono
garantiti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi
(FITD). Premesso il
dubbio sull’adeguatezza del FITD nel
caso di fallimenti
sistemici, l’accordo di giugno
generalizza la
regola già applicata a Cipro: i
depositi, anche
quelli in conto corrente, non sono più intoccabili e comunque tutelati, ma concorrono a ripianare
le passività bancarie in caso di
fallimento.
Quindi, da una parte i cittadini sono obbligati ad avere un
deposito o conto corrente bancario per poter eseguire pagamenti superiori a mille euro,
dall’altra devono anche rispondere della gestione delle banche, sulle quali non hanno però nessun controllo. Si è, insomma, in presenza di una vera
e propria rivoluzione copernicana su cui non si è ancora riflettuto abbastanza ma che, in
prima battuta, sembra suggerire una buona prassi: visto che
le banche non sono tutte uguali,
meglio controllare attentamente il bilancio, prima di depositare i propri risparmi. (B.W.)
Basilea III
B
asilea III, che dovrebbe
operare a pieno regime
solo nel 2019, prevede
di accrescere il patrimonio di
vigilanza delle banche (TIER I
+ TIER II) all’8%, di cui almeno il 4,5% in azioni e utili non
distribuiti (TIER I-CET1). Tuttavia, questa manovra - volta a
migliorare la qualità e la quantità del capitale proprio delle
banche allo scopo di ridurre il
rischio sistemico tuttora stimato molto elevato - è ritenuta da
molti insufficiente e inadeguata, tanto da indurre la Commissione Indipendente sulle Banche istituita dal primo ministro
David Cameron nel giugno del
2010 (nota come Commissione
Vickers), a suggerire non solo di
portare il capitale proprio almeno al 10% e di porre dei limiti alla leva finanziaria, ma soprattutto a richiedere la re-introduzione della divisione tra
attività di raccolta del risparmio (Retail) da tutelare e proteggere, e l’attività d’investimento (Investment), che viceversa potrebbe fallire. Più o
meno, le medesime raccomandazioni sono incluse nel DoddFrank Act statunitense e auspicate da molti analisti e studiosi.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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eCoNomiA
Italia |
Verità e favole
made in UE
I numeri di Bankitalia offrono un quadro credibile dell’Italia che
ne certifica una condizione migliore di altri Paesi UE, nonostante
gli indicatori generali restino negativi. Che succede?
L
a pubblicazione da parte della
Banca D’Italia (BI) del bollettino
economico e del rapporto sulla stabilità finanziaria unitamente alle
difficoltà nelle quali si dibatte il
governo presieduto dal premier Letta, offrono
l’occasione per una riflessione sul momento
che sta vivendo il nostro paese.
I rapporti della BI disegnano un Paese che,
nonostante le difficili condizioni internazionali,
si è impegnato in una seria opera di riordino
dei propri conti: il disavanzo pubblico è sceso al
2,6%; l’avanzo primario, cioè al netto della spesa
16
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
per interessi, è stimato al 2,7%,
con un trend crescente in controtendenza rispetto ai maggiori Paesi della UE; la vita media
residua del debito pubblico è
di 6,5 anni (Germania 6,4 e
Francia 6,8) in linea con la media UE; la quota di debito pubblico detenuta da non residenti
è del 35% (Germania 61% e
Francia 63% dopo la Spagna è
la più bassa della UE); la bilancia dei pagamenti ha registrato
eCoNomiA
un avanzo del saldo del conto
corrente grazie al miglioramento del saldo mercantile (+17,8
miliardi di euro); il guadagno di
competitività dal 2010 è di oltre
5 punti percentuali e, per finire,
l’inflazione è ben sotto il 2%.
Nonostante questo quadro,
gli indicatori generali sono negativi: il debito pubblico raggiungerà il 130%, il Prodotto
Interno Lordo (PIL) si ridurrà
di un ulteriore 1,9%, la ricchezza delle famiglie si è ridotta di
alcune decine di miliardi; le
condizioni finanziarie e di liquidità delle imprese sono peggiorate, determinando oltre
8.000 fallimenti dall’inizio
dell’anno; l’accesso al credito
delle imprese non finanziarie si
è ulteriormente ridotto; le sofferenze bancarie hanno raggiunto il 7,2% dei prestiti alla
clientela; i tassi attesi d’insolvenza sono cresciuti; le retribuzioni unitarie nominali e reali
si sono ridotte, proseguendo
nel trend negativo; la disoccupazione ha superato il 12% e
infine i poveri assoluti sono ormai l’8% della popolazione
(5,7% nel 2011).
La contraddizione tra queste
due descrizioni è evidente e fa
sorgere molti dubbi sulla bontà
delle politiche economiche e finanziarie praticate della UE.
A livello internazionale una
gran parte degli sforzi sostenuti
dai Paesi della UE sono vanificati dall’insostenibile crescita
di valore dell’euro rispetto allo
yen (+30% da settembre), al
dollaro (+15% da settembre) e
anche alla sterlina inglese
(+25% dal 2007). Quindi il recupero competitivo che i Paesi
UE compiono è annullato dalla
rivalutazione della moneta unica.
L’austerità espansiva predicata
da alcuni (Alesina, Ardagna e i
Bocconi Boys) e applicata su scala continentale nella UE ha
prodotto solo recessione e prospettive future di crescita molto
incerte, al più di qualche decimale, che rendono il tanto vituperato tasso di crescita italiano
della fine degli anni ’90 un vero e proprio boom. L’azione
del moltiplicatore fiscale è devastante e affossa irrimediabilmente le economie rendendo
vano ogni sacrificio, facendo salire inesorabilmente il rapporto debito pubblico/PIL, indebolendo le difese degli stati e
avvicinando fatalmente la crisi
sistemica. Il FMI scrive che da
questi livelli di debito pubblico/PIL (per tutti i paesi UE superiori al famoso 90%) si esce
solo con inflazione o svalutazione, meglio se con tutte e due
insieme; esattamente l’opposto
di quello che si sta facendo. Il
Regno Unito di Cameron e
Osborne, il Paese più conforme ai dettami dell’austerità
espansiva, nonostante la svalutazione della sterlina, avrà nel
2013 un PIL ancora del 3,9%
inferiore a quello del 2008, un
tasso di disoccupazione del
7,8%, un rapporto deficit pubblico/PIL al 7,6%, un rapporto
debito pubblico/PIL vicino al
100% e, per concludere, un rapporto investimenti/PIL così basso da finire al 159° posto su 173
Paesi, in compagnia dell’altro
esempio di austerità che è l’Irlanda, della Grecia e di Cipro, devastati dalle manovre di austerità. Altro che uscita dalla UE. (B.W.)
La disoccupazione giovanile in Europa
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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do YoU SpReAd?
voCi dAl meRCATo GloBAle
L’Italia
che può crescere
B. Woods
18
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
Agli inizi del Novecento i grandi imprenditori
erano raffigurati come i padroni delle ferriere,
trent’anni fa le grandi imprese si chiamavano
GM, GE, IBM, EXXON e impiegavano centinaia
di migliaia di persone, mentre oggi i big dei listini
azionari si chiamano APPLE, MICROSOFT e i loro profitti, come fa notare il prof. Krugman, dipendono dalle regole imposte ai mercati, cioè dal
loro potere nei e sui mercati, visto che il costo
marginale dei loro prodotti è prossimo a zero.
Il paradosso è che mentre si deregolamentavano
i mercati, si sono accresciuti i monopoli naturali
privati, garantendo gli extra profitti di quasimonopolio, uccidendo così la libera cones
eyn
correnza: complimenti per il risultato!
dK
r
a
La finanza è, se possibile, in una
condizione ancora peggiore. La
banca universale ha richiesto la distruzione di ogni regola, con il risultato di avere un’economia mondiale di carta che non finanzia gli investimenti reali, ma che sulla base di sole scommesse, spesso a due (i famosi derivati), riproduce se stessa e come un castello di carta può crollare per un colpo di vento.
Una semplice domanda: quale attività reale è in
grado di competere con i guadagni delle speculazioni finanziarie senza costo? Nessuna.
Se si guarda indietro a ciò che hanno fatto le
élite del passato, forse si intravede una via d’uscita
dall’impasse. All’indomani della Grande Depressione, quando anche allora la sterlina si svalutava,
John
Ma
yn
L’
Europa ha già vissuto tutto questo
ma, come spesso
accade, la memoria collettiva difetta. L’attuale Grande Recessione non è molto diversa dalla
Grande Depressione e forse alcuni errori strategici, come
quello di voler comprimere la
domanda aggregata avrebbero
dovuto essere evitati. J.M. Keynes
ha scritto il più importante trattato di economia del Novecento,
LA TEORIA GENERALE DELL’OCCUPAZIONE, DELL’INTERESSE E DELLA
MONETA, nella speranza che venissero risparmiate al mondo le
tragedie degli anni ’30, argomentando che ridurre i salari è
controproducente, che imporre sacrifici durante una crisi ha
effetti perversi, che la domanda aggregata andrebbe sostenuta e che la finanza andrebbe
regolamentata e trattata come
un’attività socialmente pericolosa, dal momento che le borse
somigliano sempre più a dei casinò dove il banco, o meglio le
grandi banche, vincono sempre
(Too Big To Fail).
Lo Stato Italiano non può
impegnarsi direttamente
nel finanziamento di un
ente d’investimento ma può
favorire, fungendo da
garante di ultima istanza,
la nascita di una società di
diritto privato partecipata
in Italia venne proibito alle
banche di svolgere contemporaneamente l’attività di raccolta del risparmio e l’attività d’investimento (Legge Bancaria
del 1936), mentre la ristrutturazione finanziaria e industriale venne affidata a un ente appena creato: l’IRI (Istituto per
al Ricostruzione Industriale).
Oggi lo Stato Italiano non
può impegnarsi direttamente
nel finanziamento di un ente
d’investimento (fiscal compact,
etc.), ma può favorire, fungendo da garante di ultima istanza,
la nascita di una SOCIETÀ DI DIRITTO PRIVATO partecipata da
banche, assicurazioni e soprattutto dai due grandi portafogli
di liquidità del nostro Paese: la
Cassa Depositi e Prestiti e i Fondi
Pensione. Questa nuova società
potrebbe fornire prestiti a tassi
agevolati, comunque superiori
ai rendimenti sui titoli di alcuni
paesi UE in pancia ai fondi
pensione, per alcune decine di
miliardi di euro, garantiti dallo
stato, con i quali avviare una radicale opera di ammodernamento infrastrutturale, industriale ed energetico del Paese,
consentendo così al governo di
dedicare le magre risorse ricavate dai faticosi aggiustamenti
del bilancio pubblico alla riduzione del cuneo fiscale, e di
concentrarsi sull’alienazione
dei beni e servizi non strategici.
L’impresa, difficile ma non
impossibile, consentirebbe quel
recupero della produttività industriale rispetto a Francia e
Germania, condizione necessaria per una duratura crescita
economica.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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eCoNomiA
Angola |
di Cristiana Era
Dai diamanti
insanguinati al
boom economico
Dopo una lunga e sanguinosa guerra civile l’Angola, grazie a pacificazione
politica e risorse naturali, è una delle più promettenti economie africane
e Paese di nuova immigrazione
L’
Angola è tristemente nota per i
“blood diamonds”
- i diamanti insanguinati con
cui veniva finanziato il traffico
di armi che alimentava il conflitto tra le due principali fazioni
Nazioni Unite a imporre l’embargo sui diamanti non certificati e poi, nel 2000, l’Assemblea
Generale ad approvare la Risoluzione 55/56 di condanna dei
traffici di armi e diamanti.
Oggi questo Paese cerca il riscatto: da un passato coloniale
ne; da un territorio ancora disseminato di campi minati; e da
un’immagine di Paese corrotto, inefficiente, insicuro e sottosviluppato.
La fragile democrazia nata
nel 2002 con la
firma di un
Paradossi angolani
Nonostante il boom economico e la democratizzazione, in Angola persiste un divario socio-economico estremamente alto, che crea il paradosso
di un Paese tra i più ricchi del continente per potenzialità e risorse, pur
rimanendo uno dei più poveri in termini di distribuzione del reddito.
Ben oltre la metà della popolazione (circa il 53,5%), infatti, vive in condizioni di povertà. Le differenze sono marcate soprattutto fra le città, che hanno avuto un’impennata nello sviluppo dei servizi e delle infrastrutture, e le aree
rurali, dove si concentra la maggior parte della popolazione. Il governo ha annunciato
una politica economica volta a favorire le piccole imprese e una più equa distribuzione della ricchezza nazionale. Tuttavia, molti ostacoli permangono, a causa soprattutto di pratiche diffuse di
corruzione, a livello sia amministrativo che governativo.
politiche, l’UNITA (Unione
Nazionale per l’Indipendenza
Totale dell’Angola) e l’MPLA
(Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola) - un commercio che prima ha spinto le
20
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
non troppo lontano (ha ottenuto l’indipendenza dal Portogallo solo nel 1975); da una
guerra civile che ha dilaniato la
sua terra causando la morte di
centinaia di migliaia di perso-
cessate-il-fuoco ha comunque
consentito all’Angola di riprendere fiato e creare le condizioni
di sicurezza necessarie a rendere
il Paese sufficientemente attraente per gli investitori stranieri,
eCoNomiA
date le sue enormi risorse naturali e la più recente politica complice la campagna elettorale dello scorso anno - volta alla
creazione di infrastrutture efficienti e moderne, voluta dal
presidente José Eduardo dos
Santos. I risultati sono più che
incoraggianti: negli ultimi dieci
anni, l’economia è cresciuta
con tassi che hanno raggiunto
fino al 12%, con stime che, per
l’anno corrente e per il 2014, si
attestato tra il 6 e l’8%.
La relativa stabilizzazione ha
portato in Angola - e soprattutto nella capitale Luanda - ingenti capitali stranieri, spesso
in fuga dalle economie stagnanti dell’Occidente (come
nel caso del Portogallo che
mantiene ancora forti interessi
e una comunità portoghese in
aumento nell’ex colonia) oppure alla ricerca di fonti energetiche, materie prime e mercati di sbocco per i propri prodotti e per la manodopera.
Oltre a oro e diamanti, l’Angola possiede ingenti giacimenti petroliferi: infatti, è tra i primi Paesi esportatori al mondo,
con circa 10 miliardi di barili di
riserve e una produzione giornaliera di 1,81 milioni di barili
di greggio. Lo scorso giugno, la
maggiore compagnia petrolifera cinese (CNPC) ha rilevato
dall’americana Marathon Oil
Corp la sua quota - pari al 10% per lo sfruttamento del giacimento offshore denominato
“Block” di gas e petrolio dell’Angola, dopo che già in passato aveva acquisito anche il 5%
della francese Total. Valore della transazione: 1,52 miliardi di
dollari, per una capacità produttiva stimata di 533 milioni di
barili di greggio.
Ma non c’è solo petrolio: Pechino, in linea con tutta la sua
politica estera di espansione in
Africa, sta costruendo interi
quartieri in cui probabilmente
risiederanno i migranti cinesi.
Ne è un esempio Nova Cidade
de Kalimba, una vera e propria
città “made in China” con
scuole, palazzi e centri commerciali, sorta alla periferia di
Luanda e progettata per accogliere 500mila persone. Un investimento da 2,5 miliardi di
euro, secondo alcune fonti, in
concorrenza con il Brasile, altrettanto attivo nel settore
dell’edilizia.
In quello che sembra un paradosso storico, la manodopera
qualificata portoghese emigra
anch’essa nell’ex colonia, in
cerca di migliori sbocchi professionali. Anche l’Italia ha interessi qui, per il momento soprattutto nel settore energetico, dove sono presenti Eni e
Saipem. Un Eldorado africano,
dunque, nonostante la crisi
internazionale: i diamanti di
sangue saranno presto solo
un ricordo?
Oltre a oro e diamanti, l’Angola
possiede ingenti giacimenti petroliferi:
è tra i primi esportatori al mondo,
con circa 10 miliardi di barili di riserve
e una produzione giornaliera
di 1,81 milioni di barili di greggio
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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eCoNomiA
Gioco di squadra
L’America Latina reagisce alla crisi dell’Occidente intensificando
gli scambi nel Pacifico e promuovendo piani di sviluppo regionali
L
a crisi dell’eurozona, gli stenti dell’economia americana e il complesso
assestamento della finanza giapponese si riflettono negativamente anche
sull’America Latina. Meno soldi in
circolazione, meno consumi, meno rimesse da
parte del popolo degli emigrati e anche meno
esportazioni verso quelli che per il Sud America fino a qualche anno fa erano clienti di
prima classe.
Un dato su tutti riguarda la Spagna, come noto uno dei Paesi europei più colpiti dalla recessione. Da qui, solo nel
2012 i risparmi inviati
in patria dagli emigrati di origine sudamericana sono diminuiti
del 14%.
Il calo del potere d’acquisto rischia pertanto di frenare il percorso di crescita delle economie sudamericane. Questi Paesi sinora
si sono dimostrati capaci di reagire e, salvo imprevisti, dovrebbero
riuscire a chiudere il 2013 con un tasso di crescita medio del 4-5%.
A favore della tenuta delle economie sudamericane stanno giocando diversi fattori: in
primis la stabilità politica delle singole nazioni,
seguita da moderati tassi di crescita, dall’inflazione
tenuta sotto controllo, dall’abbassamento del debito estero e dalla diversificazione delle produzioni.
Sul piano interno, l’insieme di questi fattori ha
portato a una generale diminuzione della povertà,
all’aumento dei salari e, dunque, a una maggiore
capacità di acquisto e a un graduale riequilibrio tra
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LOOKOUT n. 7 agosto 2013
le differenti classi sociali. Il risultato è che l’America Latina oggi
dimostra - più di ogni altro momento della sua storia - di poter
essere indipendente dall’Occidente poiché la sua crescita deriva in maniera sempre più significativa dalla domanda interna e
non più solo da quella esterna.
Il resto dipende dal possesso
di materie prime (il rame per il
Cile, il petrolio e il caffè per il
Brasile, l’agricoltura e l’allevamento per l’Argentina e l’Uruguay), il cui valore di mercato,
nonostante la crisi globale, continua a fare la differenza.
La crescita è stata inoltre sostenuta dall’aumento degli
scambi commerciali nell’area
del Pacifico, con la Cina che da
sola monopolizza in pratica le
esportazioni dell’intero Sud
America confermandosi il primo partner commerciale per
Brasile e Cile e il secondo per
Argentina e Perù, mentre il
Centro America e i Paesi Caraibici continuano a dipendere
soprattutto dai rapporti con gli
Stati Uniti.
A tutto ciò si aggiunge la graduale integrazione dei singoli
modelli di sviluppo nazionali in
piani strategici di profilo regionale. E così, mentre l’Europa si
sgretola e gli Stati Uniti arrancano, il Sud America accelera
puntando all’occorrenza anche
al gioco di squadra.
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QUello CHe Gli AlTRi NoN diCoNo
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Djezinformatsia
A
Donald Rumnsfeld
24
bbonda la disinformazione sugli
avvenimenti mondiali. Una tecnica di intelligence,
mutuata da quell’antica arte retorica della Politica che, basata
sulla paura che spinge il popolo tra interessate braccia protettrici, è artefice originaria di inganno e travisamento.
Finita l’emergenza prescrittiva della Guerra Fredda, l’informazione si è liberalizzata, proponendo visioni meno partigiane. Almeno fino al 9/11,
quando il fumogeno
di un altro Male Assoluto degli apparati di “Djezinformatsia” (disinformazione) ha di
nuovo polarizzato
l’informazione,
sfruttando l’opportunità per distogliere
l’attenzione dalla crisi
esplosiva dell’Occidente e applicare i preventivati piani di
sostegno.
Così è passata la disinformazione sull’improrogabile invasione dell’Afghanistan. Mentre
essa già rientrava nell’offensiva
della “dottrina Rumsfeld”, elaborata sin dai ‘90 per globalizzare la Pax Americana. E, naturalmente, Al-Qaeda non è stata
sconfitta così come l’Afghanistan
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
è ancora in balia dei talebani nonostante dodici
anni di guerra, 3.300 soldati ISAF morti e incalcolabili civili.
La Djezinformatsia successiva (ancora camuffando la “dottrina Rumsfeld”) è doppia: anzitutto
sulla complicità di Saddam Hussein con Al-Qaeda. E poi, visto che la prima non reggeva, sulle armi di distruzione di massa. Anche in quel caso le
armi non c’erano, come non c’era Al-Qaeda che,
però, appena caduto Hussein, si è infilata in Iraq
in pianta stabile con le sue stragi, che hanno prodotto la morte di circa 5.000 soldati della coalizione e incalcolabili stragi di civili.
L’ex premier britannico Tony Blair, ora “ministro della guerra” della JP Morgan a 2 milioni di
sterline annue, è un noto diffusore di Djezinformatsia: non a caso viene chiamato Bliar (Bbugiardo). Non pago di aver mentito al suo Paese per
portarlo in guerra in Iraq, ora diffonde disinformazioni per provocare un intervento occidentale
in Siria. Sempre in applicazione della “dottrina
Rumsfeld” nell’area del Great Middle East Project e
con la Siria già nell’Asse del male.
In un suo editoriale apparso sul Daily Mail (3
giugno 2013), sparge Djezinformatsia a piene
mani partendo dall’orribile omicidio del soldato
inglese da parte dell’invasato vendicatore musulmano. E lo fa per arrivare alla necessità di salvaguardare l’Inghilterra combattendo quell’ideologia alla radice: ossia in Medio Oriente. Mentre,
invece, Londra è un “Londonistan” proprio perché l’Inghilterra utilizza estremisti islamici nel
suo asse d’interessi strategici: repubbliche musulmane ex sovietiche, Pakistan, Afghanistan e Libia, dove agenti inglesi hanno pianificato la presa
di Tripoli con l’aiuto degli jihadisti dell’area.
Blair, dopo un garbuglio di superficialità politico-religiose sui Paesi islamici, arriva a tracciare il
parallelo tra quell’omicidio e le intenzioni di
Assad di ripulire i sunniti in Siria, e chiuderli in
un bantustan privo di risorse (mentre stermina gli
oppositori utilizzando armi chimiche).
Le affermazioni di Blair sul presunto genocidio
dei sunniti sarebbero classificabili sotto la voce
dei deliri, se non fosse che supportano autorevolmente l’attuale leitmotiv degli interventisti, che
vorrebbero la Siria preda di una guerra di religione tra sciiti e sunniti. Fallito il tentativo d’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano,
duplicando la “liberazione” della Libia, la nuova
risorsa è un intervento per fermare lo sterminio
di una guerra religiosa. Superando così astutamente gli impedimenti del diritto internazionale
sulla sovranità.
Guerra di religione perché, si sostiene, gli alawiti di Assad - minoranza islamica non riconosciuta dai sunniti - per darsi maggior peso si sono
affiliati alla componente sciita. Mentre le truppe
jihadiste infiltratesi in Siria (sponsor Arabia e Qatar) e gli oppositori interni dell’integralista Fratellanza Musulmana (sponsor USA), appartengono alla supercorazzata sunnita.
Non fosse però che in soccorso di Assad sono
giunti gli sciiti iraniani e di Hezbollah, mentre
l’esercito che ha retto lo scontro è al 90% di soldati sunniti. Quindi, quel sostegno è soprattutto
politico e molto poco religioso, e lo scontro centrale è anche tra aggressori sunniti etero-finanziati
e lealisti sunniti.
Inoltre, la popolazione siriana, al 75% sunnita,
è rimasta in buona parte fedele ad Assad non solo
per la sagacia distributiva del regime, ma anche
per il timore della sharia applicata dagli jhadisti in
cerca di un pan-Califfato Islamico. Il cui credo,
estraneo ai sunniti siriani, si riconosce nell’estremismo wahabita: variante sunnita seguita in Arabia,
Qatar e dalla Fratellanza Musulmana, nonché
fonte ispiratrice dei gruppi terroristici islamisti.
Da quell’estremismo nascono anche gli scontri
con i sunniti più moderati dell’Esercito Libero Siriano, culminati nell’assassinio del comandante
di Latakia da parte del gruppo qaedista Stato Islamico in Iraq e nel Levante. Altro esempio di guerra
politica interna tra sunniti e sunniti.
La Djezinformatsia in onda nei media occidentali lascia credere, nascondendolo, che questo groviglio possa essere sepolto sotto i bombardamenti
Tony Blair
aerei. Se di guerra di religione
si vuole proprio parlare, ma
sempre incastrata in supremazie geo-strategiche, essa non è
in corso in Siria, ma sulla Siria.
Obiettivo principale di Arabia e Qatar (e USA-GB) è l’Iran
sciita, da assediare nei confini
costringendolo sulla difensiva.
Per questo prosegue dal Golfo
il supporto ai qaedisti che in
Iraq fanno stragi di bombe tra
la maggioranza sciita al potere.
Per quanto lo sciismo conti solo il 10% dell’Islam, è geograficamente racchiuso in una roccaforte sull’asse Iraq-Iran-Siria
e supportato dal potente vicino
russo e dall’appoggio cinese.
Nello scontro regionale tra sunniti e sciiti si riverbera, dunque,
quello globale: Stati Uniti contro Russia e Cina.
Questi i conflitti di fondo da
cui la Djezinformatsia vuole distogliere l’attenzione perché
fornirebbero la chiave di lettura
degli avvenimenti. Una Djezinformatsia che si fa velina a cui i
più si adeguano, senza neanche
esserne comandati o pagati. Per
sola stolidità di pensiero.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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GeopoliTiCA
Egitto
La diga etiope
I focolai di guerra
I tre anni che
hanno cambiato
il Paese
Nicaragua
Il canale più grande
del mondo
26
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
GeopoliTiCA
Egitto |
La guerra
Il punto non è la
religione né la politica
né l’economia.
Ma la sopravvivenza,
che all’Egitto è
garantita dalle acque
del Nilo fin dalla notte
dei tempi. Il Cairo
è disposto a tutto per
non metterla a rischio
per l’acqua
M
di Dario Scittarelli
entre i lavori
per la costruzione in Etiopia di una gigantesca diga sul Nilo, la Grand Ethiopian
Renaissance Dam, proseguono
intensamente sotto la direzione
del gruppo italiano Salini, i
venti di guerra tra Il Cairo e
Addis Abeba crescono pericolosamente di intensità.
“Difenderemo ogni goccia
d’acqua del Nilo con il nostro
sangue!” fu il duro monito che
l’ormai ex presidente egiziano
Morsi rivolse all’Etiopia pochi
giorni prima di essere defenestrato dai militari. Questi ultimi, dal canto loro, sembrano
parimenti intenzionati a mantenere alta la tensione con gli
etiopi e, nei circoli politico-militari del Cairo, si parla sempre
più frequentemente di una
prossima “guerra del Nilo”. Il
problema non è solo tecnico.
Perché per l’Egitto il Nilo non
è soltanto un corso d’acqua: è
la ragione stessa dell’esistenza
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
27
GeopoliTiCA
della nazione. Toccare il Nilo per gli egiziani significa mettere in discussione l’identità millenaria di una civiltà della quale vanno orgogliosi.
L’Egitto, lo scriveva già Erodoto, è infatti “il dono del Nilo”. E dal Nilo l’Egitto prende ogni anno ben 55 miliardi di metri cubi di acqua, su un
totale di 75 miliardi. La rimanente parte, circa 20
miliardi di metri cubi, spetta invece, per la stragrande maggioranza, al Sudan: circa 18 miliardi
di metri cubi. Ciò che avanza viene suddiviso
tra Etiopia, Uganda, Ruanda, Kenya,
Tanzania e Burundi. È questo il risultato di un accordo siglato tra il Cairo
e Khartoum nel 1959, poco dopo
l’indipendenza del Sudan, accordo cui l’Etiopia non partecipò. Ma
oggi che il diritto di veto egiziano
su tutti i progetti upstream del Nilo
(risalente al 1929) è ormai un retaggio dell’era coloniale, l’Etiopia sta costruendo proprio a monte, sul Nilo Azzurro, la più grande diga del continente africano.
La versione del Cairo
Una riduzione di quasi il 50% del volume delle
acque del Nilo: è questo ciò che l’Egitto teme
possa avvenire con la realizzazione della Renaissance Dam. Un downgrade alquanto significativo:
da 55 miliardi di metri cubi annui si scenderebbe
infatti a 30 miliardi. E, se si stima che per far fronte all’incremento demografico previsto nel Paese
per il 2050 (150 milioni di abitanti) serviranno
28
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
almeno 20 miliardi di metri cubi di acqua in più
all’anno, ben si comprende l’ostilità del Cairo al
progetto. Oltretutto, una diminuzione nel flusso
di acqua avrebbe ulteriori ripercussioni negative
nel Paese, influenzando la navigabilità del Nilo,
la sua pescosità (gli agenti inquinanti sarebbero
meno “diluiti”) e la fertilità delle sue sponde, in
quanto la diga tratterrebbe il limo e gli altri sedimenti che contribuiscono da sempre ad arricchire il terreno. Di conseguenza, nel lungo periodo, la Grand Ethiopian Renaissance
Dam avrebbe effetti negativi anche
sull’agricoltura egiziana e sull’occupazione nel settore.
La risposta etiope
Addis Abeba rassicura: la Renaissance Dam servirà a produrre energia idroelettrica e, in quanto tale, non
ridurrà la quantità di acqua che dal Nilo Azzurro arriva al Cairo (come accadrebbe, ad esempio, se lo scopo dell’opera
fosse l’irrigazione). Una volta riempito l’enorme bacino artificiale, quindi, il volume delle acque resterà
sostanzialmente inalterato. Unico accorgimento:
coordinare sempre le operazioni della diga etiope
a monte con quella egiziana di Assuan a valle, evitando di chiudere la Renaissance Dam nei periodi di
siccità. Del resto, sembra proprio che il governo di
Addis Abeba voglia intraprendere un percorso cooperativo: come si legge nel sito dedicato alla costruzione dell’opera, la diga è “espressione dell’impegno
GeopoliTiCA
dell’Etiopia per il vantaggio di
tutti i Paesi del bacino del Nilo”.
Ai quali - è il caso di aggiungere
- con 800 milioni di euro di ricavi stimati all’anno, l’Etiopia sarà
ben lieta di vendere loro energia
elettrica.
Gli osservatori internazionali
Le diplomazie ritengono che
la “guerra del Nilo” possa essere scongiurata solo se l’Etiopia
sarà in grado di fornire al Cairo
garanzie serie e “visibili” sul
flusso delle acque, limitando
decisamente l’ampiezza della
diga. Una concessione che difficilmente l’Etiopia vorrà fare.
Al momento, soluzioni negoziali sembrano difficili e il caos
che regna in Egitto non facilita
un razionale percorso di trattativa. Al contrario, non è da
escludere che i militari, per attenuare le tensioni interne e
chiamare alla mobilitazione anche i sostenitori di Morsi contro il nemico esterno, possano
tentare di far salire la temperatura della crisi per difendere
“anche col sangue ogni goccia
d’acqua del Nilo”.
La posizione di Khartoum
Il Sudan sostiene apertamente il progetto. La diga, infatti, stabilizzerebbe
il volume delle acque, riducendo notevolmente il rischio di inondazioni.
Trattenendo i sedimenti, inoltre, aumenterebbe il ciclo di vita delle altre
centrali idroelettriche situate a valle. Due aspetti che appaiono più rilevanti
rispetto al rischio di una minore fertilità dei terreni, che potrebbe essere determinata proprio dall’assenza di depositi argillosi nelle acque del fiume. Al momento l’unica opposizione alla Grand Ethiopian Renaissance Dam proviene da sporadiche sacche di islamisti che appoggiano piuttosto acriticamente i
Fratelli Musulmani egiziani: una minoranza alquanto trascurabile.
GRAND ETHIOPIAN RENAISSANCE DAM
Luogo: Etiopia, regione Benishangul-Gumuz
Inizio lavori: aprile 2011
Fine lavori: luglio 2017
Stato attuale dei lavori: 15%
Costo dell’opera: 3,3 miliardi di euro
Scopo: produzione di energia idroelettrica
Produzione prevista: 15.000 Gwh/anno
Capacità: 10 milioni di metri cubi
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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dURA lex
SoTTo lA leNTe del diRiTTo
Disputa lungo il fiume
Draconian
30
Q
ualche settimana
fa l’Etiopia ha deciso di deviare il
corso del Nilo Azzurro per la costruzione della prima di quattro dighe, la più importante: lunga
1.789 metri e alta 145, inonderà
un’area di 1.680 Km2.
All’indomani della notizia, il
presidente egiziano Morsi - prima di essere destituito - non ha
escluso un intervento militare
per scongiurare la realizzazione dell’opera destinata a impoverire la portata d’acqua del Nilo riservata all’Egitto.
Il Nilo è il secondo corso
d’acqua del pianeta. Il
suo bacino è alimentato da due affluenti principali: il Nilo
Bianco e il Nilo
Azzurro. Il primo,
che offre il 15%
della portata, sorge
dal Lago Vittoria (Kenya, Tanzania, Uganda);
il secondo, che implementa la portata di ben l’85%, proprio dal Lago Tana in Etiopia.
Lo sfruttamento delle risorse
idriche condivise è regolato in
via generale dalla Convenzione dei
corsi d’acqua internazionali sugli
usi diversi dalla navigazione, adottata dall’ONU nel 1997, al fine di
favorire la cooperazione tra gli
Stati rivieraschi e conciliare le
due posizioni teoriche, dominanti fino ad allora, nei conflitti
per le risorse idriche: la teoria
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
della sovranità territoriale assoluta e la teoria della integrità territoriale assoluta.
Per la prima, è lecito che uno Stato sfrutti le acque
che scorrono sul suo territorio prescindendo dalle necessità degli altri Stati ripuari. Per la seconda, invece,
ciascuno Stato ha il diritto di ricevere inalterato il flusso di un corso d’acqua, secondo il diritto naturale di
controllo della risorsa idrica. Si tratta di un accordo
quadro dal contenuto generico tendente a contemperare le opposte teorie, secondo il concetto della perfetta uguaglianza di tutti gli Stati rivieraschi nell’uso dell’intero
corso del fiume e l’esclusione di ogni privilegio, mediante la
elaborazione di criteri di limitazione della sovranità territoriale basati sui concetti di equità e ragionevolezza.
A livello “pattizio”, la ripartizione delle acque del
Nilo è regolamentata dal trattato, tutt’ora in vigore,
firmato nel 1959 tra Egitto e Sudan, che riconosce al
primo il diritto di sfruttare il 75% delle acque, lasciando al secondo la rimanente parte. L’intesa ha storicamente garantito una posizione di rilievo all’Egitto
che, pur trovandosi a valle, ha da sempre potuto sfruttare la porzione più grande delle risorse idriche a
danno dei Paesi ubicati a monte del corso d’acqua.
Ma l’incremento demografico e l’accresciuto
fabbisogno energetico hanno mutato rapidamente gli equilibri dell’area. Così, per evitare
conflitti, si è tentato più volte di riformulare il
trattato del 1959: da ultimo, nel 1999 con la Nile
Basin Initiative, allorquando i Paesi che vi aderirono - tra cui Egitto e Sudan - dichiararono di voler
“raggiungere uno sviluppo socio-economico sostenibile attraverso un uso equo delle risorse idriche e dei benefici del comune bacino del Nilo”.
Ma il Cooperative Framework Agreement, redatto solo nel
2010 a conclusione della difficile trattativa, non è stato
sottoscritto né dal Sudan né dall’Egitto. L’Etiopia, invece, nonostante l’opposizione egiziana, ha ratificato, il
13 giugno scorso, l’intesa già sottoscritta da Burundi,
Kenya, Ruanda, Tanzania e Uganda. E con l’inaugurazione del cantiere per la Renaissance Dam sembra non
più rinviabile l’avvio di un negoziato per scongiurare
una possibile guerra regionale.
Gli SCeNARi poSSiBili
lA “GUeRRA dell’ACQUA” eGiTTo-eTiopiA
Obiettivo “diga della discordia”
eGiTTo
eTiopiA
468.500
182.500
4.487
301
9.646
1.205
2.760
488
863
147
200
68
221
0
4
0
Qualora l’Etiopia perseverasse nella finalizzazione della “diga della discordia”,
la più probabile azione di guerra intrapresa dai generali egiziani consisterebbe
in un unico “strike” ad opera della
Royal Egyptian Air Force (REAF), finalizzato a distruggere l’intera diga o a danneggiarla per rallentarne i lavori. Per fare ciò, l’aviazione dovrebbe far alzare
in volo buona parte dei
suoi aerei da caccia (Gloster, Spitfire, Hawker, Curtis, Fiat, quasi tutti di fabbricazione inglese) e sorvolare lo
spazio aereo dell’Eritrea.
Se la supremazia egiziana in campo militare resta incontrastata in tutta l’Africa,
ciò nonostante l’avversario non è del tutto
impreparato: negli ultimi anni l’Etiopia
ha fatto significativi investimenti nel settore della difesa, in modo da rendersi autonoma e sviluppare internamente un esercito moderno. Attualmente devolve alla
difesa il 2,4% del proprio PIL.
Nel febbraio 2013 è stata annunciata la costruzione del
primo drone di fabbricazione etiope, un grosso passo
in avanti per l’Etiopia,
che in passato (2011) aveva già concluso un accordo con l’israeliana BlueBird Aero Systems per l’acquisto di droni. Secondo il
World Military Strength Rankings 2013 le forze etiopi sono classificate al 29simo posto nel mondo e al secondo per quanto riguarda il continente
africano. Hanno più volte contribuito alle Missioni ONU come peacekeepers.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
31
GeopoliTiCA
Egitto |
Timeline
della “rivoluzione”
2011
NovemBRe
diCemBRe
feBBRAio
mARZo
Il presidente Mubarak è
costretto a dimettersi, il
potere passa in mano al
Consiglio militare.
Approvato il pacchetto di
riforme costituzionali, si
profilano nuove elezioni.
mAGGio
GiUGNo
lUGlio
S’intensificano le proteste a piazza Tahrir al Cairo. Crescono i gruppi e i
movimenti islamici.
Torna la violenza in piazza Tahrir, durissimi scontri tra manifestanti ed
esercito. Il primo ministro Essam Sharaf si dimette. Iniziano le elezioni parlamentari.
Entra in carica un governo di unità nazionale,
guidato dal primo ministro Kamal al-Ganzouri.
GeNNAio
ApRile
AGoSTo
Il presidente Hosni Mubarak rimpasta il governo
per calmare le proteste di
piazza, senza successo. Di
fronte alle richieste dei
manifestanti di rassegnare le dimissioni, offre di
dimettersi a settembre.
Il presidente deposto,
Hosni Mubarak, viene
arrestato, insieme a parte della sua famiglia, con
l'accusa di corruzione.
L’esercito disperde i manifestanti di piazza Tahrir,
mentre Mubarak va sotto
processo al Cairo, accusato anche di avere ordinato l'uccisione di manifestanti.
32
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
GeopoliTiCA
2012
AGoSTo
mARZo
Muore Shenouda III, il
papa della Chiesa copta.
GeNNAio
I partiti islamisti vincono
le elezioni parlamentari.
Emergono i Fratelli Musulmani.
Il nuovo primo ministro
Hisham Qandil nomina
un gabinetto dominato
da figure dal governo
uscente, tecnocrati e islamisti, escludendo le forze
laiche e liberali. Il neo-presidente Morsi licenzia il
ministro della Difesa Tantawi e il capo di stato maggiore Sami Annan e inizia
la stesura di una nuova Costituzione. Combattenti
islamici attaccano un
avamposto dell’esercito
nel Sinai, uccidendo 16
soldati.
mAGGio
GiUGNo
I Fratelli Musulmani candidano Mohammed Morsi, che supera il primo
turno di votazione delle
prime elezioni presidenziali libere. L’esercito annuncia la fine dello stato
di emergenza in vigore
dal 1981.
Morsi vince le elezioni
presidenziali mentre Hosni Mubarak viene condannato al carcere a vita
per complicità nell’omicidio dei manifestanti in
piazza.
diCemBRe
L’assemblea costituente a
maggioranza islamista approva la bozza di Costituzione che aumenta il ruolo dell'Islam e limita la libertà dei cittadini. Si annuncia un referendum.
NovemBRe
Il presidente Morsi emette un decreto per spogliare la magistratura del diritto di contestare le sue
decisioni, crescono le proteste popolari. Il Vescovo
Tawadros è eletto nuovo
papa dei cristiani copti.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
33
GeopoliTiCA
pRoSpeTTive
peR il fUTURo
2013
lUGlio
mARZo
Un tribunale boccia la
proposta del presidente
di Morsi di anticipare le
elezioni parlamentari.
Le proteste si fanno incessanti e piazza Tahrir si
riempie di contestatori.
L’esercito appoggia i manifestanti e intima a Morsi di dimettersi entro 48
ore a partire dal 1 luglio.
Morsi rifiuta di dimettersi, l’esercito marcia sul
palazzo presidenziale: depone il presidente, sospende la Costituzione e
nomina Adly Mansour
reggente pro tempore.
GeNNAio
GiUGNo
Nuove violenze di piazza,
oltre 50 persone vengono
uccise. Il capo dell'esercito ammonisce Morsi e avverte che la lotta politica
sta spingendo lo Stato al
collasso.
Morsi nomina alleati islamisti come leader regionali in 13 dei 27 governatorati dell'Egitto. Nomina
anche un membro di un
ex gruppo armato islamista, legato a un massacro
di turisti a Luxor nel 1997.
Ciò alimenta le proteste e
spinge il governatore di
Luxor alle dimissioni.
34
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
In Egitto è stata una rivoluzione a metà. Mubarak, infatti, è caduto quando i militari hanno “consentito”
alle folle di innescare il
processo che ha abbattuto
il vertice di un regime, senza toccarne la struttura
amministrativa e di difesa.
Adesso, la road map del
presidente ad interim Adly
Mansour, se avrà successo,
nel medio periodo vedrà
ridimensionate le aspirazioni della Fratellanza,
che tenta di ripristinare lo
status quo ante, anche con
la violenza: con la fine del
Ramadan (10 agosto), la
situazione potrebbe ulteriormente degenerare.
Il conferimento della
premiership all’economista Hazem El Beblawi, già
ministro delle Finanze e
in contatto con il FMI,
può garantire che gli aiuti dall’estero continuino
ad arrivare. È un segnale
conciliante dei militari:
“avanti con moderazione”, per favorire il ritorno alla normalità. La disputa con l’Etiopia è invece un progetto a lungo
termine e Addis Abeba
ha tempo per tornare sui
suoi passi. Altrimenti,
scopriremo perché i militari si sono risolti a tornare al potere così presto.
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GeopoliTiCA
Le rotte commerciali
del nuovo millennio
potrebbero ridisegnare
le carte nautiche del
Novecento. Il canale di
Panama presto potrebbe
essere messo in ombra
da quello nicaraguense,
a trazione cinese
di Hugo
36
D
Nicaragua |
La sfida
dei canali
opo quasi cento anni di dominio
incontrastato, presto il canale di
Panama potrebbe vedere messo
in discussione il suo monopolio
lungo la rotta commerciale che
collega l’Atlantico al Pacifico. La “minaccia” arriva dal vicino Nicaragua, che il 7 giugno ha
sbloccato il progetto per la costruzione di un
canale transoceanico, avvicinando così il Paese
alla realizzazione di un sogno coltivato da
quando, nel 1914, gli Stati Uniti preferirono
puntare su Panama per la costruzione di questa
grande opera.
La missione è stata affidata all’uomo d’affari
cinese Wang Jing, proprietario del Gruppo
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
HKND, con base a Hong Kong.
Il progetto partirà nel 2014 con
un investimento base pari a 40
miliardi di dollari. I lavori saranno realizzati dalla società registrata ad hoc, HK Nicaragua
Canal Development Investment Company, a cui il governo nicaraguense ha affidato
una concessione di 50 anni.
Il canale, per la cui costruzione saranno necessari tra i dieci
e i quindici anni, sarà lungo
286 chilometri (il triplo di
quello di Panama) e collegherà
GeopoliTiCA
i Caraibi con il Pacifico, attraversando il Lago di Nicaragua,
il più grande lago d’acqua dolce
dell’America Centrale, consentendo l’attraversamento a navi
container con carichi massimi
di 250.000 tonnellate (il doppio
del peso permesso a Panama).
Numeri imponenti, che rischiano di offuscare la cerimonia per la conclusione dei lavori di ampliamento del canale di
Panama, programmata per la
fine del 2014, in occasione del
centenario dell’opera.
Se Panama annaspa, dal canto suo il Nicaragua gongola.
Sorride il presidente Daniel
Ortega, che potrebbe passare
alla storia come l’uomo che ha
permesso la storica realizzazione dell’opera. E sorridono gli
imprenditori del Paese, perché
oltre agli affari legati al commercio il canale si porterà dietro un enorme indotto derivante dalla realizzazione di grandi
infrastrutture: due porti, due
zone di libero commercio, un
oleodotto, una ferrovia e un aeroporto internazionale.
C’è anche chi la pensa diversamente, come le associazioni
ambientaliste e gli studiosi preoccupati per l’impatto ambientale del canale e chi, poi, non
si fida affatto di Wang Jing.
nonostante Cina e Nicaragua
Quarant’anni, originario di Penon abbiano rapporti formali.
chino, prima di darsi agli affari
Tra i partner di Jing vi sarebbeJing ha studiato medicina. Ha
ro infatti la China Railway Coniniziato comprando una miniestruction e altri gruppi petrolira d’oro in Cambogia e poi, nel
feri statali, che vedono di buon
2010, ha investito sulla multinaocchio la possibilità di ammorzionale delle telecomunicaziotizzare i costi del trasporto del
ni Xinwei Telecom Enterprise
petrolio e del carbone attraverso
Group, società che ha allargato
l’America Latina.
il proprio giro arrivando fino al
Nicaragua, dove
però dei 700 milioni di dollari di finanziamenti promessi ad oggi si è
I legislatori hanno dato il via libera ad una società cinese di
visto ben poco.
progettare, costruire e gestire un canale di navigazione in tutta
Dice di non avela nazione centroamericana.
re legami di sangue con membri
del governo cinese, né tantomeno
con rappresentanti del partito comunista o dell’esercito. A prescindere dalle voci
che si rincorrono
sul web su una sua
possibile parentela
con Whang Zheng
(vice presidente cinese dal 1988 al
1993), ciò che è
certo è che Pechino ha già messo
più di un piede
dentro quest’opera,
Il progetto nicaraguense
Il dizionario
Per celebrare i cento anni del canale di Panama, il governo panamense
conta di chiudere entro il 2014 i lavori di espansione dell’opera permettendo il passaggio di navi più grandi. In corrispondenza di ciascuno degli imbocchi del Canale, verranno costruite due nuove serie di chiuse parallele a quelle esistenti. Ma il patto tra il presidente del Nicaragua, Daniel
Ortega e l’uomo d’affari cinese Wang Jing (insieme nella foto), rischia
adesso di rovinare la festa di Panama.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
37
l’ARABA feNiCe
doNNe, SoCieTà e i TANTi volTi dell’iSlAm
Jihad del sesso
e spose a contratto
La giurisprudenza islamica e la disciplina dell’eros
di Marta Pranzetti
D
a un mese a questa parte, circola
su internet la notizia di giovani
musulmane votate al jihad che vanno in Siria a
offrirsi ai ribelli in evidente crisi da astinenza sessuale. Lo
chiamano jihad al-nikah (dall’arabo nikah, matrimonio) e
sembrerebbe essere autorizzato
da diverse fatawa emesse da
giurisperiti musulmani di prestigio. Su tutti, l’Imam saudita
ed esperto teologo Muhammad
al-Arifi, secondo cui alle giovani
devote che soddisfino i valorosi
combattenti si aprirebbero “le
porte del Paradiso”.
Ma il termine si diffondeva
via etere già nel 2012 quando,
con jihad al-nikah, si è fatto riferimento al fenomeno che riguardava i jihadisti in guerra
contro il regime siriano, autorizzati da altrettante farneticanti fatawa a soddisfare i loro piaceri terreni abusando sessualmente delle donne siriane fatte
38
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
prigioniere. Il diritto sharaitico dispone, in effetti, che il combattente - si presuppone per il Jihad
islamico - possa abusare dei suoi prigionieri, presunti kuffar (infedeli). Ma il concetto, per l’utilizzo che ne è stato poi fatto, risulta evidentemente
distorto per adattarlo ai combattenti del fronte siriano che, se proprio si vuole leggere nell’ottica
della “guerra santa”, contrappone i ribelli (sunniti) al regime alawita (setta sciita) degli Assad.
In qualsiasi modo lo si legga, comunque, il fenomeno resta raccapricciante come quelli che in
qualsiasi altra guerra, a prescindere dall’Islam,
implicano violenze di massa. Ma perché, allora,
parlare di “matrimonio”? Il diritto islamico prevede effettivamente diverse tipologie di contratto
matrimoniale e il concetto di “sposa a termine”
non è avulso dal sostrato culturale arabo-musulmano. Oltre al matrimonio canonico - che dura a
vita, necessita di testimoni, prevede l’offerta di
una dote, è regolato da norme per il ripudio, la
separazione, l’assegnazione dei figli e l’eredità - il
Corano ammette un “matrimonio di piacere” che
può essere contratto a termine.
È questo il caso del nikah al-mutah, praticato
dalla corrente sciita che consente di unirsi in matrimonio (ma senza alcuna tutela giuridica né diritto di rescissione) per un periodo di tempo concordato tra le parti e di poter avere rapporti sessuali altrimenti non autorizzati. Questa pratica è
ampiamente diffusa in Iran
(dove addirittura si sta sviluppando l’equivalente delle nostre “case chiuse” in cui si possono contrarre matrimoni a
ora), in Iraq (dopo la caduta di
Saddam Hussein, che ne aveva
vietato la pratica) e in Libano
(dall’avvento del partito sciita
di Hezbollah). L’usanza trova
è consentito a chi non può permettersi più di
una moglie (nelle disposizioni concernenti la poligamia, il Corano stabilisce che ogni moglie deve
essere trattata ugualmente) o a chi passa lunghi
periodi di tempo lontano da casa per lavoro. La
pratica è diffusa soprattutto tra gli uomini facoltosi degli Stati del Golfo che si spostano in Egitto,
India, Mauritania, Yemen, Indonesia (e di recente anche in Siria, o meglio nei campi dei rifugiati
siriani in Giordania), per ottenere prestazioni
giustificazione diretta nel Corano (Sura 4:24 che autorizza gli
uomini impegnati nel Jihad e
perciò lontani da casa per lungo tempo a contrarre matrimoni temporanei per ovviare al
peccato derivante da relazioni
extraconiugali) ma nella tradizione sunnita è stata abolita dal
secondo Califfo, successore di
Maometto, perché ritenuta una
maniera di legalizzare l’adulterio e la prostituzione.
Eppure, anche la corrente
sunnita ammette un’alternativa di
tutto comodo al matrimonio “eterno”: si chiama nikah al-misyar ed
sessuali, rese lecite da un fittizio contratto di matrimonio, in cambio di denaro.
Tralasciata ogni considerazione morale su pratiche che in qualche modo liberalizzano i costumi sessuali in una cultura rigidamente conservatrice (è evidente che la giurisprudenza islamica,
come ogni altra legge che si rispetti, trovi ad ogni
divieto il suo espediente per eluderlo), i problemi concreti legati al jihad al-nikah e alle varie formule di matrimonio temporaneo ricadono tutti
sulla donna e sugli eventuali suoi figli. I quali,
senza alcuna tutela giuridica, rimangono stigmatizzati a vita nella società di appartenenza per il
disonore procurato alla famiglia da un atto che,
spesso, più che da una scelta volontaria dipende
da necessità economiche. Se non addirittura da
abusi sessuali subiti.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
39
SiCUReZZA
Sudafrica
L’allarme sociale
e della sicurezza
I numeri e le speranze
Islam
La Sharia tra politica
ed economia
40
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
SiCUReZZA
Statistiche impietose
indicano il Paese africano
come uno dei più pericolosi
al mondo sotto il profilo della
sicurezza, reale e percepita
Sudafrica |
I
l Sudafrica è noto al
mondo per tre cose:
Nelson Mandela, i diamanti e la criminalità.
Mettendo da parte le
prime due, a vario modo connesse con la sempiterna controversia sull’apartheid, a questa nazione resta una pessima
reputazione quanto a condizioni di sicurezza interne.
Quel che Madiba (com’è soprannominato l’ex presidente
e Nobel per la Pace) lascia in
eredità al Sudafrica, nell’ora in
cui si avvicina il suo distacco
terreno, è un Paese dal doppio
volto e dalle molte contraddizioni. Il lavoro impostato dall’uomo-simbolo che ha rotto l’immobilismo sociale sudafricano,
infatti, non è ancora finito.
Alla fine del 2012, il Citizen
Council for Public Security and
Criminal Justice ha pubblicato
uno studio sulle 50 città più pericolose del mondo. Nella graduatoria, sono le città del Centro e Sud America ad occupare i
primi 20 posti. Eppure, figurano
ben quattro città sudafricane:
Cape Town al 34esimo posto e
Port Elizabeth al 41esimo; seguono Durban e Johannesburg,
rispettivamente al 49esimo e
50esimo posto. Port Elizabeth,
inoltre, è classificata come più
pericolosa di Mosul in Iraq.
Un storia in
bianco e nero
di Devendra
Anche se il tasso di omicidi in
Sudafrica nell’ultimo ventennio è sceso, passando da un indice di 69,4 omicidi ogni
100mila abitanti a circa la metà
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
41
SiCUReZZA
Il dizionario
Nato a Nkandla il 12 aprile del 1942, Jacob Zuma è presidente del Sudafrica
dal 2009. Iscritto dall’età di 17 anni all’African National Congress, nel
1963 viene arresto con l’accusa di cospirazione contro lo stato. Sconta la pena a Robben Island insieme a Nelson Mandela. Dopo l’esilio in Mozambico
e Zambia, all’inizio degli anni Novanta torna in patria assumendo la presidenza del partito nel 2007. Ha cinque mogli, venti figli dichiarati e alle
spalle una serie di guai giudiziari legati ad accuse di corruzione e racket.
(un tasso comunque superiore
di 13 volte a quello degli Stati
Uniti), il Paese resta in cima alle classifiche mondiali dei crimini violenti contro la persona.
Il numero di omicidi è elevatissimo: ogni giorno se ne contano in media 40 e altrettanti
sono i tentativi. Un dato estrapolato direttamente dalle statistiche del South African Police
Service che, perciò, tende piuttosto al ribasso. Il Medical Research Council riporta una media
ben diversa: oltre diecimila
omicidi in più l’anno, pari a circa
70 morti al giorno.
La township di Kwa Mashu,
alla periferia di Durban, offre
42
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
una prova tangibile del primato sudafricano: indicata dai media sudafricani come “la capitale degli omicidi”, nel 2012 solo
qui si sono contati 300 casi di
omicidio.
Un dato ancor più inquietante se lo si affianca alla mappa
del degrado sociale e alle statistiche degli stupri. La prima
mostra inequivocabilmente che
povertà e delinquenza nelle città sudafricane non conoscono
confini e sono distribuite “a
macchia di leopardo”. Ma il vero aspetto inquietante relativo
alla sicurezza è che il primato
assoluto delle violenze si concentra nel campo degli stupri:
una donna su quattro ha riferito di aver subito violenza sessuale e un uomo ogni tre ha
ammesso di aver stuprato una
donna, almeno una volta nella
vita.
Dunque, stiamo parlando di
dati non riferibili a un contesto
preciso o isolato: nel 2012, sono stati registrati 64mila casi di
stupro. Ma si tratta di un dato
parziale, secondo i criminologi
sudafricani, in quanto spesso le
vittime evitano volontariamente le denunce alle autorità.
Quali le possibili ragioni di tanta
violenza endemica?
Un elemento chiarificatore
SiCUReZZA
viene dal fatto che il Sudafrica
è il secondo Paese al mondo in
termini di gap economico e sociale, diviso tra una ristretta minoranza ricca e influente, e
un’oceanica maggioranza di
popolazione indigente. Se
guardiamo alla “città dell’oro”
ovvero Johannesburg (che è
anche la più popolosa) il luogo
noto come il “più ricco miglio
quadrato di tutta l’Africa” cioè il
sobborgo cittadino di Sandton,
scopriamo che è attiguo a uno
slum (baraccopoli) dove non arriva neppure l’acqua corrente.
A intricare la trama della sicurezza, si aggiunge la questione della polizia. Scarsamente
addestrata, molto corrotta e incline all’uso della violenza, la
polizia sudafricana (sovente accusata di avere “il grilletto facile”) sembra aver preso alla lettera le parole del presidente
Zuma che ancora nel 2011 dichiarava: “la polizia dev’essere
temuta e rispettata”.
Inoltre, a fronte dei 200mila
agenti schierati dal governo
nella lotta anticrimine, operano
il doppio degli addetti alla sicurezza privata (non meno di
400mila). Questi ultimi rispondono solo a interessi particolari
e vengono impiegati nella protezione di: centri residenziali,
condomini, banche, ristoranti,
centri commerciali, cantieri,
centri finanziari sono tutti sotto
la vigilanza armata di istituti di
sicurezza privati.
Infine, il Corruption Perceptions Index 2012, il Sudafrica si
trova al 69esimo posto su 176
Paesi per indice di corruzione “percepita”. Una
posizione non particolarmente grave (l’Italia è al
72esimo) che
ciò nonostante
esprime
un
trend negativo,
anno dopo anno: il fenomeno
della corruttela nella pubblica amministrazione sudafricana è in continua crescita e si è progressivamente aggravato proprio durante la presidenza Zuma.
Povertà e delinquenza
nelle città sudafricane
non conoscono confini
e sono distribuite
a macchia di leopardo
“L’arcobaleno”
N
onostante questo quadro a tinte fosche, il Sudafrica è e resta la “nazione arcobaleno” per via di
quel sostrato socio-culturale così ricco e variegato che in mezzo a tante criticità di varia natura (traffico di stupefacenti e
criminalità correlata, terrorismo, violenza politica, Aids),
regala al Paese molte altre
caratteristiche positive.
Qui le undici lingue ufficialmente
riconosciute dalla
Costituzione si
mischiano in una
comunità composta di neri (79%),
bianchi (10%), meticci (9%), indiani e
asiatici (2,5%) con un
altrettanto variopinto tessuto religioso. Tutta questa diversità è uno degli elementichiave del Sudafrica che tuttavia, proprio come i colori dell’arcobaleno, resta a compartimenti stagni e non si sovrappone mai.
Così, oggi che il Paese è orfano
della sua guida morale (Nelson
Mandela è in fin di vita al momento in cui scriviamo, ndr) e
del simbolo della lotta alla segregazione razziale, il problema fondamentale risiede ancora nelle marcate differenze e
nel mancato processo di vera
integrazione, pesante fardello
della scellerata politica di apartheid che, nonostante gli sforzi,
non è mai stata compiutamente superata ed è mutata in una
miscellanea di contraddizioni.
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
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SiCUReZZA
Islam |
A quale partito
è iscritto Dio?
di Giusi Landi
La fede nel mercato e il mercato della fede
nell’Islam di oggi
D
opo decenni di
fallimenti dello
Stato-nazione
arabo, i musulmani conservatori hanno ripreso a propagandare la teocrazia quale modello
di Stato naturale, trapiantando il
nucleo sciaraitico nella Carta
Costituzionale, fino al recente
golpe militare egiziano che ha
portato alla destituzione del
Presidente Morsi e alla sospensione della Costituzione e del
Parlamento islamisti. Che conferma la ritmica alternanza riformismo/radicalismo in questo particolare emisfero.
Le correnti conservatrici hanno dunque messo mano alla “cassetta degli attrezzi” dell’Islam
- un poco arrugginita - con l’intento di riattualizzarla. Vero è
che gli islamisti soffrono per la
carenza di idee originali in economia e di un modello con il
quale fronteggiare la crisi strutturale del sistema socio-economico. Tuttavia, la forte presenza di Stati paternalistici lascia
poco margine a un’applicazione ortodossa delle politiche
economiche neo-liberiste.
44
LOOKOUT n. 7 agosto 2013
Per giunta, quella islamica è
un’economia sottoposta a norme di carattere etico, direttamente discendenti dalla rivelazione coranica.
Così, secondo la moral economy
islamica, lo sviluppo economico
sostenibile deve realizzarsi senza oltrepassare i limiti imposti
dalla legge divina. Il che stride
con il trattamento dei lavoratori immigrati nel Golfo, e con
l’opulenza petrolifera ben poco sostenibile di città come
Abu Dhabi o Dubai. Questo lo
sanno bene i gruppi conservatori al potere. Ma sanno anche
che ogni possibile riforma del
sistema economico deve essere
conforme al dettato coranico.
L’economia islamica, in fondo,
non può dirsi anticapitalista: riconosce mercato, proprietà privata e profitto. Allora, l’obiettivo
sarebbe favorire l’integrazione
dei Paesi islamici nell’economia globale, nel rispetto dei valori etici dell’Islam.
Lo asseriscono anche i teorici
della moral economy islamica per i
quali l’economia di mercato non è
un male assoluto. La tesi è suggestiva: se è vero che l’economia
SiCUReZZA
di mercato reifica la cultura
morale, è vero pure che la produzione di merci è rianimata
dalla persona, ente morale che
soffia la vita nell’argilla delle
pratiche economiche. Si sbagliano gli integralisti che imputano alla globalizzazione e all’economia capitalistica il declino delle culture tradizionali.
musulmani forgiano ed elaborano il proprio Islam. È per
questo che un notevole livello
di pragmatismo sta animando
le politiche dei movimenti islamisti al potere. Ma avranno la
capacità di investire in innovazione e strategia economica
per portare avanti un progetto
di sviluppo sostenibile? La via
Modelli di consumo certificati come islamici
(islamic fashion, islamic pop, hamburger halal),
rappresentano una via verso il capitalismo
Si potrebbe obiettare che
l’operazione dell’economia halal di apporre sui prodotti tag
di conformità alle norme coraniche, non “risacralizza” il
mondo, ma semplicemente
rende sacra una merce:
un’operazione di marketing
volta a produrre un dio subalterno che possa intendersela
con il diable de commerce.
Ma tant’è. Il concetto di nuova borghesia islamista portatrice di modelli di consumo certificati come islamici (islamic fashion, islamic pop, hamburger
halal), rappresenta una rispettabile via verso il capitalismo, fino
al punto che sarebbe lecito chiedersi se i piccoli e medi imprenditori islamisti del Musiad, così
poco islamici, non facciano altro
che praticare santamente l’ipocrisia.
Qualcuno replica che sono
sinceramente e genuinamente musulmani, ma l’Islam
che professano è socialmente costruito, e quindi influenzato, dagli scambi di
mercato. Il mercato è dunque
- come sostiene Daniele Atzori uno dei luoghi in cui questi
d’uscita di questi Paesi sembra
essere quella di avviare un
processo graduale di riforme
evolutive, in grado di produrre governi democratici. Non
basta scrivere e votare una
Carta. È necessario un living
frame work di economia, istituzioni e processi che dia effettività alle parole contenute in
quei paper flowers che sono le
costituzioni scritte.
La questione desta non poche perplessità. Più di qualcuno è pronto a giurare che i
movimenti islamisti sono finiti sul letto di Procuste. Ad
ogni modo, si auspica che le
mutevoli dinamiche modernizzatrici del mercato non distolgano troppo l’anima del
devoto musulmano dal tawhid, l’Eterna verità della Presenza Divina. Se solo fosse
possibile sapere nelle fila di
quale movimento politico milita davvero Dio! A lasciarsi
ispirare dal bel Saggio sulla lucidità di Saramago, si sarebbe
portati a concludere - non
senza un pizzico di cinismo - che
voterebbe scheda bianca.
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oUTlooK
www.lorienconsulting.it
A CURA di loRieN CoNSUlTiNG
La “Sindrome NIMBY” in Italia
Personalmente ritiene che questo rappresenti un
problema per lo sviluppo economico dell’Italia?
I movimenti di protesta
Istituto: Lorien Consulting s.r.l. - Criteri seguiti per la formazione del campione: campione rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne, rappresentativo per sesso,
età e area geografica - Metodo di raccolta delle informazioni: indagine quantitativa telefonica (CATI, Computer Assisted Telephone Interview) - Numero delle persone interpellate ed
universo di riferimento: 1.000 cittadini italiani maggiorenni - Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 19 - 21 luglio 2013 - Metodo di elaborazione: SPSS
V
iene definita “sindrome di NIMBY”
(not in my back
yard, ovvero non
nel mio giardino)
l’atteggiamento di protesta contro
opere di interesse pubblico che
possano avere effetti negativi sui
territori in cui verranno costruite.
Quali sono le paure legate a questo
concetto da parte degli italiani?
Il 39% degli italiani mantiene
un “atteggiamento NIMBY”: è favorevole alla costruzione di impianti e infrastrutture utili allo
sviluppo del Paese, ma solo se tali
opere si realizzano oltre i 20km
da casa propria.
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A diRe il veRo...
l’ANAliSi di AppRofoNdimeNTo
Quando
le bugie
fanno
vincere
una guerra
Il Grigio
C
harles Cruickshank nel suo libro Deception in
World War II definisce la disinformazione e l’inganno: “l’arte di
indurre il nemico a fare qualcosa o a non fare qualcosa in
modo da indebolirne la posizione tattica e strategica”. Quest’arte del raggiro, arricchita da
un’imponente messinscena, ha
consentito a un’armata alleata
di sole sei divisioni di sbarcare
in Normandia, all’alba del 6
giugno di 59 anni fa, e di sopravvivere abbastanza per ricevere rinforzi e avviare l’invasione dell’Europa.
Ricordate i primi venti minuti del film “Salvate il soldato
Ryan”? Descrivono la situazione
infernale in cui sulla spiaggia
Omaha si è venuta a trovare la
prima ondata di fanti americani
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al momento dello sbarco. In pochi minuti le difese tedesche, composte da pochi uomini, senza un
carro armato, armati soltanto di mitragliatrici e
mortai, hanno spazzato via il 90% dei 1.450 soldati americani. Tre ore dopo lo sbarco, le perdite
tra morti e feriti arrivavano a 3.500 e, la sera del
6 giugno, i morti americani a Omaha erano arrivati a oltre 3.000.
Il disastro di Omaha dimostra che uno sbarco,
quando il nemico è ben trincerato e armato, può
diventare un’operazione suicida. La fortuna di
Neptune (così è definita la parte anfibia dell’operazione Overlord) è stata che sulle altre quattro
spiagge i tedeschi avevano schierato truppe raccogliticce, in massima parte composte da soldati
russi arruolati nei campi di concentramento.
Quindi, le altre truppe americane (spiaggia di
Utah), i soldati canadesi (spiaggia di Juno), e gli
anglo-francesi (spiagge di Sword e Gold) riuscirono a sbarcare e avanzare nell’entroterra con
un tasso di perdite dieci volte inferiore a quelle
subite dagli americani a Omaha.
La sera del 6 giugno tutta la testa di ponte in
Normandia era ben trincerata e non un solo carro armato tedesco era comparso all’orizzonte.
Operazione Bodyguard
Congeniata a sostegno dell’operazione Neptune,
parte anfibia dell’operazione Overlord. Il suo scopo era di convincere i tedeschi che lo sbarco in
Normandia sarebbe stato una “finta”. I veri
sbarchi sarebbero stati altrove.
Si compone di diverse operazioni sussidiarie:
- Operazione Fortitude North: un inesistente IV corpo d’armata si prepara ad invadere la
Norvegia partendo dalla Scozia. Al generale
Andrew Thorne, ben conosciuto e temuto dai
tedeschi, viene dato il comando della finta armata;
- Operazione Fortitude South: 50 finte divisioni del First United States Army Group dislocate nel sud dell’Inghilterra al comando del generale Patton, pronte a invadere la Francia
dal passo di Calais;
- Operazione Zeppelin: un’inesistente XII armata inglese doveva invadere dal Medio
Oriente i Balcani nel luglio del 1944. Per fronteggiarla, i tedeschi richiamarano dalla Francia e dal Vallo Atlantico la divisione PanzerLehr, due divisioni panzer delle SS e una divisione di fanteria. Queste forze vennero dislocate in Ungheria. Se fossero state presenti sulle
spiagge, il 6 giugno l’invasione sarebbe fallita.
L’ambasciata tedesca in Svezia concorse involontariamente a convincere Hitler che la minaccia di uno sbarco in Norvegia era reale;
- Le operazioni Graffham e Royal Flush: concepite per fare pressione sulla Svezia con richieste di diritti di sorvolo e minacce alla sua neutralità, allo scopo di convincere i tedeschi dell’imminente invasione della Norvegia;
- Operazione Vendetta: simile a Royal Flush,
convinse i tedeschi che il governo spagnolo era
pronto a “guardare dall’altra parte” mentre
dal Nord Africa gli alleati preparavano un’invasione sulle coste mediterranee della Francia.
Venne utilizzato un sosia del generale Montgomery, che in pompa magna passò in rassegna
le truppe inglesi in Nord Africa facendo evidenti cenni alla prossima invasione;
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A diRe il veRo...
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n Pujol, alias Ga
Jua
rbo
enerale Geor
Il G
ge
studi cinematografici di Pinewood riuscì a convincere Hitler del fatto
che la Normandia era una finta e
che i suoi preziosi e micidiali carri
armati dovevano restare di riserva
in Francia, in Norvegia e in Ungheria per fronteggiare gli altri sbarchi,
quelli “veri”.
L’agente che ha contribuito in modo decisivo a convincere i tedeschi è stato Garbo,
al secolo Joan Pujol Garcia, uno spagnolo diplomato in allevamento dei polli
che, dopo essere stato reclutato
dall’MI5 inglese, convinse lo spionaggio militare tedesco (l’Abwher
dell’ammiraglio Wilhelm Canaris)
ad accettarlo come principale agente nazista in Spagna grazie a una rete di 27 agenti inesistenti, creata e
mantenuta in vita con un intero armamentario falso di comunicazioni radio, lettere con l’inchiostro invisibile e passaggi
notturni della frontiera franco-spagnola.
La rete di Garbo inviò ai tedeschi in sei
mesi 500 messaggi, tutti sui prossimi
sbarchi. Garbo nella notte fra il 5 e il 6
giugno fu il primo ad avvertire l’alto
lm Canaris
Wilhe
Il successo dello sbarco, oltre
che al sacrificio dei soldati, lo si
deve all’immaginazione di un
gruppo di uomini dei servizi segreti inglesi - non più di una
decina - che ha concepito e attuato una colossale operazione
di disinformazione, che in sei
mesi ha convinto Hitler e i suoi
generali che gli alleati sarebbero sbarcati ovunque tranne che
in Normandia: l’operazione
Bodyguard.
Bodyguard è stata un complesso
di ben dieci operazioni diverse,
disegnate per convincere i tedeschi che l’invasione sarebbe
stata lanciata nel luglio del
1944 dalle coste inglesi verso il
passo di Calais (operazione Fortitude South) e si sarebbe accompagnata ad altre offensive e ad
altri sbarchi in Norvegia (operazione Fortitude North), nel
Sud della Francia, in Grecia e
nei Balcani.
Per convincere i tedeschi, la
sezione XX (“Double Cross”)
dei servizi segreti inglesi, che
gestiva decine di agenti dello
spionaggio tedesco - arrestati
appena arrivati in Inghilterra e
“convinti” a riciclarsi come
doppi agenti (l’alternativa era
la fucilazione) - grazie a un flusso ininterrotto di notizie vere,
verosimili, mezze vere e false e
con un imponente traffico radio tra i comandi di un armata
inesistente schierata in Scozia e
pronta, ad aggredire la Norvegia con “l’armata fantasma” del
generale George Patton - composta da enormi accampamenti
popolati di manichini e da
imponenti schieramenti di
mezzi corazzati di gomma allestiti con il contributo degli
Pa
l’ANAliSi di AppRofoNdimeNTo
n
tto
Gli sbarchi
in Normandia
L’operazione Neptune comportò lo
sbarco di sei divisioni, all’alba del
6 giugno del 1944, su cinque
spiagge normanne:
- Spiaggia di Utah: assegnata
agli americani. Venne conquistata al prezzo di 197 morti con lo
sbarco di 23.000 soldati e di
1.700 veicoli;
- Omaha, la spiaggia “insanguinata”. Tremila morti, la maggior parte nelle prime tre ore dello
sbarco. La sera del 6 giugno sbarcarono 30.000 americani;
comando tedesco dell’imminenza dello sbarco fasullo in Normandia. Per questo il 29 luglio, un mese
e mezzo dopo l’inizio dell’invasione, Hitler concesse
a Garbo la croce di ferro tedesca, ordinando alle divisioni corazzate di continuare ad attendere il vero
sbarco al passo di Calais, tenendo in allerta 400.000
soldati in Norvegia, la fortissima divisione corazzata Panzer-Lehr in Ungheria (spedita in fretta e
furia dalla Francia!) e altre decine di migliaia di
truppe scelte di paracadusti appoggiate dai carri
in Grecia.
Con il castello di menzogne costruito dagli inglesi, Hitler perse l’ultima occasione di vincere la
guerra. Se il 6 giugno su tutte le spiagge le cose
fossero andate come a Omaha, se ci fossero state
anche poche decine di panzer tedeschi e se l’artigliera non fosse stata tutta concentrata sul passo
di Calais, l’invasione sarebbe fallita con conseguenze gravissime per la causa alleata.
Con l’operazione Bodyguard, l’intelligence ha
dimostrato il supporto che intelligenza, fantasia e
coraggio possono dare a uno sforzo bellico. Altro
che barba finta, per fare questo mestiere ci vuole il
cervello. Commentando questi eventi, Churchill ha
scritto: “In tempo di guerre la verità è così preziosa
che essa deve essere protetta da una schiera di guardie del corpo (bodyguard, appunto) di bugie”.
- Gold: assegnata alla fanteria e
ai commando inglesi. Conquistata nella giornata del 6 giugno al
costo di un centinaio di morti;
- Juno: assegnata ai canadesi. Ben
presidiata da un solo reggimento
di fanteria tedesca, costò ai canadesi 1.074 tra morti e feriti;
- Sword, assegnata a inglesi e
francesi: 630 tra morti e feriti
su 28.000 soldati sbarcati, oltre
a 2.600 veicoli. Le forze tedesche
erano così scarse che la maggior
parte delle vittime alleate venne
causata da piccoli manipoli di
franchi tiratori.
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UN liBRo Al meSe
A CURA di @RoccoBellantone
Z. La guerra dei narcos
di Diego Enrique
Osorno
La Nuova frontiera
2013
pp. 384
15,00 euro
N
on è un bel momento per i Los Zetas.
Orfano del suo leader “Zeta-40”,
alias Angel Trevino Morales, catturato nel suo feudo di Nuevo Laredo al confine
con gli Stati Uniti, il cartello della droga più
potente del Messico deve adesso guardarsi
dalla concorrenza delle altre bande, a partire dai temuti Cavalieri Templari.
Di questo Messico, da decenni ostaggio
del business che si arricchisce lungo le rotte
del narcotraffico su cui si muovono quintali
di cocaina e marijuna verso il Nord America
e il resto del mondo, parla il giornalista messicano Diego Enrique Osorno nel libro Z.
La guerra dei narcos.
Da quando nel 2006 l’allora presidente Calderón dichiarò guerra ai
cartelli della droga, gli stati messicani del nord, al confine con
gli States, sono divenuti teatro di mattanze quotidiane,
registrano una media spaventosa di 13.000 omicidi l’anno.
Dal racconto di Osorno
emerge il ritratto di questi luoghi di frontiera, abbandonati a se
stessi tra le braccia di un conflitto
che non risparmia niente e nessuno, mietendo sequestri, decapitazioni ed esecuzioni
di massa. Come Ciudad Juárez, emblema di
questo conflitto, o gli stati del Tamaulipas e
del Nuevo León, terra dei Los Zetas dove
adesso potrebbe scoppiare una nuova lotta
tra i cartelli della droga.
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LOOKOUT n. 7 agosto 2013
“
CoSì diCoNo
I migliori alleati
di un regime nuovo,
insediato con
la violenza, non sono
i suoi partigiani ma
i suoi avversari
”
THomAS edWARd lAWReNCe
(1888-1935)
I
l tenente colonnello Thomas Edward Lawrence è tra le figure più affascinanti del
Novecento. Difficilmente inquadrabile in
un ruolo preciso data la complessità e varietà
dei suoi interessi, oltre al copioso curriculum
militare al servizio di Sua Maestà, svolse numerosi mestieri e coltivò più passioni: grande viaggiatore, archeologo entusiasta per il British Museum, scrittore dalle forti tendenze poetiche,
spericolato motociclista, fu anche aviere della
RAF e agente segreto con una lunga serie
di pseudonimi.
Al termine della carriera, deluso
dall’atteggiamento inglese e dagli
eventi post-bellici, declinò la carica
istituzionale di vicerè delle Indie e rifiutò di ricevere dalle mani del re
Giorgio V la Victoria Cross, ovvero la
più alta onorificenza militare dell’Impero Britannico, che veniva assegnata
per “cospicuo coraggio o per audacia o importanti atti di valore o auto-sacrificio, o estrema devozione al dovere in presenza del nemico”.
Tra gli occidentali più esperti di Medio Oriente, e della Siria in particolare, è ricordato soprattutto per aver contribuito concretamente alla rivolta araba, che permise il collasso definitivo
dell’Impero Ottomano.
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